Intervista al Professore Sebastiano Maffettone

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intervista
Intervista
al Professore
Sebastiano Maffettone
Sebastiano Maffettone è un filosofo ed è Docente
Ordinario di Filosofia Politica presso l’Università
romana LUISS, dove è Preside della Facoltà di
Scienze Politiche. Direttore del Center for Ethics
and Global Politics, è stato visiting professor nelle
università di Harvard, dove ha insegnato etica pubblica, Columbia, Tufts, Boston College, University
of Pennsylvania, New Dehli, LSE (University of
London) e Sciences-Po (Paris). Ha pubblicato molti
saggi, tradotto e divulgato in Italia l’opera del filosofo americano John Rawls, teorico dell’‘utopia realistica’. È stato il primo Presidente della Società Italiana di Filosofia Politica, fondatore e attuale direttore della rivista ‘Filosofia e Questioni Pubbliche’.
Coopera con varie testate giornalistiche, tra cui
‘Il Mattino’, ‘Il Corriere della Sera’, ‘Il Sole 24 ore’ e
‘Panorama’..
S
ebastiano Maffettone è un filosofo, docente di filosofia politica, nato e laureato a
Napoli, con una formazione internazionale ed esperienze di insegnamento nelle più
importanti Università americane ed europee.
Con semplicità, efficacia e quel sottile sense of humour ricco di ironia e saggezza
napoletana, ha risposto alle domande di Gnosis sui temi sociali più vicini alle realtà
legate alla sicurezza, alle incertezze ed alle evoluzioni culturali ed economiche dei
nostri giorni.
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Lei è docente di Filosofia politica… mai come oggi sembrano essere due realtà antitetiche, è vero?
Apparentemente sono due realtà lontane, due strade parallele che si incontrano, soprattutto, nei momenti di crisi e di travaglio. Per esempio storicamente Aristotele e Platone scrivono alla fine della democrazia ateniese e
Kant dopo la rivoluzione francese. Il punto interessante è che sembra che ci
sia quasi una corrispondenza tra momenti di crisi politica e sviluppo del
pensiero filosofico… se questo è vero, adesso potrebbe essere uno dei momenti giusti perché filosofia e politica possano convergere. Negli ultimi cinquanta anni le due realtà si sono incontrate almeno una volta – con la teoria
della giustizia di Rawls – che, per quanto sia stato soprattutto un filosofo
teoretico che ha inquadrato alcuni aspetti della democrazia politica come
contratto sociale, probabilmente è stato lungimirante; non a caso l’ultimo
Manuale della filosofia politica di Rawls, prima sezione, primo capitolo, si
intitola ‘The era of Rawls’, l’era di Rawls. Forse oggi c’è bisogno di questa sinergia per fornire una nuova linfa vitale e rendere le istituzioni politiche più
credibili, più affidabili.
Perché la politica pare aver ceduto il primato all’economia, non solo in Italia?
Il percorso è antico… il fatto vero è che politica ed economia in sostanza
non sono due cose diverse, pur operando in ambiti differenti sono mondi e
meccanismi molto simili, per esempio prendiamo gli strumenti-tipo dei due
concetti: in entrambi i casi sia nella democrazia che nel mercato si esprimono
preferenze e si ottengono equilibri. Le strutture portanti della società: economia e mercato, politica e democrazia sono molto simili. Tenendo conto del fatto che non si può generalizzare in astratto, non si può prescindere dalle condizioni materiali di vita e, quindi, anche l’etica, ciò che è giusto soprattutto per
la società, non può mettere da parte la sussistenza, quel minimum di benessere
diffuso fra i cittadini, se no diventa tutto astrazione.
Quello che si dovrebbe evitare nel binomio politica ed economia è che
l’una condizioni troppo l’altra: non dovrebbero esserci variazioni di equilibrio
troppo spinte in un senso o nell’altro per diminuire gli eccessi in grado di provocare fenomeni socialmente significativi come la tendenza alla scomparsa
della middle class.
In questi periodi di lunga stagnazione e poi di recessione, si corre il rischio di perdere
l’identità, il senso di appartenenza ad un livello sociale?
Sicuramente si corre il rischio di perdere molto. Negli Stati Uniti che sono
un Paese paradigmatico, c’è stata una forte bipolarizzazione: le classi ricche
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sono state poco toccate dalla tassazione e i poveri sono stati lasciati a se stessi;
la classe media – che era la forza dell’America – sta scomparendo. La scomparsa della classe media pesa molto anche sull’economia e sulla crescita industriale perché è la classe che assicura consumi standard e regolari, che tiene in
piedi centri commerciali e supermercati.
Il problema vero della crisi di identità che per ora ha investito gli USA, ma
che si può diffondere ad altri Paesi – compreso il nostro – è la sensazione di
perdita di fiducia in se stessi unita alla percezione che i cambiamenti globali
renderanno sempre più difficile il recupero di una identità vincente.
Le nuove povertà, l’atrofizzazione della classe media, le maggiori precarietà hanno incrementato forme di aggressività?
In Italia non vedo questo rischio, almeno per il momento. Gli indici di delittuosità sono sostanzialmente stabili… certo se la situazione economica dovesse deteriorarsi ancora e per tanto tempo, moltiplicando i rischi di povertà,
è possibile che si verifichino forme di aggressività sociale dettate dalle necessità basilari di sopravvivenza.
Esiste ancora un’etica pubblica?
L’etica pubblica esiste ed è in crisi, me ne accorgo essendo in contatto costante con i giovani. Nei ragazzi è diminuita la fiducia nel futuro e, in particolare, la consapevolezza di potersi realizzare sia da un punto di vista professionale che sociale soltanto studiando ed impegnandosi.
Pensano che l’impegno sia un’utopia senza il supporto inevitabile di una
segnalazione o di una raccomandazione, a volte più efficace di un titolo di studio. Questo è un meccanismo autodistruttivo perché se non ci si impegna per
crearsi il merito si ha assolutamente bisogno di un appoggio e, quindi, diventa quasi una profezia che si autoverifica.
L’ideologia è morta o sta solo vivendo un lungo sonno?
L’ideologia pura, in senso marxiano, ritiene che le idee non siano neutrali
o naturali, ma vengano condizionate dai rapporti tra le classi. Allora è meglio
avere delle idee; l’ideologia è cieca rispetto ai cambiamenti, cieca rispetto alla
storia, è un muro di gomma, quindi è sicuramente meglio avere delle idee e
cercare di applicarle nella storia, è meglio separare le idee dalla ideologia e
continuare a pensare… il rischio è che non si pensi più abbastanza o che si sia
frenati da prassi burocratiche e complicate che sottraggono tempo al pensiero,
alla elaborazione delle idee e alla ricerca.
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Come è cambiato il mondo del lavoro senza il concetto di ‘posto fisso’ e con una concezione particolare di ‘mobilità lavorativa’?
Si creano sconcerto, paura, timore e incertezze. Una delle componenti di
difficoltà è anche la mancanza di parametri di sicurezza per altri tipi di lavoro
che non siano a tempo indeterminato.
Non ci sono adeguate tutele previdenziali, incentivi economici maggiori,
né ‘paracaduti’ forti.
Se mancano i parametri consueti di sicurezza spesso vengono meno anche
i presupposti per costruire una vita indipendente come l’acquisto di una casa,
la sottoscrizione di un mutuo e la previsione di una famiglia. Bisogna comunque abituarsi alla scomparsa del tradizionale posto fisso, magari aumentando
le garanzie per il cittadino, adeguando anche le richieste di garanzia delle banche alle nuove tipologie di lavoro e pagando un po’ di più chi lavora costantemente in mobilità.
Cosa pensa del percorso formativo universitario per i ragazzi?
Negli Atenei è basilare lo studio, non credo sia necessaria una impostazione pragmatica. Nelle Università della pragmatica America – dove ho insegnato per anni – la ricerca filosofica è considerata molto importante, senza
astrazione non c’è creatività. Nei Paesi più poveri e più veramente pragmatici si studia prevalentemente per diventare ingegneri e medici, i Paesi più ricchi possono consentirsi aree più speculative per creare filosofi, letterati e artisti. Quello che può essere utile per incrementare l’apertura mentale è una fase di studio all’estero – per esempio l’Erasmus – badando sempre a non togliere l’aspetto di ‘sacralità’ degli studi e dell’istruzione. All’Università si deve studiare perché se si studia bene il lavoro si può apprendere con maggiore
facilità.
La contestazione nelle piazze è più frammentata a causa del dibattito virtuale di Internet o della mancanza di leadership e di carisma aggreganti?
Certamente c’è un momento di mancanza di carisma e poi, come diceva
Hegel – un grande filosofo – l’essenza della politica è la mediazione: è proprio
la mediazione che è stata cancellata in due sensi; da un lato non ci sono più i
filtri perché ognuno parla direttamente con un altro, il rapporto è one to one,
sia nella realtà che ancor più nel mondo di Internet, con i vari Facebook e
Twitter. Poi c’è un problema legato sia alla competenza di livello non molto alto degli eventuali leader, sia alla affidabilità del mondo dei partiti. Insomma
manca la liability che contribuiva a creare mediazione e comunicazione e che
resta affidata agli strumenti informatici e, soprattutto, ai telefonini – il futuro è
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sempre più dei telefonini – con cui si parla, si chatta, si twitta e si condivide
senza mai entrare veramente in contatto.
Perché la maggior parte dei cittadini dell’Europa si sentono poco europei e ancora molto ‘figli del proprio Stato’?
Ci sono in realtà due concetti: uno riguarda la parte Nazione, l’altro riguarda la parte Stato: dal punto di vista della Nazione – quello culturale,
l’aspetto etnos – ci vorrà ancora tanto tempo per superare, a titolo di esempio,
le differenze tra un francese ed un tedesco, anche se molte barriere sono cadute e nessuno potrebbe mai immaginare oggi una guerra tra francesi e tedeschi.
C’è, poi, l’aspetto politico, lo Stato, la sovranità e l’Europa è un’organizzazione transnazionale che accetta per principio la pluralità degli Stati, non è uno
Stato federale come gli Stati Uniti. Allora bisogna rinforzare la capacità di credere in un progetto comune, approfittando della assoluta non belligeranza –
ormai da tanti anni – all’interno del contesto europeo.
La società italiana è matura per la multiculturalità e la multietnicità?
Sì, io penso di sì, anche se la crisi economica naturalmente non aiuta, in generale gli italiani sono rispettosi degli altri… ogni tanto ci possono essere degli episodi poco gradevoli, ma sono episodi che la crisi può acuire. Ci vorrebbe un po’ di economia più florida e qualche struttura in più.
Il problema, a volte, è legato a timori nei confronti di etnie che praticano
religioni che possono influenzare le aree delle libertà personali, come alcune
forme di islamismo.
Il fondamentalismo e l’estremismo religioso potranno generare ancora terrorismo a livello internazionale?
In Europa, per esempio in Francia e in Germania, c’è molta immigrazione
islamica e può capitare che ci siano rischi legati al fondamentalismo religioso
non strutturato, c’è il rischio del terrorista solitario, magari home grown, di seconda generazione: ecco, questa è l’ipotesi più possibile, che fa più paura.
Che ruolo può avere l’intelligence nel range della prevenzione?
L’intelligence ha un ruolo veramente importante soprattutto nei casi di
terrorismo, di operazioni undercover e di altri settori di particolare delicatezza
e segretezza.
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Il problema è di comunicazione perché la democrazia è basata sulla trasparenza e l’azione dell’intelligence non può essere basata sulla trasparenza totale,
quindi ci vuole una politica responsabile che faccia da mediazione tra due esigenze diverse che devono essere entrambe rispettate perché abbiamo bisogno
sia della trasparenza democratica che della riservatezza dell’intelligence.
Le cyberwars vengono percepite effettivamente come pericolo reale?
È un settore molto legato alla visione che si ha del cyberspace: la prima è
quella liberista per cui il cyberspace non si può e non si deve controllare, la seconda tesi è quella dei comunisti post modernisti i quali vogliono collettivizzare tutto e la terza visione è quella intermedia, cioè quella che richiede la elaborazione di sistemi che consentano l’identificazione delle persone che usano
internet applicando un controllo relativo per cui si può risalire a cosa sta facendo/chi.
Per esempio, quando insegnavo in America, ad Harvard, mi ricordo che
non era possibile utilizzare la rete Internet se non si era ‘identificati’: o si utilizzava un computer privato dichiarandone i dati o si usava un computer dell’Università che forniva userid e password per l’accesso.
Quindi tutto è possibile, dipende dalle architetture di controllo del sistema
che creino una sorta di mediazione tra le esigenze di un doveroso margine di
controllo per evitare una eccessiva esposizione e la esigenza della tutela delle
libertà delle persone, senza oppressioni e con il rispetto della privacy.
Quanto l’intelligenza artificiale può essere di ausilio e quanto invece potrà ‘atrofizzare’ alcune caratteristiche della mente umana?
È un periodo in cui si fa più informatica che intelligenza artificiale, che è
una categoria molto astratta che fa parte della computer science, invece l’informatica attiene più alle conseguenze sociali. Adesso si tende molto alla creazione di sistemi, basati sull’algoritmica, in grado di creare contatti tra persone o
tra categorie che possono costituire arricchimenti per l’informazione.
Il progresso scientifico e tecnologico sta cambiando le tappe dell’esistenza dalla fecondazione assistita fino alla inaccettabilità dell’idea della morte come evento naturale:
quale è il valore della vita?
Il progresso sta cambiando la vita in tanti modi e a velocità vertiginosa,
non si può pensare di battere la morte, ma si deve pensare a non stare troppo
male mentre si è vivi: il problema è ‘accompagnare la vita’ fino alla fine, non
fare finta che non esista la morte, sarebbe innaturale.
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