© Lo Sguardo - rivista di filosofia
N. 23, 2017 (I) - Reinventare il reale. Jean Baudrillard (2007-2017)
Recensione
I. Pelgreffi (a cura di), Il filosofo
e il suo schermo. Video-interviste
confessioni monologhi
Kaiak Edizioni 2016
Prisca Amoroso
Quello della filosofia con lo schermo è un rapporto antico, di cui abbiamo
traccia almeno fin nel buio della caverna platonica, luogo, questo, di un’esperienza,
quasi cinematografica, di visione ingannevole e di smascheramento. Bisogna
precisare sin da subito, però, che lo ‘schermo’ costituito dalla parete della caverna
su cui vengono proiettate le ombre delle cose manca di una componente: esso
non ha bordi. È forse questo che lo rende veicolo di un inganno, laddove invece
lo schermo del cinematografo è piuttosto il luogo d’apparizione di un’illusione,
come tale voluta, cercata, abbracciata. Inganno e illusione, dunque (fondamentale
resta su questo tema la lezione di A. M. Iacono, L’illusione e il sostituto. Riprodurre,
imitare, rappresentare, Milano, Mondadori, 2010).
Se il rapporto della filosofia con gli schermi era cominciato sotto il cattivo
auspicio della caverna, il cinema ha stimolato la riflessione dei filosofi in modi
differenti, e con esiti talvolta opposti a quello. Questa ambiguità è d’altronde
costitutiva dell’idea dello schermo, che appunto ‘scherma’, impedisce, cioè, la
propagazione di qualcosa, oppure riflette o diffonde un’immagine; nasconde e
palesa. E la riflessione filosofica sul cinema (su cui si veda anche il recente M.
Carbone, Filosofia-schermi, Milano, Raffaello Cortina, 2016) non può non essere
legata ad una discussione sul movimento, che lo definisce e gli è essenziale almeno
quanto il medium – lo schermo, appunto –, e forse più di questo (si pensi alla
critica di Deleuze a Bergson, di non aver compreso che esso dà immediatamente
l’immagine-movimento).
Bisognerà quindi fare un passo indietro, all’immagine ferma, alla fotografia,
o, se si vuole, andare ancora dietro questa, alla pittura. Quando faccio riferimento
alla pittura e alla fotografia, le considero legate allo schermo in quanto definito
da due proprietà: l’essere veicolo di qualcosa che si mostra e l’avere dei bordi,
una cornice. È piuttosto scontato, insomma, che quando parliamo di schermi
parliamo del vecchio problema della rappresentazione: problema dei più cruciali,
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e che rinnova la sua attualità in accordo con le novità di una tecnologia in veloce
evoluzione.
Bisogna tenere presente questo ordine di problemi, qui molto parzialmente
abbozzati, quale sfondo tematico de Il filosofo e il suo schermo. Video-interviste
confessioni monologhi, libro collettaneo curato da Igor Pelgreffi per Kaiak
Edizioni, che, nella varietà delle proposte contenute nei dodici saggi corredati
da un’intervista a Valerio Magrelli, presenta una sostanziale compattezza,
sorretta dalla capacità che i molti autori hanno di dialogare tra loro, seppure
indirettamente.
Ho accennato alla fotografia. In pagine celebri, attraversate dal lutto per
la perdita della cara madre, Roland Barthes ha evidenziato il rapporto della
fotografia con la morte, che si esplicita anzitutto nella volontà di cristallizzazione
della vita che la fotografia pretende di opporle: i fotografi sono presentati, ne
La camera chiara, come ‘agenti della morte’. Certamente questa idea ha a che
fare con il movimento, o meglio con la sua assenza. Maurice Merleau-Ponty,
in un certo senso similmente, aveva diffidato della fotografia, che gli sembrava
incapace di testimoniare del movimento facendosi veicolo piuttosto di una
scomposizione meccanica in istanti, cieca alla complessità gestaltica che viene
invece offerta dalla pittura e chiarita dal cinema.
Ma è possibile un altro modo di leggere la fotografia? In parte Barthes lo
ha già proposto. Si potrebbe dire che il movimento in essa fermato, interrotto, si
mostra nell’assurdità della sua scomposizione, la addita? Quello che dice Deleuze
del cinema, che l’immagine cinematografica è già movimento, non potrebbe
valere anche per la fotografia, che mentre nega il movimento, lo ri-vela?
Di che natura deve essere allora ‘l’addio in immagini’, che il selfie – l’autoscatto
fotografico, spesso digitale e condiviso – rappresenta? Questa domanda è oggetto
del saggio di Ubaldo Fadini, che, mediante una rilettura di Benjamin, Kracauer,
Deleuze, rintraccia una chance politica nell’‘allentamento dell’io’ che l’autoscatto
produce: estroflessione del sé, «quello sono (voglio essere) io… ma insieme non
lo sono… finalmente…» (p. 54): ecco uno dei sensi possibili della pratica del
selfie, un senso liberatorio, rintracciato con anticonformismo dall’autore, che si
distacca di molto dal coro paranoide dei moralisti dell’era digitale.
Certo, il problema non è qui soltanto quello dell’autorappresentazione:
se è vero che l’autoritratto ha una storia lunghissima alle spalle, una novità è
indubbiamente introdotta dalla fluidità digitale e dalla condivisione a mezzo
Internet. La smaterializzazione operata dal digitale rende la foto cancellabile o
distruttibile senza sforzo: per il fotografo, la frase «fammi vedere come sono
venuto!», pronunciata davanti allo schermo di una macchina fotografica digitale,
segna la fine di un mondo: lo sviluppo del rullino ha forse a che fare con «una
stratificazione, una complessità, un’intensità» (p. 213) che è propria anche al
delay filosofico di cui scrive Daniele Goldoni. Ma, insieme, la foto digitale è
meno corruttibile (non si consuma, non ingiallisce: un altro passo della fotografia
contro la morte?) e più facilmente trasferibile: circostanza che permette la
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diffusione incontrollabile delle immagini, e rende meno riconoscibili i confini
tra pubblico e privato.
Ecco, allora, introdotto un altro tema chiave del libro: quello del rapporto
del filosofo all’altro, approfondito in queste pagine mediante un’indagine
sull’intervista, e sulle potenzialità e sulle trappole che essa reca. L’intervista deve
essere compresa anzitutto nella sua natura peculiare di forma co-autoriale, nella
quale il filosofo, come scrive Pelgreffi (p. 13), «accetta di sperimentare una quota
di indebolimento creativo» facendo entrare nel suo corpus la parola dell’altro.
Così, la domanda fondamentale di fronte a cui la pratica dell’intervista pone è:
chi è l’autore? Che ne è dell’autore? Una domanda sulla soggettività, dunque,
sul porsi fuori di sé di chi parla, sulla corrispondenza a un altro – sia nel senso
di altro da questo filosofo che parla, l’intervistatore che co-costruisce l’intervista;
sia nel senso che, per la sua natura divulgativa, l’intervista è altro dalla filosofia,
o meglio svela un altro lato di questa, che si rivolge al suo fuori, al pubblico non
specialista.
Nel saggio di Paolo Vignola – che commenta le conferenze via Internet di
Bernard Stiegler e la riflessione di quest’ultimo sui ‘processi di digitalizzazione
delle coscienze’ – la presenza del filosofo nei media è indagata nelle potenzialità
di un dispositivo che permette di entrare in contatto con il «sapere vivente,
incorporato nella postura del soggetto parlante» (p. 65).
L’esigenza di restituire alla parola scritta la condotta epistemologica
personale, mediante uno sforzo di introspezione; la figura del filosofo saggista,
Montaigne; e tutto ciò che da questi modi della filosofia il filosofo odierno può
imparare quando si accosta allo strumento-intervista sono gli oggetti del saggio
di Fabrizio Scrivano, che evidenzia ambiguità e trappole dell’intervista filosofica.
Di queste trappole si avvedeva già Deleuze, quando – era la fine degli anni
Settanta – avvertiva del rischio che l’intervista o l’articolo di giornale fossero
tenuti in maggior conto del libro di cui essi parlano; e vedeva la ‘giornalizzazione’
del testo filosofico. Già parlava, Deleuze, dei numeri da circo di cui i filosofi si
rendono protagonisti con l’avvento della televisione (p. 217). Ed è proprio ad
un’intervista, sebbene assai particolare, che il filosofo francese affida interessanti
considerazioni sul ruolo della cultura nella società odierna: la lettera C del suo
Abecedario è molto densa e vale la pena tenerla a mente, perché mette in guardia
da un certo snobismo della cultura, che è però il rovescio della medaglia di
questa ‘giornalizzazione’, spettacolarizzazione della figura dell’intellettuale,
che lo vuole in orario – riprendo l’espressione di Goldoni –, cioè nella prima
serata televisiva: intellettuale «prodigioso, qualsiasi cosa gli si dica è come se
si spingesse un bottone e via», dice Deleuze di Umberto Eco, non a caso un
coltissimo divulgatore.
Questo libro va incontro proprio all’urgenza di una riflessione sulla
divulgazione filosofica (ma anche scientifica). Due immagini dell’intellettuale,
opposte ma segretamente vicine, si rispondono: da un lato, il modello statunitense
che ha dato vita ad esperienze culturali come TED, il noto format di conferenze;
dall’altro il paternalismo europeo dell’intellettuale, il tacito, indubitabile
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senso della sua superiorità sull’uditore. Modelli solidali nell’affermazione della
relegabilità del filosofo nella gabbia del circo mediatico. Se non si può contrastare
l’intellettuale, se gli si deve lasciare l’ultima parola, è perché questa parola conta
ben poco, è perché non la si vuole, forse, ascoltare davvero: «la filosofia deve
preventivamente scusarsi di esistere» (p. 215).
Credo che in questo senso il saggio di Michela Becchis su Autoritratto di
Carla Lonzi possa fornire un modello alternativo particolarmente interessante.
L’autrice ricostruisce l’esigenza epistemologica al fondo della scelta di Carla
Lonzi di usare la registrazione: questa è intesa come mezzo di evasione dalle
chiuse dottrinali, una forma di scrittura non patriarcale, che libera il rapporto
tra il critico e l’artista (ma possiamo facilmente estendere questa considerazione
al dialogo filosofico), facendo dell’opera d’arte sì un punto di incontro tra le due
parti, ma non nel senso di una sintesi dialettica. In ossequio a questa esigenza,
le trascrizioni di Autoritratto contengono delle ce(n)sure poste tra puntini di
sospensione, perché «lo srotolarsi di una conversazione tra amici» (p. 138) non
abbia troppo a soffrire dei lacci della sua traduzione in parola scritta: vi è qui,
infatti, anche una riflessione sulla lingua. Il momento dialogico è il luogo del
recupero di un tempo epistemologico femminile, in cui, se una dialettica deve
essere ammessa, essa sarà «semmai una dialettica tra differenze insuperabili, ma
costantemente alterabili» (p. 139), ove il conflitto, istanza femminile, si scontra
con il simbolico, cifra del tempo lineare e maschile.
Questo motivo è presente anche nel saggio che Eleonora de Conciliis
dedica al Foucault intervistato, che esprime una «volontà di verità, che però si
piega ironicamente su se stessa per distruggersi» (p. 125), in un femminile – è
detto in senso epistemologico – rifiuto dell’assoluto.
Un pensiero fuori orario, qualcosa di simile a quegli spazi di libertà di cui
scrive Andrea Sartini, con riferimento, in questo caso, a Derrida: «pensare la
realtà come costantemente inquietata nel suo stesso darsi, nel suo offrirsi, da
un’ulteriorità, da un fuori che è lì per testimoniare l’inadeguatezza a sé di ogni
presente» (pp. 105-6), esigenza magistralmente espressa da Carmelo Bene.
E ancora, in quello che è forse il più esplicitamente filosofico dei saggi di
questo volume, Marco Tronconi si rivolge alle condizioni stesse della filosofia.
Come ho detto, il tema dello schermo è anche il problema della cornice: ed è
proprio alla cornice che guarda Tronconi, in una riflessione che, accogliendo
la lezione di Carlo Sini, interroga la pratica filosofica fino alle sue fondamenta
alfabetiche.
Per tornare all’intervista, allora, bisogna aggiungere che essa è un’occasione
preziosa se è intesa, come fa notare Valerio Magrelli nella conversazione
telefonica con Pelgreffi, come lavoro su committenza, in cui l’intervistato deve
mettersi alla prova con qualcosa di estraneo: «come poeta, – dice Magrelli (p.
240) – ritengo che l’invito su commissione sia una delle cose più preziose che
esistano, e paradossalmente proprio per via della sua estraneità». Penso che questa
osservazione possa valere da avvertimento: il rapporto con il pubblico, ma anche
con il proprio lavoro, funziona se si è disposti a mettersi in gioco.
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Non c’è buona divulgazione senza sforzo, insomma, e da entrambe le parti.
Il libro propone alcuni episodi felici della relazione della filosofia con schermi
e interviste. Oltre al già citato saggio di de Conciliis, quelli di Stefano Marino,
che ricostruisce il rapporto di Gadamer con l’intervista, e di Sara Baranzoni,
sull’apparizione televisiva di Felix Guattari in Cammini del pensiero, dell’emittente
statale greca ERT. E ancora il testo di Vincenzo Cuomo su un’originale esperienza
radiofonica: le ottantadue interviste impossibili trasmesse su Radio2-Rai tra il
1974 e il 1975, conversazioni immaginarie tra intellettuali dell’epoca, come
Sciascia, Calvino, Sanguineti, e filosofi noti al pubblico, a partire da Socrate.
Come spero di essere riuscita a suggerire, il profondo merito di questo
libro è nella sfida di affrontare gli interrogativi che i media in esame lanciano
– intesi, essi, proprio nel senso letterale di mezzi, strumenti, di comunicazione
ma anche di produzione di pensiero – e di farlo con «lo sguardo ordinario del
ricercatore» (p. 12), come scrive Pelgreffi nel saggio introduttivo che getta le
basi dell’intero lavoro. Ordinario, perché l’anomalia di cui, in una certa misura,
l’intervista e TV radio e web sono portatori deve essere ricondotta all’eterno e
più proprio compito del filosofo: pensare il fuori, il non ancora saputo, mediante
una domanda che è anche costantemente auto-riflessiva e auto-critica.
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