1. L’Italia e la Seconda Guerra Mondiale “O Austria Felice” si diceva nel XVIII secolo, “gli altri fanno la guerra e tu combini matrimoni”. Gli Asburgo avevano effettivamente l’abitudine di contrarre matrimoni che portavano in dote grandi territori e questo alla fine li rese la monarchia che possedeva più terre di qualsiasi altra in Europa. L’Italia, costituiva l’antitesi dell’Austria, sfortunata sia in guerra che in amore. Il nord e il sud dell’Italia, unificati soltanto nel 1866 sotto casa Savoia, non avevano mai fatto matrimoni ricchi; le sue guerre d’indipendenza contro gli Asburgo a metà del XIX secolo, e quelle successive miranti a conquistare colonie in Africa, terminarono nel migliore dei casi senza vittorie, e in molti casi in modo inglorioso. Il corpo di spedizione italiano, che si era scontrato con gli etiopi ad Adua nel 1896, era stato uno dei pochi eserciti europei sconfitti da forze indigene durante le campagne di conquista di quel continente; la vittoriosa guerra del 1935-1936 contro l’imperatore Hailè Selassiè le aveva attirato l’odio internazionale. Nessuna guerra era costata all’Italia più cara del primo conflitto mondiale, e questa esperienza spiega gran parte degli eventi successivi della sua storia. Anche se i loro sforzi vennero sottovalutati, gli italiani si erano battuti tenacemente e coraggiosamente contro gli austriaci sul più difficile di tutti i fronti alleati [1]. A partire dal maggio 1915, quando si schierò a fianco di Gran Bretagna, Francia e Russia, l’Italia effettuò numerose offensive sull’Isonzo guadagnando poco terreno e subendo gravi perdite. Sorpreso nell’ottobre 1917 da un travolgente attacco austriaco e tedesco, l’esercito italiano venne ricacciato nella pianura veneta, ma si riprese bene, al punto di passare all’offensiva nell’autunno del 1918 e concludere la guerra con onore. L’Italia si era guadagnata il suo posto fra i vincitori, ma anche se 600.000 italiani avevano sacrificato la loro vita per la causa degli alleati, né Gran Bretagna né Francia vollero concedere all’Italia i territori dei vinti che questa riteneva di avere meritato. Tutto quello che l’Italia ottenne fu una piccola fetta di territorio ex austriaco e le isole del Dodecaneso. La differenza fra quello che secondo l’Italia le sarebbe spettato, e quello che ottenne dopo la guerra, sta alla base della rivoluzione fascista che nel 1922 sconvolse la situazione politica del regno. L’appello di Mussolini alle classi operaie e medie fu soltanto in parte economico, fu più quello di un reduce ad altri reduci [2]. In un momento di recessione, disoccupazione e instabilità economica, non solo offrì lavoro ai disoccupati e sicurezza ai risparmiatori, ma promise anche onore agli ex combattenti, e una ricompensa territoriale alla nazione che non l’aveva ricevuta al tavolo della pace. La trasformazione della Libia, conquistata nel 1912 in un “impero” d’oltremare, venne seguita nel 1936 dalla conquista dell’Etiopia e nel 1939 dell’annessione dell’Albania [3]. L’intervento italiano nella guerra civile spagnola fece parte 1. Fanti italiani in trincea durante la Prima Guerra Mondiale 2. Benito Mussolini durante un comizio 3. Soldati coloniali italiani issano il tricolore su un edificio etiope della garanzia di Mussolini agli italiani che la loro nazione avrebbe avuto un posto sulla scena mondiale, e quanto fu anche il motivo del suo intervento nella seconda guerra mondiale. Le circostanze, però, stabilirono che l’Italia non sarebbe mai stata un socio alla pari nell’alleanza con la Germania nazista, nonostante tutti gli sforzi di Mussolini per riuscirci. Non era soltanto il fatto che l’economia italiana era in grado di reggere soltanto un decimo delle spese militari affrontate dalla Germania, ma ci fu anche il fatto che la potenza militare italiana era declinata notevolmente nel periodo fra le due guerre. Un importante ostacolo a un efficace impegno dell’Italia a fianco della Germania era il fatto che gli italiani nutrivano ben poca o nessuna ostilità nei confronti dei nemici che Hitler aveva scelto per loro. Una certa francofobia poteva essere presente nella mentalità italiana, ma i ceti più alti erano nettamente anglofili, mentre i contadini e gli artigiani erano in genere ben disposti verso gli americani. Di conseguenza, l’esercito italiano si battè valorosamente ma senza grande entusiasmo contro gli inglesi in Libia nel 1940-1941 e le sue potenzialità non migliorarono certo dopo la brutta figura fatta contro i greci nell’autunno del 1940. La perdita poi di alcune delle migliori divisioni in Africa [4] e nella catastrofe dell’ARMIR sul fronte russo del Don, un corollario della grande battaglia di Stalingrado, l’avevano ridotto all’ombra di quello che era [5]. Queste due crisi quasi contemporanee indussero i comandi italiani a riflettere in merito all’opportunità di appoggiare Mussolini e il regime fascista. I generali italiani provenivano per la maggior parte dalle regioni settentrionali, in particolare dal Piemonte, da cui veniva anche la casa regnante dei Savoia alla quale avevano prestato giuramento. Essi avevano accettato il fascismo finchè questo si era dimostrato favorevole alla monarchia e agli interessi delle forze armate. Una volta divenuto evidente che non lo era più iniziarono a riconsiderare la situazione. Nell’estate del 1943, e in particolare quando le città italiane cominciarono a risentire degli effetti dei bombardamenti alleati, qualcuno pensò alla possibilità di togliere di mezzo Mussolini. 4. Truppe italiane prigioniere dopo la sconfitta nella battaglia di El Alamein 5. Alpini italiani in ritirata sul fronte russo 2. Gli alleati e lo sbarco in Sicilia Una volta terminata vittoriosamente la Campagna del Nord Africa, inglesi e americani si confrontarono con non poche difficoltà su come dare l’assalto alla “Fortezza Europa”. Le divergenze tra essi consistevano principalmente sulla migliore strategia per sconfiggere l’Asse. I britannici, e in particolare il primo ministro Winston Churchill, proponevano una strategia che sfruttasse la loro potenza navale basandosi sul principio che, contro un nemico continentale dotato di un grande esercito, la migliore tattica da attuare fosse quella di attaccare gradualmente con operazioni locali i territori periferici del nemico nel Mediterraneo indebolendolo gradualmente. Gli Stati Uniti, invece, dotati di un esercito numeroso e provvisto di moltissimi mezzi, caldeggiavano una strategia più diretta che mirasse allo scontro contro la forza principale dell’esercito tedesco nell’Europa settentrionale, in particolare in Francia. 5. bis. Giraud, Roosevelt, De Gaulle e Churchill alla conferenza di Casablanca 6. Il piano si sbarco alleato per l’invasione della Sicilia Dopo accese diatribe circa la soluzione, Stati Uniti e Gran Bretagna decisero di organizzare le proprie forze in vista di una futura e indispensabile invasione della Francia programmata per la primavera del 1944 e, per mantenere comunque sotto pressione il nemico tedesco, stabilirono di procedere ugualmente con una campagna meno articolata invadendo la penisola italiana. L’attacco all’Italia fu definito dagli alti comandi alleati durante la Conferenza di Casablanca del 14 gennaio 1943 occasione in cui Winston Churchill definì L’Italia come “il ventre molle dell’Asse” [5bis]. Si sperava che l’invasione avrebbe portato alla resa del regime fascista, un ottimo colpo di propaganda per il morale dei soldati che avrebbero poi dovuto confrontarsi con i più agguerriti tedeschi. L’eliminazione dell’Italia avrebbe inoltre consentito alle forze navali alleate, e principalmente alla marina inglese, di prendere il dominio sul Mar Mediterraneo, migliorando così la possibilità di spostare truppe in Egitto, in Medio Oriente e in India. Con l’Italia fuori dai giochi, inoltre, i tedeschi avrebbero dovuto trasferire nella penisola parte delle truppe impegnate contro i russi sul fronte orientale. La Campagna d’Italia ebbe ufficialmente inizio con l’Operazione Husky, lo sbarco in Sicilia delle forze alleate, tra il 9 e il 10 luglio 1943, cui presero parte circa 160 000 soldati fra americani, inglesi e canadesi. Il piano operativo per questa operazione prevedette due grandi assalti anfibi sulle coste meridionali dell’isola preceduti nella notte da un folto lancio di paracadutisti a est e a ovest di Capo Passero [6]. Gli alleati impegnarono nell’assalto otto divisioni dal mare e due dall’aria, con una flotta che superava di gran lunga le forze dell’Asse sull’isola. Il comandante italiano Alfredo Guzzoni aveva infatti a disposizione dodici divisioni, ma di queste sei erano male e equipaggiate e altre quattro, pur essendo in grado di attestarsi a difesa delle coste, non costituivano una minaccia per gli alleati. Soltanto le due divisioni tedesche, la 15° Panzergrenadier e la Hermann Göring erano di primissima qualità. Nonostante la disparità di forze e la sorpresa conseguita dagli invasori, gli sbarchi andarono meno lisci del previsto. Le forze di aviosbarco, composte dalla 82° divisione americana “All Americans” e dalla 1° britannica subirono perdite enormi quando i piloti inesperti fecero lanciare i paracadutisti ancora sul mare e i nervosi serventi della contraerea delle navi aprirono il fuoco abbattendo i propri apparecchi. Gli sbarchi dal mare, effettuati contro le divisioni costiere italiane, ebbero dovunque successo, e alcuni dei difensori aiutarono addirittura gli attaccanti a scaricare i loro mezzi [7]. Le forze inglesi e canadesi sbarcarono nei tratti di costa compresi tra la penisola di Pachino e Siracusa, sul versante ionico, ad eccezione della 1ª Divisione canadese che sbarcò più a sud [7bis]. La 7ª Armata americana al comando del generale Patton sbarcò nel tratto di costa compreso fra Gela e Licata. Il fuoco di controbatteria delle navi da guerra e l’appoggio aereo favorirono la rapida attestazione delle forze di invasione, anche se nei punti maggiormente muniti di artiglieria costiera la lotta fu piuttosto aspra. Nei numerosi tratti di costa privi di difesa le truppe alleate poterono avanzare dai punti di sbarco senza difficoltà [8]. 7. Truppe americane sbarcano sulle spiagge siciliane 7. bis. Soldati inglesi sbarcano in Sicilia 8. Sheman americano sbarca sulla spiaggia sicilana 9. Sherman inglese a Francoforte 10. Truppe canadesi entrano a Modica 11. Palermo distrutta dai bombardamenti angloamericani Già il 15 luglio gli alleati cominciarono le operazioni per eliminare le forze del nemico sull’isola. Il piano prevedeva l’occupazione della metà occidentale della Sicilia da parte degli americani mentre gli inglesi e i canadesi avrebbero dovuto avanzare sui fianchi dell’Etna e occupare Messina, in modo da tagliare ai tedeschi e alle truppe italiane la via della ritirata verso la Calabria [9]. Mentre gli americani incontrarono scarsa resistenza, gli inglesi dovettero vedersela con la Hermann Göring che impedì loro di passare lungo la costa a est dell’Etna, la via più corta verso Messina. Il 20 luglio quindi, gli americani ritardarono l’attacco e la liberazione di Palermo e Trapani per attaccare Messina lungo la statale costiera settentrionale. Il rallentamento delle operazioni alleate permise al generale tedesco Frido von Senger und Etterlin di intervenire in aiuto di Guzzoni dalla Calabria con due divisioni. Di fronte a queste nuove forze l’avanzata degli alleati rallentò ulteriormente, e soltanto il 2 agosto americani e inglesi riuscirono a costituire una linea del fronte unitaria che correva fra l’Etna e la costa settentrionale dell’isola [10]. L’avanzata alleata procedette quindi con una serie di piccoli sbarchi dal mare per fare sloggiare il nemico dalle sue solide posizioni difensive. Tuttavia Guzzoni fin dal 5 agosto aveva riconosciuto che la situazione era ormai indifendibile e aveva cominciato a fare ritirare i reparti italiani oltre lo stretto di Messina. I tedeschi iniziarono l’evacuazione l’11 agosto; spostandosi di notte riuscirono a evitare le incursioni aeree alleate portando in salvo una buona parte del loro equipaggiamento. Gli alleati il 17 agosto fecero il loro ingresso trionfale a Messina, ma il nemico se ne era già andato. Così l’Operazione Husky era sostanzialmente fallita. E’ vero che aveva reso sicure le linee di comunicazione alleate attraverso il Mediterraneo e verso il Medio Oriente, ma poichè le operazioni in quel settore e in Africa settentrionale erano terminate, si trattava di un successo privo di significato. Non si era inoltre riusciti a distogliere le divisioni tedesche dal fronte russo, dato che tutte quelle inviate in Italia dopo il 24 luglio erano venute dal fronte ovest [11]. Restava da vedere se la conquista della Sicilia avrebbe esercitato pressioni sufficienti sulle forze antifasciste in Italia per portare a un capovolgimento delle alleanze. 3. 8 settembre 1943. L’Italia si arrende alle forze alleate Nella prima metà del 1943, in una situazione di grave preoccupazione indotta dall’opinione sempre più condivisa che la guerra fosse ormai perduta e che stesse apportando insopportabili danni al Paese, Mussolini operò una serie di avvicendamenti che investì alcuni dei più significativi centri di potere dello Stato rimuovendo alcuni personaggi che reputava ostili alla prosecuzione del conflitto accanto alla Germania o più fedeli al Re che non al regime. Secondo alcuni studiosi, a seguito di tali sostituzioni, reputate come atte a rafforzare il regime in crisi di consenso se non apertamente ostili al Quirinale, Vittorio Emanuele ruppe gli indugi ed iniziò a progettare in via esecutiva un piano che consentisse la destituzione del duce. Per questo fu avvicinato Dino Grandi, uno dei gerarchi più prestigiosi dell’élite di comando, che in gioventù si era evidenziato come il solo vero potenziale antagonista di Mussolini all’interno del Partito Nazionale Fascista, e del quale si aveva motivo di sospettare che avesse di molto rivisto le sue idee sul regime [12]. A Grandi, attraverso garbati e fidati mediatori fra Pietro Badoglio, si prospettò l’opportunità di avvicendare il dittatore e si convenne che la stagione del fascismo originale, quello dell’“idea pura” dei fasci di Combattimento, era finita ed il regime si era irrimediabilmente annacquato in un qualunque sistema di gestione del potere, avendo perso ogni speranza di sopravvivere a sé stesso. Grandi riuscì a coinvolgere nella fronda sia Giuseppe Bottai, altro importantissimo gerarca che sosteneva l’idea originaria e “sociale” del fascismo operando sui campi della cultura, sia Galeazzo Ciano, che oltre che ministro ed altissimo gerarca anch’egli, era pure genero del Duce. Con essi diede vita all’Ordine del Giorno che avrebbe presentato alla riunione del Gran Consiglio del Fascismo il 25 luglio 1943 e che conteneva l’invito rivolto al re a riprendere le redini della situazione politica. Mussolini fu arrestato e sostituito da Badoglio [13]. La nomina di Badoglio, che aveva aperto la strada ad un istintivo entusiasmo popolare, non significava la fine della guerra, che continuava “a fianco dell’alleato germanico”, sebbene fosse un tassello della manovra sabauda per giungere alla pace. Attraverso canali dei più disparati, si cercò un produttivo contatto con le potenze alleate, cercando di ricostruire quei passaggi delle trattative già intessute da Maria José, consorte di Umberto II di Savoia, che potevano stavolta meritare l’avallo del re. Fu a Lisbona che si decise di agire e fu qui che venne inviato il generale Giuseppe Castellano, per prendere contatti con le armate avversarie per rendere loro nota la disponibilità di Roma alla resa [14]. 12. Dino Grandi 13. Pietro Badoglio 14. Giuseppe Castellano La proposta in realtà non era considerata con grande euforia da parte alleata, in quanto le sorti della guerra erano già avviate verso una probabile prossima sconfitta delle armate italiane, e dunque la resa avrebbe sì significato un’accelerazione del decorso bellico, ma avrebbe anche limitato i vantaggi che le forze alleate avrebbero potuto ricavarne, primo fra tutti la conquista. Da autorevoli commenti successivi, ed anche dalla vasta memorialistica prodotta nel dopo-guerra dai soggetti coinvolti, si è dedotto che comunque fu l’incertezza nei rapporti fra le potenze alleate, e l’intento di evitare, a guerra ancora aperta, pericolose frizioni di interesse fra loro, che spinse gli alleati ad accettare di parlarne con concreta attenzione. Se l’Italia fosse stata conquistata, ad esempio, dagli statunitensi, la Gran Bretagna e l’URSS avrebbero ovviamente distinto le loro posizioni per garantirsi equilibri che ne pareggiassero la strategica acquisizione, ed avrebbero combattuto per loro conto, forse anche contro gli stessi statunitensi. In più, in una eventuale spartizione, era assolutamente da evitare che l’Italia cadesse in mano britannica, giacché Londra avrebbe potuto monopolizzare il traffico commerciale, coloniale e soprattutto petrolifero del Mediterraneo. Accettare la resa rinunciando a conquistare l’Italia divenne dunque un male minore, per il quale spendere molte energie diplomatiche, anche contro la talvolta indisponente parata dei rappresentanti italiani; e tanto si fece, da parte americana e degli altri alleati. Il 30 agosto Badoglio convocò Castellano, rientrato il 27 da Lisbona con qualche prospettiva; il generale comunicò la richiesta di un incontro in Sicilia, avanzata dagli Alleati per il tramite dell’ambasciatore britannico in Vaticano, D’Arcy Osborne (che collaborava a stretto contatto con il collega statunitense Myron Charles Taylor). Badoglio, ritenendo per suo conto che vi fossero anche gli spazi per una trattativa nella quale contrattare e “vendere” la resa a buon prezzo, quantunque si trattasse in realtà di una supplice richiesta di cessazione delle ostilità, chiese a Castellano di farsi portavoce di alcune proposte presso gli Alleati: in particolare Castellano avrebbe dovuto insistere sul fatto che l’Italia avrebbe accettato l’armistizio solo a condizione che prima si effettuasse un massiccio sbarco alleato nella penisola. Tra le tante altre condizioni che furono richieste agli alleati, talune poste solo per il dovere di porne, solo quella di inviare 2.000 unità paracadutate su Roma per la difesa della Capitale fu accolta, anche perché in parte già prevista dai piani alleati ma poi snobbata all’atto pratico dagli stessi comandi italiani. Il 31 agosto il generale Castellano arrivò in aereo a Termini Imerese e fu quindi trasferito a Cassibile, nei pressi di Siracusa. I colloqui videro le parti relativamente distanti: Castellano chiese garanzie agli Alleati rispetto alla inevitabile reazione tedesca contro l’Italia alla notizia della firma dell’armistizio e, in particolare, uno sbarco alleato a nord di Roma precedente all’annuncio dell’armistizio; da parte alleata si ribatté che uno sbarco in forze e l’azione di una divisione di paracadutisti sulla capitale sarebbero stati in ogni caso contemporanei e non precedenti alla proclamazione dell’armistizio. In serata Castellano rientrò a Roma per riferire. Il giorno successivo Castellano fu ricevuto da Badoglio; all’incontro parteciparono il ministro degli esteri Raffaele Guariglia e i generali Vittorio Ambrosio e Giacomo Carboni. Emersero posizioni non coincidenti: Guariglia e Ambrosio ritenevano che le condizioni alleate non potessero a quel punto che essere accettate; Carboni dichiarò invece che il Corpo d’armata da lui dipendente, schierato a difesa di Roma, non avrebbe potuto difendere la città dai tedeschi per mancanza di munizioni e carburante. Badoglio, che nella riunione non si pronunciò, fu ricevuto nel pomeriggio dal re Vittorio Emanuele III, che decise di accettare le condizioni dell’armistizio. Un telegramma di conferma fu inviato agli Alleati; in esso si preannunciava anche l’imminente invio del generale Castellano. Il telegramma fu intercettato dalle forze tedesche in Italia che, già in sospetto di una simile possibile soluzione, presero a mettere sotto pressione, attraverso il comandante della piazza di Roma, Badoglio: questi enfaticamente spese molte volte il giuramento e la parola d’onore del generale più medagliato d’Italia per smentire qualsiasi rapporto con gli americani, ma in Germania cominciarono ad organizzare delle contromisure. Il 2 settembre Castellano ripartì per Cassibile, per dichiarare l’accettazione da parte italiana del testo dell’armistizio; non aveva tuttavia con sé alcuna autorizzazione scritta a firmare. Badoglio, che non gradiva affatto che il suo nome fosse in qualche modo legato alla sconfitta, cercava di apparire il meno possibile e non gli aveva fornito deleghe per la firma, auspicando evidentemente che gli Alleati non pretendessero altri impegni scritti oltre al telegramma spedito il giorno precedente. Castellano sottoscrisse il testo di un telegramma da inviare a Roma, redatto dal generale Bedell Smith, in cui si richiedevano le credenziali del generale, cioè l’autorizzazione a firmare l’armistizio per conto di Badoglio, che non avrebbe più potuto evitare il coinvolgimento del suo nome; si precisò che, senza tale firma, si sarebbe prodotta l’immediata rottura delle trattative. Ciò, naturalmente, perché in assenza di un accredito ufficiale, la firma di Castellano avrebbe impegnato solo lo stesso generale, certo non il governo italiano. Nessuna risposta pervenne tuttavia da Roma. Al che, nella prima mattinata del 3 settembre, Castellano per sollecitare la delega, inviò un secondo telegramma a Badoglio, il quale questa volta rispose quasi subito con un radiogramma in cui chiarì che il testo del telegramma del 1º settembre era già una implicita accettazione delle condizioni di armistizio poste dagli Alleati. Ma di fatto continuava comunque a mancare una delega a firmare: si dovette attendere un ulteriore telegramma di Badoglio, pervenuto solo alle 16:30, che finalmente conteneva una esplicita autorizzazione che permettesse a Castellano di firmare il testo dell’armistizio per conto di Badoglio e che presenti in tutta la penisola poterono far scattare l’Operazione Achse (secondo i piani già predisposti sin dal 25 luglio dopo la destituzione di Mussolini) occupando tutti i centri nevralgici del territorio nell’Italia settentrionale e centrale, fino a Roma, sbaragliando quasi ovunque l’esercito italiano: la maggior parte delle truppe fu fatta prigioniera e subì l’internamento in Germania, mentre il resto andava allo sbando e tentava di rientrare al proprio domicilio. Di questi ultimi chi non vi riusciva si dava alla macchia andando a costituire i primi nuclei del movimento partigiano. Nonostante alcuni straordinari episodi di valore in patria e su fronti esteri (uno dei più celebri è quello che si concluse con l’eccidio di Cefalonia), quasi tutta la penisola cadde sotto la pronta occupazione tedesca e l’esercito venne disarmato, mentre l’intera impalcatura dello Stato cadde in sfacelo. Solo in Sardegna ed in Corsica le Forze Armate italiane riuscirono insieme a quelle francesi a sconfiggere e mettere in fuga il nemico tedesco. A Napoli, invece, fu necessaria la sollevazione di tutta la popolazione per scacciare i nazisti. 15. Il generale Castellano firma l’armistizio con gli angloamericani informava che la dichiarazione di autorizzazione era stata depositata presso l’ambasciatore britannico in Vaticano D’Arcy Osborne. A quel punto si procedette alla firma del testo dell’armistizio ‘breve’ [15]. Fu allora bloccata in extremis dal generale Eisenhower la partenza di cinquecento aerei già in procinto di decollare per una missione di bombardamento su Roma, minaccia che aveva corroborato lo sveltimento delle ritrosie di Badoglio e che senza molto dubbio sarebbe stata attuata se la firma fosse saltata. A Castellano furono solo allora sottoposte le clausole contenute nel testo dell’armistizio ‘lungo’, contenente le clausole aggiuntive per l’effettiva collaborazione italiana alla guerra contro i tedeschi [16]. Nelle prime ore del mattino del 3 settembre, dopo un bombardamento aeronavale alleato delle coste calabresi, ebbe inizio fra Villa San Giovanni e Reggio Calabria lo sbarco di soldati canadesi e di reparti britannici; si trattò di un imponente diversivo per concentrare l’attenzione dei tedeschi molto a sud di Salerno, dove avrebbe avuto invece luogo lo sbarco principale. L’armistizio fu reso pubblico alle 19:45 dell’8 settembre dai microfoni dell’Ente Italiano per le Audizioni Radiofoniche che interruppero le trasmissioni per trasmettere l’annuncio precedentemente registrato della voce di Badoglio che annunciava l’armistizio alla nazione. Il prematuro annuncio dell’armistizio da parte degli alleati colse del tutto impreparate e quasi prive di direttive le forze armate italiane che si trovavano su tutti i fronti. All’annuncio di Badoglio la confusione regnava totale nell’esercito italiano: la notizia dell’armistizio fu una sorpresa e non vi erano ordini né piani, né ve ne sarebbero stati nei giorni a seguire. Il mattino successivo il re, la regina e il principe ereditario, Badoglio, due ministri del Governo e alcuni generali dello stato maggiore fuggirono da Roma dirigendosi verso il sud Italia per mettersi in salvo sotto l’esercito Alleato. Così, mentre avveniva il totale sbandamento delle forze armate, le armate tedesche della Wehrmacht e delle SS 4. Gli alleati attaccano la penisola: lo sbarco di Salerno Protagonista di uno degli episodi più decisivi della seconda guerra mondiale fu il golfo di Salerno, da Maiori ad Agropoli. Gli obiettivi dell’operazione erano ben precisi: gli Alleati volevano allontanare i Tedeschi dall’Italia Meridionale, impadronirsi delle basi aeree di Foggia, raggiungere Napoli e liberare Roma. Possibili alternative al golfo di Salerno erano il golfo di Gaeta, poi scartato perché localizzato ad una distanza eccessiva dalla Sicilia, ed il golfo di Napoli, il quale era stato però minato per evitare gli sbarchi nemici. Il golfo di Salerno aveva, inoltre, caratteristiche tali da costituire una pianura di forma triangolare, dominata da colline e montagne che permettevano ai soldati di controllare la zona attraverso una vasta visuale. La presenza del fiume Sele, la cui profondità gli impediva di essere guadato, costituiva un ulteriore punto a 16. Il generale Castellano e Eisenhower si stringono la mano dopo la firma dell’armistizio favore della zona in questione; durante il Ventennio fascista, inoltre, la piana del Sele era stata bonificata. Il capoluogo di provincia campano vedeva inoltre confluire verso di esso diverse vie di comunicazione: la Strada Statale 18 Tirrena Inferiore che tuttora da Napoli giunge a Reggio Calabria; la Strada Statale 88 dei Due Principati Salerno-Morcone, che passa per Avellino; la Strada Statale 19 delle Calabrie che dalla limitrofa Battipaglia passa per Eboli, Agropoli e Potenza, per giungere infine a Catanzaro; attraverso il Valico di Chiunzi, infine, si può raggiungere Napoli dalla vicinissima Vietri sul Mare. Inoltre la rete ferroviaria era già efficiente nella zona, e nella zona di sbarco c’era addirittura l’aeroporto di Montecorvino [17]. A distanza di poche ore dallo sbarco alleato, l’8 settembre 1943, Salerno era stata colpita dall’ennesimo bombardamento: alle 19:45 tutti i residenti vennero rinchiusi nei rifugi anti-aerei, dove appresero dalla radio e dal maresciallo Pietro Badoglio che il governo italiano aveva chiesto un armistizio ed aveva firmato la resa incondizionata. La notizia fu appresa anche dai 100 000 soldati inglesi e dai 70 000 soldati statunitensi che componevano il corpo di sbarco: essa suscitò grandi manifestazioni di gioia ed ebbe sfortunate conseguenze psicologiche, in quanto i soldati si erano convinti che a Salerno avrebbero trovato folle in festa. Furono gli ufficiali ad attenuare lo smisurato e fuori luogo calo di tensione, che avrebbe potuto causare conseguenze 17. Il piano di sbarchi sulla penisola italiana inimmaginabili al momento dello sbarco. La forza d’invasione attuò due sbarchi a distanza di 15 chilometri l’uno dall’altro, utilizzando il Sele come divisore [18]. Le condizioni meteorologiche erano favorevoli, in quanto la notte era calma e priva di vento, mentre il cielo era sgombro dalle nubi. L’ora X scattò alle 3:30 del 9 settembre, momento di massima oscurità, utile per l’occultamento della forza da sbarco, anche se, d’altro canto, svantaggiosa per le manovre di avvicinamento alla costa. Furono ben 40 i chilometri di costa interessati dall’operazione Avalanche [19]. 18. Truppe americane sbarcano sul litorale campano 19. Soldati statunitensi sulle spiagge salernitane 19. bis. Cacciatorpediniere inglese spara contro aerei nemici in avvicinamento I soldati tedeschi, per approvvigionarsi di dolciumi e di sigarette, scassinarono le tabaccherie e le pasticcerie, mentre i più spregiudicati della popolazione fecero il resto, incitando i tedeschi a svellere con i carri armati le porte di tutti i negozi. Molti cavesi furono spinti al saccheggio in buona fede, per procurarsi i viveri in quel marasma in cui non era tanta la preoccupazione di scampare alla morte, quanto quella di sopravvivere alla fame. Fu saccheggiato il Molino ed il Pastificio Ferro, e ne furono svuotati i grandi depositi di pasta e di grano; furono svuotati i magazzini del Consorzio e furono saccheggiati tutti i negozi del Borgo. Non mancarono, però, atti di abnegazione e tentativi di mantenere l’ordine tra i civili da parte dei più generosi. Alcuni civili furono costretti dai tedeschi a lavori pesanti, pur sotto le cannonate. Il 13 settembre i tedeschi sferrarono il consueto contrattacco, riconquistando Eboli, Battipaglia ed Altavilla Silentina. Il generale Clark decise allora di far intervenire i paracadutisti 20. Truppe inglesi al riparo di un carro armato tedesco danneggiato Nel momento in cui i soldati iniziarono a prendere terra, l’aviazione tedesca diede inizio ad una serie di attacchi aerei sulle navi in rada e sui mezzi da sbarco, provocando gravi perdite tra le file alleate [19bis]. Per risposta i cacciatorpediniere alleati dapprima misero a silenzio l’aviazione, e poi con la novità dell’utilizzo dei lanciarazzi, misero a tacere anche le difese costiere. Gli attaccanti riuscirono però a superare quei duri attacchi e i Commandos della Special Service Brigade sbarcarono senza difficoltà a Marina di Vietri. Nel frattempo anche l’altro corpo speciale, i Rangers, era sbarcato a Maiori. All’apparire dell’alba gli alleati erano arrivati alle porte di Cava de’ Tirreni ed una loro pattuglia ebbe un primo scontro a fuoco con i tedeschi sul ponte di San Francesco. Una camionetta inglese entrò perfino nell’abitato e distribuì sigarette e cioccolata. Poi i tedeschi concentrarono i loro carri armati lungo il Corso Umberto per tenerli al riparo dalle batterie alleate dal mare, e dall’aviazione dal cielo. La popolazione abbandonò il Borgo e si rifugiò in massa nella Badia dei Benedettini o si sparpagliò per la campagna riparandosi nelle case coloniche. dell’82ª Divisione Aviotrasportata statunitense ma senza i risultati attesi. Fu così che il generale Alexander decise di optare per l’intervento della squadra navale: un duro risvolto si ebbe sulla popolazione civile a causa dei bombardamenti aerei, apocalittici per entità, terrore ed orrori [20]. Il 15 settembre i tedeschi diedero inizio ad un piano di ritiro graduale, che prevedeva l’attuazione della “politica della terra bruciata”, ovvero la distruzione di tutto ciò che era impossibile portar via e la cattura degli uomini da condurre nei campi di concentramento. L’offensiva finale vide la luce il 23 settembre: in quel giorno, fu superato con le armi il Passo di Molina di Vietri per giungere a liberare l’Agro Nocerino Sarnese e portare l’ultimo attacco verso Napoli. La resistenza tedesca fu decisa, specialmente quando, oltrepassata Molina, le unità alleate si diressero verso Cava de’ Tirreni. Proprio la mattina del 23 settembre, un carro armato tedesco si accingeva a salire verso la Badia per un’ azione di rappresaglia contro la popolazione ivi rifugiata; ma nella strettoia che la strada compie a Sant’Arcangelo, non potette proseguire oltre. Alcuni sconsiderati si fermarono a guardare, ed i tedeschi del carro armato, adirati dall’inconveniente o forse nell’intento di compiere egualmente la rappresaglia, scaricarono su quegli sconsiderati una sventagliata di mitragliatrice. Prima di abbandonare Cava, i tedeschi provvidero a far saltare il ponte di San Francesco sulla strada nazionale e il ponte sulla ferrovia presso Villa Alba, allo scopo di ritardare l’avanzata degli anglo-americani, i quali però in poche ore buttarono un ponte di ferro e legno sul ponte San Francesco ristabilendo immediatamente la comunicazione con Salerno, mentre per l’avanzata dei loro carri armati si erano serviti della strada ferrata che i tedeschi non avevano toccato. Altre mine furono poste dai tedeschi agli altri ponti di Cava e sugli incroci stradali, ma non ebbero il tempo di farle brillare. Il 28 settembre la battaglia di Cava era conclusa e gli Alleati, procedendo verso l’Agro e superandolo, dopo ventidue giorni e 54 chilometri di combattimenti, alle ore 9:30 del 1º ottobre ‘43, entrarono a Napoli: l’operazione Avalanche era conclusa. Nei venti giorni che durò la battaglia su Cava, si contarono oltre seicento morti tra la popolazione civile. La spontanea reazione di altra parte della popolazione alle truppe tedesche incominciò non appena queste occuparono il borgo con i carri armati ed i villaggi con postazioni di armi pesanti. Questa reazione si tramutò altresì in collaborazione con le truppe alleate, alle quali furono fornite tutte le indicazioni necessarie ad infrangere la resistenza tedesca senza perdite da parte dei liberatori [21]. 21. Carro armato tedesco tra le vie di un centro abitato campano 22. Le linee difensive tedesche a sud di Roma dal vicino Caucaso. Hiler, come suo solito, non volle assolutamente prendere in considerazione l’idea di una ritirata e si fece assiduo promotore di una linea di difesa a oltranza su tutto il territorio italiano sostenendo che, una resistenza prolungata in Italia meridionale avrebbe avuto come effetto il ritardo dei preparativi di attacco degli alleati al territorio jugoslavo. Sotto il comando del feldmaresciallo Albert Kesserling, i tedeschi disposero quindi tre sistemi difensivi paralleli, distanti l’uno dall’altro una ventina di chilometri nel punto più stretto della penisola italiana. La prima linea di difesa, la più meridionale, era la cosidetta Linea d’Inverno o Linea Reinhard, che andava dal fiume 23. Paracadutista tedesco brandeggia una mitragliatrice MG 5. Cassino. La battaglia per l’abbazia Dal punto di vista delle operazioni militari, l’Italia si presentava per gran pare una terra ideale per i difensori. Appena superata una barriera formata da una montagna o da un fiume, un nuovo ostacolo si presentava a bloccare la via che avrebbero dovuto seguire le truppe attaccanti. Inoltre, le poche zone pianeggianti risultavano troppo poco estese per consentire agli Alleati un massiccio impiego di mezzi corazzati. Dopo i successi in Sicilia e a Salerno, Hitler modificò la strategia che aveva applicato in Italia per tutto il 1943. In precedenza, temendo eventuali sbarchi alleati lungo gran parte della penisola italiana, egli aveva previsto di fare arretrare gran parte delle truppe a nord di Roma e approntare una linea difensiva nell’Italia settentrionale, convinto inoltre che gli Alleati, una volta conquistata Foggia e il suo aeroporto, si sarebbero diretti verso i Balcani, rinunciando ad addentrarsi in Italia. Tuttavia, verificatisi tali fatti, i tedeschi cominciarono a rendersi conto che una ritirata verso l’Italia settentrionale avrebbe messo gli alleati in una situazione strategica estremamente favorevole, consapevoli del fatto che la perdita del territorio balcanico e della Grecia avrebbe messo a rischio l’indispensabile fornitura di carburante proveniente Sangro sull’Adriatico fino alla foce del fiume Garigliano passando per Mignano Montelungo. La seconda e più importante, che aveva la base sul fiume Garigliano e su Cassino, divenne nota come la Linea Gustav. La terza, chiamata Linea Hitler, si snodava lungo la direttrice Pontecorvo – Aquino – Piedimonte San Germano [22]. La battaglia di Cassino, nelle sue quattro fasi, è considerata ancora oggi uno degli scontri bellici più importanti e discussi della Seconda Guerra Mondiale. Essa fu costituita da un insieme di tentativi di conquistare la città di Cassino e di superare la Linea Gustav che gli Alleati attuarono in fasi susseguenti e che hanno portato gli storici a parlare di “battaglie per Cassino”. Terminata la battaglia di Montelungo e superata la Linea Invernale, gli alleati verso la metà del gennaio 1944 si ritrovarono di fronte alla Linea Gustav. La linea fortificata era costituita da posizioni protette di mitragliatrici e mortai, ricoveri per le truppe, estesi campi minati e centinaia di chilometri di filo spinato. Il punto focale di quella linea era costituito da Cassino e Montecassino, capisaldi a difesa della valle del Liri [23]. Il piano alleato per il forzamento della linea Gustav era 24. Truppe marocchine durante una pausa per il rancio 25. Soldati inglesi nei dintorni di Minturno piuttosto ambizioso: l’obiettivo finale era l’occupazione di Roma. Con una serie di attacchi combinati i comandi alleati si prefiggevano il superamento delle difese tedesche nella valle del Liri, unica zona pianeggiante che consentisse lo spiegamento in massa dei reparti corazzati che disponevano gli attaccanti. Da un punto di vista strategico l’operazione fu articolata in tre fasi principali. La prima consisteva in una seria di attacchi nella valle del Liri e sulle alture ad essa circostanti con lo scopo di attirare verso le alture ad essa circostanti le riserve tedesche. Successivamente una forza anfibia sarebbe sbarcata ad Anzio per creare scompiglio alle spalle del fronte principale e minacciare la vie di rifornimento tedesche. A questo punto, secondo le intenzioni degli Alleati, i tedeschi sarebbero stati costretti ad abbandonare la Linea Gustav e a intraprendere una rapida ritirata, permettendo così al fronte adriatico di poter avanzare superando le difese tedesche. Il 12 gennaio il corpo di spedizione francese del generale Juin fu il primo a iniziare il combattimento. L’attacco si verificò a circa venti chilometri a nord di Cassino e puntava verso la città di Atina. Si trattava tuttavia di un diversivo, poiché serviva solo ad impegnare le truppe presenti in quel settore. Le truppe, composte per lo più da marocchini e algerini, pur subendo notevoli perdite, ottennero sensibili risultati ma, non avendo ricevuto rinforzi, si fermarono il 22 gennaio [24]. Nel frattempo, il 17 gennaio, era iniziato l’attacco di tre divisioni britanniche lungo il corso inferiore del fiume Garigliano. Due di queste stabilirono delle teste di ponte nei pressi di Minturno e Castelforte, ma furono duramente contrattaccate e fermate dalle truppe che i tedeschi avevano celermente fatto affluire dalle retrovie [25]. La terza divisione inglese attaccò in direzione di Sant’Ambrogio, avendo l’importantissimo compito di proteggere il fianco sinistro americano che doveva forzare il passaggio nella valle del Liri. Tuttavia, dopo gravi perdite, le truppe britanniche non riuscirono ad attraversare il Garigliano e dovettero ritirarsi [26]. 26. Soldati canadesi al riparo di una abitazione Nonostante questo primo insuccesso, il generale americano Clark decise di rispettare il piano originale e diede il via all’assalto nella valle del Liri. Gli americani attaccarono la notte del 20 gennaio con una divisione sui due lati di Sant’Angelo in Theodice, a circa 5 chilometri di Cassino. Soltanto poche compagnie poterono guadare il fiume Gari sotto un diluvio di fuoco scatenato dai granatieri tedeschi. La notte seguente gli americani ripeterono l’attacco senza successo e i pochi superstiti dovettero riattraversare il Gari per ritirarsi. Il prezzo pagato fu altissimo: 1681 fra morti e feriti [27]. Poiché tutti gli attacchi pianificati dagli Alleati per sfondare 27. Soldati americani sparano con un bazooka la Linea Gustav erano falliti, il generale Clark fu costretto a ideare un’azione alternativa. Dato che la valle del Liri era impenetrabile egli ordinò un attacco contro Cassino. Il 24 gennaio gli americani attaccarono pochi chilometri a nord della cittadina. Dopo giorni di combattimenti durissimi nel pieno di un inverno molto rigido i fanti erano riusciti ad occupare una serie di colline in prossimità dell’abbazia di Montecassino. I reparti tedeschi furono decimati ma ricevettero rinforzi freschi e truppe scelte della temibile 1° divisone paracadutisti. I combattimenti interessarono anche la periferia nord di Cassino, dove gli americani furono più volte respinti dall’ostinata difesa tedesca. Le perdite subite dagli attaccanti non consentirono loro di effettuare il balzo decisivo verso la valle del Liri e l’offensiva americana si concluse il 12 febbraio, dopo avere respinto diversi contrattacchi [28]. Mentre si combatteva verso l’abbazia, più a nord il corpo di spedizione francese aveva iniziato un’azione di supporto per proteggere il fianco destro americano. Gli algerini iniziarono il 25 gennaio un attacco diversivo verso Colle Belvedere e Colle Abate: quello che seguì fu un combattimento con una irruenza e una determinazione da ambo le parti che rasenta l’incredibile. Diverse alture furono conquistate, perse e quindi riconquistate più volte. Le truppe coloniali francesi avevano ancora una volta assolto il loro compito impegnando i tedeschi ma questi ultimi persero solo alcune posizioni [29]. 29. Truppe coloniali francesi appostate a difesa di un crinale 28. Paracadutisti tedeschi alle porte di Cassino Nello stesso giorno in cui gli americani venivano respinti 30. Carri armati Sherman sbarcano ad Anzio sul Gari, altre truppe sbarcarono ad Anzio la mattina del 22 gennaio. La zona era scarsamente presidiata dai tedeschi e i reparti alleati presero terra in fretta e senza essere contrastati [30]. A causa di incertezze nei livelli più alti di comando, le truppe a terra non si diressero come era logico aspettarsi verso i Colli Albani, ma percorsi alcuni chilometri dalle spiagge si attestarono a difesa della testa di sbarco. Quella perdita di tempo prezioso diede ai comandi tedeschi l’opportunità di dispiegare forze sufficienti per circondare le avanguardie alleate [31]. Nei giorni susseguenti la situazione strategica si capovolse. A Cassino il fronte principale era stato solo intaccato, mentre ad Anzio i tedeschi minacciavano una vigorosa controffensiva che avrebbe potuto rigettare gli americani in mare. Così le forze sbarcate ad Anzio, che dovevano servire ad agevolare l’offensiva principale, avevano bisogno di aiuto. Invece, le forze sul fronte principale che avrebbero dovuto beneficiare dell’operazione anfibia, dovevano riprendere l’offensiva fallita per correre in soccorso delle truppe di Anzio. Gli Alleati, che non potevano permettersi perdite di tempo, si organizzarono per riprendere gli attacchi verso Cassino. Poichè tutte le truppe americane erano state impiegate, il generale Alexander, comandante di tutte le forze armate alleate in Italia decise lo spostamento di tre divisioni dal fronte adriatico a quello di Cassino. Queste avrebbero formato un corpo d’armata provvisorio. Delle tre unità inviate, la divisione indiana diede il cambio agli americani sulle colline di fronte a Monte Cassino, i neozelandesi si attestarono di fronte alla città di Cassino mentre la divisione britannica era in ritardo nell’attraversamento degli Appennini stretti nella morsa dell’inverno [32]. Prima di dar via all’attacco, il generale neozelandese 31. Soldati americani sulle spiagge laziali 32. Soldati indiani appostati con una mitragliatrice 34. L’abbazia di Montecassino dopo il bombardamento 33. L’abbazia di Montecassino oggi Freyberg portò avanti con insistenza la richiesta di bombardare l’abbazia di Montecassino [33]. Sia lui che i suoi sottoposti ritenevano necessario distruggere l’edificio che secondo molti era stata la causa dei falliti attacchi precedenti. La richiesta di bombardamento scatenò una polemica che si trascinò anche dopo la fine della guerra. In sostanza, i comandanti americani erano contrari al bombardamento, mentre quelli inglesi erano favorevoli. I generali non erano sicuri della presenza di reparti nemici all’interno dell’edificio, anche se i tedeschi avevano dichiarato di non farne un uso militare. In ogni caso Freyberg riteneva che l’abbazia dovesse essere bombardata con o senza i tedeschi all’interno e alla fine il generale Alexander diede il consenso al bombardamento. A seguito di questa azione, le truppe indiane avrebbero attaccato direttamente l’abbazia, mentre i neozelandesi avrebbero assalito Cassino [33bis]. Alle 9:30 del 15 febbraio iniziò il bombardamento dell’abbazia di Montecassino. Con ondate successive, 230 aerei sganciarono 380 tonnellate di bombe sul loro obiettivo. Il bersaglio fu centrato in pieno, anche se molte bombe caddero fuori zona causando perdite fra le truppe alleate. La distruzione fu totale e nel bombardamento trovarono la morte molti civili che si erano rifugiati tra le mura [34] [35]. 33. bis. B-17 La Fortezza Volante 36. Soldati tedeschi con mortaio A causa di una serie di imprevisti e malintesi, quando l’abbazia fu bombardata le truppe indiane destinate all’attacco non erano ancora pronte all’azione. Inoltre, prima di assalire direttamente le rovine dell’edificio, occorreva occupare una collina in mano ai tedeschi che ne impediva l’avvicinamento. La sera del 15 febbraio partì l’assalto della cosiddetta quota 593 che fu respinto con forti perdite da parte indiana. La sera successiva la stessa collina fu attaccata nuovamente con lo stesso risultato. La sera del 17 febbraio si ripeté per la terza volta l’attacco. La lotta fu durissima, ma all’alba del 18 gli indiani dovettero ritirarsi ancora una volta. I paracadutisti tedeschi, che da alcuni giorni avevano occupato il settore, avevano dato del filo da torcere agli attaccanti meritandosi la fama che ancora oggi le è riconosciuta per la difesa di Cassino [36]. La sera del 17 febbraio, mentre gli indiani partivano per il loro attacco verso l’abbazia, i neozelandesi attuarono la loro azione offensiva verso Cassino. Il terreno nella parte meridionale della cittadina intriso d’acqua a causa del maltempo precluse l’utilizzo di carri armati, pertanto le truppe neozelandesi scelsero di seguire il tracciato della linea ferroviaria Roma-Napoli qual direttrice d’attacco verso la città [37]. 37. Le rovine della città di Cassino 35. Altra immagine delle rovine di Montecassino Sul terrapieno della ferrovia, tuttavia, i tedeschi avevano creato profonde voragini circondate da mine, filo spinato e altri ostacoli. Un gruppo di fucilieri maori in forza alle truppe neozelandesi riuscirono nella notte a raggiungere e occupare la stazione ferroviaria di Cassino, ma i genieri neozelandesi che lavoravano alle loro spalle non furono in grado di rimuovere l’ultimo degli ostacoli presenti prima dell’alba, e con la luce del giorno l’artiglieria tedesca rese impossibile il proseguimento dei lavori [37bis]. I maori rimasero quindi isolati e, senza l’appoggio di carri armati, furono respinti da un contrattacco tedesco. L’offensiva affrettata e mal organizzata non portò così a nessun vantaggio per gli alleati, mentre ai tedeschi servì a rafforzare la fiducia in loro stessi [38]. 37. bis. Soldati Maori si apprestano a raggiungere le prime linee Esauritosi anche questo secondo tentativo di sfondamento, gli stati maggiori alleati iniziarono a preparare un terzo piano per oltrepassare la Linea Gustav. Si stabilì che la nuova offensiva non sarebbe iniziata prima della metà di maggio, non solo per permettere alle unità stremate dai combattimenti di riorganizzarsi, ma anche per disporre di condizioni metereologiche favorevoli e del terreno asciutto e compatto per il miglior utilizzo dei reparti corazzati [39]. Mentre l’operazione era allo studio, il generale Freyberg ottenne l’autorizzazione a effettuare un nuovo attacco limitato per occupare Cassino e Montecassino. L’idea consisteva nell’effettuare 38. Artiglieri neozelandesi bombardano la città di Cassino 39. Tiger tedesco danneggiato un bombardamento a tappeto su Cassino per annientare le difese tedesche. Successivamente, i neozelandesi avrebbero attaccato direttamente la città, seguendo la stessa direttrice da nord utilizzata dagli americani in gennaio. Una volta occupata la parte settentrionale di Cassino, la divisione indiana avrebbe iniziato un attacco in salita dalla città all’abbazia. I generali a livello più alto non nutrivano eccessiva fiducia nel piano, ma acconsentirono ad esso perché un eventuale successo avrebbe reso disponibile una base di partenza nella valle del Liri da utilizzare nella futura grande offensiva, mentre in caso di insuccesso le perdite sarebbero state solo le divisioni neozelandese e indiana. 40. Rovine di Cassino 41. Soldati neozelandesi alle porte di Cassino 42. Soldati neozelandesi nei pressi dell’Hotel Continental 43. Soldato Gurkha con il tipico coltello nepalese si arrampica sulla Collina del Boia In aderenza al piano, l’assalto della fanteria fu preceduto da un altro spaventoso bombardamento. 455 aerei sganciarono 992 tonnellate di bombe su Cassino e i paracadutisti tedeschi che in essa erano asserragliati [40]. Secondo una stima successiva, ogni difensore della città ricevette circa quattro tonnellate di esplosivo, ma nonostante ciò i paracadutisti tedeschi sopravvissero in gran numero sfruttando i rifugi sotterranei e una grande caverna situata ai piedi di Montecassino. Appena terminato il bombardamento la fanteria neozelandese si mosse. Essi combatterono duramente contro una inaspettata e accanita resistenza offerta dai paracadutisti tedeschi superstiti [41]. I carri armati attaccanti furono bloccati dalle macerie e poterono dare solo un appoggio limitato alla fanteria. Nonostante tutte le difficoltà e le pesanti perdite, dopo tre giorni di combattimento i neozelandesi avevano raggiunto e occupato il castello di Rocca Janula e la stazione ferroviaria di Cassino. Ma il nocciolo duro dei paracadutisti resisteva contro ogni assalto nella zona dell’Hotel Continental, ai piedi di Monte Cassino. A causa delle macerie, gli scontri si frazionarono a livello di squadra. I neozelandesi dovevano combattere per occupare singole stanze degli edifici demoliti, mentre i tedeschi avevano ampie possibilità di occultamento e quindi di tendere imboscate al nemico. Nell’abitato di Cassino i combattimenti durarono fino al 24 marzo, poi i neozelandesi furono costretti a sospendere gli attacchi: i tedeschi avevano retto l’urto contro ogni aspettativa [42]. Nel frattempo, il 15 marzo, le truppe indiane vissero una particolare odissea nel tentativo di occupare l’Abbazia. Il piano prevedeva di raggiungere una serie di obbiettivi disseminati lungo la montagna fino a Montecassino. Avanzando a tergo delle truppe neozelandesi, i battaglioni indiani dovevano per prima cosa prendere in consegna il castello di Rocca Janula. Poi dovevano conquistare due curve a gomito della strada che sale al monastero per poi puntare sulla cosiddetta collina del Boia. Da quest’ultima posizione sarebbe partito l’attacco diretto a Montecassino. Nelle notti e nei giorni seguenti gli indiani occuparono la prima delle due curve a gomito, ma nonostante i ripetuti assalti non riuscirono a mettere piede in modo stabile sulla seconda curva. Mentre avvenivano questi attacchi, nel corso di due notti un intero battaglione dei temibili Gurkha nepalesi in forza all’esercito inglese riuscì ad aggirare l’ostacolo e ad occupare la collina del Boia [43]. Si era creata una situazione paradossale: i Gurkha erano prossimi all’obbiettivo finale, ma erano isolati. I rinforzi 45. Soldati inglesi lanciano granate contro il nemico 44. Soldato tedesco in osservazione dovevano arrivare dal castello, ma non potevano muoversi in forze perché i tedeschi controllavano ancora la seconda curva. Il generale Heidrich, comandante dei paracadutisti, si rese conto della crisi nel dispositivo della divisione indiana e ordinò un contrattacco verso il castello di Rocca Janula [44]. All’alba del 19 marzo un battaglione di paracadutisti scese dall’Abbazia e assalì il castello. Fu una battaglia in stile medievale: gli attaccanti raggiunsero le mura e tentarono di scalarle o di demolirle con l’esplosivo. Dall’interno, la guarnigione formata in massima parte da soldati di un battaglione inglese si difese disperatamente. I paracadutisti attaccarono inutilmente il castello per quattro volte, anche con forze provenienti dalla città, furono decimati, ma mandarono in aria i piani alleati per quel giorno. Infatti quel battaglione inglese aveva appena iniziato ad inviare le sue truppe in rinforzo ai Gurkha sulla collina del Boia per poi assalire l’abbazia. Anche il battaglione inglese fu decimato e l’attacco verso l’abbazia fu annullato [45]. L’ultimo atto in quella difficile giornata del 19 marzo si consumò tra le colline a nord dell’abbazia. Gli Alleati avevano progettato un attacco con i carri armati da effettuarsi in contemporanea all’assalto della fanteria Gurkha e inglese dalla collina del Boia verso l’abbazia. Poiché, come abbiamo visto, quest’ultimo assalto non si verificò mai, sarebbe stato sensato annullare anche l’azione con i carri armati. Ma per quei fatali disguidi che si verificano spesso in guerra, nessuno informò i carristi ed essi si avviarono al loro destino. La formazione corazzata era composta da squadroni indiani, neozelandesi e americani per un totale di 35 mezzi. I tedeschi rimasero esterrefatti nel veder spuntare dal nulla quei carri armati, ritenevano impossibile il loro impiego tra le montagne, ma presto si accorsero che gli attaccanti erano sprovvisti di fanteria di appoggio. Così i paracadutisti tedeschi misero in atto le tattiche di attacco ravvicinato ai veicoli corazzati e la battaglia fu durissima. Per alcune ore i carri armati attaccarono Masseria Albaneta, una grande fattoria che costituiva un forte caposaldo tedesco. Alcuni mezzi si diressero verso l’abbazia, ma furono distrutti prima che potessero avvicinarvisi. Quando l’attacco fu sospeso 25 carri armati alleati erano stati distrutti o danneggiati [46]. 46. Carri armati americani catturati dai tedeschi Come già accennato, i combattimenti nella Cassino distrutta continuarono fino al 24 marzo. I neozelandesi non riuscirono a respingere i paracadutisti tedeschi fuori dalle macerie e la terza battaglia si concluse con un altro insuccesso per gli Alleati. Dopo la fine della terza battaglia, il fronte di Cassino si stabilizzò per quasi due mesi. Gli Alleati riorganizzarono il loro assetto e ricevettero rinforzi, erano inoltre in attesa della bella stagione per sfruttare la superiorità numerica dei carri armati su terreno compatto. Anche i tedeschi si riorganizzarono, ma non ricevettero rinforzi. La sera dell’11 maggio il fronte era tranquillo più che mai, poi alle 23:00 sulle linee tedesche si scatenò un diluvio di fuoco ad opera di quasi mille cannoni alleati. Il terrificante bombardamento durò più di un’ora e si estese da Cassino fino al Mar Tirreno. Era l’inizio della quarta e ultima battaglia per la Linea Gustav [47]. La poderosa offensiva alleata fu intrapresa da quattro corpi d’armata che attaccarono contemporaneamente su tutto il fronte. Il settore tirrenico fu affidato agli americani che ora comprendevano due divisioni appena giunte dagli Stati Uniti. Più all’interno, sui Monti Aurunci, fu schierato il corpo di spedizione francese che da due era passato a quattro divisioni. La valle del Liri, come sempre il punto focale dell’operazione, era competenza del corpo britannico, su tre divisioni. Al corpo polacco, da poco giunto in Italia, fu assegnato il settore più difficile, quello di Montecassino [48]. Durante il primo giorno dell’offensiva, tutti e quattro i corpi d’armata ottennero limitati successi e subirono forti perdite, in particolare i polacchi. Nei giorni seguenti la situazione si volse a vantaggio degli Alleati. Lo sfondamento della Linea Gustav avvenne ad opera dei reparti coloniali del corpo di spedizione francese che il 13 maggio occuparono Monte Maio, spaccando in due la linea tedesca. Kesselring e il suo stato maggiore furono colti di sorpresa: nessuno si aspettava un forte attacco nell’aspro settore dei Monti Aurunci. In verità, neanche gli Alleati si aspettavano un successo in quel punto, essi miravano alla valle del Liri dove gli inglesi erano riusciti a superare il Fiume Gari, ma incontravano una notevole resistenza [48 bis]. I tedeschi poterono inviare solo limitati rinforzi verso la prima linea: le condizioni meteorologie favorevoli permettevano ai cacciabombardieri alleati di intercettare le colonne di veicoli tedeschi e di colpirle duramente. Tuttavia, nel quadro generalmente favorevole che andava delineandosi per gli Alleati vi era una macchia d’ombra: Montecassino. I polacchi, che attaccarono con due divisioni le medesime colline assalite nelle battaglie precedenti, ebbero perdite disastrose [49]. Il loro secondo grande attacco fu effettuato nella notte tra il 17 e il 18 maggio, proprio quando i paracadutisti di Heidrich avevano ricevuto l’ordine di ripiegamento. Ma il coriaceo generale paracadutista rispose che la sua divisione si sarebbe ritirata solo con un ordine di Hitler in persona; in aggiunta i suoi uomini dovevano prima respingere l’attacco polacco in corso. Così, all’alba del 18 maggio, dopo che 47. Cassino nuovamente bombardata 48. Commandos polacchi discutono appena giunti al fronte 48. bis. Soldati canadesi all’attacco nella valle del Liri 49. Soldati polacchi si inerpicano verso Montecassino 50. Soldati neozelandesi sorvegliano paracadutisti tedeschi prigionieri Kesselring aveva convinto Heidrich a ritirarsi e dopo che i polacchi erano stati fermati, i paracadutisti abbandonarono Cassino e l’abbazia [50]. I polacchi ebbero l’amara consolazione di occupare il sacro edificio solo dopo che i difensori se ne erano andati. Le bandiere polacca e britannica sventolarono sulle rovine di Montecassino. Le battaglie per la Linea Gustav erano finite, la guerra proseguiva il suo corso verso la testa di sbarco di Anzio, raggiunta il 25 maggio e la capitale Roma, liberata dagli americani il 4 giugno [51]. I quattro mesi di lotta intorno a Cassino erano costati ai tedeschi circa 80.000 perdite tra morti, feriti e dispersi, agli Alleati circa 105.000 perdite complessive. Nessuno ha mai calcolato il numero delle numerose vittime tra i civili italiani. 52. Fortificazioni sulla Linea Gotica 6. La linea gotica e la battaglia di Rimini La linea Gotica, già ipotizzata da Rommel subito dopo l’8 settembre 1943, quale estrema difesa dell’Italia settentrionale, si stendeva dall’Adriatico al Tirreno per circa 320 chilometri lungo gli Appennini. Ai due lati, proseguiva lungo le coste con tutta una serie di fortificazioni predisposte per bloccare eventuali sbarchi. Per la sua realizzazione i tedeschi avevano impiegato circa 15.000 operai, i più costretti a lavorare forzatamente [52]. 51. La bandiera polacca sventola sulle rovine dell’abbazia 52. bis. La linea gotica 53. Soldato neozelandese a Faenza 53. bis. Soldati americani marciano a nord di Prato Non si deve pensare alla Gotica come a una linea continua, a una sorta di muraglia cinese o di linea Maginot, poiché essa si limitava a sbarrare all’avanzata angloamericana solo gli accessi alla pianura padana ed era costituita da una serie di opere di difesa slegate fra loro che sfruttavano le asperità del terreno. I punti più deboli delle linea erano le estremità, la costa tirrenica verso La Spezia e quella adriatica verso Pesaro. Questi erano tuttavia i punti maggiormente fortificati. Lì, le difese avevano una profondità di una decina di chilometri. Nelle zone appenniniche, invece, erano stati fortificati soltanto i vari passi. Per ordine di Hitler, dopo il 15 giugno, il nome della Gotica fu cambiato in linea Verde, che in caso di conquista si sarebbe prestato meno ad essere sfruttato dalla propaganda nemica. In effetti, la linea appenninica aveva ormai perduto molta dell’importanza che inizialmente gli era stata attribuita e sia Hitler che i suoi generali, ormai non la consideravano più come l’estremo baluardo che avrebbe dovuto garantire l’arresto definitivo delle armate alleate. Certo, l’ordine era di resistere sulla Gotica sino all’estremo, ma, alla pari delle altre linee già predisposte, ci si affidava ad essa solo per un periodo determinato, sperando che potesse tenere fino all’inverno, per garantire il prodotto agricolo della pianura padana. Altre linee difensive, quali fra tutte quella del Po, l’avrebbero sostituita in caso di sfondamento. Nonostante il grande dispiego di mezzi utilizzati, la linea presentava gravi difetti di progettazione, di cui ci si rese conto solo dopo che le armate destinate alla difesa vi si erano installate. Alcuni settori ritenuti più deboli non erano stati rinforzati adeguatamente; mancava completamente una strutturazione in profondità della linea, i rifornimenti, specie da nord, erano difficili e resi ancor più problematici dalla attiva presenza dei partigiani, e vicino al fronte mancavano i collegamenti trasversali, per cui, i reparti, per passare da un settore all’altro dovevano ritornare fino alla pianura [52 bis]. Comunque, nonostante mostrasse questi ed altri gravi difetti, la Gotica risultò un baluardo difficilmente valicabile e capace di arrestare l’avanzata degli alleati sino alla primavera dell’anno successivo. I vantaggi offerti dalle sue posizioni impedirono alle forze alleate di sfruttare la propria netta superiorità in carri armati e automezzi, costringendole ad una guerra di logoramento, combattuta soprattutto dalla fanteria e dall’artiglieria, dove i tedeschi erano molto più forniti di quanto si crede [53]. In attesa della battaglia decisiva la popolazione viveva nel terrore dei bombardamenti, sempre più pesanti e frequenti, con il passare del tempo. Forti della loro superiorità aerea, gli alleati cercavano infatti di indebolire il nemico colpendolo dal cielo, in modo tale da impedire l’afflusso dei rifornimenti alla linea del fronte. Obiettivi primari erano le fabbriche, i ponti, le linee ferroviarie, i convogli, i depositi di munizioni e di carburante. L’offensiva alla linea Gotica, secondo il piano pensato dal gen. Oliver Leese, ed approvato dal gen. Alexander, prevedeva due mosse. Prima uno sfondamento delle truppe inglesi e del Commonwealth nella zona di Rimini, dove il successo appariva più sicuro e dove si prevedeva che i carri armati, una volta sfondate le difese nemiche, avrebbero potuto procedere agevolmente nella pianura senza più incontrare ostacoli. Con questa mossa si voleva costringere Kesselring a portare in Romagna il grosso delle proprie truppe, per contenere l’avanzata e a questo punto, alle sue spalle, sarebbero intervenuti gli americani che avrebbero attaccato in montagna, sulla direttrice Firenze-Bologna. In questo modo, il grosso delle forze tedesche sarebbe rimasto imbottigliato fra Bologna e le valli di Comacchio e la via verso il nord Italia sarebbe stata libera [53 bis]. L’importanza di tale offensiva era avvertita soprattutto dalle truppe britanniche per motivi politici. Nonostante infatti, con lo sbarco in Sicilia e la successiva liberazione di Roma si fosse dato il primo assalto a quello che le potenze dell’asse definivano “fortezza Europa”, nella seconda metà del 1944 si riteneva generalmente che il fronte italiano avesse perso importanza. Nel giugno dello stesso anno, infatti, gli alleati erano sbarcati in Normandia e in Francia Meridionale, e avevano trasferito in quei settori gran parte delle truppe dislocate dapprima sulla penisola italiana. Non era questa l’opinione però di Churchill, che riteneva il fronte italiano come fondamentale, non per la ormai probabile sconfitta della Germania, ma per il futuro assetto politico dell’Europa. Egli era convinto che conquistare fosse indispensabile per raggiungere e controllare prima dell’Unione Sovietica la penisola Balcanica. Per questo motivo spinse i comandi alleati ad infrangere la Linea Gotica, contro il parere dell’alleato americano, con l’intento di arrivare al più presto al varco di Lubiana e prevenire l’ingresso dell’Armata Rossa in Jugoslavia. L’operazione passò alla storia come l’“offensiva d’estate”, e comportò ancora un forte tributo di sangue da parte degli angloamericani [54]. Complessivamente, un milione di uomini proveniente da 26 nazioni differenti fu lanciato contro l’ultimo baluardo tedesco posto prima delle grandi città italiane. A rispondere a questa offensiva fu la 10° armata tedesca supportata da altre sette divisioni provenienti da altri fronti. Sul fronte adriatico le prime due linee difensive furono sfondate il 25 agosto 1944 grazie alle forze canadesi, polacche e inglesi. Il 3 settembre gli alleati puntarono verso Rimini, uno dei fulcri di questa offensiva [55]. Tra i 4 e il 6 settembre gli alleati iniziarono ad incontrare le prime difficoltà. I canadesi vennero bloccati a Riccione e a Coriano, gli inglesi a San Savino. Questi ultimi, nel tentativo di aggirare le truppe tedesche vennero fermati a Gemmano con combattimenti tanto cruenti da ricordare la città come la “Cassino dell’Adriatico”. Tra il 12 e il 16 settembre un nuovo attacco ebbe miglior esito per gli alleati. Il fronte tedesco, sconvolto dai bombardamenti dell’artiglieria alleata venne sfondato, ma gli inglesi e i canadesi non seppero sfruttare il successo e avanzare [56]. Solo la mattina del 17 settembre il comando tedesco diede l’ordine di arretrare davanti a Rimini, e la battaglia si spostò nella valle del torrente Ausa. A quel punto gli indiani sfondarono le linee tedesche nei pressi di San Marino e i canadesi superarono prima il colle di Covignano, poi il fiume Parecchia all’altezza di San Martino di Riparotta, costringendo i tedeschi alla ritirata. Il 21 settembre venne liberata Rimini. I soldati greci, appoggiati dai carri armati neozelandesi entrarono in una città fantasma, irriconoscibile, ingombra di macerie. Oltre Rimini proseguirono i combattimenti. I fucilieri nepalesi gurkha vennero coraggiosamente decimati a Torriana e Montebello, prima di riuscire a liberare Santarcangelo [57]. A fine settembre si concluse la battaglia con il successo della presa di Rimini, porta verso la pianura Padana, ma con l’arresto dell’avanzata inglese sulle rive del Rubicone e di quello americano sull’appennino a Monte Battaglia, si perse l’occasione di arrivare a Milano entro l’inverno. Solo col nuovo anno, infatti, l’intera Linea Gotica venne sfondata e in primavera le città del nord Italia furono a una a una liberate dagli occupanti tedeschi. 54. Soldato canadese dotato di fucile di precisione 55. Soldati alleati avanzano in una città della Romagna 56. Corazzato canadese nei pressi della Linea Gotica 57. Sodati greci assiepati dietro un cumulo di macerie 58. Gruppo di partigiani studia una mappa nel modenese 59. Bandiera del Comitato di Liberazione Nazionale 7. La Resistenza italiana Con il termine Resistenza italiana, chiamata anche Resistenza partigiana o più semplicemente Resistenza, si intende l’opposizione militare e politica condotta nell’ambito della seconda guerra mondiale contro l’occupazione dell’Italia da parte della truppe tedesche e della Repubblica Sociale Italiana da parte di liberi individui, partiti e movimenti organizzati in formazioni partigiane, nonché delle ricostituite forze armate del Regno del Sud che combatterono a fianco degli Alleati. Questo movimento, inquadrabile storicamente nel più ampio fenomeno europeo della resistenza all’occupazione nazista, fu caratterizzato in Italia dall’impegno unitario di molteplici e talora opposti orientamenti politici (cattolici, comunisti, liberali, socialisti, azionisti, monarchici, anarchici). I partiti animatori della Resistenza, riuniti nel Comitato di Liberazione Nazionale, avrebbero più tardi costituito insieme i primi governi del dopoguerra [58]. Il periodo storico interessato dal movimento inizia per convenzione storiografica ormai consolidata dopo l’armistizio dell’8 settembre 1943 e termina alla fine del mese di aprile 1945. La scelta di celebrare la fine di quel periodo con il 25 aprile 1945 fu riferita dal Comitato di Liberazione Nazionale dell’Alta Italia (CLNAI) con la data dell’appello per l’insurrezione armata della città di Milano, sede del comando partigiano. In termini politici questo periodo si concluse il 1º gennaio 1948, giorno dell’applicazione della nuova Costituzione Italiana. Il movimento partigiano, prima raggruppato in bande autonome, fu successivamente e principalmente organizzato dal Comitato di Liberazione Nazionale (CLN), guidato dal generale Raffaele Cadorna, diviso a sua volta in CLNAI (Comitato di Liberazione Nazionale Alta Italia), con sede nella Milano occupata, e il CLNC (Comitato di Liberazione Nazionale Centrale). Il CLNAI, coordinò la lotta armata nell’Italia occupata, condotta da formazioni denominate brigate e divisioni, quali le Brigate Garibaldi, costituite su iniziativa del partito comunista, le Brigate Matteotti, legate al partito socialista; le Brigate Giustizia e Libertà, legate al Partito d’Azione; le Brigate Autonome, composte principalmente di ex-militari e prive di rappresentanza politica, talvolta simpatizzanti per la monarchia, riportate come “Badogliani” [59]. Dall’8 settembre 1943 (data della proclamazione dell’armistizio e conseguente proclama Badoglio) al 25 aprile 1945 il territorio italiano occupato dai nazisti visse una vera e propria guerra nelle retrovie. L’azione della Resistenza italiana come guerra patriottica di liberazione dall’occupazione tedesca, implicava anche la lotta armata contro i fascisti e gli aderenti alla RSI che sostenevano gli occupanti [60]. 60. Soldato tedesco controlla i documenti a un civile nei pressi di Milano 61. Partigiani in marcia 62. Manifesto della Prefettura di Ravenna contro le bande partigiane 63. Gruppo di partigiani L’inizio vero e proprio della Resistenza è difficile da individuare e dipende dall’impostazione storica che si vuol dare: se puntualizzante sul periodo resistenziale o comprendente le fasi di antifascismo sia militare che clandestino che precedettero il periodo dell’8 settembre del 1943, certo è che gli scioperi operai del marzo del 1943 dimostrarono che era possibile opporsi al regime fascista arrivando a minare in modo pesantissimo la credibilità di Mussolini e ciò fu il preludio della sua messa fuori gioco del 25 luglio. È chiaro che furono proprio le sofferenze e privazioni sopportate dalle fasce meno abbienti della popolazione a causa della guerra, ad innescare il meccanismo dei grandi scioperi. Ad essere coinvolti in quella che viene anche chiamata guerra partigiana, si calcola siano stati dalle poche migliaia nell’autunno del 1943 fino ai circa 300.000 dell’aprile del 1945 gli uomini armati che, specialmente nelle zone montuose del centro-nord del Paese, svolsero attività di guerriglia e controllo del territorio che via via veniva liberato dai nazifascisti [61]. Nell’Italia centro-meridionale il movimento partigiano non ebbe altrettanta crucialità militare, sebbene nelle aree conquistate dagli Alleati nella loro avanzata verso settentrione si riunissero i principali esponenti politici che da lontano coordinavano le azioni militari partigiane, insieme alle armate alleate. Con mezza penisola liberata e la restante parte ancora da liberare, con violente tensioni sociali ed importanti scioperi operai che già nella primavera del 1944 avevano paralizzato le maggiori città industriali (Milano, Torino e Genova), le popolazioni dell’Italia settentrionale si preparavano a trascorrere l’inverno più lungo e più duro, quello del 1945. Sulle montagne della Valsesia, sulle colline delle Langhe e sulle asperità dell’Appennino Ligure e dell’Appennino Tosco-Emiliano le formazioni partigiane erano ormai pronte a combattere [62]. Nelle città cominciarono a costituirsi nuclei partigiani clandestini denominati GAP (Gruppi di azione patriottica) formati ognuno da pochi elementi pronti a svolgere azioni di sabotaggio e di guerriglia nonché di propaganda politica. Accanto ad essi, nei principali centri urbani sorsero all’interno delle fabbriche le SAP (Squadre di azione patriottica), ampi gruppi di sostegno alle formazioni partigiane belligeranti, con l’obiettivo specifico di rendere più ampia possibile la partecipazione popolare al momento insurrezionale. Attriti sorsero, però, a questo punto su quale sarebbe stato per il movimento partigiano l’interlocutore privilegiato, politico o militare che fosse, italiano oppure alleato. Sotto questo aspetto a poco era servita la militarizzazione “ufficiale” dei partigiani, avvenuta nel giugno 1944 con l’istituzione - riconosciuta sia dai comandi militari alleati che dal governo nazionale - del Corpo volontari della libertà. A capo dei circa 200 mila combattenti che formavano il nuovo esercito italiano era stato posto il generale Raffaele Cadorna, con vicecomandanti l’esponente del Partito Comunista Italiano Luigi Longo e quello del Partito d’Azione Ferruccio Parri [63]. Mentre si cominciava comunque a guardare al futuro, un altro punto di contrasto era costituito, appunto, da quello che sarebbe accaduto nel dopoguerra, che veniva avvertito ormai come prossimo. Se da un lato la guerra di liberazione accomunava diverse forze politiche, sia pure nella clandestinità e nella diversità ideologica, l’obiettivo successivo - la nuova Italia - era fonte di divergenza: i partiti della sinistra - peraltro divisi al loro interno - paventavano particolarmente un ripristino dello stato liberale prefascista; dal canto suo, il Partito d’Azione sosteneva la necessità che alle organizzazioni partigiane venisse attribuito un ruolo di rilievo nell’edificazione di una nuova democrazia in grado di sovvertire il vecchio ordinamento monarchico. La monarchia, sebbene minata nel proprio prestigio e popolarità per via del suo coinvolgimento quale corresponsabile del fascismo nell’aver gettato l’Italia in guerra e per la fuga del re Vittorio Emanuele da Roma, continuava tuttavia a raccogliere un significativo sostegno popolare diffuso in modo variabile e trasversale anche presso alcuni gruppi partigiani di ispirazione monarchica, cattolica e liberale, oltre che presso militari dell’esercito. Il 19 aprile 1945, mentre gli Alleati dilagavano nella valle del Po, i partigiani su ordine del CLN diedero il via all’insurrezione generale. Dalle montagne, i partigiani confluirono verso i centri urbani del Nord Italia, occupando fabbriche, prefetture e caserme. Nelle fabbriche occupate venne dato l’ordine di proteggere i macchinari dalla distruzione. Le sedi dei quotidiani furono usate per stampare i giornali clandestini dei partiti che componevano il CLN [64]. Mentre avveniva ciò, le formazioni fasciste si sbandavano e le truppe tedesche allo sfacelo battevano in ritirata. Si consumava il disfacimento delle truppe nazifasciste, che davano segni di cedimento già dall’inizio del 1945 e i cui vertici si preparavano alla resa agli Alleati. La mattina del 14 aprile, in un’Imola che sembrava deserta, entrò per primo l’87° Reggimento Fanteria del Gruppo di Combattimento “Friuli” che, però, fu subito comandato di dirigersi verso Bologna. Poco dopo giunse la divisione Carpatica polacca, comandata dal generale Wladyslaw Anders insieme ai soldati del Gruppo di Combattimento “Legnano”, accolti in festa dagli imolesi che, nel frattempo, erano usciti dai loro rifugi. Ancora la mattina del 21 aprile, fu il “Friuli” ad entrare per primo a Bologna, passando per la Porta Maggiore, nel tripudio dei bolognesi. In giornata giunsero anche i polacchi, il “Legnano” e altri gruppi. Gli americani liberarono Modena il 22 aprile, Reggio Emilia il 24 e Parma il 25. Nella stessa data, a Genova, inizia l’insurrezione, che porterà il generale tedesco Gunther Meinhold ad arrendersi formalmente al CLN ligure il 25 aprile. Milano e Torino furono liberate il 25 aprile [65]. Le truppe alleate arrivarono nelle principali città liberate nei giorni seguenti. La liberazione di molte città, inclusi centri industriali di importanza strategica, prima dell’arrivo degli alleati rese l’avanzata di questi più rapida e meno onerosa in termini di vite e rifornimenti. In molti casi avvennero drammatici combattimenti strada per strada; i resti dell’esercito tedesco e gli ultimi irriducibili fascisti della Repubblica Sociale Italiana sparavano asserragliati in vari edifici o appostati su tetti e campanili su partigiani e civili. Tra essi e le forze partigiane avvennero talvolta vere e proprie battaglie, come a Firenze nel settembre 1944, ma solitamente la loro resistenza si ridusse a una disorganizzata guerriglia, per esempio a Parma e a Piacenza [66]. Il 27 aprile 1945 Benito Mussolini, indossando la divisa di un soldato tedesco, fu catturato a Dongo, in prossimità del confine con la Svizzera, mentre tentava di espatriare assieme all’amante Claretta Petacci. Riconosciuto dai partigiani, fu fatto prigioniero e giustiziato il giorno successivo 28 aprile a Giulino di Mezzegra, sul lago di Como; il suo cadavere venne esposto impiccato a testa in giù, accanto a quelli della stessa Petacci e di altri gerarchi, in piazzale Loreto a Milano, ove fu lasciato alla disponibilità della folla, che infierì sul cadavere. In quello stesso luogo otto mesi prima i nazifascisti avevano esposto e dileggiato, quale monito alla Resistenza italiana, i corpi di quindici partigiani uccisi. Il 29 aprile la resistenza italiana ebbe formalmente termine, con la resa incondizionata dell’esercito tedesco, e i partigiani assunsero pieni poteri civili e militari [67]. Il 2 maggio il generale britannico Alexander ordinò la smobilitazione delle forze partigiane, con la consegna delle armi. L’ordine venne in generale eseguito e le armi in gran parte consegnate, in tempi diversi nei vari luoghi in dipendenza dell’avanzata dell’esercito alleato, della liberazione progressiva del territorio nazionale, e del conseguente passaggio di 64. Partigiani apuani in marcia 65. Partigiani il 25 aprile 1945 66. Partigiani e truppe brasiliane il giorno della Liberazione 67. Partigiani e soldati americani a Carrara poteri al governo italiano; una parte delle forze partigiane fu arruolato nella polizia ausiliaria ad hoc costituita [68]. Si calcola che i caduti per la Resistenza italiana (in combattimento o uccisi a seguito della cattura) siano stati complessivamente circa 44.700; altri 21.200 rimasero mutilati ed invalidi; tra partigiani e soldati regolari italiani caddero combattendo almeno in 40.000 (10.260 della sola Divisione Acqui impegnata a Cefalonia e a Corfù); Si stima che in Italia nel periodo intercorso tra l’8 settembre 1943 e l’aprile 1945 le forze tedesche (sia la Wehrmacht che le SS) e le forze della Repubblica Sociale Italiana compirono più di 400 stragi (uccisioni con un minimo di 8 vittime), per un totale di circa 15.000 caduti tra partigiani, simpatizzanti per la resistenza, ebrei e cittadini comuni. 68. Smobilitazione di una brigata partigiana 69. Internati militari italiani 8. Il Contributo dei militari italiani alla Liberazione dell’Italia L’8 settembre del ‘43, all’annuncio dell’armistizio con gli Alleati, l’esercito italiano, a causa della mancanza di disposizioni precise da parte degli alti comandi militari, si era liquefatto. Fu un vero e proprio dramma, umano e militare, anche se nelle settimane successive non mancarono gli episodi di resistenza ai tedeschi (Roma, Cefalonia, Corfù, Corsica, Albania, Rodi, Lero) e, viceversa, ci furono anche numerosi casi di adesione alla Rsi. Ciò nonostante, in vario modo, nel biennio 1943-1945 l’esercito italiano si riscattò, dando un forte contributo alla Guerra di Liberazione, anche in termini di vite umane (87.000 vittime). Ecco come si sostanziò il contributo dei militari alla Guerra di Liberazione. Molti militari si diedero alla macchia, e andarono poi ad alimentare le bande dei partigiani nelle montagne, non solo quelle autonome ma anche quelle legate ai partiti, molte delle quali furono comandate da ufficiali dell’esercito. Quasi tutta la flotta e una parte rilevante dell’aviazione si consegnò agli Alleati, e proseguì poi la guerra al fianco degli anglo-americani. Nei Balcani, in Francia, in Grecia, in Albania, in Polonia, nelle isole, migliaia di militari italiani sfuggirono alla cattura da parte dei tedeschi e parteciparono ai movimenti di liberazione nazionali, unendosi ai partigiani locali. La stragrande maggioranza degli internati militari, gli ufficiali e i soldati italiani catturati dai tedeschi e internati nei campi di concentramento (oltre 600 mila), decise di resistere e di non aderire alla Rsi [69]. Vi erano, al momento dell’armistizio, circa 600.000 prigionieri italiani nelle mani degli Alleati. Soldati per lo più catturati dal nemico a seguito dell’offensiva in Nord Africa (1940-’41) alla resa in Tunisia ed al tracollo del luglio agosto 1943 in Sicilia. Per lo più, tranne i 10-12.000 soldati in mano all’URSS, erano in mano anglo-americana. Questi soldati, all’annuncio dell’armistizio dovettero, come tutti, fare delle scelte. La stragrande maggioranza scelse di cooperare con gli ex-nemici, con compiti soprattutto di supporto logistico o di ausilio alla produzione bellica (una parte degli ex-prigionieri, fu aggregata alle ricostituite Forze Armate italiane del Sud). Dopo la dichiarazione di guerra alla Germania (13 ottobre 1943) da parte del Governo Badoglio e il riconoscimento all’Italia dello status di cobelligerante da parte degli Alleati (16 ottobre), le Forze Armate italiane, che si erano ricostituite al Sud, ebbero il battesimo del fuoco nella battaglia di Montelungo (dicembre 1943). Parteciparono alla guerra prima il I Raggruppamento Motorizzato, poi il C.I.L., poi i Gruppi di Combattimento. Nel corso dei mesi di guerra, da poche migliaia di persone l’esercito italiano arrivò a contare più di mezzo milione di soldati (400.000 dell’Esercito, 80.000 della Marina, 35.000 dell’Aeronautica), un quarto degli uomini impiegati e circa un ottavo delle forze combattenti. I soldati italiani combatterono al fianco degli Alleati in Abruzzo, Lazio, Marche, Toscana, fino alla grande offensiva dell’aprile ’45 in Emilia Romagna. Le fasi salienti di venti mesi di guerra videro impegnati: • una Brigata (1° Raggruppamento Motorizzato): nel dicembre del 1943 scrisse pagine gloriose nella fornace della battaglia del Garigliano (3.000 uomini a Monte Lungo); • un Corpo d’Armata, formato da due Divisioni più i Supporti (Corpo Italiano di Liberazione): nell’estate del 1944 combattè per la liberazione dell’Italia Centrale fino al Metauro e alla Linea Gotica sugli Appennini; • un’Armata, composta da sei Divisioni (Gruppi di Combattimento “Legnano”. “Folgore”, “Friuli”, “Cremona”, “Mantova”, “Piceno”): nell’inverno del 1944 e nella primavera 1945 diede testimonianza di eroismo sulla Linea Gotica e nella battaglia finale; • otto Divisioni Ausiliarie: per l’intera durata della Campagna assolsero importanti funzioni logistiche, nelle quali si distinsero in modo particolare le “Salmerie da Combattimento” e il “Genio da Combattimento”.