2. Gli alleati e lo sbarco in Sicilia

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1. L’Italia e la Seconda Guerra Mondiale
“O Austria Felice” si diceva nel XVIII secolo, “gli altri
fanno la guerra e tu combini matrimoni”. Gli Asburgo
avevano effettivamente l’abitudine di contrarre matrimoni
che portavano in dote grandi territori e questo alla fine li
rese la monarchia che possedeva più terre di
qualsiasi altra in Europa.
L’Italia, costituiva l’antitesi dell’Austria,
sfortunata sia in guerra che in amore. Il nord
e il sud dell’Italia, unificati soltanto nel 1866
sotto casa Savoia, non avevano mai fatto
matrimoni ricchi; le sue guerre
d’indipendenza contro gli Asburgo a metà
del XIX secolo, e quelle successive miranti a
conquistare colonie in Africa, terminarono
nel migliore dei casi senza vittorie, e in molti
casi in modo inglorioso. Il corpo di
spedizione italiano, che si era scontrato con
gli etiopi ad Adua nel 1896, era stato uno
dei pochi eserciti europei sconfitti da forze
indigene durante le campagne di conquista
di quel continente; la vittoriosa guerra del
1935-1936 contro l’imperatore Hailè
Selassiè le aveva attirato l’odio internazionale.
Nessuna guerra era costata all’Italia più cara
del primo conflitto mondiale, e questa
esperienza spiega gran parte degli eventi successivi della sua
storia. Anche se i loro sforzi vennero sottovalutati, gli italiani
si erano battuti
tenacemente e coraggiosamente contro gli austriaci sul più
difficile di tutti i fronti alleati [1]. A partire dal maggio 1915,
quando si schierò a fianco di Gran Bretagna, Francia e Russia,
l’Italia effettuò numerose offensive sull’Isonzo guadagnando
poco terreno e subendo gravi perdite. Sorpreso nell’ottobre
1917 da un travolgente attacco austriaco e tedesco, l’esercito
italiano venne ricacciato nella pianura veneta, ma si riprese
bene, al punto di passare all’offensiva nell’autunno del 1918
e concludere la guerra con onore.
L’Italia si era guadagnata il suo posto fra i vincitori, ma anche
se 600.000 italiani avevano sacrificato la loro vita per la causa
degli alleati, né Gran Bretagna né Francia vollero concedere
all’Italia i territori dei vinti che questa riteneva di avere
meritato. Tutto quello che l’Italia ottenne fu una piccola fetta
di territorio ex austriaco e le isole del Dodecaneso.
La differenza fra quello che secondo l’Italia le sarebbe
spettato, e quello che ottenne dopo la guerra, sta alla base
della rivoluzione fascista che nel 1922 sconvolse la situazione
politica del regno. L’appello di Mussolini alle classi operaie
e medie fu soltanto in parte economico, fu più quello di un
reduce ad altri reduci [2]. In un momento di recessione,
disoccupazione e instabilità economica, non solo offrì lavoro
ai disoccupati e sicurezza ai risparmiatori, ma promise anche
onore agli ex combattenti, e una ricompensa territoriale alla
nazione che non l’aveva ricevuta al tavolo della pace.
La trasformazione della Libia, conquistata nel 1912 in un
“impero” d’oltremare, venne seguita nel 1936 dalla
conquista dell’Etiopia e nel 1939 dell’annessione
dell’Albania [3].
L’intervento italiano nella guerra civile spagnola fece parte
1. Fanti italiani in trincea durante la Prima Guerra Mondiale
2. Benito Mussolini durante un comizio
3. Soldati coloniali italiani issano il tricolore su un edificio etiope
della garanzia di Mussolini agli italiani che la loro nazione
avrebbe avuto un posto sulla scena mondiale, e quanto fu
anche il motivo del suo intervento nella seconda guerra
mondiale.
Le circostanze, però, stabilirono che l’Italia non sarebbe mai
stata un socio alla pari nell’alleanza con la Germania nazista,
nonostante tutti gli sforzi di Mussolini per riuscirci. Non era
soltanto il fatto che l’economia italiana era in grado di
reggere soltanto un decimo delle spese militari affrontate
dalla Germania, ma ci fu anche il fatto che la potenza
militare italiana era declinata notevolmente nel periodo fra
le due guerre.
Un importante ostacolo a un efficace impegno dell’Italia a
fianco della Germania era il fatto che gli italiani nutrivano
ben poca o nessuna ostilità nei confronti dei nemici che
Hitler aveva scelto per loro. Una certa francofobia poteva
essere presente nella mentalità italiana, ma i ceti più alti
erano nettamente anglofili, mentre i contadini e gli artigiani
erano in genere ben disposti verso gli americani.
Di conseguenza, l’esercito italiano si battè valorosamente
ma senza grande entusiasmo contro gli inglesi in Libia nel
1940-1941 e le sue potenzialità non migliorarono certo
dopo la brutta figura fatta contro i greci nell’autunno del
1940. La perdita poi di alcune delle migliori divisioni in
Africa [4] e nella catastrofe dell’ARMIR sul fronte russo del
Don, un corollario della grande battaglia di Stalingrado,
l’avevano ridotto all’ombra di quello che era [5].
Queste due crisi quasi contemporanee indussero i comandi
italiani a riflettere in merito all’opportunità di appoggiare
Mussolini e il regime fascista. I generali italiani provenivano
per la maggior parte dalle regioni settentrionali, in
particolare dal Piemonte, da cui veniva anche la casa
regnante dei Savoia alla quale avevano prestato giuramento.
Essi avevano accettato il fascismo finchè questo si era
dimostrato favorevole alla monarchia e agli interessi delle
forze armate. Una volta divenuto evidente che non lo era
più iniziarono a riconsiderare la situazione. Nell’estate del
1943, e in particolare quando le città italiane cominciarono
a risentire degli effetti dei bombardamenti alleati, qualcuno
pensò alla possibilità di togliere di mezzo Mussolini.
4. Truppe italiane prigioniere dopo la sconfitta nella battaglia di El Alamein
5. Alpini italiani in ritirata sul fronte russo
2. Gli alleati e lo sbarco in Sicilia
Una volta terminata vittoriosamente la Campagna del Nord
Africa, inglesi e americani si confrontarono con non poche
difficoltà su come dare l’assalto alla “Fortezza Europa”. Le
divergenze tra essi consistevano principalmente sulla
migliore strategia per sconfiggere l’Asse.
I britannici, e in particolare il primo ministro Winston
Churchill, proponevano una strategia che sfruttasse la loro
potenza navale basandosi sul principio che, contro un
nemico continentale dotato di un grande esercito, la
migliore tattica da attuare fosse quella di attaccare
gradualmente con operazioni locali i territori periferici del
nemico nel Mediterraneo indebolendolo gradualmente.
Gli Stati Uniti, invece, dotati di un esercito numeroso e
provvisto di moltissimi mezzi, caldeggiavano una strategia
più diretta che mirasse allo scontro contro la forza
principale dell’esercito tedesco nell’Europa settentrionale, in
particolare in Francia.
5. bis. Giraud, Roosevelt, De Gaulle e Churchill alla conferenza di Casablanca
6. Il piano si sbarco alleato per l’invasione della Sicilia
Dopo accese diatribe circa la soluzione, Stati
Uniti e Gran Bretagna decisero di organizzare le
proprie forze in vista di una futura e
indispensabile invasione della Francia
programmata per la primavera del 1944 e, per
mantenere comunque sotto pressione il nemico
tedesco, stabilirono di procedere ugualmente
con una campagna meno articolata invadendo
la penisola italiana. L’attacco all’Italia fu
definito dagli alti comandi alleati durante la
Conferenza di Casablanca del 14 gennaio 1943
occasione in cui Winston Churchill definì
L’Italia come “il ventre molle dell’Asse” [5bis].
Si sperava che l’invasione avrebbe portato alla
resa del regime fascista, un ottimo colpo di
propaganda per il morale dei soldati che
avrebbero poi dovuto confrontarsi con i più
agguerriti tedeschi. L’eliminazione dell’Italia
avrebbe inoltre consentito alle forze navali
alleate, e principalmente alla marina inglese, di
prendere il dominio sul Mar Mediterraneo,
migliorando così la possibilità di spostare
truppe in Egitto, in Medio Oriente e in India.
Con l’Italia fuori dai giochi, inoltre, i tedeschi
avrebbero dovuto trasferire nella penisola parte
delle truppe impegnate contro i russi sul fronte
orientale.
La Campagna d’Italia ebbe ufficialmente inizio
con l’Operazione Husky, lo sbarco in Sicilia
delle forze alleate, tra il 9 e il 10 luglio 1943,
cui presero parte circa 160 000 soldati fra
americani, inglesi e canadesi.
Il piano operativo per questa operazione
prevedette due grandi assalti anfibi sulle coste
meridionali dell’isola preceduti nella notte da
un folto lancio di paracadutisti a est e a ovest di
Capo Passero [6].
Gli alleati impegnarono nell’assalto otto
divisioni dal mare e due dall’aria, con una
flotta che superava di gran lunga le forze
dell’Asse sull’isola. Il comandante italiano
Alfredo Guzzoni aveva infatti a disposizione
dodici divisioni, ma di queste sei erano male
e equipaggiate e altre quattro, pur essendo
in grado di attestarsi a difesa delle coste, non
costituivano una minaccia per gli
alleati. Soltanto le due divisioni tedesche, la
15° Panzergrenadier e la Hermann Göring
erano di primissima qualità.
Nonostante la disparità di forze e la sorpresa
conseguita dagli invasori, gli sbarchi
andarono meno lisci del previsto. Le forze
di aviosbarco, composte dalla 82° divisione
americana “All Americans” e dalla 1°
britannica subirono perdite enormi quando
i piloti inesperti fecero lanciare i
paracadutisti ancora sul mare e i nervosi
serventi della contraerea delle navi aprirono
il fuoco abbattendo i propri apparecchi.
Gli sbarchi dal mare, effettuati contro le
divisioni costiere italiane, ebbero dovunque
successo, e alcuni dei difensori aiutarono
addirittura gli attaccanti a scaricare i loro
mezzi [7].
Le forze inglesi e canadesi sbarcarono nei
tratti di costa compresi tra la penisola di
Pachino e Siracusa, sul versante ionico, ad
eccezione della 1ª Divisione canadese che
sbarcò più a sud [7bis].
La 7ª Armata americana al comando del
generale Patton sbarcò nel tratto di costa
compreso fra Gela e Licata. Il fuoco di
controbatteria delle navi da guerra e
l’appoggio aereo favorirono la rapida
attestazione delle forze di invasione, anche
se nei punti maggiormente muniti di
artiglieria costiera la lotta fu piuttosto aspra.
Nei numerosi tratti di costa privi di difesa le
truppe alleate poterono avanzare dai punti
di sbarco senza difficoltà [8].
7. Truppe americane sbarcano sulle spiagge siciliane
7. bis. Soldati inglesi sbarcano in Sicilia
8. Sheman americano sbarca sulla spiaggia sicilana
9. Sherman inglese a Francoforte
10. Truppe canadesi entrano a Modica
11. Palermo distrutta dai bombardamenti angloamericani
Già il 15 luglio gli alleati cominciarono le
operazioni per eliminare le forze del nemico
sull’isola. Il piano prevedeva l’occupazione
della metà occidentale della Sicilia da parte
degli americani mentre gli inglesi e i canadesi
avrebbero dovuto avanzare sui fianchi dell’Etna
e occupare Messina, in modo da tagliare ai
tedeschi e alle truppe italiane la via della
ritirata verso la Calabria [9].
Mentre gli americani incontrarono scarsa
resistenza, gli inglesi dovettero vedersela con la
Hermann Göring che impedì loro di passare
lungo la costa a est dell’Etna, la via più corta
verso Messina.
Il 20 luglio quindi, gli americani ritardarono
l’attacco e la liberazione di Palermo e Trapani
per attaccare Messina lungo la statale costiera
settentrionale. Il rallentamento delle operazioni
alleate permise al generale tedesco Frido von
Senger und Etterlin di intervenire in aiuto di
Guzzoni dalla Calabria con due divisioni. Di
fronte a queste nuove forze l’avanzata degli
alleati rallentò ulteriormente, e soltanto il 2
agosto americani e inglesi riuscirono a
costituire una linea del fronte unitaria che
correva fra l’Etna e la costa settentrionale
dell’isola [10].
L’avanzata alleata procedette quindi con una
serie di piccoli sbarchi dal mare per fare
sloggiare il nemico dalle sue solide posizioni
difensive. Tuttavia Guzzoni fin dal 5 agosto
aveva riconosciuto che la situazione era ormai
indifendibile e aveva cominciato a fare ritirare
i reparti italiani oltre lo stretto di Messina. I
tedeschi iniziarono l’evacuazione l’11 agosto;
spostandosi di notte riuscirono a evitare le
incursioni aeree alleate portando in salvo una
buona parte del loro equipaggiamento. Gli
alleati il 17 agosto fecero il loro ingresso
trionfale a Messina, ma il nemico se ne era già
andato.
Così l’Operazione Husky era sostanzialmente
fallita. E’ vero che aveva reso sicure le linee di
comunicazione alleate attraverso il
Mediterraneo e verso il Medio Oriente, ma
poichè le operazioni in quel settore e in Africa
settentrionale erano terminate, si trattava di un
successo privo di significato. Non si era inoltre
riusciti a distogliere le divisioni tedesche dal
fronte russo, dato che tutte quelle inviate in
Italia dopo il 24 luglio erano venute dal fronte
ovest [11].
Restava da vedere se la conquista della Sicilia avrebbe
esercitato pressioni sufficienti sulle forze antifasciste in Italia
per portare a un capovolgimento delle alleanze.
3. 8 settembre 1943. L’Italia si arrende alle
forze alleate
Nella prima metà del 1943, in una situazione di grave
preoccupazione indotta dall’opinione sempre più condivisa
che la guerra fosse ormai perduta e che stesse apportando
insopportabili danni al Paese, Mussolini operò una serie di
avvicendamenti che investì alcuni dei più significativi centri
di potere dello Stato rimuovendo alcuni personaggi che
reputava ostili alla prosecuzione del conflitto accanto alla
Germania o più fedeli al Re che non al regime. Secondo
alcuni studiosi, a seguito di tali sostituzioni, reputate come
atte a rafforzare il regime in crisi di consenso se non
apertamente ostili al Quirinale, Vittorio Emanuele ruppe gli
indugi ed iniziò a progettare in via esecutiva un piano che
consentisse la destituzione del duce.
Per questo fu avvicinato Dino Grandi, uno dei gerarchi più
prestigiosi dell’élite di comando, che in gioventù si era
evidenziato come il solo vero potenziale antagonista di
Mussolini all’interno del Partito Nazionale Fascista, e del
quale si aveva motivo di sospettare che avesse di molto
rivisto le sue idee sul regime [12]. A Grandi, attraverso
garbati e fidati mediatori fra Pietro Badoglio, si prospettò
l’opportunità di avvicendare il dittatore e si convenne che la
stagione del fascismo originale, quello dell’“idea pura” dei
fasci di Combattimento, era finita ed il regime si era
irrimediabilmente annacquato in un qualunque sistema di
gestione del potere, avendo perso ogni speranza di
sopravvivere a sé stesso.
Grandi riuscì a coinvolgere nella fronda sia Giuseppe Bottai,
altro importantissimo gerarca che sosteneva l’idea originaria
e “sociale” del fascismo operando sui campi della cultura, sia
Galeazzo Ciano, che oltre che ministro ed altissimo
gerarca anch’egli, era pure genero del Duce. Con essi diede
vita all’Ordine del Giorno che avrebbe presentato alla
riunione del Gran Consiglio del Fascismo il 25 luglio 1943 e
che conteneva l’invito rivolto al re a riprendere le redini della
situazione politica. Mussolini fu arrestato e sostituito da
Badoglio [13].
La nomina di Badoglio, che aveva aperto la strada ad un
istintivo entusiasmo popolare, non significava la fine
della guerra, che continuava “a fianco dell’alleato
germanico”, sebbene fosse un tassello della manovra sabauda
per giungere alla pace. Attraverso canali dei più disparati, si
cercò un produttivo contatto con le potenze alleate,
cercando di ricostruire quei passaggi delle trattative già
intessute da Maria José, consorte di Umberto II di Savoia,
che potevano stavolta meritare l’avallo del re.
Fu a Lisbona che si decise di agire e fu qui che venne inviato
il generale Giuseppe Castellano, per prendere contatti con
le armate avversarie per rendere loro nota la disponibilità di
Roma alla resa [14].
12. Dino Grandi
13. Pietro Badoglio
14. Giuseppe Castellano
La proposta in realtà non era considerata con grande
euforia da parte alleata, in quanto le sorti della guerra erano
già avviate verso una probabile prossima sconfitta delle
armate italiane, e dunque la resa avrebbe sì significato
un’accelerazione del decorso bellico, ma avrebbe anche
limitato i vantaggi che le forze alleate avrebbero potuto
ricavarne, primo fra tutti la conquista.
Da autorevoli commenti successivi, ed anche dalla vasta
memorialistica prodotta nel dopo-guerra dai soggetti
coinvolti, si è dedotto che comunque fu l’incertezza nei
rapporti fra le potenze alleate, e l’intento di evitare, a
guerra ancora aperta, pericolose frizioni di interesse fra loro,
che spinse gli alleati ad accettare di parlarne con concreta
attenzione. Se l’Italia fosse stata conquistata, ad esempio,
dagli statunitensi, la Gran Bretagna e l’URSS avrebbero
ovviamente distinto le loro posizioni per garantirsi equilibri
che ne pareggiassero la strategica acquisizione, ed
avrebbero combattuto per loro conto, forse anche contro gli
stessi statunitensi. In più, in una eventuale spartizione, era
assolutamente da evitare che l’Italia cadesse in mano
britannica, giacché Londra avrebbe potuto monopolizzare il
traffico commerciale, coloniale e soprattutto petrolifero del
Mediterraneo.
Accettare la resa rinunciando a conquistare l’Italia divenne
dunque un male minore, per il quale spendere molte energie
diplomatiche, anche contro la talvolta indisponente parata
dei rappresentanti italiani; e tanto si fece, da parte
americana e degli altri alleati.
Il 30 agosto Badoglio convocò Castellano, rientrato il 27 da
Lisbona con qualche prospettiva; il generale comunicò la
richiesta di un incontro in Sicilia, avanzata dagli Alleati per
il tramite dell’ambasciatore britannico in Vaticano, D’Arcy
Osborne (che collaborava a stretto contatto con il collega
statunitense Myron Charles Taylor).
Badoglio, ritenendo per suo conto che vi fossero anche gli
spazi per una trattativa nella quale contrattare e “vendere” la
resa a buon prezzo, quantunque si trattasse in realtà di una
supplice richiesta di cessazione delle ostilità, chiese a
Castellano di farsi portavoce di alcune proposte presso gli
Alleati: in particolare Castellano avrebbe dovuto insistere sul
fatto che l’Italia avrebbe accettato l’armistizio solo a
condizione che prima si effettuasse un massiccio sbarco
alleato nella penisola.
Tra le tante altre condizioni che furono richieste agli alleati,
talune poste solo per il dovere di porne, solo quella di
inviare 2.000 unità paracadutate su Roma per la difesa della
Capitale fu accolta, anche perché in parte già prevista dai
piani alleati ma poi snobbata all’atto pratico dagli stessi
comandi italiani.
Il 31 agosto il generale Castellano arrivò in aereo a Termini
Imerese e fu quindi trasferito a Cassibile, nei pressi di
Siracusa.
I colloqui videro le parti relativamente distanti: Castellano
chiese garanzie agli Alleati rispetto alla inevitabile reazione
tedesca contro l’Italia alla notizia della firma dell’armistizio
e, in particolare, uno sbarco alleato a nord di Roma
precedente all’annuncio dell’armistizio; da parte alleata si
ribatté che uno sbarco in forze e l’azione di una divisione di
paracadutisti sulla capitale sarebbero stati in ogni caso
contemporanei e non precedenti alla proclamazione
dell’armistizio. In serata Castellano rientrò a Roma per
riferire.
Il giorno successivo Castellano fu ricevuto da Badoglio;
all’incontro parteciparono il ministro degli esteri Raffaele
Guariglia e i generali Vittorio Ambrosio e Giacomo
Carboni. Emersero posizioni non coincidenti: Guariglia e
Ambrosio ritenevano che le condizioni alleate non potessero
a quel punto che essere accettate; Carboni dichiarò invece
che il Corpo d’armata da lui dipendente, schierato a difesa
di Roma, non avrebbe potuto difendere la città dai tedeschi
per mancanza di munizioni e carburante. Badoglio, che
nella riunione non si pronunciò, fu ricevuto nel pomeriggio
dal re Vittorio Emanuele III, che decise di accettare le
condizioni dell’armistizio.
Un telegramma di conferma fu inviato agli Alleati; in esso si
preannunciava anche l’imminente invio del generale
Castellano. Il telegramma fu intercettato dalle forze tedesche
in Italia che, già in sospetto di una simile possibile
soluzione, presero a mettere sotto pressione, attraverso il
comandante della piazza di Roma, Badoglio: questi
enfaticamente spese molte volte il giuramento e la parola
d’onore del generale più medagliato d’Italia per smentire
qualsiasi rapporto con gli americani, ma in Germania
cominciarono ad organizzare delle contromisure.
Il 2 settembre Castellano ripartì per Cassibile, per dichiarare
l’accettazione da parte italiana del testo dell’armistizio; non
aveva tuttavia con sé alcuna autorizzazione scritta a
firmare. Badoglio, che non gradiva affatto che il suo nome
fosse in qualche modo legato alla sconfitta, cercava di
apparire il meno possibile e non gli aveva fornito deleghe
per la firma, auspicando evidentemente che gli Alleati non
pretendessero altri impegni scritti oltre al telegramma
spedito il giorno precedente.
Castellano sottoscrisse il testo di un telegramma da inviare a
Roma, redatto dal generale Bedell Smith, in cui si
richiedevano le credenziali del generale, cioè l’autorizzazione
a firmare l’armistizio per conto di Badoglio, che non
avrebbe più potuto evitare il coinvolgimento del suo nome;
si precisò che, senza tale firma, si sarebbe prodotta
l’immediata rottura delle trattative. Ciò, naturalmente,
perché in assenza di un accredito ufficiale, la firma di
Castellano avrebbe impegnato solo lo stesso generale, certo
non il governo italiano. Nessuna risposta pervenne tuttavia
da Roma. Al che, nella prima mattinata del 3 settembre,
Castellano per sollecitare la delega, inviò un secondo
telegramma a Badoglio, il quale questa volta rispose quasi
subito con un radiogramma in cui chiarì che il testo del
telegramma del 1º settembre era già una implicita
accettazione delle condizioni di armistizio poste dagli Alleati.
Ma di fatto continuava comunque a mancare una delega a
firmare: si dovette attendere un ulteriore telegramma di
Badoglio, pervenuto solo alle 16:30, che finalmente
conteneva una esplicita autorizzazione che permettesse a Castellano
di firmare il testo dell’armistizio per conto di Badoglio e che
presenti in tutta la penisola poterono far scattare
l’Operazione Achse (secondo i piani già predisposti sin dal 25
luglio dopo la destituzione di Mussolini) occupando
tutti i centri nevralgici del territorio nell’Italia settentrionale e
centrale, fino a Roma, sbaragliando quasi ovunque l’esercito
italiano: la maggior parte delle truppe fu fatta prigioniera e
subì l’internamento in Germania, mentre il resto andava allo
sbando e tentava di rientrare al proprio domicilio. Di questi
ultimi chi non vi riusciva si dava alla macchia andando a
costituire i primi nuclei del movimento partigiano.
Nonostante alcuni straordinari episodi di valore in patria e
su fronti esteri (uno dei più celebri è quello che si concluse
con l’eccidio di Cefalonia), quasi tutta la penisola cadde sotto
la pronta occupazione tedesca e l’esercito venne disarmato,
mentre l’intera impalcatura dello Stato cadde in sfacelo.
Solo in Sardegna ed in Corsica le Forze Armate italiane
riuscirono insieme a quelle francesi a sconfiggere e mettere
in fuga il nemico tedesco. A Napoli, invece, fu necessaria la
sollevazione di tutta la popolazione per scacciare i nazisti.
15. Il generale Castellano firma l’armistizio con gli angloamericani
informava che la dichiarazione di autorizzazione era
stata depositata presso l’ambasciatore britannico in Vaticano
D’Arcy Osborne.
A quel punto si procedette alla firma del testo
dell’armistizio ‘breve’ [15]. Fu allora bloccata in extremis dal
generale Eisenhower la partenza di cinquecento aerei già in
procinto di decollare per una missione di bombardamento
su Roma, minaccia che aveva corroborato lo sveltimento
delle ritrosie di Badoglio e che senza molto dubbio sarebbe
stata attuata se la firma fosse saltata.
A Castellano furono solo allora sottoposte le clausole
contenute nel testo dell’armistizio ‘lungo’, contenente le
clausole aggiuntive per l’effettiva collaborazione italiana alla
guerra contro i tedeschi [16].
Nelle prime ore del mattino del 3 settembre, dopo un
bombardamento aeronavale alleato delle coste calabresi,
ebbe inizio fra Villa San Giovanni e Reggio Calabria lo
sbarco di soldati canadesi e di reparti britannici; si trattò
di un imponente diversivo per concentrare l’attenzione dei
tedeschi molto a sud di Salerno, dove avrebbe avuto invece
luogo lo sbarco principale.
L’armistizio fu reso pubblico alle 19:45 dell’8 settembre dai
microfoni dell’Ente Italiano per le Audizioni Radiofoniche
che interruppero le trasmissioni per trasmettere l’annuncio
precedentemente registrato della voce di Badoglio che
annunciava l’armistizio alla nazione.
Il prematuro annuncio dell’armistizio da parte degli alleati
colse del tutto impreparate e quasi prive di direttive le forze
armate italiane che si trovavano su tutti i fronti.
All’annuncio di Badoglio la confusione regnava totale
nell’esercito italiano: la notizia dell’armistizio fu una
sorpresa e non vi erano ordini né piani, né ve ne sarebbero
stati nei giorni a seguire.
Il mattino successivo il re, la regina e il principe ereditario,
Badoglio, due ministri del Governo e alcuni generali dello
stato maggiore fuggirono da Roma dirigendosi verso il sud
Italia per mettersi in salvo sotto l’esercito Alleato.
Così, mentre avveniva il totale sbandamento delle forze
armate, le armate tedesche della Wehrmacht e delle SS
4. Gli alleati attaccano la penisola: lo sbarco
di Salerno
Protagonista di uno degli episodi più decisivi della seconda
guerra mondiale fu il golfo di Salerno, da Maiori ad
Agropoli. Gli obiettivi dell’operazione erano ben precisi: gli
Alleati volevano allontanare i Tedeschi dall’Italia
Meridionale, impadronirsi delle basi aeree di Foggia,
raggiungere Napoli e liberare Roma.
Possibili alternative al golfo di Salerno erano il golfo di
Gaeta, poi scartato perché localizzato ad una distanza
eccessiva dalla Sicilia, ed il golfo di Napoli, il quale era stato
però minato per evitare gli sbarchi nemici. Il golfo di Salerno
aveva, inoltre, caratteristiche tali da costituire una pianura
di forma triangolare, dominata da colline e montagne che
permettevano ai soldati di controllare la zona attraverso una
vasta visuale. La presenza del fiume Sele, la cui profondità gli
impediva di essere guadato, costituiva un ulteriore punto a
16. Il generale Castellano e Eisenhower si stringono la mano
dopo la firma dell’armistizio
favore della zona in questione; durante il Ventennio fascista,
inoltre, la piana del Sele era stata bonificata. Il capoluogo
di provincia campano vedeva inoltre confluire verso di esso
diverse vie di comunicazione: la Strada Statale 18 Tirrena
Inferiore che tuttora da Napoli giunge a Reggio Calabria; la
Strada Statale 88 dei Due Principati Salerno-Morcone, che
passa per Avellino; la Strada Statale 19 delle Calabrie che
dalla limitrofa Battipaglia passa per Eboli, Agropoli e
Potenza, per giungere infine a Catanzaro; attraverso il Valico
di Chiunzi, infine, si può raggiungere Napoli dalla
vicinissima Vietri sul Mare. Inoltre la rete ferroviaria era già
efficiente nella zona, e nella zona di sbarco c’era addirittura
l’aeroporto di Montecorvino [17].
A distanza di poche ore dallo sbarco alleato, l’8 settembre
1943, Salerno era stata colpita dall’ennesimo
bombardamento: alle 19:45 tutti i residenti vennero
rinchiusi nei rifugi anti-aerei, dove appresero dalla radio e
dal maresciallo Pietro Badoglio che il governo italiano aveva
chiesto un armistizio ed aveva firmato la resa incondizionata.
La notizia fu appresa anche dai 100 000 soldati inglesi e dai
70 000 soldati statunitensi che componevano il corpo di
sbarco: essa suscitò grandi manifestazioni di gioia ed ebbe
sfortunate conseguenze psicologiche, in quanto i soldati si
erano convinti che a Salerno avrebbero trovato folle in festa.
Furono gli ufficiali ad attenuare lo smisurato e fuori luogo
calo di tensione, che avrebbe potuto causare conseguenze
17. Il piano di sbarchi sulla penisola italiana
inimmaginabili al momento dello sbarco.
La forza d’invasione attuò due sbarchi a distanza di 15
chilometri l’uno dall’altro, utilizzando il Sele come
divisore [18]. Le condizioni meteorologiche erano
favorevoli, in quanto la notte era calma e priva di vento,
mentre il cielo era sgombro dalle nubi. L’ora X scattò alle
3:30 del 9 settembre, momento di massima oscurità, utile
per l’occultamento della forza da sbarco, anche se, d’altro
canto, svantaggiosa per le manovre di avvicinamento alla
costa. Furono ben 40 i chilometri di costa interessati
dall’operazione Avalanche [19].
18. Truppe americane sbarcano sul litorale campano
19. Soldati statunitensi sulle spiagge salernitane
19. bis. Cacciatorpediniere inglese spara contro aerei nemici in avvicinamento
I soldati tedeschi, per approvvigionarsi di dolciumi e di
sigarette, scassinarono le tabaccherie e le pasticcerie, mentre i
più spregiudicati della popolazione fecero il resto, incitando i
tedeschi a svellere con i carri armati le porte di tutti i negozi.
Molti cavesi furono spinti al saccheggio in buona fede, per
procurarsi i viveri in quel marasma in cui non era tanta la
preoccupazione di scampare alla morte, quanto quella di
sopravvivere alla fame. Fu saccheggiato il Molino ed il
Pastificio Ferro, e ne furono svuotati i grandi depositi di
pasta e di grano; furono svuotati i magazzini del Consorzio
e furono saccheggiati tutti i negozi del Borgo.
Non mancarono, però, atti di abnegazione e tentativi di
mantenere l’ordine tra i civili da parte dei più generosi.
Alcuni civili furono costretti dai tedeschi a lavori pesanti,
pur sotto le cannonate.
Il 13 settembre i tedeschi sferrarono il consueto contrattacco,
riconquistando Eboli, Battipaglia ed Altavilla Silentina. Il
generale Clark decise allora di far intervenire i paracadutisti
20. Truppe inglesi al riparo di un carro armato tedesco danneggiato
Nel momento in cui i soldati iniziarono a prendere terra,
l’aviazione tedesca diede inizio ad una serie di attacchi aerei
sulle navi in rada e sui mezzi da sbarco, provocando gravi
perdite tra le file alleate [19bis]. Per risposta i cacciatorpediniere
alleati dapprima misero a silenzio l’aviazione, e poi con la
novità dell’utilizzo dei lanciarazzi, misero a tacere anche le
difese costiere. Gli attaccanti riuscirono però a superare quei
duri attacchi e i Commandos della Special Service Brigade
sbarcarono senza difficoltà a Marina di Vietri. Nel frattempo
anche l’altro corpo speciale, i Rangers, era sbarcato a
Maiori. All’apparire dell’alba gli alleati erano arrivati alle
porte di Cava de’ Tirreni ed una loro pattuglia ebbe un
primo scontro a fuoco con i tedeschi sul ponte di San
Francesco. Una camionetta inglese entrò perfino nell’abitato
e distribuì sigarette e cioccolata. Poi i tedeschi concentrarono i
loro carri armati lungo il Corso Umberto per tenerli al
riparo dalle batterie alleate dal mare, e dall’aviazione dal cielo.
La popolazione abbandonò il Borgo e si rifugiò in massa
nella Badia dei Benedettini o si sparpagliò per la campagna
riparandosi nelle case coloniche.
dell’82ª Divisione Aviotrasportata statunitense ma senza i
risultati attesi. Fu così che il generale Alexander decise di
optare per l’intervento della squadra navale: un duro risvolto
si ebbe sulla popolazione civile a causa dei bombardamenti
aerei, apocalittici per entità, terrore ed orrori [20].
Il 15 settembre i tedeschi diedero inizio ad un piano di
ritiro graduale, che prevedeva l’attuazione della “politica
della terra bruciata”, ovvero la distruzione di tutto ciò che
era impossibile portar via e la cattura degli uomini da
condurre nei campi di concentramento.
L’offensiva finale vide la luce il 23 settembre: in quel giorno, fu
superato con le armi il Passo di Molina di Vietri per
giungere a liberare l’Agro Nocerino Sarnese e portare
l’ultimo attacco verso Napoli. La resistenza tedesca fu
decisa, specialmente quando, oltrepassata Molina, le unità
alleate si diressero verso Cava de’ Tirreni. Proprio la mattina del
23 settembre, un carro armato tedesco si accingeva a salire
verso la Badia per un’ azione di rappresaglia contro la
popolazione ivi rifugiata; ma nella strettoia che la strada
compie a Sant’Arcangelo, non potette proseguire oltre.
Alcuni sconsiderati si fermarono a guardare, ed i tedeschi del
carro armato, adirati dall’inconveniente o forse nell’intento di
compiere egualmente la rappresaglia, scaricarono su quegli
sconsiderati una sventagliata di mitragliatrice. Prima di
abbandonare Cava, i tedeschi provvidero a far saltare il ponte di
San Francesco sulla strada nazionale e il ponte sulla ferrovia
presso Villa Alba, allo scopo di ritardare l’avanzata degli
anglo-americani, i quali però in poche ore buttarono un
ponte di ferro e legno sul ponte San Francesco ristabilendo
immediatamente la comunicazione con Salerno, mentre
per l’avanzata dei loro carri armati si erano serviti della strada
ferrata che i tedeschi non avevano toccato. Altre mine furono
poste dai tedeschi agli altri ponti di Cava e sugli incroci
stradali, ma non ebbero il tempo di farle brillare.
Il 28 settembre la battaglia di Cava era conclusa e gli Alleati,
procedendo verso l’Agro e superandolo, dopo ventidue giorni
e 54 chilometri di combattimenti, alle ore 9:30 del 1º
ottobre ‘43, entrarono a Napoli: l’operazione Avalanche era
conclusa.
Nei venti giorni che durò la battaglia su Cava, si contarono
oltre seicento morti tra la popolazione civile. La spontanea
reazione di altra parte della popolazione alle truppe tedesche
incominciò non appena queste occuparono il borgo con
i carri armati ed i villaggi con postazioni di armi pesanti.
Questa reazione si tramutò altresì in collaborazione con le
truppe alleate, alle quali furono fornite tutte le indicazioni
necessarie ad infrangere la resistenza tedesca senza perdite da
parte dei liberatori [21].
21. Carro armato tedesco tra le vie di un centro abitato campano
22. Le linee difensive tedesche a sud di Roma
dal vicino Caucaso.
Hiler, come suo solito, non volle assolutamente prendere in
considerazione l’idea di una ritirata e si fece assiduo
promotore di una linea di difesa a oltranza su tutto il
territorio italiano sostenendo che, una resistenza prolungata
in Italia meridionale avrebbe avuto come effetto il ritardo
dei preparativi di attacco degli alleati al territorio jugoslavo.
Sotto il comando del feldmaresciallo Albert Kesserling, i
tedeschi disposero quindi tre sistemi difensivi paralleli,
distanti l’uno dall’altro una ventina di chilometri nel punto
più stretto della penisola italiana.
La prima linea di difesa, la più meridionale, era la cosidetta
Linea d’Inverno o Linea Reinhard, che andava dal fiume
23. Paracadutista tedesco brandeggia una mitragliatrice MG
5. Cassino. La battaglia per l’abbazia
Dal punto di vista delle operazioni militari, l’Italia si
presentava per gran pare una terra ideale per i difensori.
Appena superata una barriera formata da una montagna o
da un fiume, un nuovo ostacolo si presentava a bloccare la
via che avrebbero dovuto seguire le truppe attaccanti.
Inoltre, le poche zone pianeggianti risultavano troppo poco
estese per consentire agli Alleati un massiccio impiego di
mezzi corazzati.
Dopo i successi in Sicilia e a Salerno, Hitler modificò la strategia
che aveva applicato in Italia per tutto il 1943. In precedenza,
temendo eventuali sbarchi alleati lungo gran parte della
penisola italiana, egli aveva previsto di fare arretrare gran parte
delle truppe a nord di Roma e approntare una linea difensiva
nell’Italia settentrionale, convinto inoltre che gli Alleati, una
volta conquistata Foggia e il suo aeroporto, si sarebbero
diretti verso i Balcani, rinunciando ad addentrarsi in Italia.
Tuttavia, verificatisi tali fatti, i tedeschi cominciarono a
rendersi conto che una ritirata verso l’Italia settentrionale
avrebbe messo gli alleati in una situazione strategica
estremamente favorevole, consapevoli del fatto che la
perdita del territorio balcanico e della Grecia avrebbe messo
a rischio l’indispensabile fornitura di carburante proveniente
Sangro sull’Adriatico fino alla foce del fiume Garigliano
passando per Mignano Montelungo.
La seconda e più importante, che aveva la base sul fiume
Garigliano e su Cassino, divenne nota come la Linea
Gustav.
La terza, chiamata Linea Hitler, si snodava lungo la direttrice
Pontecorvo – Aquino – Piedimonte San Germano [22].
La battaglia di Cassino, nelle sue quattro fasi, è considerata
ancora oggi uno degli scontri bellici più importanti e discussi
della Seconda Guerra Mondiale.
Essa fu costituita da un insieme di tentativi di conquistare la
città di Cassino e di superare la Linea Gustav che gli Alleati
attuarono in fasi susseguenti e che hanno portato gli storici
a parlare di “battaglie per Cassino”.
Terminata la battaglia di Montelungo e superata la Linea
Invernale, gli alleati verso la metà del gennaio 1944 si
ritrovarono di fronte alla Linea Gustav.
La linea fortificata era costituita da posizioni protette di
mitragliatrici e mortai, ricoveri per le truppe, estesi campi
minati e centinaia di chilometri di filo spinato. Il punto
focale di quella linea era costituito da Cassino e
Montecassino, capisaldi a difesa della valle del Liri [23].
Il piano alleato per il forzamento della linea Gustav era
24. Truppe marocchine durante una pausa per il rancio
25. Soldati inglesi nei dintorni di Minturno
piuttosto ambizioso: l’obiettivo finale era l’occupazione di
Roma. Con una serie di attacchi combinati i comandi
alleati si prefiggevano il superamento delle difese tedesche
nella valle del Liri, unica zona pianeggiante che consentisse
lo spiegamento in massa dei reparti corazzati che
disponevano gli attaccanti.
Da un punto di vista strategico l’operazione fu articolata in
tre fasi principali.
La prima consisteva in una seria di attacchi nella valle del
Liri e sulle alture ad essa circostanti con lo scopo di attirare
verso le alture ad essa circostanti le riserve tedesche.
Successivamente una forza anfibia sarebbe sbarcata ad Anzio
per creare scompiglio alle spalle del fronte principale e
minacciare la vie di rifornimento tedesche.
A questo punto, secondo le intenzioni degli Alleati, i
tedeschi sarebbero stati costretti ad abbandonare la Linea
Gustav e a intraprendere una rapida ritirata, permettendo
così al fronte adriatico di poter avanzare superando le difese
tedesche.
Il 12 gennaio il corpo di spedizione francese del generale
Juin fu il primo a iniziare il combattimento. L’attacco si
verificò a circa venti chilometri a nord di Cassino e puntava
verso la città di Atina. Si trattava tuttavia di un diversivo,
poiché serviva solo ad impegnare le truppe presenti in quel
settore. Le truppe, composte per lo più da marocchini e
algerini, pur subendo notevoli perdite, ottennero sensibili
risultati ma, non avendo ricevuto rinforzi, si fermarono il 22
gennaio [24].
Nel frattempo, il 17 gennaio, era iniziato l’attacco di tre
divisioni britanniche lungo il corso inferiore del fiume
Garigliano. Due di queste stabilirono delle teste di ponte
nei pressi di Minturno e Castelforte, ma furono duramente
contrattaccate e fermate dalle truppe che i tedeschi avevano
celermente fatto affluire dalle retrovie [25].
La terza divisione inglese attaccò in direzione di
Sant’Ambrogio, avendo l’importantissimo compito di
proteggere il fianco sinistro americano che doveva forzare il
passaggio nella valle del Liri. Tuttavia, dopo gravi perdite, le
truppe britanniche non riuscirono ad attraversare il
Garigliano e dovettero ritirarsi [26].
26. Soldati canadesi al riparo di una abitazione
Nonostante questo primo insuccesso, il generale
americano Clark decise di rispettare il piano originale e
diede il via all’assalto nella valle del Liri. Gli americani
attaccarono la notte del 20 gennaio con una divisione sui
due lati di Sant’Angelo in Theodice, a circa 5 chilometri
di Cassino. Soltanto poche compagnie poterono guadare il
fiume Gari sotto un diluvio di fuoco scatenato dai granatieri
tedeschi. La notte seguente gli americani ripeterono
l’attacco senza successo e i pochi superstiti dovettero
riattraversare il Gari per ritirarsi. Il prezzo pagato fu
altissimo: 1681 fra morti e feriti [27].
Poiché tutti gli attacchi pianificati dagli Alleati per sfondare
27. Soldati americani sparano con un bazooka
la Linea Gustav erano falliti, il generale Clark fu costretto
a ideare un’azione alternativa. Dato che la valle del Liri era
impenetrabile egli ordinò un attacco contro Cassino. Il 24
gennaio gli americani attaccarono pochi chilometri a nord
della cittadina. Dopo giorni di combattimenti durissimi nel
pieno di un inverno molto rigido i fanti erano riusciti ad
occupare una serie di colline in prossimità dell’abbazia di
Montecassino. I reparti tedeschi furono decimati ma ricevettero
rinforzi freschi e truppe scelte della temibile 1° divisone
paracadutisti. I combattimenti interessarono anche la
periferia nord di Cassino, dove gli americani furono più volte
respinti dall’ostinata difesa tedesca. Le perdite subite dagli
attaccanti non consentirono loro di effettuare il balzo decisivo
verso la valle del Liri e l’offensiva americana si concluse il 12
febbraio, dopo avere respinto diversi contrattacchi [28].
Mentre si combatteva verso l’abbazia, più a nord il corpo di
spedizione francese aveva iniziato un’azione di supporto per
proteggere il fianco destro americano. Gli algerini iniziarono
il 25 gennaio un attacco diversivo verso Colle Belvedere e
Colle Abate: quello che seguì fu un combattimento con una
irruenza e una determinazione da ambo le parti che
rasenta l’incredibile. Diverse alture furono conquistate,
perse e quindi riconquistate più volte. Le truppe coloniali
francesi avevano ancora una volta assolto il loro compito
impegnando i tedeschi ma questi ultimi persero solo alcune
posizioni [29].
29. Truppe coloniali francesi appostate a difesa di un crinale
28. Paracadutisti tedeschi alle porte di Cassino
Nello stesso giorno in cui gli americani venivano respinti
30. Carri armati Sherman sbarcano ad Anzio
sul Gari, altre truppe sbarcarono ad Anzio la mattina del 22
gennaio. La zona era scarsamente presidiata dai tedeschi e i
reparti alleati presero terra in fretta e senza essere contrastati
[30]. A causa di incertezze nei livelli più alti di comando, le
truppe a terra non si diressero come era logico aspettarsi
verso i Colli Albani, ma percorsi alcuni chilometri dalle
spiagge si attestarono a difesa della testa di sbarco. Quella
perdita di tempo prezioso diede ai comandi tedeschi
l’opportunità di dispiegare forze sufficienti per circondare le
avanguardie alleate [31].
Nei giorni susseguenti la situazione strategica si capovolse.
A Cassino il fronte principale era stato solo intaccato, mentre
ad Anzio i tedeschi minacciavano una vigorosa controffensiva
che avrebbe potuto rigettare gli americani in mare.
Così le forze sbarcate ad Anzio, che dovevano servire ad
agevolare l’offensiva principale, avevano bisogno di aiuto.
Invece, le forze sul fronte principale che avrebbero dovuto
beneficiare dell’operazione anfibia, dovevano riprendere
l’offensiva fallita per correre in soccorso delle truppe di Anzio.
Gli Alleati, che non potevano permettersi perdite di tempo,
si organizzarono per riprendere gli attacchi verso Cassino.
Poichè tutte le truppe americane erano state impiegate, il
generale Alexander, comandante di tutte le forze armate
alleate in Italia decise lo spostamento di tre divisioni dal
fronte adriatico a quello di Cassino. Queste avrebbero
formato un corpo d’armata provvisorio. Delle tre unità
inviate, la divisione indiana diede il cambio agli americani
sulle colline di fronte a Monte Cassino, i neozelandesi si
attestarono di fronte alla città di Cassino mentre la divisione
britannica era in ritardo nell’attraversamento degli Appennini
stretti nella morsa dell’inverno [32].
Prima di dar via all’attacco, il generale neozelandese
31. Soldati americani sulle spiagge laziali
32. Soldati indiani appostati con una mitragliatrice
34. L’abbazia di Montecassino dopo il bombardamento
33. L’abbazia di Montecassino oggi
Freyberg portò avanti con insistenza la richiesta di
bombardare l’abbazia di Montecassino [33]. Sia lui
che i suoi sottoposti ritenevano necessario
distruggere l’edificio che secondo molti era stata la
causa dei falliti attacchi precedenti. La richiesta di
bombardamento scatenò una polemica che si
trascinò anche dopo la fine della guerra. In sostanza,
i comandanti americani erano contrari al
bombardamento, mentre quelli inglesi erano
favorevoli.
I generali non erano sicuri della presenza di reparti
nemici all’interno dell’edificio, anche se i tedeschi
avevano dichiarato di non farne un uso militare. In
ogni caso Freyberg riteneva che l’abbazia dovesse
essere bombardata con o senza i tedeschi all’interno
e alla fine il generale Alexander diede il consenso
al bombardamento. A seguito di questa azione, le
truppe indiane avrebbero attaccato direttamente
l’abbazia, mentre i neozelandesi avrebbero assalito
Cassino [33bis].
Alle 9:30 del 15 febbraio iniziò il bombardamento
dell’abbazia di Montecassino. Con ondate successive,
230 aerei sganciarono 380 tonnellate di bombe sul
loro obiettivo. Il bersaglio fu centrato in pieno,
anche se molte bombe caddero fuori zona
causando perdite fra le truppe alleate. La
distruzione fu totale e nel bombardamento
trovarono la morte molti civili che si erano
rifugiati tra le mura [34] [35].
33. bis. B-17 La Fortezza Volante
36. Soldati tedeschi con mortaio
A causa di una serie di imprevisti e malintesi, quando
l’abbazia fu bombardata le truppe indiane destinate all’attacco
non erano ancora pronte all’azione. Inoltre, prima di
assalire direttamente le rovine dell’edificio, occorreva
occupare una collina in mano ai tedeschi che ne impediva
l’avvicinamento. La sera del 15 febbraio partì l’assalto della
cosiddetta quota 593 che fu respinto con forti perdite da
parte indiana. La sera successiva la stessa collina fu attaccata
nuovamente con lo stesso risultato. La sera del 17 febbraio
si ripeté per la terza volta l’attacco. La lotta fu durissima,
ma all’alba del 18 gli indiani dovettero ritirarsi ancora una
volta. I paracadutisti tedeschi, che da alcuni giorni avevano
occupato il settore, avevano dato del filo da torcere agli
attaccanti meritandosi la fama che ancora oggi le è
riconosciuta per la difesa di Cassino [36].
La sera del 17 febbraio, mentre gli indiani partivano per il loro
attacco verso l’abbazia, i neozelandesi attuarono la loro azione
offensiva verso Cassino. Il terreno nella parte meridionale della
cittadina intriso d’acqua a causa del maltempo precluse
l’utilizzo di carri armati, pertanto le truppe neozelandesi
scelsero di seguire il tracciato della linea ferroviaria
Roma-Napoli qual direttrice d’attacco verso la città [37].
37. Le rovine della città di Cassino
35. Altra immagine delle rovine di Montecassino
Sul terrapieno della ferrovia, tuttavia, i tedeschi
avevano creato profonde voragini circondate da
mine, filo spinato e altri ostacoli. Un gruppo di
fucilieri maori in forza alle truppe neozelandesi
riuscirono nella notte a raggiungere e occupare
la stazione ferroviaria di Cassino, ma i
genieri neozelandesi che lavoravano alle loro
spalle non furono in grado di rimuovere
l’ultimo degli ostacoli presenti prima dell’alba, e
con la luce del giorno l’artiglieria tedesca rese
impossibile il proseguimento dei lavori [37bis].
I maori rimasero quindi isolati e, senza
l’appoggio di carri armati, furono respinti da un
contrattacco tedesco. L’offensiva affrettata e mal
organizzata non portò così a nessun vantaggio
per gli alleati, mentre ai tedeschi servì a
rafforzare la fiducia in loro stessi [38].
37. bis. Soldati Maori si apprestano a raggiungere le prime linee
Esauritosi anche questo secondo tentativo di
sfondamento, gli stati maggiori alleati iniziarono
a preparare un terzo piano per oltrepassare la
Linea Gustav. Si stabilì che la nuova offensiva
non sarebbe iniziata prima della metà di
maggio, non solo per permettere alle unità stremate
dai combattimenti di riorganizzarsi, ma anche
per disporre di condizioni metereologiche
favorevoli e del terreno asciutto e compatto per
il miglior utilizzo dei reparti corazzati [39].
Mentre l’operazione era allo studio, il generale
Freyberg ottenne l’autorizzazione a effettuare un
nuovo attacco limitato per occupare Cassino e
Montecassino. L’idea consisteva nell’effettuare
38. Artiglieri neozelandesi bombardano la città di Cassino
39. Tiger tedesco danneggiato
un bombardamento a tappeto su Cassino per annientare le
difese tedesche. Successivamente, i neozelandesi avrebbero
attaccato direttamente la città, seguendo la stessa direttrice
da nord utilizzata dagli americani in gennaio. Una volta
occupata la parte settentrionale di Cassino, la divisione indiana
avrebbe iniziato un attacco in salita dalla città all’abbazia.
I generali a livello più alto non nutrivano eccessiva fiducia
nel piano, ma acconsentirono ad esso perché un eventuale
successo avrebbe reso disponibile una base di partenza
nella valle del Liri da utilizzare nella futura grande offensiva,
mentre in caso di insuccesso le perdite sarebbero state solo le
divisioni neozelandese e indiana.
40. Rovine di Cassino
41. Soldati neozelandesi alle porte di Cassino
42. Soldati neozelandesi nei pressi dell’Hotel Continental
43. Soldato Gurkha con il tipico coltello nepalese si arrampica sulla Collina del Boia
In aderenza al piano, l’assalto della fanteria fu preceduto da
un altro spaventoso bombardamento. 455 aerei sganciarono
992 tonnellate di bombe su Cassino e i paracadutisti
tedeschi che in essa erano asserragliati [40]. Secondo una stima
successiva, ogni difensore della città ricevette circa quattro
tonnellate di esplosivo, ma nonostante ciò i paracadutisti
tedeschi sopravvissero in gran numero sfruttando i rifugi
sotterranei e una grande caverna situata ai piedi di
Montecassino. Appena terminato il bombardamento la
fanteria neozelandese si mosse. Essi combatterono duramente
contro una inaspettata e accanita resistenza offerta dai
paracadutisti tedeschi superstiti [41]. I carri armati
attaccanti furono bloccati dalle macerie e poterono dare solo
un appoggio limitato alla fanteria. Nonostante tutte le difficoltà
e le pesanti perdite, dopo tre giorni di combattimento i
neozelandesi avevano raggiunto e occupato il castello di
Rocca Janula e la stazione ferroviaria di Cassino. Ma il
nocciolo duro dei paracadutisti resisteva contro ogni assalto
nella zona dell’Hotel Continental, ai piedi di Monte Cassino.
A causa delle macerie, gli scontri si frazionarono a livello di
squadra. I neozelandesi dovevano combattere per occupare
singole stanze degli edifici demoliti, mentre i tedeschi
avevano ampie possibilità di occultamento e quindi di tendere
imboscate al nemico.
Nell’abitato di Cassino i combattimenti durarono fino al 24
marzo, poi i neozelandesi furono costretti a sospendere gli
attacchi: i tedeschi avevano retto l’urto contro ogni aspettativa
[42].
Nel frattempo, il 15 marzo, le truppe indiane vissero una
particolare odissea nel tentativo di occupare l’Abbazia. Il
piano prevedeva di raggiungere una serie di obbiettivi
disseminati lungo la montagna fino a Montecassino.
Avanzando a tergo delle truppe neozelandesi, i battaglioni
indiani dovevano per prima cosa prendere in consegna il
castello di Rocca Janula. Poi dovevano conquistare due curve
a gomito della strada che sale al monastero per poi puntare
sulla cosiddetta collina del Boia. Da quest’ultima posizione
sarebbe partito l’attacco diretto a Montecassino.
Nelle notti e nei giorni seguenti gli indiani occuparono la
prima delle due curve a gomito, ma nonostante i ripetuti
assalti non riuscirono a mettere piede in modo stabile sulla
seconda curva. Mentre avvenivano questi attacchi, nel corso
di due notti un intero battaglione dei temibili Gurkha
nepalesi in forza all’esercito inglese riuscì ad aggirare
l’ostacolo e ad occupare la collina del Boia [43].
Si era creata una situazione paradossale: i Gurkha erano
prossimi all’obbiettivo finale, ma erano isolati. I rinforzi
45. Soldati inglesi lanciano granate contro il nemico
44. Soldato tedesco in osservazione
dovevano arrivare dal castello, ma non potevano muoversi
in forze perché i tedeschi controllavano ancora la seconda
curva.
Il generale Heidrich, comandante dei paracadutisti, si rese
conto della crisi nel dispositivo della divisione indiana e ordinò
un contrattacco verso il castello di Rocca Janula [44].
All’alba del 19 marzo un battaglione di paracadutisti scese
dall’Abbazia e assalì il castello. Fu una battaglia in stile
medievale: gli attaccanti raggiunsero le mura e tentarono di
scalarle o di demolirle con l’esplosivo. Dall’interno, la
guarnigione formata in massima parte da soldati di un
battaglione inglese si difese disperatamente.
I paracadutisti attaccarono inutilmente il castello per
quattro volte, anche con forze provenienti dalla città, furono
decimati, ma mandarono in aria i piani alleati per quel giorno.
Infatti quel battaglione inglese aveva appena iniziato ad
inviare le sue truppe in rinforzo ai Gurkha sulla collina del
Boia per poi assalire l’abbazia. Anche il battaglione inglese fu
decimato e l’attacco verso l’abbazia fu annullato [45].
L’ultimo atto in quella difficile giornata del 19 marzo si
consumò tra le colline a nord dell’abbazia. Gli Alleati
avevano progettato un attacco con i carri armati da
effettuarsi in contemporanea all’assalto della fanteria
Gurkha e inglese dalla collina del Boia verso l’abbazia.
Poiché, come abbiamo visto, quest’ultimo assalto non si
verificò mai, sarebbe stato sensato annullare anche l’azione
con i carri armati. Ma per quei fatali disguidi che si
verificano spesso in guerra, nessuno informò i carristi ed essi
si avviarono al loro destino.
La formazione corazzata era composta da squadroni indiani,
neozelandesi e americani per un totale di 35 mezzi. I tedeschi
rimasero esterrefatti nel veder spuntare dal nulla quei carri
armati, ritenevano impossibile il loro impiego tra le montagne,
ma presto si accorsero che gli attaccanti erano sprovvisti di
fanteria di appoggio. Così i paracadutisti tedeschi misero in
atto le tattiche di attacco ravvicinato ai veicoli corazzati e la
battaglia fu durissima. Per alcune ore i carri armati attaccarono
Masseria Albaneta, una grande fattoria che costituiva un
forte caposaldo tedesco. Alcuni mezzi si diressero verso
l’abbazia, ma furono distrutti prima che potessero avvicinarvisi.
Quando l’attacco fu sospeso 25 carri
armati alleati erano stati distrutti o danneggiati [46].
46. Carri armati americani catturati dai tedeschi
Come già accennato, i combattimenti nella Cassino distrutta
continuarono fino al 24 marzo. I neozelandesi non riuscirono
a respingere i paracadutisti tedeschi fuori dalle macerie e
la terza battaglia si concluse con un altro insuccesso per gli
Alleati.
Dopo la fine della terza battaglia, il fronte di Cassino si
stabilizzò per quasi due mesi. Gli Alleati riorganizzarono il
loro assetto e ricevettero rinforzi, erano inoltre in attesa della
bella stagione per sfruttare la superiorità numerica dei carri
armati su terreno compatto. Anche i tedeschi si riorganizzarono,
ma non ricevettero rinforzi.
La sera dell’11 maggio il fronte era tranquillo più che mai,
poi alle 23:00 sulle linee tedesche si scatenò un diluvio di
fuoco ad opera di quasi mille cannoni alleati. Il terrificante
bombardamento durò più di un’ora e si estese da Cassino
fino al Mar Tirreno. Era l’inizio della quarta e ultima
battaglia per la Linea Gustav [47].
La poderosa offensiva alleata fu intrapresa da quattro corpi
d’armata che attaccarono contemporaneamente su tutto il
fronte.
Il settore tirrenico fu affidato agli americani che ora
comprendevano due divisioni appena giunte dagli Stati Uniti.
Più all’interno, sui Monti Aurunci, fu schierato il corpo di
spedizione francese che da due era passato a quattro divisioni.
La valle del Liri, come sempre il punto focale dell’operazione,
era competenza del corpo britannico, su tre divisioni. Al
corpo polacco, da poco giunto in Italia, fu assegnato il settore
più difficile, quello di Montecassino [48].
Durante il primo giorno dell’offensiva, tutti e quattro i
corpi d’armata ottennero limitati successi e subirono forti
perdite, in particolare i polacchi. Nei giorni seguenti la
situazione si volse a vantaggio degli Alleati. Lo sfondamento
della Linea Gustav avvenne ad opera dei reparti coloniali del
corpo di spedizione francese che il 13 maggio occuparono
Monte Maio, spaccando in due la linea tedesca. Kesselring
e il suo stato maggiore furono colti di sorpresa: nessuno si
aspettava un forte attacco nell’aspro settore dei Monti
Aurunci. In verità, neanche gli Alleati si aspettavano un
successo in quel punto, essi miravano alla valle del Liri dove
gli inglesi erano riusciti a superare il Fiume Gari, ma
incontravano una notevole resistenza [48 bis].
I tedeschi poterono inviare solo limitati rinforzi verso la prima
linea: le condizioni meteorologie favorevoli permettevano ai
cacciabombardieri alleati di intercettare le colonne di
veicoli tedeschi e di colpirle duramente. Tuttavia, nel quadro
generalmente favorevole che andava delineandosi per gli
Alleati vi era una macchia d’ombra: Montecassino. I polacchi,
che attaccarono con due divisioni le medesime colline
assalite nelle battaglie precedenti, ebbero perdite disastrose
[49]. Il loro secondo grande attacco fu effettuato nella notte
tra il 17 e il 18 maggio, proprio quando i paracadutisti di
Heidrich avevano ricevuto l’ordine di ripiegamento. Ma il
coriaceo generale paracadutista rispose che la sua divisione
si sarebbe ritirata solo con un ordine di Hitler in persona;
in aggiunta i suoi uomini dovevano prima respingere l’attacco
polacco in corso. Così, all’alba del 18 maggio, dopo che
47. Cassino nuovamente bombardata
48. Commandos polacchi discutono appena giunti al fronte
48. bis. Soldati canadesi all’attacco nella valle del Liri
49. Soldati polacchi si inerpicano verso Montecassino
50. Soldati neozelandesi sorvegliano paracadutisti tedeschi prigionieri
Kesselring aveva convinto Heidrich a ritirarsi e dopo che i
polacchi erano stati fermati, i paracadutisti abbandonarono
Cassino e l’abbazia [50].
I polacchi ebbero l’amara consolazione di occupare il sacro
edificio solo dopo che i difensori se ne erano andati. Le
bandiere polacca e britannica sventolarono sulle rovine di
Montecassino. Le battaglie per la Linea Gustav erano finite,
la guerra proseguiva il suo corso verso la testa di sbarco di
Anzio, raggiunta il 25 maggio e la capitale Roma, liberata
dagli americani il 4 giugno [51].
I quattro mesi di lotta intorno a Cassino erano costati ai
tedeschi circa 80.000 perdite tra morti, feriti e dispersi, agli
Alleati circa 105.000 perdite complessive. Nessuno ha mai
calcolato il numero delle numerose vittime tra i civili
italiani.
52. Fortificazioni sulla Linea Gotica
6. La linea gotica e la battaglia di Rimini
La linea Gotica, già ipotizzata da Rommel subito dopo l’8
settembre 1943, quale estrema difesa dell’Italia
settentrionale, si stendeva dall’Adriatico al Tirreno per circa
320 chilometri lungo gli Appennini. Ai due lati, proseguiva
lungo le coste con tutta una serie di fortificazioni
predisposte per bloccare eventuali sbarchi. Per la sua
realizzazione i tedeschi avevano impiegato circa 15.000
operai, i più costretti a lavorare forzatamente [52].
51. La bandiera polacca sventola sulle rovine dell’abbazia
52. bis. La linea gotica
53. Soldato neozelandese a Faenza
53. bis. Soldati americani marciano a nord di Prato
Non si deve pensare alla Gotica come a una linea continua,
a una sorta di muraglia cinese o di linea Maginot, poiché
essa si limitava a sbarrare all’avanzata angloamericana solo
gli accessi alla pianura padana ed era costituita da una serie
di opere di difesa slegate fra loro che sfruttavano le asperità
del terreno. I punti più deboli delle linea erano le estremità, la
costa tirrenica verso La Spezia e quella adriatica verso Pesaro.
Questi erano tuttavia i punti maggiormente fortificati. Lì, le
difese avevano una profondità di una decina di chilometri.
Nelle zone appenniniche, invece, erano stati fortificati
soltanto i vari passi. Per ordine di Hitler, dopo il 15 giugno,
il nome della Gotica fu cambiato in linea Verde, che in caso
di conquista si sarebbe prestato meno ad essere sfruttato dalla
propaganda nemica. In effetti, la linea appenninica aveva
ormai perduto molta dell’importanza che inizialmente gli
era stata attribuita e sia Hitler che i suoi generali, ormai non
la consideravano più come l’estremo baluardo che
avrebbe dovuto garantire l’arresto definitivo delle armate
alleate. Certo, l’ordine era di resistere sulla Gotica sino
all’estremo, ma, alla pari delle altre linee già predisposte, ci
si affidava ad essa solo per un periodo determinato, sperando
che potesse tenere fino all’inverno, per garantire il prodotto
agricolo della pianura padana. Altre linee difensive, quali fra
tutte quella del Po, l’avrebbero sostituita in caso di
sfondamento. Nonostante il grande dispiego di mezzi utilizzati,
la linea presentava gravi difetti di progettazione, di cui ci si
rese conto solo dopo che le armate destinate alla difesa vi si
erano installate. Alcuni settori ritenuti più deboli non erano
stati rinforzati adeguatamente; mancava completamente una
strutturazione in profondità della linea, i rifornimenti, specie
da nord, erano difficili e resi ancor più problematici dalla
attiva presenza dei partigiani, e vicino al fronte mancavano i
collegamenti trasversali, per cui, i reparti, per passare da un
settore all’altro dovevano ritornare fino alla pianura [52 bis].
Comunque, nonostante mostrasse questi ed altri gravi
difetti, la Gotica risultò un baluardo difficilmente valicabile
e capace di arrestare l’avanzata degli alleati sino alla primavera
dell’anno successivo. I vantaggi offerti dalle sue posizioni
impedirono alle forze alleate di sfruttare la propria netta
superiorità in carri armati e automezzi, costringendole ad
una guerra di logoramento, combattuta soprattutto dalla
fanteria e dall’artiglieria, dove i tedeschi erano molto più
forniti di quanto si crede [53].
In attesa della battaglia decisiva la popolazione viveva nel
terrore dei bombardamenti, sempre più pesanti e frequenti,
con il passare del tempo. Forti della loro superiorità aerea,
gli alleati cercavano infatti di indebolire il nemico colpendolo
dal cielo, in modo tale da impedire l’afflusso dei rifornimenti
alla linea del fronte. Obiettivi primari erano le fabbriche, i
ponti, le linee ferroviarie, i convogli, i depositi di munizioni
e di carburante.
L’offensiva alla linea Gotica, secondo il piano pensato dal
gen. Oliver Leese, ed approvato dal gen. Alexander, prevedeva
due mosse. Prima uno sfondamento delle truppe inglesi e
del Commonwealth nella zona di Rimini, dove il successo
appariva più sicuro e dove si prevedeva che i carri armati, una
volta sfondate le difese nemiche, avrebbero potuto procedere
agevolmente nella pianura senza più incontrare ostacoli.
Con questa mossa si voleva costringere Kesselring a portare
in Romagna il grosso delle proprie truppe, per contenere
l’avanzata e a questo punto, alle sue spalle, sarebbero
intervenuti gli americani che avrebbero attaccato in montagna,
sulla direttrice Firenze-Bologna. In questo modo, il grosso
delle forze tedesche sarebbe rimasto imbottigliato fra
Bologna e le valli di Comacchio e la via verso il nord Italia
sarebbe stata libera [53 bis].
L’importanza di tale offensiva era avvertita soprattutto dalle
truppe britanniche per motivi politici. Nonostante infatti,
con lo sbarco in Sicilia e la successiva liberazione di Roma
si fosse dato il primo assalto a quello che le potenze dell’asse
definivano “fortezza Europa”, nella seconda metà del 1944 si
riteneva generalmente che il fronte italiano avesse perso
importanza. Nel giugno dello stesso anno, infatti, gli
alleati erano sbarcati in Normandia e in Francia
Meridionale, e avevano trasferito in quei settori gran parte
delle truppe dislocate dapprima sulla penisola italiana.
Non era questa l’opinione però di Churchill, che riteneva il
fronte italiano come fondamentale, non per la ormai
probabile sconfitta della Germania, ma per il futuro assetto
politico dell’Europa. Egli era convinto che conquistare fosse
indispensabile per raggiungere e controllare prima
dell’Unione Sovietica la penisola Balcanica. Per questo motivo
spinse i comandi alleati ad infrangere la Linea Gotica, contro
il parere dell’alleato americano, con l’intento di arrivare al più
presto al varco di Lubiana e prevenire l’ingresso dell’Armata
Rossa in Jugoslavia.
L’operazione passò alla storia come l’“offensiva d’estate”, e
comportò ancora un forte tributo di sangue da parte degli
angloamericani [54].
Complessivamente, un milione di uomini proveniente da
26 nazioni differenti fu lanciato contro l’ultimo baluardo
tedesco posto prima delle grandi città italiane. A rispondere a
questa offensiva fu la 10° armata tedesca supportata da altre
sette divisioni provenienti da altri fronti.
Sul fronte adriatico le prime due linee difensive furono sfondate
il 25 agosto 1944 grazie alle forze canadesi, polacche e inglesi.
Il 3 settembre gli alleati puntarono verso Rimini, uno dei
fulcri di questa offensiva [55].
Tra i 4 e il 6 settembre gli alleati iniziarono ad incontrare
le prime difficoltà. I canadesi vennero bloccati a Riccione e
a Coriano, gli inglesi a San Savino. Questi ultimi, nel
tentativo di aggirare le truppe tedesche vennero fermati a
Gemmano con combattimenti tanto cruenti da ricordare la
città come la “Cassino dell’Adriatico”.
Tra il 12 e il 16 settembre un nuovo attacco ebbe miglior
esito per gli alleati. Il fronte tedesco, sconvolto dai
bombardamenti dell’artiglieria alleata venne sfondato, ma
gli inglesi e i canadesi non seppero sfruttare il successo e
avanzare [56].
Solo la mattina del 17 settembre il comando tedesco diede
l’ordine di arretrare davanti a Rimini, e la battaglia si spostò
nella valle del torrente Ausa.
A quel punto gli indiani sfondarono le linee tedesche nei
pressi di San Marino e i canadesi superarono prima il colle
di Covignano, poi il fiume Parecchia all’altezza di San Martino
di Riparotta, costringendo i tedeschi alla ritirata.
Il 21 settembre venne liberata Rimini. I soldati greci, appoggiati
dai carri armati neozelandesi entrarono in una città fantasma,
irriconoscibile, ingombra di macerie. Oltre Rimini
proseguirono i combattimenti. I fucilieri nepalesi gurkha
vennero coraggiosamente decimati a Torriana e Montebello,
prima di riuscire a liberare Santarcangelo [57].
A fine settembre si concluse la battaglia con il successo della
presa di Rimini, porta verso la pianura Padana, ma con
l’arresto dell’avanzata inglese sulle rive del Rubicone e di
quello americano sull’appennino a Monte Battaglia, si perse
l’occasione di arrivare a Milano entro l’inverno.
Solo col nuovo anno, infatti, l’intera Linea Gotica venne
sfondata e in primavera le città del nord Italia furono a una
a una liberate dagli occupanti tedeschi.
54. Soldato canadese dotato di fucile di precisione
55. Soldati alleati avanzano in una città della Romagna
56. Corazzato canadese nei pressi della Linea Gotica
57. Sodati greci assiepati dietro un cumulo di macerie
58. Gruppo di partigiani studia una mappa nel modenese
59. Bandiera del Comitato di Liberazione Nazionale
7. La Resistenza italiana
Con il termine Resistenza italiana, chiamata anche
Resistenza partigiana o più semplicemente Resistenza, si
intende l’opposizione militare e politica condotta
nell’ambito della seconda guerra mondiale contro
l’occupazione dell’Italia da parte della truppe tedesche e
della Repubblica Sociale Italiana da parte di liberi individui,
partiti e movimenti organizzati in formazioni partigiane,
nonché delle ricostituite forze armate del Regno del Sud che
combatterono a fianco degli Alleati.
Questo movimento, inquadrabile storicamente nel più
ampio fenomeno europeo della resistenza all’occupazione
nazista, fu caratterizzato in Italia dall’impegno unitario di
molteplici e talora opposti orientamenti politici (cattolici,
comunisti, liberali, socialisti, azionisti, monarchici, anarchici).
I partiti animatori della Resistenza, riuniti nel Comitato di
Liberazione Nazionale, avrebbero più tardi costituito insieme
i primi governi del dopoguerra [58].
Il periodo storico interessato dal movimento inizia per
convenzione storiografica ormai consolidata dopo
l’armistizio dell’8 settembre 1943 e termina alla fine del
mese di aprile 1945. La scelta di celebrare la fine di quel
periodo con il 25 aprile 1945 fu riferita dal Comitato di
Liberazione Nazionale dell’Alta Italia (CLNAI) con la data
dell’appello per l’insurrezione armata della città di Milano,
sede del comando partigiano. In termini politici questo
periodo si concluse il 1º gennaio 1948, giorno
dell’applicazione della nuova Costituzione Italiana.
Il movimento partigiano, prima raggruppato in bande
autonome, fu successivamente e principalmente organizzato
dal Comitato di Liberazione Nazionale (CLN), guidato dal
generale Raffaele Cadorna, diviso a sua volta in CLNAI
(Comitato di Liberazione Nazionale Alta Italia), con sede
nella Milano occupata, e il CLNC (Comitato di Liberazione
Nazionale Centrale). Il CLNAI, coordinò la lotta armata
nell’Italia occupata, condotta da formazioni denominate
brigate e divisioni, quali le Brigate Garibaldi, costituite su
iniziativa del partito comunista, le Brigate Matteotti, legate
al partito socialista; le Brigate Giustizia e Libertà, legate al
Partito d’Azione; le Brigate Autonome, composte
principalmente di ex-militari e prive di rappresentanza
politica, talvolta simpatizzanti per la monarchia, riportate
come “Badogliani” [59].
Dall’8 settembre 1943 (data della proclamazione
dell’armistizio e conseguente proclama Badoglio) al 25 aprile
1945 il territorio italiano occupato dai nazisti visse una vera
e propria guerra nelle retrovie. L’azione della Resistenza
italiana come guerra patriottica di liberazione dall’occupazione
tedesca, implicava anche la lotta armata contro i fascisti e gli
aderenti alla RSI che sostenevano gli occupanti [60].
60. Soldato tedesco controlla i documenti a un civile nei pressi di Milano
61. Partigiani in marcia
62. Manifesto della Prefettura di Ravenna contro le bande partigiane
63. Gruppo di partigiani
L’inizio vero e proprio della Resistenza è difficile da individuare
e dipende dall’impostazione storica che si vuol dare: se
puntualizzante sul periodo resistenziale o comprendente le
fasi di antifascismo sia militare che clandestino che
precedettero il periodo dell’8 settembre del 1943, certo è
che gli scioperi operai del marzo del 1943 dimostrarono che
era possibile opporsi al regime fascista arrivando a minare in
modo pesantissimo la credibilità di Mussolini e ciò fu il
preludio della sua messa fuori gioco del 25 luglio. È chiaro
che furono proprio le sofferenze e privazioni sopportate dalle
fasce meno abbienti della popolazione a causa della guerra,
ad innescare il meccanismo dei grandi scioperi. Ad essere
coinvolti in quella che viene anche chiamata guerra partigiana,
si calcola siano stati dalle poche migliaia nell’autunno del
1943 fino ai circa 300.000 dell’aprile del 1945 gli uomini
armati che, specialmente nelle zone montuose del centro-nord
del Paese, svolsero attività di guerriglia e controllo del
territorio che via via veniva liberato dai nazifascisti [61].
Nell’Italia centro-meridionale il movimento partigiano non
ebbe altrettanta crucialità militare, sebbene nelle aree
conquistate dagli Alleati nella loro avanzata verso settentrione
si riunissero i principali esponenti politici che da lontano
coordinavano le azioni militari partigiane, insieme alle
armate alleate.
Con mezza penisola liberata e la restante parte ancora da
liberare, con violente tensioni sociali ed importanti scioperi
operai che già nella primavera del 1944 avevano paralizzato
le maggiori città industriali (Milano, Torino e Genova), le
popolazioni dell’Italia settentrionale si preparavano a
trascorrere l’inverno più lungo e più duro, quello del 1945.
Sulle montagne della Valsesia, sulle colline delle Langhe e
sulle asperità dell’Appennino Ligure e dell’Appennino
Tosco-Emiliano le formazioni partigiane erano ormai pronte
a combattere [62].
Nelle città cominciarono a costituirsi nuclei partigiani
clandestini denominati GAP (Gruppi di azione patriottica)
formati ognuno da pochi elementi pronti a svolgere azioni
di sabotaggio e di guerriglia nonché di propaganda politica.
Accanto ad essi, nei principali centri urbani sorsero
all’interno delle fabbriche le SAP (Squadre di azione patriottica),
ampi gruppi di sostegno alle formazioni partigiane belligeranti,
con l’obiettivo specifico di rendere più ampia possibile la
partecipazione popolare al momento insurrezionale. Attriti
sorsero, però, a questo punto su quale sarebbe stato per il
movimento partigiano l’interlocutore privilegiato, politico o
militare che fosse, italiano oppure alleato.
Sotto questo aspetto a poco era servita la militarizzazione
“ufficiale” dei partigiani, avvenuta nel giugno 1944 con
l’istituzione - riconosciuta sia dai comandi militari alleati
che dal governo nazionale - del Corpo volontari della libertà.
A capo dei circa 200 mila combattenti che formavano il
nuovo esercito italiano era stato posto il generale Raffaele
Cadorna, con vicecomandanti l’esponente del Partito
Comunista Italiano Luigi Longo e quello del Partito
d’Azione Ferruccio Parri [63].
Mentre si cominciava comunque a guardare al futuro, un
altro punto di contrasto era costituito, appunto, da quello
che sarebbe accaduto nel dopoguerra, che veniva avvertito
ormai come prossimo. Se da un lato la guerra di liberazione
accomunava diverse forze politiche, sia pure nella
clandestinità e nella diversità ideologica, l’obiettivo
successivo - la nuova Italia - era fonte di divergenza: i partiti
della sinistra - peraltro divisi al loro interno - paventavano
particolarmente un ripristino dello stato liberale prefascista;
dal canto suo, il Partito d’Azione sosteneva la necessità che
alle organizzazioni partigiane venisse attribuito un ruolo di
rilievo nell’edificazione di una nuova democrazia in grado di
sovvertire il vecchio ordinamento monarchico. La
monarchia, sebbene minata nel proprio prestigio e popolarità
per via del suo coinvolgimento quale corresponsabile del
fascismo nell’aver gettato l’Italia in guerra e per la fuga del re
Vittorio Emanuele da Roma, continuava tuttavia a
raccogliere un significativo sostegno popolare diffuso in
modo variabile e trasversale anche presso alcuni gruppi
partigiani di ispirazione monarchica, cattolica e liberale,
oltre che presso militari dell’esercito.
Il 19 aprile 1945, mentre gli Alleati dilagavano nella valle
del Po, i partigiani su ordine del CLN diedero il via
all’insurrezione generale. Dalle montagne, i partigiani
confluirono verso i centri urbani del Nord Italia, occupando
fabbriche, prefetture e caserme. Nelle fabbriche occupate
venne dato l’ordine di proteggere i macchinari dalla distruzione.
Le sedi dei quotidiani furono usate per stampare i giornali
clandestini dei partiti che componevano il CLN [64].
Mentre avveniva ciò, le formazioni fasciste si sbandavano e
le truppe tedesche allo sfacelo battevano in ritirata.
Si consumava il disfacimento delle truppe nazifasciste, che
davano segni di cedimento già dall’inizio del 1945 e i cui
vertici si preparavano alla resa agli Alleati.
La mattina del 14 aprile, in un’Imola che sembrava deserta,
entrò per primo l’87° Reggimento Fanteria del Gruppo di
Combattimento “Friuli” che, però, fu subito comandato di
dirigersi verso Bologna. Poco dopo giunse la divisione Carpatica
polacca, comandata dal generale Wladyslaw Anders insieme
ai soldati del Gruppo di Combattimento “Legnano”, accolti in
festa dagli imolesi che, nel frattempo, erano usciti dai loro
rifugi. Ancora la mattina del 21 aprile, fu il “Friuli” ad
entrare per primo a Bologna, passando per la Porta Maggiore,
nel tripudio dei bolognesi. In giornata giunsero anche i
polacchi, il “Legnano” e altri gruppi. Gli americani liberarono
Modena il 22 aprile, Reggio Emilia il 24 e Parma il 25.
Nella stessa data, a Genova, inizia l’insurrezione, che porterà
il generale tedesco Gunther Meinhold ad arrendersi
formalmente al CLN ligure il 25 aprile.
Milano e Torino furono liberate il 25 aprile [65].
Le truppe alleate arrivarono nelle principali città liberate nei
giorni seguenti. La liberazione di molte città, inclusi centri
industriali di importanza strategica, prima dell’arrivo degli
alleati rese l’avanzata di questi più rapida e meno onerosa in
termini di vite e rifornimenti. In molti casi avvennero
drammatici combattimenti strada per strada; i resti dell’esercito
tedesco e gli ultimi irriducibili fascisti della Repubblica
Sociale Italiana sparavano asserragliati in vari edifici o
appostati su tetti e campanili su partigiani e civili. Tra essi
e le forze partigiane avvennero talvolta vere e proprie battaglie,
come a Firenze nel settembre 1944, ma solitamente la loro
resistenza si ridusse a una disorganizzata guerriglia, per
esempio a Parma e a Piacenza [66].
Il 27 aprile 1945 Benito Mussolini, indossando la divisa di
un soldato tedesco, fu catturato a Dongo, in prossimità del
confine con la Svizzera, mentre tentava di espatriare assieme
all’amante Claretta Petacci. Riconosciuto dai partigiani, fu
fatto prigioniero e giustiziato il giorno successivo 28 aprile
a Giulino di Mezzegra, sul lago di Como; il suo cadavere
venne esposto impiccato a testa in giù, accanto a quelli della
stessa Petacci e di altri gerarchi, in piazzale Loreto a Milano,
ove fu lasciato alla disponibilità della folla, che infierì sul
cadavere. In quello stesso luogo otto mesi prima i nazifascisti
avevano esposto e dileggiato, quale monito alla Resistenza
italiana, i corpi di quindici partigiani uccisi.
Il 29 aprile la resistenza italiana ebbe formalmente termine,
con la resa incondizionata dell’esercito tedesco, e i partigiani
assunsero pieni poteri civili e militari [67].
Il 2 maggio il generale britannico Alexander ordinò la
smobilitazione delle forze partigiane, con la consegna delle
armi. L’ordine venne in generale eseguito e le armi in gran
parte consegnate, in tempi diversi nei vari luoghi in dipendenza
dell’avanzata dell’esercito alleato, della liberazione progressiva
del territorio nazionale, e del conseguente passaggio di
64. Partigiani apuani in marcia
65. Partigiani il 25 aprile 1945
66. Partigiani e truppe brasiliane il giorno della Liberazione
67. Partigiani e soldati americani a Carrara
poteri al governo italiano; una parte delle forze partigiane fu
arruolato nella polizia ausiliaria ad hoc costituita [68].
Si calcola che i caduti per la Resistenza italiana (in
combattimento o uccisi a seguito della cattura) siano stati
complessivamente circa 44.700; altri 21.200 rimasero mutilati
ed invalidi; tra partigiani e soldati regolari italiani caddero
combattendo almeno in 40.000 (10.260 della sola Divisione
Acqui impegnata a Cefalonia e a Corfù);
Si stima che in Italia nel periodo intercorso tra l’8 settembre
1943 e l’aprile 1945 le forze tedesche (sia la Wehrmacht che
le SS) e le forze della Repubblica Sociale Italiana compirono
più di 400 stragi (uccisioni con un minimo di 8 vittime),
per un totale di circa 15.000 caduti tra partigiani,
simpatizzanti per la resistenza, ebrei e cittadini comuni.
68. Smobilitazione di una brigata partigiana
69. Internati militari italiani
8. Il Contributo dei militari italiani alla
Liberazione dell’Italia
L’8 settembre del ‘43, all’annuncio dell’armistizio con gli
Alleati, l’esercito italiano, a causa della mancanza di
disposizioni precise da parte degli alti comandi militari, si
era liquefatto. Fu un vero e proprio dramma, umano e
militare, anche se nelle settimane successive non mancarono
gli episodi di resistenza ai tedeschi (Roma, Cefalonia, Corfù,
Corsica, Albania, Rodi, Lero) e, viceversa, ci furono anche
numerosi casi di adesione alla Rsi. Ciò nonostante, in vario
modo, nel biennio 1943-1945 l’esercito italiano si riscattò,
dando un forte contributo alla Guerra di Liberazione, anche
in termini di vite umane (87.000 vittime).
Ecco come si sostanziò il contributo dei militari alla Guerra
di Liberazione.
Molti militari si diedero alla macchia, e andarono poi ad
alimentare le bande dei partigiani nelle montagne, non solo
quelle autonome ma anche quelle legate ai partiti, molte
delle quali furono comandate da ufficiali dell’esercito. Quasi
tutta la flotta e una parte rilevante dell’aviazione si consegnò
agli Alleati, e proseguì poi la guerra al fianco degli
anglo-americani.
Nei Balcani, in Francia, in Grecia, in Albania, in Polonia,
nelle isole, migliaia di militari italiani sfuggirono alla cattura
da parte dei tedeschi e parteciparono ai movimenti di
liberazione nazionali, unendosi ai partigiani locali.
La stragrande maggioranza degli internati militari, gli
ufficiali e i soldati italiani catturati dai tedeschi e internati nei
campi di concentramento (oltre 600 mila), decise di resistere
e di non aderire alla Rsi [69].
Vi erano, al momento dell’armistizio, circa 600.000
prigionieri italiani nelle mani degli Alleati. Soldati per lo
più catturati dal nemico a seguito dell’offensiva in Nord
Africa (1940-’41) alla resa in Tunisia ed al tracollo del luglio
agosto 1943 in Sicilia. Per lo più, tranne i 10-12.000 soldati
in mano all’URSS, erano in mano anglo-americana. Questi
soldati, all’annuncio dell’armistizio dovettero, come tutti,
fare delle scelte. La stragrande maggioranza scelse di
cooperare con gli ex-nemici, con compiti soprattutto di
supporto logistico o di ausilio alla produzione bellica (una
parte degli ex-prigionieri, fu aggregata alle ricostituite Forze
Armate italiane del Sud).
Dopo la dichiarazione di guerra alla Germania (13 ottobre
1943) da parte del Governo Badoglio e il riconoscimento
all’Italia dello status di cobelligerante da parte degli Alleati
(16 ottobre), le Forze Armate italiane, che si erano
ricostituite al Sud, ebbero il battesimo del fuoco nella
battaglia di Montelungo (dicembre 1943). Parteciparono
alla guerra prima il I Raggruppamento Motorizzato, poi il
C.I.L., poi i Gruppi di Combattimento. Nel corso dei mesi
di guerra, da poche migliaia di persone l’esercito italiano
arrivò a contare più di mezzo milione di soldati (400.000
dell’Esercito, 80.000 della Marina, 35.000 dell’Aeronautica),
un quarto degli uomini impiegati e circa un ottavo delle
forze combattenti. I soldati italiani combatterono al fianco
degli Alleati in Abruzzo, Lazio, Marche, Toscana, fino alla
grande offensiva dell’aprile ’45 in Emilia Romagna.
Le fasi salienti di venti mesi di guerra videro impegnati:
• una Brigata (1° Raggruppamento Motorizzato): nel
dicembre del 1943 scrisse pagine gloriose nella fornace
della battaglia del Garigliano (3.000 uomini a Monte
Lungo);
• un Corpo d’Armata, formato da due Divisioni più i Supporti
(Corpo Italiano di Liberazione): nell’estate del 1944
combattè per la liberazione dell’Italia Centrale fino al
Metauro e alla Linea Gotica sugli Appennini;
• un’Armata, composta da sei Divisioni (Gruppi di
Combattimento “Legnano”. “Folgore”, “Friuli”, “Cremona”,
“Mantova”, “Piceno”): nell’inverno del 1944 e nella
primavera 1945 diede testimonianza di eroismo sulla
Linea Gotica e nella battaglia finale;
• otto Divisioni Ausiliarie: per l’intera durata della Campagna
assolsero importanti funzioni logistiche, nelle quali
si distinsero in modo particolare le “Salmerie da
Combattimento” e il “Genio da Combattimento”.
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