Lo spazio dell`(inter)azione - Dipartimento di Filosofia

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ANNALI DELL’UNIVERSITA’ DI FERRARA
Nuova Serie, Sezione III, Filosofia, Discussion Paper, n. 77
Matteo Baccarini
Lo spazio soggettivo dell’(inter)azione
Università degli Studi di Ferrara
2009
Lo spazio soggettivo dell’(inter)azione‡
Matteo Baccarini†; *
Introduzione
La tradizione fenomenologica ha, da sempre, insistito molto a
considerare lo spazio una dimensione elaborata attivamente,
piuttosto che un orizzonte passivamente ricevuto. Valgano su tutte le
parole di Merleau-Ponty che, ne la Fenomenologia della Percezione,
inizia così una sezione dedicata alla struttura inter-attiva del mondo
percepito come esterno:
Lo spazio non è l’ambito (reale o logico) in cui le cose si dispongono, ma il
mezzo in virtù del quale diviene possibile la posizione delle cose. Ciò equivale a dire
che, anziché immaginarlo come una specie di etere nel quale sono immerse tutte le
cose o concepirlo astrattamente come un carattere che sia comune a esse,
dobbiamo pensarlo come la potenza universale delle loro connessioni. (MerleauPonty 1945, pp. 326-327).
Se, a prima vista, parlare di “connessioni” fra le cose collocate
nei vari punti dello spazio può dare alla dimensione spaziale una
parvenza di oggettività, un’analisi più attenta ci insegnerà che parlare
di connessioni e legami non avrebbe alcun senso se non si facesse
riferimento ad un soggetto capace di cogliere queste relazioni. Ecco
allora che lo spazio perde ogni valore di astratta assolutezza per
venire ridisegnato attorno ad un’entità soggettiva, capace di
determinarne ogni possibile visione prospettica. Non è però solo la
fenomenologia a occuparsi del tema dello spazio: un’analoga
concezione della dimensione spaziale può trovare espressione, infatti,
anche nelle riflessioni di Poincaré. In particolare, nelle pagine di
Scienza e Metodo vengono rilevate le differenze che separano lo
spazio della geometria - omogeneo, isomorfo e isotropo - da quello semplicemente vissuto ed esperito - proprio della biologia. La prima
dimensione è un prodotto eminentemente teorico laddove la seconda
è la base dell’ordine spaziale attribuito al mondo esterno, ed è chiaro
Ringrazio Marcello D’Agostino, Giuliano Sansonetti e Corrado Sinigaglia per una
lettura preliminare e per i preziosi consigli e ringrazio Marzio Gerbella per la
consulenza scientifica.
†
Dipartimento di Scienze Umane, Università di Ferrara, via Savonarola 38, 44100,
Ferrara.; * National Institute of Neuroscience and Neuroscience Center, University of
Ferrara, 44100, Ferrara.
‡
*
1
che non possiamo costruire un simile spazio senza fare riferimento
allo strumento adatto.
Non avremmo quindi potuto costruire lo spazio se non avessimo avuto uno
strumento per misurarlo; ebbene, questo strumento al quale noi riportiamo tutto,
quello di cui ci serviamo istintivamente, è il nostro corpo. È in rapporto al nostro
corpo che situiamo gli oggetti esterni, e le sole relazioni spaziali tra questi oggetti
che possiamo rappresentarci sono le loro direzioni con il nostro corpo. È il nostro
corpo che ci serve, per così dire, da sistema di assi di coordinate (Poincaré 1908, p.
72).
Dunque, per poter rappresentare quello che, più avanti,
chiameremo “lo spazio attorno a noi” dobbiamo possedere un corpo,
conoscerlo ed averne esperienza. Infatti, solo avendo accesso al
nostro corpo possiamo - attraverso il corpo stesso - con gli oggetti a
noi circostanti, ed è proprio da questa possibilità di interazione che
“nasce” la dimensione spaziale. Non è un caso se, con grande
naturalezza, dividiamo il mondo esterno in più settori spazialmente
diversi fra loro. Parliamo di una destra e di una sinistra, di un sopra e
di un sotto o, ancora, di un vicino e di un lontano. Dietro l’aspetto
apparentemente assoluto di questi binomi si nasconde in realtà il
riferimento, tutto soggettivo, alle nostre capacità di agire. Destra e
sinistra vengono identificate in relazione all'abilità con cui sappiamo
muovere le nostre mani, così come il dualismo sopra-sotto si spiega
con quello fra braccia e gambe. Non diversamente, infine, accade per
la dicotomia vicino-lontano che vedremo essere fissata dalla
profondità raggiungibile dal nostro braccio e dalla nostra mano.
Nella profonda convinzione che la filosofia sia un orizzonte
teorico in costante confronto con gli altri settori del sapere - e non un
terreno di ricerca ermeticamente chiuso in se stesso - il presente
articolo ha intenzione di contribuire al dibattito evidenziando i
profondi legami fra le intuizioni filosofiche di pensatori come MerleauPonty o Poincarè e alcune evidenze sperimentali ottenute, negli ultimi
cinquant’anni, in campo neuroscientifico. Come prima cosa, nel
paragrafo 1, metteremo in risalto il carattere personale della
dimensione spaziale, cogliendo l’occasione per sottolineare il ruolo
privilegiato giocato dalla capacità soggettiva di raggiungere i vari
punti dello spazio. Sarà, poi, proprio il riferimento al parametro
“raggiungimento” a portarci, nel paragrafo 2, a focalizzare la nostra
attenzione sul dualismo fra “vicinanza” e “lontananza”. In particolare,
vedremo che questi non sono semplicemente due settori diversi di
uno stesso unicum spaziale, ma due spazi radicalmente distinti. Nel
paragrafo 3 avremo modo di notare che il confine fra spazio lontano 2
peripersonale - e spazio lontano - extrapersonale - non è un confine di
natura metrica. Al contrario, ha un valore esclusivamente funzionale:
si tratta, insomma, di delineare dei possibili campi d’azione e non di
fissare una distanza misurabile in metri o centimetri. Da qui segue
l’idea che tali spazi vengano elaborati separatamente, e che poggino
sull’adozione di sistemi di riferimento diversi fra loro. Di questo si
occuperanno, rispettivamente, il paragrafo 4 e il paragrafo 5. Il
paragrafo 6 è invece ideato per affrontare la questione delle
cosiddette patologie spaziali, ossia quei disturbi neurologici che
impediscono una corretta rappresentazione dello spazio esterno.
Coniugando i risultati della ricerca filosofica e di quella
neuroscientifica - due campi apparentemente lontani ma in realtà
profondamente vicini - cercheremo insomma di smontare il mito
illusorio di uno spazio astratto, assoluto e impersonale per collocare al
suo posto una costruzione molto più sofisticata e concreta, in cui il
fulcro di ogni prospettiva - come vedremo nel paragrafo 7 - sarà un
soggetto corporeo che prima di essere un Ego Cogito, si dimostra
essere un Ego Ago.
1. Lo spazio come dimensione soggettiva
Nel corso della nostra vita entriamo in contatto con moltissimi
oggetti: possiamo utilizzarli, manipolarli oppure limitarci ad afferrarli.
A causa della nostra forte familiarità con queste operazioni, tendiamo
a considerarle elementari o non ulteriormente scomponibili.
Quest’idea è sicuramente intuitiva e gode quindi di grande fascino
ma, purtroppo, poggia su un’assunzione sbagliata. Si tratta allora di
cercare di capire in cosa consista questo errore. Il primo passo da
compiere consiste nel riconoscere che il compimento di ogni azione,
dalla più semplice alla più complessa, richiede il riferimento ad un
bersaglio il quale, a sua volta, deve essere prima di tutto localizzato.
Se infatti, non localizziamo preventivamente il nostro bersaglio, non
potremo mai raggiungerlo e, di conseguenza, ancora di meno
potremo interagirci.
Immaginiamo di voler afferrare un oggetto qualunque in una
qualsiasi tipologia di presa. Dovrebbe così diventare chiaro quanto la
componente di raggiungimento sia fondamentale, perché sappiamo
benissimo che non può esistere alcun “prendere” capace di
prescindere completamente da un “raggiungere”. Il nostro bersaglio
viene così spogliato da ogni assolutezza e inizia ad avere valore solo
per noi, finendo per giocare un ruolo inevitabilmente relativo.
3
Specificheremo più avanti il significato profondo di questo relativismo,
quando avremo modo di vedere che esso vincola lo spazio non tanto
all’individuo di per se stesso quanto alle singole parti che
compongono il suo corpo. Al momento mi interessa soltanto
sottolineare i risvolti teoretici di questa considerazione. Non appena
assumiamo una simile ottica relativistica, siamo costretti anche a
rivalutare - ed in modo radicale - l’importanza dell’esperienza
soggettiva all’interno del processo di rappresentazione della
dimensione spaziale. Proviamo dunque a dare per assunto un simile
passaggio e concentriamoci solo sull’analisi delle sue conseguenze.
Se infatti dobbiamo concepire lo spazio, prendendo in prestito una
descrizione di Merleau-Ponty, come “la potenza universale delle
connessioni” [Merleau-Ponty 1945, p. 327] degli oggetti che lo
abitano, bisogna anche riconoscere che la struttura di queste
connessioni non è affatto semplice e merita quindi di essere indagata
a fondo.
Sicuramente queste connessioni legano i vari oggetti fra di loro,
fissandone le relative distanze. Tuttavia, il significato profondo di
questi “legami” non si esaurisce nella costituzione della suddetta rete
di rapporti metrici “oggettivi”. Anzi, la funzione più intima di questi
rapporti non risiede nel legare i vari oggetti fra di loro, quanto
piuttosto nell’esprimerne le diverse posizioni rispetto ad un soggetto
agente.
Ma qual è l’attributo necessariamente richiesto ad un soggetto
per essere considerato agente? La risposta è molto semplice: il
possesso di un corpo; per essere capace di interagire con qualcosa,
un soggetto non può prescindere dal possedere un corpo che sia il
veicolo delle sue azioni. È allora il possesso di un corpo, inteso come
elemento vivo e fonte di esperienza originaria, che fornisce all’uomo
la chiave per aprire le porte del mondo ed esplorarne le infinite
direzioni. Solo facendo riferimento ad un corpo possiamo chiamare
“intorno a noi” lo spazio che ci circonda.
Sorge spontaneo paragonare lo spazio ad un orizzonte
tridimensionale organizzato secondo degli assi di coordinate. Ogni
sistema del genere richiede un punto zero, rispetto al quale
determinare tutte le altre posizioni. Fissata questa posizione iniziale,
sarà poi facile localizzare tutti gli altri punti identificando ognuno di
essi con una tripla di coordinate. Nel caso dello spazio, l’origine degli
assi ordinati deve essere occupata dal nostro corpo vivo, inevitabile
ed imprescindibile punto di partenza per la determinazione di ogni
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distanza e di ogni grandezza. Crolla così ogni pretesa di concepire lo
spazio in termini assoluti.
Ciò nonostante, l’opinione che dipinge lo spazio come una
dimensione unica e continua è ancora largamente diffusa, almeno
nell’ambito dei giudizi del senso comune. Tale assunzione di
onnicomprensività non può però essere altro che il frutto di un
illusione di un’ingannevolezza pari solo alla sua tenacia [Poincaré
1908, p. 67]. Dissipiamo allora questa visione chimerica del mondo, e
sollevando quel velo di Maya che impedisce di riconoscere con
trasparenza l’intrinseca relatività propria dello spazio a noi
circostante.
D’altra parte, però, non si deve neanche peccare di
superficialità ritenendo che la suddetta relatività si esaurisca soltanto
in questo spostamento del soggetto dalla periferia al centro dello
spazio. Il passo, qui, è decisamente più rivoluzionario e consiste nel
rimettere in discussione la struttura stessa del rapporto fra l’uomo ed
il mondo esterno. Da un punto di vista filosofico il concetto di spazio si
trova in tensione fra il valore datogli da Kant [Kant 1781; Kant 1783] intuizione pura a priori il cui esercizio è necessario ad ogni altra forma
esperienziale - ed uno statuto perennemente in fieri le cui origini
teoretiche sono rintracciabili nelle riflessioni fenomenologiche di
Edmund Husserl. In questo secondo contesto, che vorrei sostenere in
questo articolo, la dimensione spaziale non si configura come il
risultato di una ricezione immediata della realtà esterna, ma come il
prodotto di uno sviluppo estremamente complesso [Husserl 1983, p.
109].
Chi indagò a fondo tale complessità fu sicuramente Maurice
Merleau-Ponty, il quale ne La Fenomenologia della Percezione
propone la distinzione fra spazio “spazializzato” e spazio
“spazializzante”, che considero fondamentale nell’economia del
nostro discorso.
[…] O non rifletto, vivo nelle cose e considero vagamente lo spazio ora come
l’ambito delle cose, ora come il loro attributo comune, - oppure rifletto, riafferro lo
spazio alla sua fonte, penso attualmente le relazioni che sono sotto questa parola e
mi accorgo allora che esse non vivono se non in virtù di un soggetto che le descrive
e le sostiene, passo dallo spazio spazializzato allo spazio spazializzante. (MerleauPonty 1945, p. 327)
La prima di queste rappresentazioni è legata ad una ricezione
puramente intuitiva di una spazialità del tutto già formata, che si
configura come una sorta di medium impalpabile in cui sono immerse
tutte le cose. È evidente come questa rappresentazione porti in sé il
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retaggio di una tradizione filosofica capace di fornire soltanto una
descrizione vaga della spazialità. Per questo motivo ritengo superfluo
approfondire la critica a tale immagine del mondo. Decisamente più
promettente si dimostra la nozione di spazio “spazializzante”,
un’entità complessa nella quale le relazioni spaziali vengono definite
solo in virtù di un soggetto capace di sostenerle. Questa seconda
dimensione, capace di esprimere la vera natura delle relazioni
spaziali, è l’unico mezzo grazie al quale possiamo dare una posizione
a tutti gli oggetti di cui abbiamo esperienza. Tuttavia, ora sappiamo
anche che queste posizioni non vengono registrate passivamente,
bensì attivamente distribuite dal soggetto attorno a se stesso.
Stante questo, però, si delinea all’orizzonte un nuovo problema:
come cambia il modo in cui ordiniamo spazialmente il mondo esterno,
se abbandoniamo l’idea di spazio assoluto per abbracciare una
prospettiva relativistica?
2. Spazio peripersonale e spazio extrapersonale
In un articolo dal suggestivo titolo The space around us,
Giacomo Rizzolatti ed i suoi colleghi dell’università di Parma
[Rizzolatti et al. 1997] sostengono che la reale natura dello spazio è
discreta e frammentaria. Se però proviamo ad analizzare la questione
in maniera introspettiva, la nostra descrizione sarà fatta in termini
radicalmente diversi. In particolare, da una tale analisi emergerà
l’impressione di essere di fronte ad una dimensione unitaria e
continua, capace di comprendere in se stessa ogni cosa che ci
circonda. Nel corso di questo paragrafo vedremo come una
concezione “sofisticata”, anche se anti intuitiva, sia capace di
descrivere la natura intima dello spazio in modo decisamente migliore
rispetto a quanto riesca a fare la prospettiva del senso comune. Si
tratta allora di indagare le ragioni che hanno condotto alla
formulazione ed all’assunzione di tale prospettiva “sofisticata”. Come
avremo modo di vedere, queste ragioni devono essere cercate, e
possono essere trovate, tanto nella letteratura scientifica quanto in
quella filosofica.
Oggi sappiamo che la rappresentazione dello spazio è un
processo tutt’altro che univoco. Numerosi studi [Driver et al. 1998;
Graziano et al. 1998a; Berti et al. 2002] hanno infatti dimostrato che
possediamo una molteplicità di mappe spaziali differenti che
permettono di guidare il nostro comportamento in modi altrettanto
diversi. In particolare, per quel che riguarda la profondità, possiamo
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suddividere lo spazio in due grandi settori: quello della prossimità e
quello della lontananza. Solitamente ci si riferisce al primo con il
nome di spazio peripersonale e al secondo con quello di spazio
extrapersonale.
Ancora una volta è il possesso di un corpo - vivo e esperibile - a
ricoprire il ruolo principale, perché ai fini di una corretta interazione
con gli oggetti circostanti, un soggetto “spazializzante” deve sapere
utilizzare i molteplici segmenti del suo corpo in maniera coerente.
Solo a partire da questa capacità possiamo collocare spazialmente,
nel modo che abbiamo descritto, tutti i nostri bersagli. Posta la
centralità del soggetto ed attribuitogli il pieno possesso di un corpo, si
verifica dunque una frattura insanabile nel continuum spaziale che ci
circonda. Alcuni oggetti saranno abbastanza vicini da poter essere
raggiunti semplicemente stendendo un braccio. Altrettanti punti
invece si troveranno talmente distanti da richiedere una diversa
strategia di avvicinamento, come la locomozione. Il riferimento all’uso
della mano, oltre che estremamente evocativo, non è per nulla
casuale. Anzi, è proprio la recente letteratura scientifica a definire lo
spazio peripersonale e quello extrapersonale come la dimensione,
rispettivamente, entro ed oltre la profondità raggiungibile da un
braccio disteso [Berti et al. 2000; Berti et al. 2001]. Inoltre, le
evidenze sperimentali che hanno condotto a questa definizione sono
sicuramente molto numerose ed altrettanto convincenti, poiché
coinvolgono sia un livello d’indagine neurofisiologico un ambito
neuropsicologico.
Mi sia concesso di rimandare l’analisi delle evidenze
neuropsicologiche ad un secondo momento, così da potermi
concentrare ora solo su quelle neurofisiologiche. A questo proposito è
doveroso tornare indietro di circa quarant’anni, prendendo le mosse
dalla scoperta dei neuroni bimodali. Negli anni Settanta del secolo
scorso Mountcastle [Mountcastle et al. 1975] scoprì che alcuni
neuroni tattili del lobo parietale possedevano anche dei campi
recettoriali di carattere visivo. Inizialmente ciò era in pieno accordo
con l’idea di un lobo parietale da concepire come una zona di
corteccia puramente associativa. Secondo questo modello descrittivo,
le informazioni sensoriali verrebbero prima codificate separatamente
nei relativi centri di elaborazione, per poi confluire nelle aree
associative, in cui vengono elaborate in un formato comune. Questo,
in sostanza, era il modo in cui si pensava che il cervello riuscisse a
produrre una rappresentazione complessa del mondo esterno. Ma la
scoperta dei neuroni bimodali era destinata, in un breve periodo, a
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incrinare profondamente la suddetta concezione, colpendola dritta
nelle sue fondamenta. Le risposte visive dei bimodali si verificavano
infatti soltanto quando lo stimolo entrava nello spazio di cattura
dell’animale, mentre scomparivano completamente quando lo stimolo
veniva allontanato. Certamente, i difensori della versione tradizionale
della percezione spaziale potrebbero interpretare questa reazione in
termini di una mera previsione statistica.
In breve, possiamo sintetizzare la loro argomentazione nel
modo seguente. Durante la nostra vita siamo stati toccati moltissime
volte, tante quante abbiamo noi stessi tocchiamo le cose che ci
circondano. Per questo motivo sappiamo alla perfezione che prima
dell’effettivo impatto, l’oggetto in questione è percepibile solo nei
termini di uno stimolo visivo in avvicinamento. Ecco dunque spiegata
la reazione dei neuroni bimodali: si tratterebbe dell’anticipazione
visiva di un contatto largamente annunciato e ripetutamente
avvenuto nel passato. Una simile concezione, a mio avviso, presenta
però un vizio di fondo: presuppone l’esercizio di una sintesi
esperienziale cognitiva che non è propria del contesto cui stiamo
facendo riferimento.
Ovviamente ritengo non ci sia alcunché di sbagliato nel
descrivere un processo cognitivo in questi termini, né nel ritenere che
simili elaborazioni avvengano costantemente nella nostra vita e nella
nostra esperienza dello spazio. Ciò che invece non è corretto è
credere che una simile computazione sia la base del modo in cui
costruiamo la dimensione spaziale che ci circonda. Si noti infatti che
stiamo parlando di una semplice reazione fisiologica dell’organismo,
in cui la sfera della cognizione non gioca alcun ruolo. Meglio sostituire
la rappresentazione con un modello alternativo che consenta una
ricostruzione immediata e non concettuale della complessità del
mondo esterno. Ulteriori evidenze a favore della descrizione
“sofisticata” dello spazio sono rintracciabili nella scoperta che alcuni
neuroni della corteccia motoria possiedono, in realtà, alcune
caratteristiche non esclusivamente motorie. Vediamo di chiarire il
senso di questa affermazione.
La corteccia motoria è sempre stata considerata una zona
deputata alla mera realizzazione di comandi provenienti da altri siti,
almeno fino alla metà degli anni Ottanta del secolo scorso quando si
scoprì che molti di questi neuroni rispondevano anche a stimoli
percettivi [Gentilucci et al. 1988]. In particolare, una buona
popolazione delle cellule neurali appartenenti alla corteccia
premotoria ventrale si dimostrò capace di rispondere non soltanto
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all’esecuzione di un determinato comando motorio finalizzato, ma
anche alla semplice presentazione visiva del bersaglio in questione.
Sorprendentemente, una parte del nostro cervello si attiva allo stesso
modo sia quando dobbiamo effettivamente interagire con un oggetto
sia quando ci limitiamo ad instaurare con esso una relazione
meramente percettiva. Per i neuroni di cui stiamo parlando, insomma,
questi due compiti sono la stessa cosa! In definitiva, l’esistenza dei
neuroni visuomotori indica che il nostro sistema nervoso centrale,
oltre che interpretare gli oggetti osservati come un insieme di qualità
iconiche, li classifica come poli di possibili interazioni.
Analizzeremo in seguito le implicazioni di questa scoperta sulla
comprensione dei meccanismi di raggiungimento. Per il momento
ritengo più utile affrontare una questione che, ben lungi dall’essere
puramente terminologica, assumerà presto un valore determinante
per il nostro discorso. Si tratta del problema di chiarire cosa
intendiamo quando usiamo il termine “comprensione”. La tradizione
discendente dalla classica filosofia della mente e dalle scienze
cognitive
considera
la
comprensione
come
il
prodotto
dell’applicazione di una facoltà giudicatrice di carattere cognitivo che
non può essere chiamata in causa nel contesto del nostro discorso. Al
contrario, la comprensione cui ora stiamo facendo riferimento
coinvolge una dimensione del tutto pre-categoriale e non consapevole
in cui, prima di esercitare le sue facoltà “superiori”, il soggetto
pensante si rivela essere innanzitutto un individuo agente.
Un esempio tratto dalla nostra esperienza quotidiana chiarirà
sicuramente il senso di quello che stiamo dicendo. Immaginiamo di
essere nella nostra stanza e di osservare gli oggetti sparsi sul nostro
tavolo. Una semplice occhiata sarà più che sufficiente per riconoscerli.
Vedremo i nostri quaderni ed i nostri libri e potremo descriverli in
base alle loro caratteristiche qualitative. Di fatto, attribuiremo ad ogni
cosa osservata un nome proprio. Così facendo ognuna di esse verrà
compresa nel senso tradizionale del termine. Tuttavia, quando
osserviamo un oggetto sul nostro tavolo non vediamo soltanto
questo. Oltre ad un ben definito insieme di qualità, infatti, osserviamo
anche - e forse soprattutto - qualcosa che può essere afferrato,
spostato, manipolato o utilizzato. Nel momento stesso in cui
guardiamo il nostro bersaglio, ne comprendiamo il significato motorio;
esso evoca in noi tutte le potenziali azioni che potremmo compiere
verso di lui e attraverso di lui. Si tratta di un’elaborazione automatica
delle informazioni visive grazie alla quale gli oggetti osservati cessano
di esistere indipendentemente dal soggetto che li osserva e hanno
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senso solo in funzione della loro interagibilità [Ungerleider, et al.
1982; Milner et al. 1995; Jacob et al. 2003; Rizzolatti et al. 2003]. E se
vedere un bersaglio in una certa posizione equivale ad elaborare un
piano motorio di raggiungimento identico a quello che elaboreremmo
nel caso di un effettivo raggiungimento, allora localizzazione e
raggiungimento diventano due processi ampiamente sovrapponibili. A
sua volta, questo ci obbliga a considerare i vari punti nello spazio non
come semplici entità geometriche bensì come scopi di altrettanti
movimenti [Rizzolatti et al. 2006]. Ecco allora che, ai fini di una
corretta elaborazione spaziale, il corpo non può più essere solo
posseduto ma deve anche essere vissuto ed esperito come matrice di
continui scambi relazionali con l’ambiente circostante. Se si assume
questa prospettiva è necessario porre nuovamente l’accento sul fatto
che i bersagli situati entro una certa distanza potranno essere
raggiunti con un movimento prossimale. Tutti gli altri, invece,
richiederanno l’adozione di una strategia motoria diversa, basata sulla
locomozione e fondata principalmente sul raggiungimento oculare.
Non pare fuori luogo scorgere in queste considerazioni una forte
assonanza con alcune riflessioni di Jules-Henry Poincarè che, ne La
scienza e l’ipotesi, non perde occasione per interrogarsi a fondo su
cosa significasse veramente localizzare un oggetto. Argomentando in
un modo che si dimostra estremamente attuale ancora oggi, egli
paragona i vari punti dello spazio ad altrettanti bersagli di
innumerevoli movimenti di raggiungimento.
Quando diciamo che “localizziamo” tale oggetto in tale punto dello spazio,
che cosa vogliamo dire? Ciò significa semplicemente che noi ci rappresentiamo i
movimenti che bisogna fare per raggiungere quell’oggetto. E non si dica che per
rappresentarsi questi movimenti bisogna proiettare anche loro nello spazio […].
Quando dico che ci rappresentiamo questi movimenti, voglio soltanto dire che ci
rappresentiamo le sensazioni muscolari che li accompagnano. (Poincaré, 1902, p.
100)
Localizzare un punto, allora, equivale a rappresentare le
sensazioni muscolari che idealmente accompagnerebbero il suo
raggiungimento; di conseguenza, se vogliamo identificare una
posizione, dobbiamo prima proiettare noi stessi nel mondo esterno.
Facendo questo, siamo obbligati a proiettare allo stesso modo anche i
nostri movimenti? La risposta è semplice quanto perentoria:
certamente no. Le sensazioni muscolari di cui stiamo parlando non
avvengono nello spazio ma preesistono allo spazio. Per essere più
precisi, anzi, dovremmo aggiungere che questa dimensione motoria
ne costituisce la trama intima oltre che la struttura ultima. Non siamo
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nella condizione di agire perché abbiamo a disposizione uno spazio.
Piuttosto, è vero il contrario: possiamo sensatamente parlare di
spazio solo perché abbiamo la capacità di muoverci.
Ogni oggetto, ogni punto, è però raggiungibile in molti modi
diversi. Ne segue che l’ordinamento spaziale del mondo esterno
dipende dalla capacità di associare ad ogni punto non un singolo
movimento di avvicinamento, bensì una classe infinita di
raggiungimenti. Consideriamo la percezione simultanea di due
sensazioni provenienti dalla stessa sorgente, ossia un caso di cui tutti
noi abbiamo una grande esperienza. Stante la diversità delle due
sensazioni - poniamo una uditiva e l’altra visiva - in base a quale
criterio riusciamo a capire se descrivono lo stesso oggetto piuttosto
che due fonti separate? Su questo, l’opinione di Poincaré non si presta
a equivoci. È sufficiente controllare se i movimenti necessari per
raggiungere le origini delle sensazioni sono o non sono equifinali. Ai
fini di una localizzazione, dunque, gli spostamenti prossimali hanno
importanza più per il fatto di avere un bersaglio che per la loro
caratteristica cinematica. In altre parole, esprimono quel valore che
oggi viene considerato distintivo delle azioni rispetto ai semplici
movimenti ossia l’essere finalizzato ad uno scopo.
Stante questo, lo spazio non sembra più essere generato
semplicemente a partire dalla capacità di muovere il nostro corpo. Al
contrario, già nelle pagine di Poincarè si può leggere di quel legame
fra rappresentazione spaziale e capacità soggettiva di agire che è
oggi tanto centrale nel dibattito scientifico e filosofico sulla natura e
sulla struttura dello spazio.
3. La natura funzionale del confine fra i due spazi
In condizioni normali, abitiamo uno spazio che siamo soliti
vivere, da un punto di vista introspettivo, come unico e omogeneo.
Come si può coniugare questa intuizione con l’idea che la natura
intima dello spazio sia frammentaria? Proseguendo nella direzione
indicata nel paragrafo precedente dobbiamo ipotizzare che le
dimensioni spaziali vengano prima rappresentate in modi diversi e,
soltanto in un secondo momento, elaborate in un formato integrato.
Questo vale, ovviamente, anche nel caso specifico del dualismo fra
spazio peripersonale e extrapersonale. Tuttavia, la riuscita di una
simile operazione è tutt’altro che scontata, in quanto richiede la
possibilità di accedere allo stesso modo ad entrambi i domini spaziali.
Chiunque di noi, in condizioni normali, è perfettamente in grado di
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padroneggiare questa abilità, ma cosa accadrebbe se tale possibilità
ci fosse preclusa? Come varierebbe la nostra concezione di spazio se,
per un motivo qualsiasi, fossimo capaci di agire soltanto nello spazio
prossimo?
Seguendo nuovamente le indicazioni di Poincarè, possiamo
provare a metterci nei panni di un animale inferiore, incapace di
spostare il suo corpo e costretto a vivere come se fosse inchiodato al
suolo. Non dovrebbe essere molto difficile capire che, in una
situazione del genere, la nostra esperienza dello spazio vicino
rimarrebbe immutata. Ma come ci comporteremmo con gli oggetti
che, trovandosi oltre il limite della nostra peripersonalità, non
saremmo in grado di raggiungere? Se Poincaré ha ragione, e se la
posizione di un punto è espressione della sua raggiungibilità, noi ci
troveremmo nell’impossibilità più totale di collocare quei punti in
alcun luogo. Essi si verrebbero a trovare letteralmente fuori dallo
spazio e di conseguenza non cercheremmo neanche di localizzarli.
Fortunatamente però possiamo stare tranquilli, perché la nostra
condizione non è la stessa del sopracitato polipo idrario! Siamo capaci
di superare il limite che potremmo raggiungere con la semplice
estensione del nostro braccio, e
di solito ci riusciamo pure
abbastanza facilmente. Se il nostro bersaglio è troppo distante
possiamo, prima, camminare verso di lui e, una volta arrivati a debita
distanza, stendere la nostra mano. Così come la motilità dei singoli
effettori è determinante ai fini della generazione dello spazio
peripersonale, la padronanza della locomozione sembra dunque
giocare un ruolo decisivo nella costruzione di quello extrapersonale.
Ne Il libro dello spazio Edmund Husserl descrive esplicitamente
questa abilità come la chiave di volta che permette all’uomo di
superare il limite di uno spazio chiuso nel sistema dei movimenti del
capo e del tronco.
“Se resto al mio posto” ho un sistema chiuso con una profondità assoluta
(per quanto possa estendere le mani ed eventualmente i piedi), e questo intero
sistema viene messo in moto quando cammino; ciò che era lontano diviene vicino, e
nuove lontananze si schiudono. Ogni posizione in un sistema parziale e ogni
posizione nel sistema complessivo (dove l’infinitamente lontano ha il significato di
qualcosa da trasformare in infinitum e ripetutamente in vicino) può essere
trasformata in un’altra posizione attraverso un movimento idealmente libero.
(Husserl 1983, pp. 124-125)
Se rimanessimo sempre fermi al nostro posto, rimarremmo
inevitabilmente bloccati in uno spazio chiuso e di un’estensione
assoluta, che non andrebbe oltre la lunghezza del nostro braccio: lo
spazio peripersonale. Solo con il movimento libero da un punto
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all’altro possiamo varcare la soglia di questa dimensione ristretta e
generare una seconda spazialità limitata - ma non per questo chiusa soltanto dalla profondità che possiamo raggiungere con la vista. Posta
però la differenza fra spazio peripersonale e extrapersonale, come
possiamo descriverne la linea di confine? Il resto del presente
paragrafo sarà dedicato a rispondere a questa domanda. Se non
possiamo fare riferimento a un valore puramente metrico dobbiamo
trovare un nuovo criterio di demarcazione. Alla luce di quanto stiamo
sostenendo, il principale indiziato sembrerebbe essere il riferimento
alle nostre azioni, ossia al modo in cui utilizziamo il nostro corpo nelle
interazioni con gli oggetti a noi circostanti.
Previc [Previc 1990] propone di adottare un criterio retinico. Per
localizzare visivamente un bersaglio vicino dobbiamo inclinare lo
sguardo verso il basso così come, in maniera contraria, siamo
costretti a rivolgerlo verso l’alto se intendiamo osservare un oggetto
più distante. Il confronto fra la vicinanza e la lontananza sembrerebbe
così esprimibile nei termini del rapporto fra l’emicampo visivo
inferiore e quello superiore. Sotto un certo punto di vista questo è
sicuramente vero, ma dobbiamo stare attenti a non commettere
l’errore di ridurre il tutto ad una questione meramente percettiva. Il
collocamento degli oggetti all’interno dell’una o dell’altra dimensione
non può, infatti, non avere ripercussioni molto forti sul nostro modo di
rapportarci con gli oggetti stessi. Per capirlo a fondo, propongo un
semplicissimo esperimento mentale. Consideriamo due punti
appartenenti rispettivamente alla metà inferiore e a quella superiore
del nostro campo visivo. Se l’idea di Previc è corretta, il primo punto
cadrebbe nello spazio peripersonale e il secondo in quello
extrapersonale. Proviamo ora a collocare in ognuna delle due
posizioni un oggetto concreto che, in virtù della sua durezza, potrebbe
causarci dei danni. Ovviamente, la probabilità che ciò avvenga non
può che crescere al diminuire della loro distanza da noi, secondo un
rapporto di proporzionalità inversa. Al crescere del primo fattore si
verificherà sempre una diminuzione del secondo valore, e viceversa.
Localizzare un oggetto nell’emicampo visivo inferiore - che
abbiamo detto corrispondere allo spazio peripersonale – implica
attribuirgli un elevato grado di pericolosità. Al contrario, una
collocazione nell’emicampo superiore comporterà il riconoscimento di
una minaccia sensibilmente minore. Tutto questo, di nuovo, ha un
forte significato evolutivo. L’esigenza di massimizzare la nostra
probabilità di sopravvivenza fa si che il nostro organismo associ agli
13
oggetti vicini meccanismi preventivi più diretti e rapidi rispetto a
quelli che vengono associati ai bersagli lontani.
In considerazioni di questo genere è facile sentire l'eco di alcune
intuizioni filosofiche sviluppate da Poincarè, in cui i movimenti di
raggiungimento vengono descritti come vere e proprie parate.
Io so solo che per raggiungere l’oggetto A non ho che da stendere il mio
braccio in una certa maniera. […] Ora, io so anche che posso raggiungere l’oggetto
B stendendo il braccio destro allo stesso modo, estensione accompagnata dalla
stessa serie di sensazioni muscolari. […] E ciò è molto importante, perché in questo
modo potrò difendermi dall’eventuale pericolo rappresentato dagli oggetti A e B. Ad
ognuno dei colpi da cui potremmo essere colpiti, la natura ha associato una o più
parate che ci permettono di evitarli. […] Questi oggetti, di cui diciamo che occupano
uno stesso punto nello spazio, non hanno niente in comune, tranne il fatto che una
stessa parata ci può permettere di difenderci contro di loro. (Poincaré, 1908, pp.
72-73)
Soltanto associando ai vari punti dello spazio la capacità di
evocare in noi altrettanti movimenti di raggiungimento possiamo
riuscire a parare i colpi che ne potrebbero provenire, intercettandoli a
tempo debito e salvaguardando la nostra incolumità. In altre parole,
la distinzione fra vicinanza e lontananza si concretizza nella capacità
di pianificare classi di parate di diverse ampiezze. Si noti che la
gittata di cui stiamo parlando non indica semplicemente una distanza,
espressa in centimetri, metri o chilometri, ma ha un valore
esclusivamente pragmatico. Possiamo difenderci dai pericoli vicini
semplicemente usando la nostra mano come scudo, mentre dovremo
ricorrere a strategie diverse quando avremo a che fare con bersagli
più distanti. In particolare ricorreremo a parate più ampie, capaci di
coprire una distanza maggiore rispetto a quella raggiungibile con la
semplice estensione dei nostri arti. Ciò significherà ancora agire
attraverso il nostro corpo, anche se questa volta il corpo verrà
utilizzato in modo profondamente diverso.
Ecco allora che siamo riusciti a portare a termine il compito di
cui ci eravamo fatti carico all’inizio del paragrafo. Recuperando una
fortunatissima intuizione di Poincaré, abbiamo delineato un criterio di
demarcazione fra vicino e lontano capace di prescindere dal valore
puramente metrico di questo dualismo. Stante quanto abbiamo detto
fino ad ora, infatti, dobbiamo distinguere lo spazio peripersonale da
quello extrapersonale sulla base non della distanza a cui si collocano,
bensì a partire dalle relazioni che possiamo intrattenere con
l’ambiente circostante stando al loro interno.
14
4. Le due circuiterie
Gli oggetti esterni possono trovarsi in molte posizioni che, dal
nostro punto di vista, sono raggiungibili in modi diversi. In base a
questo consideriamo alcuni punti come vicini e tutti gli altri lontani.
Posto un bersaglio in un punto qualsiasi dello spazio, si delineano due
alternative. In primo luogo esso potrebbe trovarsi a portata di mano,
così da poterlo raggiungere semplicemente allungando un braccio e
stendendo le dita. Se però l’oggetto è situato fuori dal nostro spazio di
cattura, spostare un singolo effettore non sarà sufficiente. Saremo
costretti, allora, a elaborare una strategia motoria alternativa, capace
di coprire una profondità superiore.
Possiamo distinguere lo spazio peripersonale da quello
extrapersonale legandoli alle attività motorie a breve ed a lungo
raggio, e è facile notare che fra queste classi di movimenti sussista
una profonda differenza cinematica. Stante questa prima differenza,
cosa dire a proposito della loro base biologica? Queste classi di
movimenti soggiacciono allo stesso meccanismo fisiologico o, al
contrario, dipendono da strutture diverse? Proviamo a seguire ancora
una volta la strada indicata dalle intuizioni di Poincaré e, di
conseguenza, sviluppiamo il secondo corno del nostro dilemma.
Abbiamo già accennato al fatto che lo spazio esterno è discreto in
quanto generato a partire dalla capacità di eseguire più classi di
movimenti. A loro volta, e è di questo di cui ci occuperemo ora, questi
movimenti sono tanto diversi da poggiare su basi biologiche distinte.
Per capire in modo approfondito cosa questo significhi,
concentriamo la nostra attenzione sulla struttura e sul funzionamento
del meccanismo che è responsabile del controllo della nostra motilità,
ossia sul sistema motorio. È noto che il sistema motorio sia una
struttura organizzata in modo estremamente gerarchico. Ai vertici alti
della gerarchia si colloca, con il compito di inviare i comandi motori
destinati ai motoneuroni del midollo spinale e del tronco encefalico, la
corteccia motoria. A loro volta, questi siti ritrasmettono le suddette
informazioni verso le zone periferiche del corpo, dove i nervi motori le
concretizzano traducendoli in comportamenti motori espliciti. Ogni
segmento corporeo possiede dunque una sorta di immagine situata a
livello della corteccia motoria. Inoltre, distretti corporei diversi
vengono rappresentati in punti diversi della corteccia motoria. Per
usare una terminologia tecnicamente adeguata, potremmo dire che la
corteccia motoria è organizzata in maniera somatotopica [Gentilucci
et al. 1988; Matelli et al. 1986].
15
Attorno alla metà del Novecento, stimolando elettricamente la
superficie della corteccia motoria dell’uomo, Wilder Penfield [Penfield
et al 1950] tentò di fornire una mappatura di questa organizzazione
proponendo il modello del cosiddetto homunculus motorio. La
caratteristica più evidente di questo modello è la sua tendenza a non
rappresentare i vari distretti corporei allo stesso modo. Ogni parte del
corpo viene infatti riprodotta nello homunculus in modo proporzionale
alla finezza con cui può essere utilizzata. Tanto più accuratamente un
segmento corporeo può venire mosso, tanto più estesa sarà la
porzione di corteccia motoria destinata alla sua immagine. Per questo
motivo effettori a grande precisione, come mano e testa, possiedono
un’immagine corticale sensibilmente più ampia di parti corporee,
come il tronco o i piedi, che non conoscono applicabilità fine.
Questo modello possiede senza dubbio una grandissima forza
esplicativa: permette, per esempio, di rendere conto intuitivamente
del modo in cui controlliamo il movimento del nostro corpo. Tuttavia
lo sviluppo delle tecniche di analisi elettrofisiologica, unito allo studio
delle caratteristiche morfologiche e anatomiche cerebrali, ha
evidenziato un’organizzazione decisamente più articolata di quella
teorizzata dal modello penfeildiano. Innanzitutto da un punto di vista
morfologico la corteccia motoria non si presenta come una struttura
unitaria ma può essere divisa in due sezioni, ossia la corteccia
motoria primaria e quella premotoria.
Prendendo le basi da questa partizione, l’analisi del cervello dei
primati inferiori ha indicato nella divisione ventrale della corteccia
premotoria, più precisamente nell’area F4, il principale sito di
controllo dei segmenti superiori del corpo [Matelli, et al. 1986; Matelli
et al. 1992]. L’adeguata stimolazione di questo sito evoca il
movimento, perfettamente direzionato nello spazio, di effettori quali
mani, braccia, testa, bocca e tronco. Studi di registrazione condotti
sui singoli neuroni di F4 hanno inoltre dimostrato che la maggior parte
di queste cellule si attiva in relazione a movimenti di raggiungimento
in cui vengono implicati solo i singoli segmenti corporei, mentre
rimangono silenti di fronte a movimenti a lungo raggio. L’area F4
sembrerebbe allora ricoprire un ruolo centrale nella pianificazione dei
movimenti prossimali, indipendentemente dal loro essere espliciti o
potenziali. Numerosi studi odologici [Hyvarinen 1982; Andersen et al.
1990; Graziano et al. 2006] hanno poi dimostrato che F4 è fortemente
connessa con l’area VIP, contenuta nel solco intraparietale. Possiamo
quindi ragionevolmente attribuire al circuito corticale collegante F4 e
VIP un ruolo di primaria importanza nell’elaborazione delle
16
informazioni relative allo spazio peripersonale [Graziano et al. 1994;
Graziano et al. 1997].
Un discorso analogo vale, con le dovute differenze, anche nei
confronti dello spazio extrapersonale. Poiché queste differenze non
sono per nulla irrilevanti cerchiamo di capire come mai operare nei
confronti dello spazio lontano è molto più problematico di quanto non
lo sia per la dimensione vicina. Parlando delle intuizioni filosofiche di
Husserl e di Poincaré abbiamo già avuto modo di ipotizzare che la
dimensione della lontananza sia generata a partire dall’abilità di
muovere localmente il nostro corpo. Il problema è che, a differenza di
quanto accade con i movimenti prossimali, nel caso della locomozione
non vengono coinvolti singoli effettori, ma tutto il corpo nella sua
interezza e complessità. Si tratta quindi di identificare, fra le tante
componenti motorie implicate nella locomozione, quella dal contributo
maggiormente fondamentale.
Anche in questo caso, avvaliamoci dell’aiuto di un esempio
tratto dalla nostra vita quotidiana. Immaginiamo di doverci spostare
da un angolo all’altro della nostra stanza. Per poter fare questo
dobbiamo ovviamente controllare il movimento delle nostre gambe
coordinandolo all’assunzione di un determinato atteggiamento
posturale. Soltanto così potremo riuscire a bilanciare il nostro peso
per non perdere l’equilibrio dopo aver mosso il primo passo. Tuttavia,
nessuna delle suddette operazioni avrebbe il benché minimo valore
se, banalmente, non sapessimo dove andare. In altre parole, prima di
poter camminare dobbiamo rivolgerci verso il nostro bersaglio e il
nostro primo strumento per fare questo è l’orientamento oculare.
Stiamo parlando di un’esplorazione visiva del mondo resa possibile
dall’esercizio dei movimenti saccadici - quella classe di movimenti
oculari che permette di direzionare lo sguardo verso gli oggetti che
vogliamo osservare - che garantisce la possibilità di eseguire una
sorta di locomozione immobile [Berthoz 1997, p.155] nell’ambiente
esterno. Del resto, ne abbiamo costantemente esperienza: se
vogliamo osservare un oggetto dobbiamo portare i nostri occhi su di
lui e facendo questo eseguiamo una saccade. Di fatto, eseguiamo con
gli occhi un raggiungimento del tutto equivalente a quello che
eseguiremmo con la mano se il nostro braccio fosse sufficientemente
lungo.
È ormai abbondantemente noto [Moore et al. 2001; Moore et al.
2004] che nei primati inferiori questa classe di rapidissimi movimenti
viene controllato dall’area FEF, posta anteriormente alla già citata F4.
Evidenze in questo senso provengono sia da studi di stimolazione sia
17
da stimoli di registrazione. Stimolando FEF si può provocare una
gamma di spostamenti oculari di ampiezza variabile, molto rapidi ed
estremamente riproducibili. Al tempo stesso, se si registra l’attività di
questi neuroni durante compiti di orientamento visivo, appare
evidente la selettività della loro risposta. Studi odologici [Schall et al.
1995; Tehovnik et al. 2000; Tolias et al. 2001] hanno infine permesso
di mettere in luce le principali connessioni dell’area FEF, evidenziando
uno scambio particolarmente ricco con l’area intraparietale LIP [Schall
1997].
Possiamo ora tracciare un quadro riassuntivo delle circuiterie
neurali implicate nella costruzione dello spazio peripersonale ed
extrapersonale. Si tratta ovviamente di un quadro semplificato,
poiché la rete di connessioni di F4 e di FEF sono molto più articolate di
quanto non emerga dal nostro resoconto. In questo senso tale
descrizione può risultare non totalmente esaustiva. Tuttavia, credo
che una simile perdita in precisione venga compensata da un analogo
guadagno in chiarezza. Il nostro quadro, infatti, segnala molto
chiaramente la differenza e l’irriducibilità dei due circuiti in cui
vengono codificate le informazioni legate allo spazio vicino e a quello
lontano.
Nell’elaborazione
delle
prime
vengono
coinvolte
principalmente F4 e VIP mentre nella codifica delle seconde hanno un
ruolo dominante FEF e LIP. Lo spazio, allora, è veramente un’entità
discreta e composta almeno da due dimensioni, costruite grazie
all’esercizio di abilità tanto diverse da richiedere basi neurali separate
e indipendenti.
5. Coordinate
somatocentriche
retinocentriche
e
coordinate
A seguito della selezione naturale, il cervello affina la capacità
di controllare il movimento del corpo, ampliando la gamma di
soluzioni a problemi computazionali che si fanno sempre più
complessi. Se siamo disposti ad accettare questo - e sembra
veramente difficile non farlo - non possiamo esentarci dal riconoscere
che il confine fra spazio peripersonale e extrapersonale ha una natura
funzionale.
Kemmerer [Kemmerer 1999] suggerisce di considerare la
spazialità vicina come l’orizzonte in cui vengono controllati gli
spostamenti dei singoli distretti corporei. Abbiamo detto che la
capacità di esercitare tale controllo acquista sempre maggiore
importanza nella storia dei primati e degli ominidi, in particolare dal
18
momento dell’adozione di una postura eretta. Riuscendo a rimanere
verticale, l’animale riesce a sostenere il proprio corpo semplicemente
utilizzando i suoi arti posteriori. Così facendo, lascia gli arti anteriori da adesso superiori - liberi di essere usati in altre maniere. Nel caso
dei primati inferiori queste alternative sono estremamente semplici
ma, nondimeno, godono di una certa significatività. Infatti, seppur
necessariamente stereotipate, esse esprimono già una tensione verso
il mondo esterno che indica chiaramente la necessità, soggettiva, di
considerare gli oggetti circostanti in termini di relazioni interattive.
Nel caso dell'essere umano, l’uso delle braccia viene sviluppato in
modo ancora più perfetto. Di fatto non utilizziamo le nostre braccia
solo per funzioni relativamente semplici, quali la raccolta di cibo e
l'esecuzione di parate difensive, ma anche per veri e propri
comportamenti manipolatori che possono raggiungere livelli di
complessità anche estremamente alti.
Ovviamente, possiamo svolgere questi compiti in modo utile
solo a patto che il nostro bersaglio si venga a trovare “a portata di
mano” ossia all’interno dello spazio peripersonale. Come cambiano le
cose quando abbiamo a che fare con l’orizzonte della
extrapersonalità? E considerando che esso contiene oggetti troppo
distanti per costituire una minaccia diretta, come cambia il modo in
cui ci rapportiamo ai relativi punti nello spazio? Una prima risposta
potrebbe consistere nel qualificare tale orizzonte come l’ambito in cui
avviene il riconoscimento visivo e la classificazione degli oggetti
percepiti. Seguendo i suggerimenti di Kemmerer [Kemmerer 1999],
dovremmo estendere anche a questi processi gli effetti benefici della
selezione naturale. Nel corso della loro evoluzione, primati e ominidi
hanno necessitato di una quantità e di una varietà di cibo sempre
maggiori. È chiaro quale vantaggio abbia potuto procurare lo sviluppo
della capacità di riconoscere gli oggetti da lontano, principalmente
grazie alla vista, e non è necessario insistere ulteriormente su questo.
Se le cose stessero esattamente così dovremmo considerare
uno stesso oggetto sotto due aspetti diversi interpretandolo, a
seconda della sua posizione, come un insieme di qualità o come il
potenziale bersaglio di una nostra azione. A parere di chi scrive però,
non è possibile relegare la dimensione della lontananza al ruolo di
arena per una visione esclusivamente finalizzata alla percezione. Al
contrario, credo che anche allo spazio extrapersonale debba essere
ascritta una valenza legata alla capacità soggettiva di agire sul
mondo in esso rappresentato. C'è certamente un fondo di ragione
nell'insistere sull’importanza della ricerca visiva all'interno dei
19
processi che portano alla costituzione della spazialità distante. D’altra
parte però, ritengo non sia il caso di assumere una posizione tanto
radicale da spogliare questa esplorazione visiva di ogni suo aspetto
tensorio. Verrebbe così meno quel rapporto di interdipendenza e di
interazione fra soggetto e ambiente, che abbiamo già detto essere a
fondamento dei processi di costruzione delle dimensioni spaziali. Lo
spazio lontano è allora uno spazio d'azione, esattamente come lo
spazio vicino, ma con la differenza di poggiarsi su azioni a lungo
raggio.
Non dobbiamo dimenticare, poi, l'enorme importanza che
l’abilità di sondare il mondo esterno attraverso movimenti oculari
esplorativi volontari ha per la nostra sopravvivenza. Grazie ai
movimenti saccadici siamo in grado di localizzare uno stimolo visivo,
le cui caratteristiche potranno poi essere interpretate in termini
iconici o in termini motori. Computando gli aspetti motori delle
informazioni visive, il nostro cervello riesce ad elaborare una classe di
possibili movimenti che rendono possibile la pianificazione di
un’interazione soggetto-oggetto. Ciò si concretizza nell’adozione di un
orientamento del corpo verso il bersaglio, che sia coerente
indipendentemente dalle distanze coinvolte. Con questo, però, non
stiamo in alcun modo sostenendo che la direzione dello sguardo abbia
lo stesso peso nella peripersonalità e nell’extrapersonalità.
Mountcastle [Mountcastle et al. 1975] mostra che alcuni neuroni
della corteccia parietale di scimmia non rispondono soltanto a stimoli
tattili ma anche a stimolazioni visive. Per questa loro caratteristica,
tali neuroni sono stati definiti bimodali visuo-tattili [Bremmer et al.
2001; Husain et al. 2006]. Più specificatamente, i neuroni registrati da
Mouncastle [Mountcastle et al. 1975] scaricavano spontaneamente
ogni volta che lo sperimentatore faceva entrare un chicco d’uva nello
spazio peripersonale del primate. Al contrario l’attività dei bimodali
cessava completamente quando il chicco d’uva faceva la sua
comparsa nello spazio extrapersonale. Negli anni Novanta del secolo
scorso, infine, una serie di esperimenti condotti dai ricercatori del
gruppo di Parma ha localizzato dei neuroni bimodali anche all’interno
della corteccia premotoria [Fogassi et al. 1992]. Considerate insieme,
queste due scoperte hanno permesso di dimostrare che lo spazio
vicino e lo spazio lontano non differiscono soltanto per il loro aspetto
genetico, ma anche per quel che riguarda il grado della loro
polisensorialità.
Lo spazio extrapersonale avrebbe così una connotazione
principalmente visiva e oculomotoria, mentre quello peripersonale
20
sembrerebbe essere il risultato di una sintesi multisensoriale più
complessa, che trova un fondamento biologico nelle reazioni dei
neuroni
visuo-tattili.
Cerchiamo
allora
di
comprendere
il
funzionamento di queste peculiari cellule nervose. I bimodali sono,
per così dire, sintonizzati su due formati percettivi diversi e di
conseguenza possiedono due campi recettoriali distinti. Il primo di
essi è di tipo aptico e si attiva in seguito a stimoli tattili. Il secondo
essendo visivo risponde alla vista di immagini, principalmente
tridimensionali. Lo stesso neurone che “controlla” una determinata
porzione della superficie del corpo e che scarica quando essa viene
toccata, reagisce anche di fronte ad uno stimolo visivo in
avvicinamento, anticipandone il contatto. Di fatto, lo spazio visivo
immediatamente circostante al corpo viene rappresentato come se
fosse una sorta di estensione tridimensionale della superficie cutanea
stessa.
La presenza di caratteristiche visive in queste cellule,
appartenenti alla corteccia premotoria e a quella parietale,
sembrerebbe renderle simili a quella visiva del lobo occipitale. Tale
somiglianza è però soltanto superficiale. I neuroni contenuti nelle aree
occipitali possiedono dei campi recettoriali visivi che coprono porzioni
circoscritte di uno spazio esclusivamente visivo. Ognuna di queste
cellule reagisce selettivamente all’ingresso di un oggetto nella zona
spaziale di propria competenza. Per ovvi motivi, la posizione di questi
campi recettoriali dipende dal modo in cui sono orientati i nostri
occhi, tanto che un movimento della retina è sempre accompagnato
da un analogo spostamento da parte loro. I campi visivi dei neuroni
visuo-tattili invece si comportano in modo del tutto differente. Le loro
risposte visive sono infatti modulate dalla posizione del
corrispondente campo aptico [Fogassi et al. 1996; Graziano et al.
1998b].
Consideriamo il caso di un neurone bimodale avente un campo
tattile situato su un braccio. Il corrispondente campo visivo catturerà
lo spazio visivo immediatamente circostante a quel braccio. Proviamo
ora a spostare il braccio e a portarlo nell’emispazio controlaterale.
Sorprendentemente, la reazione visiva segue lo spostamento del
braccio, dimostrando che il campo recettivo visivo si mantiene
solidale al corrispondente campo visivo. Lo spazio peripersonale fa
dunque riferimento a coordinate centrate sulle varie parti del corpo
[Làdavas et al. 1998]. Del resto, è facile ipotizzare che lo spazio
peripersonale - essendo legato all’azione diretta del soggetto sul
mondo - faccia esplicitamente riferimento ai segmenti corporei di
21
volta in volta implicati nell’azione. Diversamente, lo spazio
extrapersonale si configura come il campo delle azioni capaci di
coinvolgere il corpo in tutta la sua interezza. Per questo motivo ha
senso supporre che esso esprima le proprie relazioni utilizzando un
sistema centrato sugli occhi. Come conseguenza, possiamo legare i
punti dello spazio lontano ad altrettanti punti della retina. In questo
modo, la distanza fra due punti nello spazio sarà equivalente
all’ampiezza del movimento necessario a spostare il nostro sguardo più precisamente, la nostra fovea - dalla prima posizione alla seconda.
In conclusione, credo che alla suddetta differenza funzionale fra
spazio vicino e spazio lontano, di cui abbiamo discusso nei paragrafi
precedenti, possiamo ora sovrapporre l’uso di coordinate altrettanto
diverse. La differenza delle azioni che in essi possono essere
compiute suggerisce infatti di adottare dei sistemi di riferimento
somato-centrici per lo spazio peripersonale e uno retino-centrico per
quel che riguarda lo spazio extrapersonale.
6. Evidenze neuropsicologiche sull’uomo
La neuropsicologia, nata nella seconda metà dell’Ottocento
grazie al contributo di Broca, studia gli effetti comportamentali delle
lesioni cerebrali. In questo paragrafo ci concentreremo sulle
cosiddette dissociazioni spaziali, che provocano una distorsione nella
rappresentazione dello spazio. In particolare analizzeremo i casi del
neglect e dell’estinzione visuo-tattile. Fra le due patologie quella più
grave è sicuramente quella del neglect che insorge a causa di lesioni
molto estese all’emisfero cerebrale destro, provocando una perdita di
consapevolezza delle relazioni topografiche controlesionali. Bisiach e
Luzzatti [Bisiach et al. 1978] chiedono ad un loro paziente di chiudere
gli occhi e di pensare agli edifici presenti in piazza Duomo a Milano. In
risposta a questa richiesta il paziente descriveva soltanto gli edifici
situati
nella
metà
destra
del
suo
spazio
immaginato.
Successivamente, allo stesso paziente viene richiesto di ripetere
l’esperimento dopo aver cambiato l’orientamento del suo corpo,
ruotando su se stesso. In risposta a questa seconda prova il soggetto
descriveva nuovamente soltanto la metà della piazza che, questa
volta, si veniva a trovare alla sua destra. È chiaro dunque che non si
possa trattare di un deficit mnemonico. Oltre alla perdita dei valori
topografici, il neglect induce l’errata rappresentazione delle relazioni
metriche controlesionali.
22
Molti dei pazienti di neglect hanno difficoltà a riprodurre
graficamente gli oggetti che vedono, persino quando sono
estremamente semplici e stilizzati. Ad esempio, davanti all’immagine
di un fiore essi la ricopiano disegnando soltanto i petali posizionati
alla destra del gambo, ignorando gli altri. Allo stesso modo, davanti
alla richiesta di ricopiare un orologio riportano solo i numeri posti
nella metà destra del quadrante. Halligan e Marshall [Halligan et al.
2001] studiano il comportamento di Tom Greenshield, un pittore
professionista che aveva perso la funzionalità di gran parte del suo
lobo parietale destro dopo essere stato colpito da ictus cerebrale.
Analizzando i suoi quadri è chiara la forte tendenza dell’autore a
ignorare la metà sinistra degli oggetti rappresentati graficamente.
Un altro test clinico particolarmente utilizzato è quello di
bisezione, in cui si chiede al paziente di indicare il punto medio di
segmenti di varia lunghezza. Questo paradigma si basa su una
semplice constatazione: il paziente da neglect, rappresentando la
porzione sinistra della linea più corta di quella destra, tenderà a
collocare il punto medio inevitabilmente più a destra di quanto non lo
sia in realtà. Il test di bisezione, poi, si presta alla perfezione per
fornire una misura quantitativa dell’intensità degli effetti
comportamentali della patologia. Tanto più, infatti, il presunto punto
medio sarà spostato verso destra, tanto maggiore sarà la severità
della negligenza e, di conseguenza, tanto più compromessa sarà la
relativa rappresentazione spaziale.
Questo aspetto della patologia è sicuramente molto eclatante,
basti pensare al fatto che in alcuni casi i pazienti arrivano anche a
mangiare solo metà del cibo contenuto nel loro piatto e a radersi
soltanto metà del proprio volto; tuttavia, questa non è anche la
caratteristica ritenuta più interessante. La letteratura scientifica ha
infatti sempre prestato molta attenzione al fatto che gli effetti di
questa patologia sono modulabili dalla distanza che intercorre fra il
paziente ed il proprio bersaglio [Butler et al. 2004]. Brain [Brain 1941]
riporta il caso di un uomo che pur riuscendo ad indicare con grande
precisione la posizione di oggetti lontani, non era in grado di fare
altrettanto nei confronti degli oggetti posti nelle immediate vicinanze
del suo corpo. Allo stesso modo, Halligan e Marshall [Halligan et al.
1991], analizzano un caso clinico in cui il neglect aveva un forte
impatto sulle prestazioni del paziente solo quando queste erano
rivolte verso la peripersonalità. Di nuovo, gli effetti patologici
diminuivano sensibilmente quando il soggetto interagiva con bersagli
distanti. In modo diametralmente opposto, Cowey, Smart e Ellis
23
[Cowey et al. 1994] argomentano a favore dell’esistenza di una forma
di neglect rivolta non verso la peripersonalità ma verso
l’extrapersonalità.
Nel caso dell’estinzione, invece, gli stimoli sensoriali
controlesionali non vengono ignorati completamente, come nel caso
del neglect, ma trascurati solo quando vengono presentati
simultaneamente ad altri stimoli ipsilesionali. Un test molto semplice
per verificarne la presenza consiste nel chiedere al paziente di
guardare il naso dell’esaminatore mentre quest’ultimo muove le dita.
Se l’esaminatore muove una sola mano alla volta, il paziente non ha
la minima difficoltà a descrivere il suo movimento. Quando invece lo
sperimentatore muove entrambe le mani contemporaneamente, il
paziente descrive solo il movimento della mano posta nell’emispazio
ipsilaterale alla lesione. In altre parole, l’informazione sensoriale
proveniente dalla sezione di spazio monitorata dall’emisfero leso
viene ignorata solo quando deve competere con l’informazione
proveniente dalla metà controllata dall’emisfero sano.
Nel caso specifico dell’estinzione visuo-tattile, il conflitto si
verifica fra informazioni visive e tattili. Inhoff e colleghi [Inhoff et al.
1992] analizzano questo tipo di estinzione toccando i loro pazienti
mentre nello spazio extrapersonale dei soggetti faceva la sua
comparsa un evento luminoso. Le risposte dei pazienti erano molto
accurate e sicure. In un primo momento, ciò suggerì di negare
l’esistenza di una versione multi-modale della patologia. Si deve a
Mattingley [Mattingley et al. 1997] la ripresa critica di queste
considerazioni grazie all’introduzione, come variabile di controllo,
della distanza fra il paziente e lo stimolo visivo. Se il segnale
compariva lontano dal paziente, egli riusciva a recepire entrambi gli
stimoli senza difficoltà, in pieno accordo con i dati ottenuti dal gruppo
di Inhoff [Inhoff et al. 1992]. Quando invece l’evento visivo compariva
vicino alla mano del paziente, la performance peggiorava
sensibilmente,
mostrando
inequivocabilmente
gli
effetti
dell’estinzione. La versione cross-modale dell’estinzione dunque
esiste, è stata certificata e presenta degli effetti che, come quelli del
neglect, sono modulabili dalla distanza soggetto-stimolo.
Considerate insieme, le evidenze che abbiamo descritto
forniscono una prova neuropsicologica di come lo spazio esterno
abbia una natura intrinsecamente discreta e frammentaria. Lo studio
dell’estinzione ha dimostrato che fra lo spazio peripersonale e quello
extrapersonale esiste una differenza qualitativa molto solida, legata al
loro grado di integrazione multisensoriale. Così, lo spazio lontano si
24
configura come a dominanza visiva mentre quello vicino assume una
forma ibrida, in cui le sensazioni visive vengono fortemente
influenzate da quelle tattili. Gli studi sul neglect, invece, ci
suggeriscono che i due spazi vengono elaborati attraverso processi
che sono solo diversi ma anche indipendenti fra di loro.
A questo punto, rimane solo da capire se il confine fra queste
due dimensioni spaziali sia fissato univocamente o se, al contrario,
possa variare nel tempo e ce ne occuperemo nel prossimo paragrafo.
7. Plasticità e schema corporeo
Durante la nostra vita, modifichiamo naturalmente la
conformazione del corpo accrescendone la taglia. Basta guardare
qualche vecchia foto per rendersene conto: oggi le nostre gambe, il
nostro collo, le nostre braccia, sono qualche centimetro più lunghe di
qualche anno fa e molto più lunghe di quando eravamo bambini. E’ la
logica conseguenza del fatto che siamo organismi in costante crescita
che, di conseguenza, modificano con il passare del tempo il proprio
rapporto con il mondo esterno. Una gran parte di questo
cambiamento è dovuto all’allungamento dei nostri arti, in particolare
di quelli superiori, che rende raggiungibili punti e oggetti sempre più
lontani.
Ognuno di noi ne avrà sicuramente un ricordo vivido: chissà
quante volte, da bambini, abbiamo provato a prendere un barattolo
nella dispensa, non riuscendoci perché la mensola era troppo in alto!
Da bambini, eravamo costretti a salire su una sedia per raggiungere
la mensola mentre ora, che siamo cresciuti, è sufficiente alzare un
braccio per afferrarlo: alcuni punti che eravamo abituati a considerare
lontani, con lo sviluppo naturale del nostro organismo sono diventati
vicini. Oggetti che prima erano considerati appartenenti allo spazio
extrapersonale, perdono così la loro qualifica di oggetti distanti per
entrare nello spazio peripersonale. Di conseguenza, il confine fra i due
orizzonti spaziali non può avere una collocazione univoca. Al
contrario, esso si sposta in profondità nel tempo come risultato della
progressiva crescita del corpo e delle sue potenzialità.
Questo vale, lo ripeto, nel caso di una crescita naturale
dell’organismo. Che cosa succederebbe, però, se invece di aumentare
la portata delle nostre azioni in questo modo, ricorressimo a soluzioni
artificiali? Se un oggetto è fuori dalla nostra portata diretta possiamo,
come abbiamo detto, camminare verso di lui fino ad averlo a portata
di mano. Oppure, potremmo anche raggiungerlo rimanendo fermi al
25
nostro posto: basterebbe ricorrere all’aiuto di un attrezzo
sufficientemente lungo. Parlando dei neuroni visuo-tattili abbiamo
avuto modo di notare che lo spazio visivo peripersonale può essere
descritto nei termini di un’estensione tridimensionale della superficie
corporea.
Iriki e collaboratori [Iriki et al. 1996] mostrano per la prima volta
che l’uso di un attrezzo lungo sposta in profondità i campi recettoriali
di questi neuroni. Registrando l’attività di molti neuroni bimodali
parietali, egli fa avvicinare ripetutamente del cibo all’animale. I campi
recettoriali aptici erano collocati sulla mano e di conseguenza le
risposte visive si riscontravano quando il cibo entrava nello spazio
peri-mano del primate. Ciò conferma l’idea che nello spazio
peripersonale la percezione visiva assume anche un significato tattile.
Successivamente, il cibo veniva presentato a distanze maggiori, e
l’animale doveva raccoglierlo con un rastrello. Non appena finita la
sessione di training, ma prima che l’animale abbandonasse l’oggetto,
l’esperimento veniva ripetuto.
Prima di proseguire, facciamo brevemente il punto del discorso.
Se l’uso dello strumento lungo portasse ad una rimappatura spaziale,
la reazione dei neuroni visuo-tattili alle due condizioni dovrebbe
essere diversa. Se invece l’incremento artificiale delle capacità
funzionali non avesse alcun effetto sulle relazioni spaziali, dovremmo
aspettarci di ottenere delle reazioni equivalenti. Confrontiamo ora i
risultati delle due registrazioni, così da capire cosa è avvenuto. Nella
prima condizione, ovviamente, i bimodali controllavano la porzione di
spazio visivo immediatamente circostante all’effettore. Dopo che
l’animale aveva utilizzato il rastrello invece le reazioni visive non
avvenivano più vicino alla mano dell’animale, bensì in prossimità della
punta dell’attrezzo impugnato. Di fatto, lo stesso neurone che prima
reagiva all’ingresso del cibo nello spazio peri-mano, ora si ritrova
sintonizzato sull’estremità dell’attrezzo. L’uso di uno strumento
estensivo induce così a ridefinire le nostre relazioni spaziali, in quanto
trasferisce nello spazio lontano quell’integrazione multimodale che
abbiamo visto essere la qualità principale dello spazio vicino. Siamo
ora in grado di rispondere affermativamente al quesito che avevamo
sollevato all’inizio del paragrafo. Per ottenere una rimodulazione
spaziale è necessario modificare il parametro che fonda la dicotomia
fra vicino e lontano, indipendentemente dal modo in cui tale
ampliamento avvenga. Risultati analoghi sono stati riscontrati anche
nei confronti dell’uomo, grazie agli studi condotti sulle patologie
26
spaziali come il neglect e l’estinzione [Làdavas et al. 2002; Làdavas et
al. 2004; Maravita et al. 2002; Pegna et al. 2001].
Abbiamo già accennato al fatto che i loro effetti sono modulabili
dalla distanza fra il soggetto e il suo bersaglio, nel senso che i deficit
possono sorgere alternativamente tanto nei confronti degli oggetti
vicini quanto verso quelli distanti. Sottoponendo un paziente da
neglect a un test di bisezione di linea, Berti e Frassinetti [Berti et al.
2000] attestano l’interesse della patologia per lo spazio vicino. Di
fronte a segmenti vicini il paziente commetteva degli errori
decisamente marcati, mentre la precisione cresceva quando il
segmento veniva spostato in profondità. In questa condizione di
lontananza, il test poteva essere eseguito in due modi diversi: sia
attraverso l’uso di un puntatore laser, sia attraverso l’uso di un
bastone lungo. Confrontiamo ora l’accuratezza riscontrata nei due
test di bisezione lontani. Per fare questo è sufficiente misurare, in
ognuna delle due condizioni, la distanza che separa il presunto punto
medio da quello reale. Paragonando i due errori otteniamo che la
performance legata all’utilizzo del puntatore è decisamente meno
precisa di quella in cui viene utilizzato lo strumento estensivo.
Riflettiamo un istante sulla natura spazialmente settoriale della
patologia. Le due bisezioni “lontane” coinvolgono le stesse linee
situate alle stesse distanze, per cui l’origine della differenza non è
riconducibile ad un qualche effetto degli oggetti in questione. Al
contrario, essa deve essere cercata in ciò che accade nel passaggio
dall’uso del primo strumento a quello del secondo. La domanda allora
è la seguente: cos’è che cambia, di preciso, in questo passaggio? La
risposta è estremamente semplice: ricorrere ad uno strumento
piuttosto che all’altro conduce alla realizzazione dello stesso compito
- la bisezione - in due modi radicalmente differenti.
Nel caso del puntatore laser il paziente agisce veramente a
distanza e non fa altro che indicare il punto selezionato, esattamente
come farebbe con il suo dito indice se il bersaglio fosse per così dire a
portata di mano. Al contrario quando il paziente utilizza il bastone,
non si limita ad indicare il punto medio ma lo raggiunge: in qualche
modo, pur rimanendo fermo, egli ci si avvicina. È come se l’attrezzo
diventasse un estensione del suo braccio, ossia un prolungamento del
suo corpo capace di rendere accessibili bersagli altrimenti
irraggiungibili. Confrontiamo ora la performance della modalità
“raggiungimento” con quella del compito rivolto verso lo spazio
vicino. Otterremo che la precisione del task è peggiorata rispetto alla
modalità “puntamento”, fino a raggiungere un errore medio
27
paragonabile a quello delle bisezioni “vicine”. Una porzione di spazio
extrapersonale perde così la sua qualifica di spazio lontano per
entrare, diventando raggiungibile, nell’orizzonte della peripersonalità.
Se quanto detto fino ad ora riguardo l’uso di attrezzi estensivi
fosse veramente corretto, dovremmo trovare variazioni analoghe
anche negli effetti dell’estinzione visuo-tattile. È ormai noto [Farnè et
al. 2000; Farnè et al. 2005; Maravita, et al. 2001] che esiste una forte
correlazione fra la lunghezza dello strumento e lo slittamento in
profondità della distanza massima in cui uno stimolo visivo può
competere con uno stimolo tattile. Nel caso dell’estinzione uno
stimolo visivo entra in conflitto con uno stimolo tattile controlaterale
solo se entrambi si trovano nello spazio peripersonale. Quando invece
l’evento visivo viene allontanato dallo stimolo tattile, non si verifica
alcuna interferenza. Tuttavia, il fatto che le detezioni dei pazienti
peggiorino sensibilmente quando questa distanza viene coperta da
uno strumento lungo indica che, in questa condizione, l’evento visivo
viene codificato come vicino e non più come lontano.
Farné e Làdavas [Farné et al. 2000] hanno poi dimostrato che
un simile slittamento in profondità avviene solo quando lo strumento
viene utilizzato attivamente, sottolineando il fatto che una semplice
variazione morfologica non produce alcun effetto modulatorio. Al
contrario, è necessario che si crei un rapporto attivo fra soggetto
agente e l’attrezzo utilizzato. Soltanto così gli strumenti possono
fungere da vere e proprie estensioni del nostro corpo, diventandone a
tutti gli effetti parte. A questo punto, però, sorge un problema, che
non possiamo ignorare. Come può un oggetto esterno, non biologico,
venire annesso al nostro corpo, che invece è un’entità biologica? La
mia intenzione è quella di mostrare la scarsità di tale problema, che a
mio avviso è capace di costituire una difficoltà soltanto fittizia. A
scanso di equivoci, partiamo subito da una precisazione. È bene
notare che il corpo di cui stiamo parlando ora non è il nostro corpo
fisico. Al contrario, in accordo con la tradizione fenomenologica,
stiamo facendo riferimento a un’entità fenomenica e rappresentata,
che possiede caratteristiche profondamente differenti dal suo
corrispondente materiale.
Per quale motivo è così importante possedere una
rappresentazione del nostro corpo? Immaginiamo di sentire
improvvisamente squillare il telefono e di volere rispondere,
possibilmente nel minor tempo possibile. Come prima cosa dobbiamo
raggiungere il telefono ma, ancora prima, dobbiamo localizzarlo.
Questo però non è ancora sufficiente. Dobbiamo infatti sapere anche
28
dove si trova la nostra mano, in modo da poter pianificare un
movimento coerente. Una volta afferrato il telefono, sarà giunto il
momento di utilizzarlo. Per fare questo, dobbiamo sapere l’esatta
posizione della nostra testa ed in particolare del nostro orecchio.
Inoltre, dobbiamo stare attenti a non perdere l’equilibrio durante
l’esecuzione del nostro gesto; perciò dovremo saper coordinare fra
loro i vari anelli di questa catena motoria. Riusciamo ad avere
accesso a queste informazioni perché oltre a possedere un corpo lo
sappiamo usare.
Mi rendo conto, però, che non abbiamo ancora risposto alla
nostra domanda. Davanti ad una considerazione del genere è infatti
possibile sollevare l’obiezione di non avere ancora chiaro il modo in
cui si possano possedere e gestire tutte queste competenze. La
risposta è molto semplice e, questa volta, esaustiva: sappiamo
utilizzare così bene il nostro corpo perché possediamo una sorta di
mappa - lo schema corporeo - utile a guidarlo in tempo reale
[Sekiyama 2006]. Cerchiamo ora di analizzare quali sono le
informazioni
che
confluiscono
all’interno
di
una
simile
rappresentazione sintetica. Prima di tutto dobbiamo considerare le
informazioni vestibolari, utili al mantenimento dell’equilibrio, e quelle
cinestetiche, che costituiscono una copia afferente degli spostamenti
eseguiti. Lo schema corporeo serve per monitorare automaticamente
tutti gli aggiustamenti posturali utili all’esecuzione ottimale dei nostri
atti motori [Head 1918; Head et al. 1911-12; Holmes 1924]. Abbiamo
però anche accennato al fatto che queste informazioni non sono
ancora sufficienti: manca infatti la conoscenza della posizione del
corpo, e delle sue parti, nello spazio. Alle già citate informazioni
vestibolari e cinestetiche, dobbiamo dunque aggiungere anche quelle
propriocettive. Ne segue che lo schema corporeo, essendo
espressione di queste caratteristiche pragmatiche, non può essere il
risultato della semplice giustapposizione delle varie parti del nostro
corpo. Al contrario, deve essere qualcosa di più complesso.
Bene faceva, allora, Merleau-Ponty a paragonarlo ad una forma
gestaltica.
Ci si avvia quindi verso una seconda definizione di schema corporeo: esso
non sarà più il semplice risultato delle associazioni stabilite nel corso
dell’esperienza, ma una presa di coscienza globale della mia postura nel modo
intersensoriale, una “forma”, nel senso Gestaltpsychologie. […] Lo schema corporeo
non è il semplice calco, né la coscienza globale delle parti esistenti del copro, ma se
le integra attivamente in ragione del loro valore per i progetti dell’organismo.
(Merleau-Ponty 1945, p. 153)
29
Solitamente il corpo oggettivo e quello rappresentato
presentano la stessa configurazione. Tuttavia, esistono delle occasioni
in cui il secondo si discosta dal primo. A prescindere da alcune
condizioni patologiche, come il fenomeno dell’arto fantasma, su cui
però non ho intenzione di soffermarmi, il caso più frequente in cui si
verifica tale dissociazione è quello in cui viene utilizzato un supporto
estensivo. Attraverso l’uso ripetuto e attivo di strumenti lunghi, le
nostre capacità di agire aumentano e gli attrezzi cessano di essere
semplici oggetti esterni per diventare una sorta di estensione del
nostro corpo. è in questo senso che possiamo considerare il martello
di un fabbro come indistinguibile dalla sua mano, o il bastone di un
cieco come un’estensione del suo braccio.
In casi come questi, il soggetto agente passa dal controllo di
una semplice mano al controllare il sinolo di una mano e di un
attrezzo. Si badi ancora una volta che così facendo non modifichiamo
in alcun modo il nostro corpo materiale: se misuriamo il nostro
braccio prima e dopo l’uso di un attrezzo, otterremo inevitabilmente
sempre la stessa lunghezza. Ciò che viene modificato ed esteso
quindi non è il nostro corpo biologico, bensì il nostro schema corporeo
[Maravita et al. 2003; Maravita et al. 2004]. Possiamo ora fare
riferimento alla plasticità dello schema corporeo per spiegare una
caratteristica dello spazio - la dinamicità del confine fra spazio
peripersonale ed extrapersonale - di cui il parametro “corpo
biologico” non riesce a rendere conto.
Il nostro corpo oggettivo cambia naturalmente nel tempo, ma
questi cambiamenti possono essere misurati solo nell’arco di una vita
intera. Non possiamo quindi chiamare in causa queste variazioni per
spiegare fenomeni con tempistiche decisamente minori, come la
rimappatura spaziale che segue l’uso di strumenti lunghi. Fenomeni
del genere insorgono molto rapidamente e si dissolvono in maniera
altrettanto rapida; per questo devono essere legati a qualcosa che
possieda un’analoga dinamicità elastica: lo schema corporeo. Lo
spazio allora è veramente, come sostengono Rizzolatti e colleghi
[Rizzolatti et al. 1997] “attorno a noi”, ma adesso dovremmo avere
capito bene che quando parliamo di “noi” non facciamo riferimento
tanto al nostro corpo materiale, quanto piuttosto al nostro corpo
fenomenico. E è proprio grazie ad una simile esperienza corporea che
possiamo dire, in accordo con Merleau-Ponty, di non vivere nello
spazio ma di abitare lo spazio.
Conclusione
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Riusciamo ad ordinare spazialmente il mondo esterno grazie
alle nostre capacità di interagire con gli oggetti che ci circondano.
Seguendo le intuizioni di Poincaré, siamo indotti a ridurre i punti dello
spazio a bersagli di vari movimenti finalizzati o, per essere più precisi,
a scopi di altrettanti raggiungimenti. La metrica dello spazio, dunque,
non può che essere proporzionale alle dimensioni del nostro corpo.
Tuttavia la corporeità, intesa in termini biologici, costituisce un
parametro troppo rigido per fondare le molteplici mappe spaziali con
cui guidiamo il nostro comportamento nell’ambiente esterno. Molto
più adeguato si dimostra invece lo schema corporeo che, essendo
intrinsecamente plastico, può estendersi e modificarsi in relazione agli
scopi delle nostre azioni.
Tenuto conto di questa sua capacità di discostarsi dalla
morfologia del corpo “materiale”, lo schema corporeo riesce a
rendere conto della natura dinamica e funzionale propria confine fra
lo spazio peripersonale e quello extrapersonale. Utilizzando strumenti
lunghi, ampliamo la portata delle nostre azioni e rendiamo vicini
oggetti che prima erano lontani. L’attrezzo in questione diventa parte
del nostro corpo, e viene letteralmente incorporato come
un’appendice del nostro schema corporeo. Spazio e corpo si rivelano
dunque profondamente legati fra loro nella loro natura dinamica e
nella loro stretta dipendenza comune dalla sfera dell’azione. Se infatti
è vero che estendendo la gittata dei nostri gesti spostiamo il confine
della nostra “vicinanza”, è anche vero che una simile traslazione
passa inevitabilmente per una modificazione dello schema corporeo.
Lo spazio allora è sì costruito attorno a noi, ma con questo “noi” non
dobbiamo intendere tanto il nostro corpo biologico quanto, piuttosto,
il nostro schema corporeo.
31
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