Formare l’uomo. Prospettive di una filosofia dell’educazione Partire dall’uomo: antropologia e antropologie Seminario del 10 ottobre 2014 Carlo Cappa Vertendo interpretari: educare attraverso gli studi umanistici L’occasione d’incontro e di riflessione imperniata sul tema eponimo, tanto significativo quanto suggestivo, Partire dall’uomo: antropologia e antropologie, è stata un momento prezioso per proporre una lettura che, muovendo dagli studi umanistici, affrontasse alcune tematiche al centro dell’agenda educativa italiana ed europea. Tale impostazione è più che opportuna, poiché la salda consapevolezza della necessità, per pensare davvero l’educazione, di assumere la conditio hominis quale ineludibile orizzonte di senso, è oggigiorno incrinata, per non dire sotto attacco, come si può costatare nei più recenti dibattiti; essi, infatti, sono animati da una febbrile urgenza di riforma e puntellati con facili risposte generate in seno a quegli approcci, trasversali rispetto alle discipline, più inclini all’assumere un carattere normativo e che si rivelano sordi alla problematicità dei loro assunti. Le sollecitazioni che attraversano il mondo dell’istruzione, di cui le numerose quanto dimenticabili Proposte di Confindustria sono un patente esempio, alternano un marcato filoneismo a una progressiva trasformazione del vocabolario con il quale si parla d’educazione: si pensi, tra gli altri, a termini quali education, governance, empowerment, skill, assessment, tenaci pareti di una gabbia discorsiva che rischia di soffocare un più arioso e disteso discorso educativo. Il connubio di tali dinamiche produce un disorientamento nel quale è sempre più arduo tener vivo un produttivo dialogo con l’eredità culturale del passato, dialogo però ineludibile per un’educazione che possa volgersi proficuamente al futuro. In questa complessa cornice, il mio contributo si è soffermato sulla centralità di una conversazione con la tradizione quale motore per rafforzare e trasformare il paradigma educativo odierno: fino a pochi decenni orsono, infatti, ogni profonda innovazione culturale si è configurata come una rinascita dell’antico in vesti inedite poiché foggiate sulle esigenze del presente. Esempio suggestivo è quello del viaggio compiuto dall’Echiridion di Epitteto: questo breve testo nato da una relazione pedagogica, composto da un allievo per tener traccia dell’insegnamento del maestro, dopo la mutevole fortuna durante il Medio Evo latino, ricevette una rinnovellata attenzione grazie ad alcuni umanisti italiani, in particolare Niccolò Perotti (1430 circa – 14 dicembre 1480) e Angelo Poliziano (14 luglio 1454 – 29 settembre 1494). Se il primo indirizza la sua traduzione latina del 1450 a Tommaso Parentucelli, Papa Niccolò V, dimostrando l’estrema importanza dell’eredità classica per il pensiero cristiano, il secondo, già precettore del figlio Piero, dedica l’epistola prefatoria della sua fatica del 1479 a Lorenzo de’ Medici, esplicitando la funzione regolativa dell’opera di Epitteto per il sanguigno temperamento del condottiero. Dal greco al latino, l’opera di traduzione, il vertendo interpretari, vive un altro momento di profonda significatività con il passaggio dell’opera all’italiano compiuto dalla penna di Giacomo Leopardi; il poeta e inesausto studioso recanatese che, già nel 1821, nutriva il progetto di un’opera che ricalcasse le orme di Epitteto, suggestionato dalle graffianti massime di La Rochefoucauld, nel 1825, dopo aver tradotto le Operette morali di Isocrate, pose infatti mano alle pagine dell’Echiridion. La sua traduzione non sarà pubblicata se non postuma nell’edizione fiorentina delle Opere curata da Ranieri nel 1845, ciononostante, nel breve Preambolo del volgarizzatore, posto in apertura del testo, Leopardi assunse una postura ben più risoluta di quella di Poliziano, che si voleva interpres non philosophus, avocando a sé il diritto di fornire una lezione dell’opera calibrata sui suoi tempi, nei quali riscontrava il venir meno della possibilità stessa di una morale eroica, per la quale mancanza ricorse al farmakon della parola di Epitteto. Contesti storici e sensibilità differenti, opere di traduzione rivolte a lettori del tutto diversi, tanto che dal parlare all’orecchio del signore rinascimentale si è passati alla ricerca di un pubblico vasto e, in parte, da sedurre con oculate operazioni editoriali; pur in queste differenze, però, Poliziano e Leopardi condividevano la fiducia riposta nella possibilità che la tradizione fosse rispondente, viva forza che il tempo avrebbe potuto occultare ma non spegnere, custode, proprio attraverso gli studi umanistici, di una visione complessa e ricchissima dell’uomo e della sua fragile bellezza, un affresco senza cui, anche oggi, qualsivoglia impresa educativa rischierebbe di reificare l’antropos, mercificando la conoscenza e svilendone le finalità più alte. Educare agli e attraverso gli studi umanistici, quindi, oltre a un’indispensabile funzione isagogica alla cultura occidentale, significa non cessare di coltivare un’immagine in continuo divenire dell’umano, sottraendola a ogni tentazione riduzionista. Un vegliare e mantener vivo intrisi d’aspettativa, meravigliosamente riassunti da Mario Luzi, con l’elegante semplicità che contraddistingue la sua opera, nella poesia Biglietto d’ingresso del 1998: Occorre credo una catarsi, una specie di rogo purificatorio del vaniloquio cui ci siamo abbandonati e del quale ci siamo compiaciuti. Il bulbo della speranza che ora è occultato sotto il suolo ingombro di macerie non muoia, in attesa di fiorire alla prima primavera. Claudio Fiorillo L’altra mano. La costruzione dell’identità nella relazione Il concetto di “formazione” (dell’uomo) chiama in causa una sostanza quale punto zero del cammino stesso di costruzione dell’identità. Un sostrato (upokeimenon) a partire dal quale formare, quindi, plasmare ed educare un’esistenza (ousia) che però non può esibire alcun certificato di esistenza in vita, perché nessuno sportello anagrafico ha le competenze per emetterne uno che abbia validità universale, pena la ybris del paralogismo. E tuttavia, vi è un’azione che chiama all’essere questa latens ousia, per così dire, ed è la (rel)azione che nasce dall’incontro – dall’urto, vorrei dire – con l’estraneo. L’esistenza stessa diviene coscienza nel momento in cui urta con un’alterità che sente estranea e quindi anche fondamentalmente pericolosa. Ma questo urto, lungi dal rappresentare la pietra tombale dell’identità ne rappresenta invece il fischio d’inizio (Anstoss, in tedesco significa appunto urto, ma anche calcio d’inizio, abbrivo). Ecco quindi che l’esistenza si scopre (r)esistenza nella (rel)azione con un Altri che altri non è che la sponda della propria coscienza, lo specchio della propria identità. Il discorso filosofico (e i suoi cugini pedagogici, antropologici e sociologici) ha tentato molte volte è in diversi modi una comprensione di questo evento (Ereignis) dell’urto che chiama alla coscienza. Ma forse la parola letteraria o la poesia possono là dove il logos filosofico fallisce ripetutamente. «Tu somigli allo spirito che comprendi, non a me!» risponde duro Mefistofele a un Faust che si vorrebbe isotheos, simile alla divinità nella comprensione della realtà. Allora perché non lasciar parlare la parola letteraria, falsa di certo, ma certo maggiormente consapevole di tale falsità della parola filosofica spesso arrogante. A partire da un brano della Fuga dai Piombi di Giacomo Casanova, si è cercato di mostrare come l’esperienza dell’estraneità interiore, per utilizzare un’espressione di Armando Rigobello, può gettare una luce sulla costellazione di senso che ruota dietro e intorno al concetto di “formazione”.