Pirandello e Testori

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Fabio Pierangeli
Pirandello e Testori
Premesso che per i limiti di spazio di questo intervento ci limiteremo
a considerare, a grandi linee, solo l’aspetto teatrale, non sarebbe del tutto
privo di fondamento iniziare una breve storia del rapporto tra due dei
massimi drammaturghi europei del Novecento con una immagine. Giovanni Testori irrompe sulle scene teatrali italiane con una forza tragica,
linguistica e drammaturgica, pari a quella dei sei personaggi durante le
prove di una commedia, in fin dei conti, divenuta convenzionale nella
recitazione degli attori, la pirandelliana Il giuoco delle parti.
In questo modo, conforme alla caratteristica radicalità (e sincerità) di
giudizio, Testori afferma di considerare i Sei personaggi in cerca d’autore «la più grande opera letteraria di questo secolo, senza paragone […]
né con Proust né con Kafka»1 e, d’altra parte, ad esempio nel Ventre del
teatro, imputare al drammaturgo siciliano «di credere alla sostanza naturalistica del suo dramma»2.
Invece, quando Pirandello simula di credere alla sostanza naturalistica
del suo dramma, allora la sua posizione non è più sostenibile, vedi Come
tu mi vuoi, vedi Il giuoco delle parti, vedi La signora Morli una e due, e
via dicendo. Non c’è paragone tra queste finzioni e le piéce dove la verità,
proprio perché perche si sa di star facendo del teatro – e, quindi, si assume
fin dal principio una posizione più realistica –, esplode con una violenza
tale da risucchiare tutte le scorie della vita. In questo senso diventa più
chiara la ragione della mia antipatia per il naturalismo, che si fonda sulla
finzione che nega ogni realismo.
Un certo intellettualismo, le atmosfere del dramma borghese, sia pur
reinventato da Pirandello con la persuasività razionale delle sue dialettiche, la ripetitività di certe situazioni drammaturgiche sono evidentemente estranee a Testori, impegnato a oltrepassare la lezione pirandellia Luca Doninelli, Conversazioni con Giovanni Testori, Milano, Guanda, 1993, pag. 61.
Luca Doninelli, cit., pag. 72.
1
2
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na, conservandone i contenuti più consoni alla sua sensibilità, dentro il
meccanismo, più volte riproposto, fin dagli esordi del 1943, di La morte
e Un quadro, del teatro nel teatro3. Già Walter Ronchi, affiliando Testori
al gruppo forlivese del GUF, con l’introduzione a La morte, esordio del
Testori ventenne nel librettino delle Edizioni di Pattuglia, non poteva non
menzionare il tributo pirandelliano di quel breve atto unico, aggiungendo
tuttavia che non si trovava più nel giovane drammaturgo la disperazione
distruttiva e senza speranza di Pirandello4.
Durante il lungo percorso teatrale, ripreso con continuità due decenni
più avanti da questo esordio, conservando un punto di vista di «fuorivia»
del teatro novecentesco, secondo la pregnante definizione di Giorgio Taffon, dentro quel costante, sorgivo, statuto inquieto (Cascetta), Testori si
tiene lontano da percorsi fortemente legati all’ideologia, certo Brecht, o
radicati su posizioni razionalistiche, come nel caso di certo Pirandello, da
cui d’altra parte proclama costantemente il suo debito al dramma sconvolgente di alcune figure umane costruite nella5 «fondamentale necessità
di non dimenticare mai, sia drammaturgicamente, sia teatralmente, che,
appunto si è in teatro, si è in una dimensione di finzione scoperta». Scrive
Testori nel 19686, anno cruciale della storia del teatro italiano, con il manifesto di Pasolini, il convegno di Ivrea dell’anno precedente, l’affacciarsi
delle nuove prospettive europee e americane che la recente reviviscenza
del teatro pirandelliano, e di altro teatro falsamente naturalista, si esaurisce in una serie di canovacci, di giochi e disponibilità d’intrigo, destituendo le ragioni ultime «oscure e sacre» della «parola materia»: la parola del
teatro è prima di tutto7 «orrendamente fisiologica»8.
3
Cfr., Giorgio Taffon, Lo scrivano, gli scarrozzanti, i templi. Giovanni Testori e il
teatro, Roma, Bulzoni, 1997, in particolare 143 e ss., dove si analizzano i testi «post pirandelliani» La morte e Un quadro, sotto la spinta del «clima di vivace rinnovamento» delle
riviste del Guf forlivese a cui Testori collaborava.
4
Si veda ora Giovanni Testori, La morte. Un quadro, Milano, Libri Scheiweller,
2003, con una incisiva introduzione di Fabrizio Frasnedi.
5
Giorgio Taffon, cit., pag. 57. Si veda anche pag. 203, in cui Taffon riassume perfettamente l’eredità pirandelliana e il superamento di questa in Testori, a partire dalla certezza
di essere a teatro di tutti i personaggi del drammaturgo lombardo, ma sapendo di fingere si
può scendere nell’abisso delle verità umane più terribili.
6
Si veda ora Giovanni Testori, Nel ventre del teatro, a c. di Gilberto Santini, Urbino,
Quattroventi, 1996.
7
Nel ventre del teatro, cit., pag. 36.
8
Andrea Bisicchia, Testori e il teatro del corpo, Milano, San Paolo, 2001. Si legge a
pag. 88: «Testori ha capito che il soggettivismo ha generato la fine del dramma: contrapponendogli una particolare forma di oggettivismo, evita di abbandonarsi all’ossequio del naturalismo o del realismo: la sua forza, la sua qualità sono fondate sulla parola, non certo sulla
parola di matrice pirandelliana – “Ma se è tutto qui il male! Nelle parole!”, dirà il Padre nei
Sei personaggi in cerca d’autore – bensì sul Verbo, sulla parola che si fa carne, realtà corporea capace di smascherare la funzione stessa della parola teatrale perché, evitando tutte le
convenzioni, diventi essa stessa teatro, luogo di comunione e non di mascheramento»
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Corrono gli anni Sessanta e dopo i primi esperimenti teatrali di cui si
è parlato, sia pur brevemente, rilevando l’inconfondibile influenza pirandelliana, Testori torna prepotentemente sul palcoscenico con quella forza
creativa e polemica che conosciamo, inventando un linguaggio magmatico, espressionistico, slabbrato, sempre più vivacemente teso a costruire un
teatro del verbo e del monologo, coinvolgendo negativamente il Pirandello
meno consono alla sua idea di teatro, e che si avviava a diventare autore
alla moda, fin troppo presente sulle scene italiane. Il teatro si compone
della concertazione «carnale» tra drammaturgo e attore, sancita nel rito
della parola con la partecipazione sempre più diretta del pubblico (ma non
come per Pirandello in chiave solo meta teatrale, ma come partecipazione
al dramma-vita), diversamente dall’idea pirandelliana, pronunciata in sede
teorica prima dei grandi capolavori teatrali, di una irrimediabile frattura,
simile alla traduzione da una lingua all’altra, tra le componenti della messa
in scena e il testo drammaturgico. L’attore agisce in modo contrario al poeta, scrive, si ricorderà, in Arte e scienza, in un saggio pubblicato nel 19089,
togliendo alla parola quella verità ideale e incastrandola nelle contingenze
materiali, in un ambiente posticcio e illusorio: l’attore necessariamente vedrà quanto vi è di teatrale in un’opera e non le ragioni ideali dell’arte. In
una intervista del 1977 a Tino della Valle, Testori dichiarava10: «Per me il
teatro non è solo letteratura, ma è rappresentazione sin dal momento in cui
il testo viene scritto, perché è concepito per essere rappresentato ed il momento della recitazione è il fatto rituale che lo completa e lo concreta».
Per Tiberia de Matteis11, Testori incontra Pirandello e Pasolini nel
negare, ne Il ventre del teatro, ogni conclusione razionale e categorica
in forme letterarie volte a cogliere l’autentico significato della vita «non
riducibile a una rivelazione univoca e assoluta» .
A proposito di Post-Hamlet, scrive12:
Palcoscenico e platea si fondono per la complicità di partecipare ad un
evento scenico in cui non si gioca soltanto a imitare e a fingere la realtà,
9
Luigi Pirandello, Illustratori, attori e traduttori, in ID. Saggi, poesie, scritti vari,
a. c. di Manlio Lo Vecchio Musti, Milano, Mondadori, 1973, pag. 217 e ss. In questa storica raccolta di saggi si consideri, per il suo carattere testamentario di una idea di teatro,
pronunciato in una sede prestigiosa alla fine della carriera di drammaturgo, l’accorato intervento Discorso al convegno “Volta” sul teatro drammatico. Si veda, come emblema di
una interpretazione pirandelliana totalmente divergente dall’universo teatrale di Testori,
l’ormai classico studio improntato ad una ipotesi neoplatonica e gnostica, con la centralità dei Sei personaggi, di Umberto Artioli, L’officina segreta di Pirandello, Bari-Roma,
Laterza, 1989.
10
Nel ventre del teatro, cit., pag. 68.
11
Tiberia De Matteis, La tragedia contemporanea. Pirandello, Pasolini e Testori,
Roma, Ponte Sisto, 2005, pag. 254.
12
IVI, pag. 226.
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ma si interviene direttamente per comprenderla e modificarla. La convenzione teatrale può essere violata, coma ha già dimostrato Pirandello,
e dalla sua inadeguatezza possono nascere nuove ipotesi drammaturgiche che sappiano però contenere la natura rituale del teatro considerata dall’autore lombardo un aspetto sostanziale e irrinunciabile della sua
poetica.
Ipotesi drammaturgiche intensamente sperimentate da Testori nelle
diverse avventure teatrali, dove il pubblico è chiamato, per lo più, a partecipare direttamente al rito, anche con clamorose operazioni come quella
della recita di In Exitu nel luogo in cui è stato immaginato, la stazione
centrale di Milano, dove un drogato abbandonato da tutti pronuncia le sue
ultime parole di angoscia e luce prima di spirare.
Partito con la conclusione dei Segreti di Milano, La Maria Brasca e
L’Arialda, nei primi anni Sessanta, con un realismo già affondato nei grumi dell’esistenza, l’amore, la violenza, l’onore, la libertà, già nella Monaca di Monza, Testori si volge ad un teatro di archetipi storici o mitici, con
forti impianti metateatrali o comunque tesi ad evocare, con stravolgimenti
memorabili, la storia del teatro. Marianna de Leyva evoca dall’oltretomba
gli scheletri fantocci degli altri personaggi della sua misera esistenza, a
tornare nel palcoscenico a rivivere il processo a lei intentato, in Erodiade la quarta parete viene eliminata, permettendo, nel monologo, l’interrogazione diretta al pubblico, che sostituisce nella seconda versione per
Adriana Innocenti, la testa del Battista. Incisive proteste vengono dirette
dall’attrice all’autore, colpevole di aver riproposto quella «pagliacciata
nefanda» e non mancano i giochi ammiccanti alla materialità del teatro.
In Conversazione con la morte, monologo interpretato dallo stesso
Testori, (siamo ormai negli ultimi anni Settanta, dopo la Trilogia degli
Scarozanti di cui si dirà) il rito del teatro diviene confessione pubblica
del vecchio attore che parla indistintamente ai giovani (realmente in sala,
pubblico vivente e parte dell’azione teatrale) a cui vuol lasciare l’eredità
della sua esperienza, dalle vecchie assi del teatro, rievocando, all’inizio
del testo, la sua esperienza di interprete di grandi testi della drammaturgia mondiale.
Di Post-Hamlet si è detto con le parole della De Matteis, in Confiteor
ritorna la situazione già sperimentata in La morte, tra il figlio morente e la
madre in preghiera, storia raccontata da due guitti, mentre in Sfaust e soprattutto in sdisOrè si rinnova l’esperienza solitaria dell’Edipus, che nelle
vesti infangate del grande teatro, trova la speranza del perdono cristiano.
Nella trilogia Tre Lai, ricalcata sul modello dantesco, due monologhi di
personaggi femminili, in parte cuciti su vicende biografiche, incarnano
e rappresentano i fantocci sdoppiati tra alto e basso di emblemi storici,
quelli di Cleopatràs e Erodiàs, per trovare definitivo abbraccio nella Ma-
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ter Strangosciàs, nel ritorno al linguaggio e al grembo della Terra Madre,
eminentemente religioso.
Innegabilmente vicino alla pirandelliana trilogia del metateatro, I
promessi sposi alla prova, del 1984, ribadiscono la sostanza del teatro
testoriano come parola incarnata, in un rapporto complesso, amorevole,
in certi passaggi lievemente ironico, con il romanzo manzoniano, dentro
lo specchiarsi di finzione e realtà, profondamente al servizio, in ultima
istanza, della parola che chiude le due giornate e le quattro parti in cui il
testo viene diviso: la speranza. Vi figurano, non a caso, sei attori (interpreti di Renzo, Lucia, Rodrigo, Agnese, Perpetua, Gertrude) e un Maestro, la guida matura, il tramite tra l’autore e la messa inscena, impegnato,
come il vecchio della Conversazione, a voler trasmettere la sua esperienza, fatta di carne, di saggezza e anche della fantasia del teatro. Figura più
vicina al mago Cotrone che al Capocomico o all’Hinkfuss di Questa sera
si recita a soggetto per la Cascetta13, è colui che costantemente spinge gli
attori verso il dramma doloroso, attraverso l’attenzione e la capacità di riconoscere nella parola recitata il grumo, il magone della esistenza umana,
declinata dalla attualità delle situazione del romanzo.
La Trilogia degli Scarozzanti (1973-1977), con una stratificazione
esemplare di elementi (il mito come lontana origine, la storia di una scalcinata compagnia teatrale, la storia stessa dell’esistenza umana), torna a
recitare in «falsetto» le situazioni della grande tragedia greca e shakespeariana, in un linguaggio magmatico, estremo, terrigno, avvolgente attraverso un lessico non privo di termini aulici o tecnici piegati alla bufera
semantica, sempre musicale. Spostati in ambienti degradati, pur sempre
nel germe di drammi interni alla famiglia, i tre archetipi riconsiderati e
attualizzati offrono di nuovo una riflessione sulle eterne domande della
condizione umana e sul potere, con la presenza di figure antagoniste a
tutto tondo, come quella del Franzese (Ambleto) e di Banquo (Macbetto). In una intervista televisiva, ora raccolta dall’Associazione Testori in
un utilissimo VHS14, Testori, riassumendo l’idea ispirativa centrale della
Trilogia, spiegata, per frammenti, in altre numerose occasioni, parlava di
una triplice stratificazione: si trattava della storia di tre grandi figure della
cultura umana e quindi dell’uomo (potremmo aggiungere massimamente
archetipiche), ma anche la storia di una compagnia scalcinata di attori
girovaghi che sono a loro volta metafora della storia umana. L’attore, o
meglio il guitto interpreta il proprio ruolo e quello dei personaggi intorno
13
Annamaria Cascetta, Invito alla lettura di Giovanni Testori, L’ultima stagione
(1982-1993), Milano, Mursia, 1995, pag.144 e ss.
14
A tu per tu con Testori, interviste televisive, 1953-1993, a cura di Riccardo Bonacina
e Giampiero Rizzo, prodotto dall’Associazione Testori e presso di questa disponibile su
ordinazione.
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e contemporaneamente vive la sua vita e «fa l’attore per ragioni proprio
di esistenza, di fame» e quindi di religiosità. Nel monologo di Edipus, si
possono rintracciare analogie con I giganti della montagna sul ruolo del
teatro e dell’arte, nella conclusione della morte di quest’ultima sbranata
dai Giganti del materialismo e del progresso e qui, nell’operazione volutamente en bas, destituita di ogni fondamento nella società dei consumi,
simboleggiata nell’abbandono della scalcinata compagnia da parte di tutti
gli attori, in particolare la interprete di Giocasta, fuggita con un mobiliere
di Meda, evidentemente attratta dal più facile guadagno. Se con Edipus,
Testori intende celebrare la funzione del teatro come rito sacrificale, come
verbo fatto carne l’accostamento con il sacrificio di Ilse, con le dovute
cautele, rappresenta laicamente una medesima situazione, profeticamente
enunciata. L’idea del mago Cotrone di una creazione diretta del testo, senza l’intermediazione dei «teatranti», con il miracolo della immaginazione
e della fantasia, ritorna alle tesi pirandelliane già considerate, ma d’altra
parte si tenga anche conto di certi elementi della materia teatro presenti
nell’arsenale delle apparizioni15.
Più di ogni altro aspetto, in definitiva, il profondo accento di umanità
ferita e supplice dei drammi dolorosi dei Sei personaggi accompagna la
vita e l’opera testoriana, tanto che il drammaturgo arriva a pensare di
scrivere una seconda parte di Confiteor strettamente legata al capolavoro
di Pirandello, in occasione del centenario della morte dell’agrigentino.
Se l’opera non va in porto, a livello saggistico Testori, ormai all’apice
della carriera, ha l’opportunità di chiarire la centralità di questa opera
pirandelliana16.
Accostando la figura del Figlio all’Amleto di «parole, parole, parole»
dentro la più autentica ricerca del Padre, che non sia solo il fantasma apparso sugli spalti o il drammaturgo dopo il rifiuto di rendere vivo in scena
il dramma della «enorme famiglia» stravolta, ferita17.
Del resto che, nel Figlio, debba leggersi l’ultima eco della progressiva degradazione di forza, tanto sociale quanto drammaturgica del Principe di
Danimarca, potrebbe evincersi anche dalle ultime parole che egli pronun15
Testori ebbe modo di recensire su «Democrazia» il 30 novembre
1947 il testo pirandelliano nella messa in scena (non particolarmente efficace dal suo punto di vista), parlando di Crotone come personaggio in
«perpetua gemmazione di notturne fantasie».
16
Giovanni Testori, In cerca sì ma di quale autore?, in Pirandello in
quattro atti, a. c. di Riccardo Bonacina, introduzione di Enzo Lauretta,
supplemento del settimanale «Il Sabato» in quattro puntate, n. 20, 21, 22,
23, maggio-giugno 1986 (Gesualdo Bufalino, Berretto a sonagli, Testori,
Sei personaggi, Italo Alighiero Chiusano, Enrico IV, Carlo Bo, Giganti
della montagna).
17
Ivi, pag. 36.
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cia nel tentativo di rifiutarsi a prendere parte alla sola azione cui, in realtà,
egli fisicamente appartiene (quella relativa all’affogamento della bambina
e al suicidio del giovinetto) e così spingere il dramma verso l’atroce incandescenza della catarsi. “Io non mi presto! Non mi presto! E interpreto
così la volontà di chi non volle portarci sulla scena”. In effetti sembra qui
di leggersi l’ultima impronta che, prima d’altre, degradate resurrezioni, il
personaggio scespiriano ha lasciato, nel nostro secolo.
Difatti, come degradazione ultima di Amleto, i Sei personaggi sono,
non solo «il più gran testo teatrale del secolo, ma la più grande metafora
del suo vuoto, o buco, o nulla di fondo» illustrando il vero terribile dramma, l’impossibilità di far coincidere Realtà e Verità. Allora l’autore che si
cerca è l’Autore, Dio: solo questa sproporzione assicura l’enorme tragicità
del testo, altrimenti risibile.
Forse Testori si accorge di avere varcato le intenzioni del testo, fornendone una lettura interpretativa affascinante e personale e torna a legarsi
strettamente alla drammaturgia nei suoi momenti finali, in cui nell’affogamento della bambina e nel colpo di pistola del giovinetto la realtà potrà
tragicamente coincidere con la verità. Si tratta dell’evento per cui questo
dramma può inserirsi nella dimensione autenticamente tragica, per cui solo
nella morte e nel suicidio il continuo travasare tra falso e vero si situa in una
zona alta, autentica, non meccanica, disvelando l’Altro Autore, il vero18.
Non è a caso che, proprio alla fine, quando tutte le fila si stringono attorno agli eventi, scenda sulla fosca tregenda, come un lampo redentivo,
la sensazione che, per un attimo, tramite il vero e reale Autore, Realtà e
Verità, possano coincidere e tornare ad essere finalmente una cosa sola:
secondo quanto aveva già invocato in chiusura della Saison, quel profeta
strozzato e maledetto, ma pur sempre profeta, o, forse, proprio per questo
atrocemente profeta, che fu Rimbaud.
Il segno della nostra epoca intravisto nei Sei personaggi, viene particolarmente recepito nella centralità del rifiuto del Figlio di superare l’abbandono nel quale l’autore li ha lasciati. Da questa radicale posizione,
tuttavia, scaturisce l’evidenza di compito gravoso quello di cercare, o almeno di denunciare l’assenza, di una Paternità più alta, dell’Autore vero,
non lasciando che si compiano le derisioni degli attori della compagnia
su questa ricerca, e spingendo il dramma fino all’abisso ultimo, dove urgente diviene stabilire il nesso Realtà-Verità. Se gli attori e, in parte, i
personaggi nel loro desiderio di essere rappresentati, riescono a vivere
prescindendo da questa urgenza, il Figlio ha il compito di rammentarla, raccogliendo a suo modo, dentro la modernità, l’eredità di Amleto e
18
Ibidem.
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trasmettendola idealmente ai protagonisti del teatro testoriano degli archetipi emblematici: Monaca di Monza, Erodiade, Ambleto, Macbetto,
Edipus, nella loro sudicia inchiesta, sulla condizione umana e sul ruolo
dell’arte nella società.
Da questo clima, nello stesso anno, mi sembra plausibile pensare nasca
l’idea di Due dei sei, seconda parte della trilogia di Confiteor: prevedeva
di portare di nuovo in scena la Figliastra e il Figlio «dopo che è avvenuta
una grave tragedia. Dopo che la madre si è uccisa e il padre impazzito. E
domanda di sapere. Ho sempre avuto in mente di scrivere qualcosa che
mettesse a fuoco il mistero dell’Incarnazione. Il vero incontro tra Cristo
e la Madre»19.
In un precedente articolo apparso sul «Corriere della sera» sul Natale
del Manzoni per le festività del dicembre del 1983, dove l’intuizione della
spaccatura tra Realtà e Verità e della Assenza del vero autore intraviste
nell’opera pirandelliana, avevano un forte senso di richiamo nella attualità. Ci sia permessa, concludendo, questa lunga citazione, esplicativa di un
rapporto variegato, da meditare ulteriormente nei sentieri di ogni singolo
testo, ma che nei Sei personaggi conserva un punto d’appoggio imprescindibile, paragonabile, per il teatro, solo a quello di Amleto 20:
Tutto lo sforzo dell’uomo moderno s’è portato nelle diverse direzioni che
son scese giù da quell’effrazione, da quella colpa d’origine, non più riconosciuta per tale; procedere contro il Padre, trasformando in divinità,
che di volta in volta si sfasciano e rovinano, i successivi stadi del conoscere e del sapere irriferiti; o procedere, anche tragicamente, anche
disperatamente, anche ciecamente, anche blasfemamente, verso il Padre.
Cieco, del resto, accettò di farsi anche Dio, quando decise l’Incarnazione;
cioè, il Natale; cieco per giungere all’unificazione totale (per totale carità)
con l’uomo che lo cercava e lo chiedeva; e che, senza di lui, non poteva
più esistere. È in questa seconda direzione che agiscono i sei personaggi
pirandelliani, il grido del padre che, alla fine, urla, davanti agli attori
increduli: “Realtà, signori! Realtà!”, è infatti, diretto, come una lama che,
strozzata dal dolore, si spezzi, verso la ricomposizione, appunto, della
realtà con la verità. Ma neppure a farlo apposta, mentre quel padre così
urla, tien lì, tra le braccia, il corpo del figlioletto suicida21.
19
Fulvio Panzeri, Cronologia, in Giovanni Testori, Opere, 1943-1961, Milano, Classici Bompiani, 1995, pag XLIII.
20
Giovanni Testori, E il padre decise di perdonare, «Corriere della Sera», 24 dicembre 1983.
21
Due anni più tardi, identiche espressioni vengono riproposte come chiave di lettura
di un sofferto sentimento della modernità in analogia con le Demoiselles di Picasso: anche
per questo artista si era parlato di picassismo, ma di fronte ai capolavori epocali non c’è
teoria, ripetitività, o istanza critica che tenga. Giovanni Testori, Tornano a Parigi fino al
18 aprile le celebri «demoiselles d’avignon», capolavoro del nostro secolo, «Corriere della
sera», 13 febbraio 1988.
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