ANNALI DELL’UNIVERSITA’ DI FERRARA Nuova Serie, Sezione III, Filosofia, Discussion Paper, n. 77 Matteo Baccarini Lo spazio soggettivo dell’(inter)azione Università degli Studi di Ferrara 2009 Lo spazio soggettivo dell’(inter)azione‡ Matteo Baccarini†; * Introduzione La tradizione fenomenologica ha, da sempre, insistito molto a considerare lo spazio una dimensione elaborata attivamente, piuttosto che un orizzonte passivamente ricevuto. Valgano su tutte le parole di Merleau-Ponty che, ne la Fenomenologia della Percezione, inizia così una sezione dedicata alla struttura inter-attiva del mondo percepito come esterno: Lo spazio non è l’ambito (reale o logico) in cui le cose si dispongono, ma il mezzo in virtù del quale diviene possibile la posizione delle cose. Ciò equivale a dire che, anziché immaginarlo come una specie di etere nel quale sono immerse tutte le cose o concepirlo astrattamente come un carattere che sia comune a esse, dobbiamo pensarlo come la potenza universale delle loro connessioni. (MerleauPonty 1945, pp. 326-327). Se, a prima vista, parlare di “connessioni” fra le cose collocate nei vari punti dello spazio può dare alla dimensione spaziale una parvenza di oggettività, un’analisi più attenta ci insegnerà che parlare di connessioni e legami non avrebbe alcun senso se non si facesse riferimento ad un soggetto capace di cogliere queste relazioni. Ecco allora che lo spazio perde ogni valore di astratta assolutezza per venire ridisegnato attorno ad un’entità soggettiva, capace di determinarne ogni possibile visione prospettica. Non è però solo la fenomenologia a occuparsi del tema dello spazio: un’analoga concezione della dimensione spaziale può trovare espressione, infatti, anche nelle riflessioni di Poincaré. In particolare, nelle pagine di Scienza e Metodo vengono rilevate le differenze che separano lo spazio della geometria - omogeneo, isomorfo e isotropo - da quello semplicemente vissuto ed esperito - proprio della biologia. La prima dimensione è un prodotto eminentemente teorico laddove la seconda è la base dell’ordine spaziale attribuito al mondo esterno, ed è chiaro Ringrazio Marcello D’Agostino, Giuliano Sansonetti e Corrado Sinigaglia per una lettura preliminare e per i preziosi consigli e ringrazio Marzio Gerbella per la consulenza scientifica. † Dipartimento di Scienze Umane, Università di Ferrara, via Savonarola 38, 44100, Ferrara.; * National Institute of Neuroscience and Neuroscience Center, University of Ferrara, 44100, Ferrara. ‡ * 1 che non possiamo costruire un simile spazio senza fare riferimento allo strumento adatto. Non avremmo quindi potuto costruire lo spazio se non avessimo avuto uno strumento per misurarlo; ebbene, questo strumento al quale noi riportiamo tutto, quello di cui ci serviamo istintivamente, è il nostro corpo. È in rapporto al nostro corpo che situiamo gli oggetti esterni, e le sole relazioni spaziali tra questi oggetti che possiamo rappresentarci sono le loro direzioni con il nostro corpo. È il nostro corpo che ci serve, per così dire, da sistema di assi di coordinate (Poincaré 1908, p. 72). Dunque, per poter rappresentare quello che, più avanti, chiameremo “lo spazio attorno a noi” dobbiamo possedere un corpo, conoscerlo ed averne esperienza. Infatti, solo avendo accesso al nostro corpo possiamo - attraverso il corpo stesso - con gli oggetti a noi circostanti, ed è proprio da questa possibilità di interazione che “nasce” la dimensione spaziale. Non è un caso se, con grande naturalezza, dividiamo il mondo esterno in più settori spazialmente diversi fra loro. Parliamo di una destra e di una sinistra, di un sopra e di un sotto o, ancora, di un vicino e di un lontano. Dietro l’aspetto apparentemente assoluto di questi binomi si nasconde in realtà il riferimento, tutto soggettivo, alle nostre capacità di agire. Destra e sinistra vengono identificate in relazione all'abilità con cui sappiamo muovere le nostre mani, così come il dualismo sopra-sotto si spiega con quello fra braccia e gambe. Non diversamente, infine, accade per la dicotomia vicino-lontano che vedremo essere fissata dalla profondità raggiungibile dal nostro braccio e dalla nostra mano. Nella profonda convinzione che la filosofia sia un orizzonte teorico in costante confronto con gli altri settori del sapere - e non un terreno di ricerca ermeticamente chiuso in se stesso - il presente articolo ha intenzione di contribuire al dibattito evidenziando i profondi legami fra le intuizioni filosofiche di pensatori come MerleauPonty o Poincarè e alcune evidenze sperimentali ottenute, negli ultimi cinquant’anni, in campo neuroscientifico. Come prima cosa, nel paragrafo 1, metteremo in risalto il carattere personale della dimensione spaziale, cogliendo l’occasione per sottolineare il ruolo privilegiato giocato dalla capacità soggettiva di raggiungere i vari punti dello spazio. Sarà, poi, proprio il riferimento al parametro “raggiungimento” a portarci, nel paragrafo 2, a focalizzare la nostra attenzione sul dualismo fra “vicinanza” e “lontananza”. In particolare, vedremo che questi non sono semplicemente due settori diversi di uno stesso unicum spaziale, ma due spazi radicalmente distinti. Nel paragrafo 3 avremo modo di notare che il confine fra spazio lontano 2 peripersonale - e spazio lontano - extrapersonale - non è un confine di natura metrica. Al contrario, ha un valore esclusivamente funzionale: si tratta, insomma, di delineare dei possibili campi d’azione e non di fissare una distanza misurabile in metri o centimetri. Da qui segue l’idea che tali spazi vengano elaborati separatamente, e che poggino sull’adozione di sistemi di riferimento diversi fra loro. Di questo si occuperanno, rispettivamente, il paragrafo 4 e il paragrafo 5. Il paragrafo 6 è invece ideato per affrontare la questione delle cosiddette patologie spaziali, ossia quei disturbi neurologici che impediscono una corretta rappresentazione dello spazio esterno. Coniugando i risultati della ricerca filosofica e di quella neuroscientifica - due campi apparentemente lontani ma in realtà profondamente vicini - cercheremo insomma di smontare il mito illusorio di uno spazio astratto, assoluto e impersonale per collocare al suo posto una costruzione molto più sofisticata e concreta, in cui il fulcro di ogni prospettiva - come vedremo nel paragrafo 7 - sarà un soggetto corporeo che prima di essere un Ego Cogito, si dimostra essere un Ego Ago. 1. Lo spazio come dimensione soggettiva Nel corso della nostra vita entriamo in contatto con moltissimi oggetti: possiamo utilizzarli, manipolarli oppure limitarci ad afferrarli. A causa della nostra forte familiarità con queste operazioni, tendiamo a considerarle elementari o non ulteriormente scomponibili. Quest’idea è sicuramente intuitiva e gode quindi di grande fascino ma, purtroppo, poggia su un’assunzione sbagliata. Si tratta allora di cercare di capire in cosa consista questo errore. Il primo passo da compiere consiste nel riconoscere che il compimento di ogni azione, dalla più semplice alla più complessa, richiede il riferimento ad un bersaglio il quale, a sua volta, deve essere prima di tutto localizzato. Se infatti, non localizziamo preventivamente il nostro bersaglio, non potremo mai raggiungerlo e, di conseguenza, ancora di meno potremo interagirci. Immaginiamo di voler afferrare un oggetto qualunque in una qualsiasi tipologia di presa. Dovrebbe così diventare chiaro quanto la componente di raggiungimento sia fondamentale, perché sappiamo benissimo che non può esistere alcun “prendere” capace di prescindere completamente da un “raggiungere”. Il nostro bersaglio viene così spogliato da ogni assolutezza e inizia ad avere valore solo per noi, finendo per giocare un ruolo inevitabilmente relativo. 3 Specificheremo più avanti il significato profondo di questo relativismo, quando avremo modo di vedere che esso vincola lo spazio non tanto all’individuo di per se stesso quanto alle singole parti che compongono il suo corpo. Al momento mi interessa soltanto sottolineare i risvolti teoretici di questa considerazione. Non appena assumiamo una simile ottica relativistica, siamo costretti anche a rivalutare - ed in modo radicale - l’importanza dell’esperienza soggettiva all’interno del processo di rappresentazione della dimensione spaziale. Proviamo dunque a dare per assunto un simile passaggio e concentriamoci solo sull’analisi delle sue conseguenze. Se infatti dobbiamo concepire lo spazio, prendendo in prestito una descrizione di Merleau-Ponty, come “la potenza universale delle connessioni” [Merleau-Ponty 1945, p. 327] degli oggetti che lo abitano, bisogna anche riconoscere che la struttura di queste connessioni non è affatto semplice e merita quindi di essere indagata a fondo. Sicuramente queste connessioni legano i vari oggetti fra di loro, fissandone le relative distanze. Tuttavia, il significato profondo di questi “legami” non si esaurisce nella costituzione della suddetta rete di rapporti metrici “oggettivi”. Anzi, la funzione più intima di questi rapporti non risiede nel legare i vari oggetti fra di loro, quanto piuttosto nell’esprimerne le diverse posizioni rispetto ad un soggetto agente. Ma qual è l’attributo necessariamente richiesto ad un soggetto per essere considerato agente? La risposta è molto semplice: il possesso di un corpo; per essere capace di interagire con qualcosa, un soggetto non può prescindere dal possedere un corpo che sia il veicolo delle sue azioni. È allora il possesso di un corpo, inteso come elemento vivo e fonte di esperienza originaria, che fornisce all’uomo la chiave per aprire le porte del mondo ed esplorarne le infinite direzioni. Solo facendo riferimento ad un corpo possiamo chiamare “intorno a noi” lo spazio che ci circonda. Sorge spontaneo paragonare lo spazio ad un orizzonte tridimensionale organizzato secondo degli assi di coordinate. Ogni sistema del genere richiede un punto zero, rispetto al quale determinare tutte le altre posizioni. Fissata questa posizione iniziale, sarà poi facile localizzare tutti gli altri punti identificando ognuno di essi con una tripla di coordinate. Nel caso dello spazio, l’origine degli assi ordinati deve essere occupata dal nostro corpo vivo, inevitabile ed imprescindibile punto di partenza per la determinazione di ogni 4 distanza e di ogni grandezza. Crolla così ogni pretesa di concepire lo spazio in termini assoluti. Ciò nonostante, l’opinione che dipinge lo spazio come una dimensione unica e continua è ancora largamente diffusa, almeno nell’ambito dei giudizi del senso comune. Tale assunzione di onnicomprensività non può però essere altro che il frutto di un illusione di un’ingannevolezza pari solo alla sua tenacia [Poincaré 1908, p. 67]. Dissipiamo allora questa visione chimerica del mondo, e sollevando quel velo di Maya che impedisce di riconoscere con trasparenza l’intrinseca relatività propria dello spazio a noi circostante. D’altra parte, però, non si deve neanche peccare di superficialità ritenendo che la suddetta relatività si esaurisca soltanto in questo spostamento del soggetto dalla periferia al centro dello spazio. Il passo, qui, è decisamente più rivoluzionario e consiste nel rimettere in discussione la struttura stessa del rapporto fra l’uomo ed il mondo esterno. Da un punto di vista filosofico il concetto di spazio si trova in tensione fra il valore datogli da Kant [Kant 1781; Kant 1783] intuizione pura a priori il cui esercizio è necessario ad ogni altra forma esperienziale - ed uno statuto perennemente in fieri le cui origini teoretiche sono rintracciabili nelle riflessioni fenomenologiche di Edmund Husserl. In questo secondo contesto, che vorrei sostenere in questo articolo, la dimensione spaziale non si configura come il risultato di una ricezione immediata della realtà esterna, ma come il prodotto di uno sviluppo estremamente complesso [Husserl 1983, p. 109]. Chi indagò a fondo tale complessità fu sicuramente Maurice Merleau-Ponty, il quale ne La Fenomenologia della Percezione propone la distinzione fra spazio “spazializzato” e spazio “spazializzante”, che considero fondamentale nell’economia del nostro discorso. […] O non rifletto, vivo nelle cose e considero vagamente lo spazio ora come l’ambito delle cose, ora come il loro attributo comune, - oppure rifletto, riafferro lo spazio alla sua fonte, penso attualmente le relazioni che sono sotto questa parola e mi accorgo allora che esse non vivono se non in virtù di un soggetto che le descrive e le sostiene, passo dallo spazio spazializzato allo spazio spazializzante. (MerleauPonty 1945, p. 327) La prima di queste rappresentazioni è legata ad una ricezione puramente intuitiva di una spazialità del tutto già formata, che si configura come una sorta di medium impalpabile in cui sono immerse tutte le cose. È evidente come questa rappresentazione porti in sé il 5 retaggio di una tradizione filosofica capace di fornire soltanto una descrizione vaga della spazialità. Per questo motivo ritengo superfluo approfondire la critica a tale immagine del mondo. Decisamente più promettente si dimostra la nozione di spazio “spazializzante”, un’entità complessa nella quale le relazioni spaziali vengono definite solo in virtù di un soggetto capace di sostenerle. Questa seconda dimensione, capace di esprimere la vera natura delle relazioni spaziali, è l’unico mezzo grazie al quale possiamo dare una posizione a tutti gli oggetti di cui abbiamo esperienza. Tuttavia, ora sappiamo anche che queste posizioni non vengono registrate passivamente, bensì attivamente distribuite dal soggetto attorno a se stesso. Stante questo, però, si delinea all’orizzonte un nuovo problema: come cambia il modo in cui ordiniamo spazialmente il mondo esterno, se abbandoniamo l’idea di spazio assoluto per abbracciare una prospettiva relativistica? 2. Spazio peripersonale e spazio extrapersonale In un articolo dal suggestivo titolo The space around us, Giacomo Rizzolatti ed i suoi colleghi dell’università di Parma [Rizzolatti et al. 1997] sostengono che la reale natura dello spazio è discreta e frammentaria. Se però proviamo ad analizzare la questione in maniera introspettiva, la nostra descrizione sarà fatta in termini radicalmente diversi. In particolare, da una tale analisi emergerà l’impressione di essere di fronte ad una dimensione unitaria e continua, capace di comprendere in se stessa ogni cosa che ci circonda. Nel corso di questo paragrafo vedremo come una concezione “sofisticata”, anche se anti intuitiva, sia capace di descrivere la natura intima dello spazio in modo decisamente migliore rispetto a quanto riesca a fare la prospettiva del senso comune. Si tratta allora di indagare le ragioni che hanno condotto alla formulazione ed all’assunzione di tale prospettiva “sofisticata”. Come avremo modo di vedere, queste ragioni devono essere cercate, e possono essere trovate, tanto nella letteratura scientifica quanto in quella filosofica. Oggi sappiamo che la rappresentazione dello spazio è un processo tutt’altro che univoco. Numerosi studi [Driver et al. 1998; Graziano et al. 1998a; Berti et al. 2002] hanno infatti dimostrato che possediamo una molteplicità di mappe spaziali differenti che permettono di guidare il nostro comportamento in modi altrettanto diversi. In particolare, per quel che riguarda la profondità, possiamo 6 suddividere lo spazio in due grandi settori: quello della prossimità e quello della lontananza. Solitamente ci si riferisce al primo con il nome di spazio peripersonale e al secondo con quello di spazio extrapersonale. Ancora una volta è il possesso di un corpo - vivo e esperibile - a ricoprire il ruolo principale, perché ai fini di una corretta interazione con gli oggetti circostanti, un soggetto “spazializzante” deve sapere utilizzare i molteplici segmenti del suo corpo in maniera coerente. Solo a partire da questa capacità possiamo collocare spazialmente, nel modo che abbiamo descritto, tutti i nostri bersagli. Posta la centralità del soggetto ed attribuitogli il pieno possesso di un corpo, si verifica dunque una frattura insanabile nel continuum spaziale che ci circonda. Alcuni oggetti saranno abbastanza vicini da poter essere raggiunti semplicemente stendendo un braccio. Altrettanti punti invece si troveranno talmente distanti da richiedere una diversa strategia di avvicinamento, come la locomozione. Il riferimento all’uso della mano, oltre che estremamente evocativo, non è per nulla casuale. Anzi, è proprio la recente letteratura scientifica a definire lo spazio peripersonale e quello extrapersonale come la dimensione, rispettivamente, entro ed oltre la profondità raggiungibile da un braccio disteso [Berti et al. 2000; Berti et al. 2001]. Inoltre, le evidenze sperimentali che hanno condotto a questa definizione sono sicuramente molto numerose ed altrettanto convincenti, poiché coinvolgono sia un livello d’indagine neurofisiologico un ambito neuropsicologico. Mi sia concesso di rimandare l’analisi delle evidenze neuropsicologiche ad un secondo momento, così da potermi concentrare ora solo su quelle neurofisiologiche. A questo proposito è doveroso tornare indietro di circa quarant’anni, prendendo le mosse dalla scoperta dei neuroni bimodali. Negli anni Settanta del secolo scorso Mountcastle [Mountcastle et al. 1975] scoprì che alcuni neuroni tattili del lobo parietale possedevano anche dei campi recettoriali di carattere visivo. Inizialmente ciò era in pieno accordo con l’idea di un lobo parietale da concepire come una zona di corteccia puramente associativa. Secondo questo modello descrittivo, le informazioni sensoriali verrebbero prima codificate separatamente nei relativi centri di elaborazione, per poi confluire nelle aree associative, in cui vengono elaborate in un formato comune. Questo, in sostanza, era il modo in cui si pensava che il cervello riuscisse a produrre una rappresentazione complessa del mondo esterno. Ma la scoperta dei neuroni bimodali era destinata, in un breve periodo, a 7 incrinare profondamente la suddetta concezione, colpendola dritta nelle sue fondamenta. Le risposte visive dei bimodali si verificavano infatti soltanto quando lo stimolo entrava nello spazio di cattura dell’animale, mentre scomparivano completamente quando lo stimolo veniva allontanato. Certamente, i difensori della versione tradizionale della percezione spaziale potrebbero interpretare questa reazione in termini di una mera previsione statistica. In breve, possiamo sintetizzare la loro argomentazione nel modo seguente. Durante la nostra vita siamo stati toccati moltissime volte, tante quante abbiamo noi stessi tocchiamo le cose che ci circondano. Per questo motivo sappiamo alla perfezione che prima dell’effettivo impatto, l’oggetto in questione è percepibile solo nei termini di uno stimolo visivo in avvicinamento. Ecco dunque spiegata la reazione dei neuroni bimodali: si tratterebbe dell’anticipazione visiva di un contatto largamente annunciato e ripetutamente avvenuto nel passato. Una simile concezione, a mio avviso, presenta però un vizio di fondo: presuppone l’esercizio di una sintesi esperienziale cognitiva che non è propria del contesto cui stiamo facendo riferimento. Ovviamente ritengo non ci sia alcunché di sbagliato nel descrivere un processo cognitivo in questi termini, né nel ritenere che simili elaborazioni avvengano costantemente nella nostra vita e nella nostra esperienza dello spazio. Ciò che invece non è corretto è credere che una simile computazione sia la base del modo in cui costruiamo la dimensione spaziale che ci circonda. Si noti infatti che stiamo parlando di una semplice reazione fisiologica dell’organismo, in cui la sfera della cognizione non gioca alcun ruolo. Meglio sostituire la rappresentazione con un modello alternativo che consenta una ricostruzione immediata e non concettuale della complessità del mondo esterno. Ulteriori evidenze a favore della descrizione “sofisticata” dello spazio sono rintracciabili nella scoperta che alcuni neuroni della corteccia motoria possiedono, in realtà, alcune caratteristiche non esclusivamente motorie. Vediamo di chiarire il senso di questa affermazione. La corteccia motoria è sempre stata considerata una zona deputata alla mera realizzazione di comandi provenienti da altri siti, almeno fino alla metà degli anni Ottanta del secolo scorso quando si scoprì che molti di questi neuroni rispondevano anche a stimoli percettivi [Gentilucci et al. 1988]. In particolare, una buona popolazione delle cellule neurali appartenenti alla corteccia premotoria ventrale si dimostrò capace di rispondere non soltanto 8 all’esecuzione di un determinato comando motorio finalizzato, ma anche alla semplice presentazione visiva del bersaglio in questione. Sorprendentemente, una parte del nostro cervello si attiva allo stesso modo sia quando dobbiamo effettivamente interagire con un oggetto sia quando ci limitiamo ad instaurare con esso una relazione meramente percettiva. Per i neuroni di cui stiamo parlando, insomma, questi due compiti sono la stessa cosa! In definitiva, l’esistenza dei neuroni visuomotori indica che il nostro sistema nervoso centrale, oltre che interpretare gli oggetti osservati come un insieme di qualità iconiche, li classifica come poli di possibili interazioni. Analizzeremo in seguito le implicazioni di questa scoperta sulla comprensione dei meccanismi di raggiungimento. Per il momento ritengo più utile affrontare una questione che, ben lungi dall’essere puramente terminologica, assumerà presto un valore determinante per il nostro discorso. Si tratta del problema di chiarire cosa intendiamo quando usiamo il termine “comprensione”. La tradizione discendente dalla classica filosofia della mente e dalle scienze cognitive considera la comprensione come il prodotto dell’applicazione di una facoltà giudicatrice di carattere cognitivo che non può essere chiamata in causa nel contesto del nostro discorso. Al contrario, la comprensione cui ora stiamo facendo riferimento coinvolge una dimensione del tutto pre-categoriale e non consapevole in cui, prima di esercitare le sue facoltà “superiori”, il soggetto pensante si rivela essere innanzitutto un individuo agente. Un esempio tratto dalla nostra esperienza quotidiana chiarirà sicuramente il senso di quello che stiamo dicendo. Immaginiamo di essere nella nostra stanza e di osservare gli oggetti sparsi sul nostro tavolo. Una semplice occhiata sarà più che sufficiente per riconoscerli. Vedremo i nostri quaderni ed i nostri libri e potremo descriverli in base alle loro caratteristiche qualitative. Di fatto, attribuiremo ad ogni cosa osservata un nome proprio. Così facendo ognuna di esse verrà compresa nel senso tradizionale del termine. Tuttavia, quando osserviamo un oggetto sul nostro tavolo non vediamo soltanto questo. Oltre ad un ben definito insieme di qualità, infatti, osserviamo anche - e forse soprattutto - qualcosa che può essere afferrato, spostato, manipolato o utilizzato. Nel momento stesso in cui guardiamo il nostro bersaglio, ne comprendiamo il significato motorio; esso evoca in noi tutte le potenziali azioni che potremmo compiere verso di lui e attraverso di lui. Si tratta di un’elaborazione automatica delle informazioni visive grazie alla quale gli oggetti osservati cessano di esistere indipendentemente dal soggetto che li osserva e hanno 9 senso solo in funzione della loro interagibilità [Ungerleider, et al. 1982; Milner et al. 1995; Jacob et al. 2003; Rizzolatti et al. 2003]. E se vedere un bersaglio in una certa posizione equivale ad elaborare un piano motorio di raggiungimento identico a quello che elaboreremmo nel caso di un effettivo raggiungimento, allora localizzazione e raggiungimento diventano due processi ampiamente sovrapponibili. A sua volta, questo ci obbliga a considerare i vari punti nello spazio non come semplici entità geometriche bensì come scopi di altrettanti movimenti [Rizzolatti et al. 2006]. Ecco allora che, ai fini di una corretta elaborazione spaziale, il corpo non può più essere solo posseduto ma deve anche essere vissuto ed esperito come matrice di continui scambi relazionali con l’ambiente circostante. Se si assume questa prospettiva è necessario porre nuovamente l’accento sul fatto che i bersagli situati entro una certa distanza potranno essere raggiunti con un movimento prossimale. Tutti gli altri, invece, richiederanno l’adozione di una strategia motoria diversa, basata sulla locomozione e fondata principalmente sul raggiungimento oculare. Non pare fuori luogo scorgere in queste considerazioni una forte assonanza con alcune riflessioni di Jules-Henry Poincarè che, ne La scienza e l’ipotesi, non perde occasione per interrogarsi a fondo su cosa significasse veramente localizzare un oggetto. Argomentando in un modo che si dimostra estremamente attuale ancora oggi, egli paragona i vari punti dello spazio ad altrettanti bersagli di innumerevoli movimenti di raggiungimento. Quando diciamo che “localizziamo” tale oggetto in tale punto dello spazio, che cosa vogliamo dire? Ciò significa semplicemente che noi ci rappresentiamo i movimenti che bisogna fare per raggiungere quell’oggetto. E non si dica che per rappresentarsi questi movimenti bisogna proiettare anche loro nello spazio […]. Quando dico che ci rappresentiamo questi movimenti, voglio soltanto dire che ci rappresentiamo le sensazioni muscolari che li accompagnano. (Poincaré, 1902, p. 100) Localizzare un punto, allora, equivale a rappresentare le sensazioni muscolari che idealmente accompagnerebbero il suo raggiungimento; di conseguenza, se vogliamo identificare una posizione, dobbiamo prima proiettare noi stessi nel mondo esterno. Facendo questo, siamo obbligati a proiettare allo stesso modo anche i nostri movimenti? La risposta è semplice quanto perentoria: certamente no. Le sensazioni muscolari di cui stiamo parlando non avvengono nello spazio ma preesistono allo spazio. Per essere più precisi, anzi, dovremmo aggiungere che questa dimensione motoria ne costituisce la trama intima oltre che la struttura ultima. Non siamo 10 nella condizione di agire perché abbiamo a disposizione uno spazio. Piuttosto, è vero il contrario: possiamo sensatamente parlare di spazio solo perché abbiamo la capacità di muoverci. Ogni oggetto, ogni punto, è però raggiungibile in molti modi diversi. Ne segue che l’ordinamento spaziale del mondo esterno dipende dalla capacità di associare ad ogni punto non un singolo movimento di avvicinamento, bensì una classe infinita di raggiungimenti. Consideriamo la percezione simultanea di due sensazioni provenienti dalla stessa sorgente, ossia un caso di cui tutti noi abbiamo una grande esperienza. Stante la diversità delle due sensazioni - poniamo una uditiva e l’altra visiva - in base a quale criterio riusciamo a capire se descrivono lo stesso oggetto piuttosto che due fonti separate? Su questo, l’opinione di Poincaré non si presta a equivoci. È sufficiente controllare se i movimenti necessari per raggiungere le origini delle sensazioni sono o non sono equifinali. Ai fini di una localizzazione, dunque, gli spostamenti prossimali hanno importanza più per il fatto di avere un bersaglio che per la loro caratteristica cinematica. In altre parole, esprimono quel valore che oggi viene considerato distintivo delle azioni rispetto ai semplici movimenti ossia l’essere finalizzato ad uno scopo. Stante questo, lo spazio non sembra più essere generato semplicemente a partire dalla capacità di muovere il nostro corpo. Al contrario, già nelle pagine di Poincarè si può leggere di quel legame fra rappresentazione spaziale e capacità soggettiva di agire che è oggi tanto centrale nel dibattito scientifico e filosofico sulla natura e sulla struttura dello spazio. 3. La natura funzionale del confine fra i due spazi In condizioni normali, abitiamo uno spazio che siamo soliti vivere, da un punto di vista introspettivo, come unico e omogeneo. Come si può coniugare questa intuizione con l’idea che la natura intima dello spazio sia frammentaria? Proseguendo nella direzione indicata nel paragrafo precedente dobbiamo ipotizzare che le dimensioni spaziali vengano prima rappresentate in modi diversi e, soltanto in un secondo momento, elaborate in un formato integrato. Questo vale, ovviamente, anche nel caso specifico del dualismo fra spazio peripersonale e extrapersonale. Tuttavia, la riuscita di una simile operazione è tutt’altro che scontata, in quanto richiede la possibilità di accedere allo stesso modo ad entrambi i domini spaziali. Chiunque di noi, in condizioni normali, è perfettamente in grado di 11 padroneggiare questa abilità, ma cosa accadrebbe se tale possibilità ci fosse preclusa? Come varierebbe la nostra concezione di spazio se, per un motivo qualsiasi, fossimo capaci di agire soltanto nello spazio prossimo? Seguendo nuovamente le indicazioni di Poincarè, possiamo provare a metterci nei panni di un animale inferiore, incapace di spostare il suo corpo e costretto a vivere come se fosse inchiodato al suolo. Non dovrebbe essere molto difficile capire che, in una situazione del genere, la nostra esperienza dello spazio vicino rimarrebbe immutata. Ma come ci comporteremmo con gli oggetti che, trovandosi oltre il limite della nostra peripersonalità, non saremmo in grado di raggiungere? Se Poincaré ha ragione, e se la posizione di un punto è espressione della sua raggiungibilità, noi ci troveremmo nell’impossibilità più totale di collocare quei punti in alcun luogo. Essi si verrebbero a trovare letteralmente fuori dallo spazio e di conseguenza non cercheremmo neanche di localizzarli. Fortunatamente però possiamo stare tranquilli, perché la nostra condizione non è la stessa del sopracitato polipo idrario! Siamo capaci di superare il limite che potremmo raggiungere con la semplice estensione del nostro braccio, e di solito ci riusciamo pure abbastanza facilmente. Se il nostro bersaglio è troppo distante possiamo, prima, camminare verso di lui e, una volta arrivati a debita distanza, stendere la nostra mano. Così come la motilità dei singoli effettori è determinante ai fini della generazione dello spazio peripersonale, la padronanza della locomozione sembra dunque giocare un ruolo decisivo nella costruzione di quello extrapersonale. Ne Il libro dello spazio Edmund Husserl descrive esplicitamente questa abilità come la chiave di volta che permette all’uomo di superare il limite di uno spazio chiuso nel sistema dei movimenti del capo e del tronco. “Se resto al mio posto” ho un sistema chiuso con una profondità assoluta (per quanto possa estendere le mani ed eventualmente i piedi), e questo intero sistema viene messo in moto quando cammino; ciò che era lontano diviene vicino, e nuove lontananze si schiudono. Ogni posizione in un sistema parziale e ogni posizione nel sistema complessivo (dove l’infinitamente lontano ha il significato di qualcosa da trasformare in infinitum e ripetutamente in vicino) può essere trasformata in un’altra posizione attraverso un movimento idealmente libero. (Husserl 1983, pp. 124-125) Se rimanessimo sempre fermi al nostro posto, rimarremmo inevitabilmente bloccati in uno spazio chiuso e di un’estensione assoluta, che non andrebbe oltre la lunghezza del nostro braccio: lo spazio peripersonale. Solo con il movimento libero da un punto 12 all’altro possiamo varcare la soglia di questa dimensione ristretta e generare una seconda spazialità limitata - ma non per questo chiusa soltanto dalla profondità che possiamo raggiungere con la vista. Posta però la differenza fra spazio peripersonale e extrapersonale, come possiamo descriverne la linea di confine? Il resto del presente paragrafo sarà dedicato a rispondere a questa domanda. Se non possiamo fare riferimento a un valore puramente metrico dobbiamo trovare un nuovo criterio di demarcazione. Alla luce di quanto stiamo sostenendo, il principale indiziato sembrerebbe essere il riferimento alle nostre azioni, ossia al modo in cui utilizziamo il nostro corpo nelle interazioni con gli oggetti a noi circostanti. Previc [Previc 1990] propone di adottare un criterio retinico. Per localizzare visivamente un bersaglio vicino dobbiamo inclinare lo sguardo verso il basso così come, in maniera contraria, siamo costretti a rivolgerlo verso l’alto se intendiamo osservare un oggetto più distante. Il confronto fra la vicinanza e la lontananza sembrerebbe così esprimibile nei termini del rapporto fra l’emicampo visivo inferiore e quello superiore. Sotto un certo punto di vista questo è sicuramente vero, ma dobbiamo stare attenti a non commettere l’errore di ridurre il tutto ad una questione meramente percettiva. Il collocamento degli oggetti all’interno dell’una o dell’altra dimensione non può, infatti, non avere ripercussioni molto forti sul nostro modo di rapportarci con gli oggetti stessi. Per capirlo a fondo, propongo un semplicissimo esperimento mentale. Consideriamo due punti appartenenti rispettivamente alla metà inferiore e a quella superiore del nostro campo visivo. Se l’idea di Previc è corretta, il primo punto cadrebbe nello spazio peripersonale e il secondo in quello extrapersonale. Proviamo ora a collocare in ognuna delle due posizioni un oggetto concreto che, in virtù della sua durezza, potrebbe causarci dei danni. Ovviamente, la probabilità che ciò avvenga non può che crescere al diminuire della loro distanza da noi, secondo un rapporto di proporzionalità inversa. Al crescere del primo fattore si verificherà sempre una diminuzione del secondo valore, e viceversa. Localizzare un oggetto nell’emicampo visivo inferiore - che abbiamo detto corrispondere allo spazio peripersonale – implica attribuirgli un elevato grado di pericolosità. Al contrario, una collocazione nell’emicampo superiore comporterà il riconoscimento di una minaccia sensibilmente minore. Tutto questo, di nuovo, ha un forte significato evolutivo. L’esigenza di massimizzare la nostra probabilità di sopravvivenza fa si che il nostro organismo associ agli 13 oggetti vicini meccanismi preventivi più diretti e rapidi rispetto a quelli che vengono associati ai bersagli lontani. In considerazioni di questo genere è facile sentire l'eco di alcune intuizioni filosofiche sviluppate da Poincarè, in cui i movimenti di raggiungimento vengono descritti come vere e proprie parate. Io so solo che per raggiungere l’oggetto A non ho che da stendere il mio braccio in una certa maniera. […] Ora, io so anche che posso raggiungere l’oggetto B stendendo il braccio destro allo stesso modo, estensione accompagnata dalla stessa serie di sensazioni muscolari. […] E ciò è molto importante, perché in questo modo potrò difendermi dall’eventuale pericolo rappresentato dagli oggetti A e B. Ad ognuno dei colpi da cui potremmo essere colpiti, la natura ha associato una o più parate che ci permettono di evitarli. […] Questi oggetti, di cui diciamo che occupano uno stesso punto nello spazio, non hanno niente in comune, tranne il fatto che una stessa parata ci può permettere di difenderci contro di loro. (Poincaré, 1908, pp. 72-73) Soltanto associando ai vari punti dello spazio la capacità di evocare in noi altrettanti movimenti di raggiungimento possiamo riuscire a parare i colpi che ne potrebbero provenire, intercettandoli a tempo debito e salvaguardando la nostra incolumità. In altre parole, la distinzione fra vicinanza e lontananza si concretizza nella capacità di pianificare classi di parate di diverse ampiezze. Si noti che la gittata di cui stiamo parlando non indica semplicemente una distanza, espressa in centimetri, metri o chilometri, ma ha un valore esclusivamente pragmatico. Possiamo difenderci dai pericoli vicini semplicemente usando la nostra mano come scudo, mentre dovremo ricorrere a strategie diverse quando avremo a che fare con bersagli più distanti. In particolare ricorreremo a parate più ampie, capaci di coprire una distanza maggiore rispetto a quella raggiungibile con la semplice estensione dei nostri arti. Ciò significherà ancora agire attraverso il nostro corpo, anche se questa volta il corpo verrà utilizzato in modo profondamente diverso. Ecco allora che siamo riusciti a portare a termine il compito di cui ci eravamo fatti carico all’inizio del paragrafo. Recuperando una fortunatissima intuizione di Poincaré, abbiamo delineato un criterio di demarcazione fra vicino e lontano capace di prescindere dal valore puramente metrico di questo dualismo. Stante quanto abbiamo detto fino ad ora, infatti, dobbiamo distinguere lo spazio peripersonale da quello extrapersonale sulla base non della distanza a cui si collocano, bensì a partire dalle relazioni che possiamo intrattenere con l’ambiente circostante stando al loro interno. 14 4. Le due circuiterie Gli oggetti esterni possono trovarsi in molte posizioni che, dal nostro punto di vista, sono raggiungibili in modi diversi. In base a questo consideriamo alcuni punti come vicini e tutti gli altri lontani. Posto un bersaglio in un punto qualsiasi dello spazio, si delineano due alternative. In primo luogo esso potrebbe trovarsi a portata di mano, così da poterlo raggiungere semplicemente allungando un braccio e stendendo le dita. Se però l’oggetto è situato fuori dal nostro spazio di cattura, spostare un singolo effettore non sarà sufficiente. Saremo costretti, allora, a elaborare una strategia motoria alternativa, capace di coprire una profondità superiore. Possiamo distinguere lo spazio peripersonale da quello extrapersonale legandoli alle attività motorie a breve ed a lungo raggio, e è facile notare che fra queste classi di movimenti sussista una profonda differenza cinematica. Stante questa prima differenza, cosa dire a proposito della loro base biologica? Queste classi di movimenti soggiacciono allo stesso meccanismo fisiologico o, al contrario, dipendono da strutture diverse? Proviamo a seguire ancora una volta la strada indicata dalle intuizioni di Poincaré e, di conseguenza, sviluppiamo il secondo corno del nostro dilemma. Abbiamo già accennato al fatto che lo spazio esterno è discreto in quanto generato a partire dalla capacità di eseguire più classi di movimenti. A loro volta, e è di questo di cui ci occuperemo ora, questi movimenti sono tanto diversi da poggiare su basi biologiche distinte. Per capire in modo approfondito cosa questo significhi, concentriamo la nostra attenzione sulla struttura e sul funzionamento del meccanismo che è responsabile del controllo della nostra motilità, ossia sul sistema motorio. È noto che il sistema motorio sia una struttura organizzata in modo estremamente gerarchico. Ai vertici alti della gerarchia si colloca, con il compito di inviare i comandi motori destinati ai motoneuroni del midollo spinale e del tronco encefalico, la corteccia motoria. A loro volta, questi siti ritrasmettono le suddette informazioni verso le zone periferiche del corpo, dove i nervi motori le concretizzano traducendoli in comportamenti motori espliciti. Ogni segmento corporeo possiede dunque una sorta di immagine situata a livello della corteccia motoria. Inoltre, distretti corporei diversi vengono rappresentati in punti diversi della corteccia motoria. Per usare una terminologia tecnicamente adeguata, potremmo dire che la corteccia motoria è organizzata in maniera somatotopica [Gentilucci et al. 1988; Matelli et al. 1986]. 15 Attorno alla metà del Novecento, stimolando elettricamente la superficie della corteccia motoria dell’uomo, Wilder Penfield [Penfield et al 1950] tentò di fornire una mappatura di questa organizzazione proponendo il modello del cosiddetto homunculus motorio. La caratteristica più evidente di questo modello è la sua tendenza a non rappresentare i vari distretti corporei allo stesso modo. Ogni parte del corpo viene infatti riprodotta nello homunculus in modo proporzionale alla finezza con cui può essere utilizzata. Tanto più accuratamente un segmento corporeo può venire mosso, tanto più estesa sarà la porzione di corteccia motoria destinata alla sua immagine. Per questo motivo effettori a grande precisione, come mano e testa, possiedono un’immagine corticale sensibilmente più ampia di parti corporee, come il tronco o i piedi, che non conoscono applicabilità fine. Questo modello possiede senza dubbio una grandissima forza esplicativa: permette, per esempio, di rendere conto intuitivamente del modo in cui controlliamo il movimento del nostro corpo. Tuttavia lo sviluppo delle tecniche di analisi elettrofisiologica, unito allo studio delle caratteristiche morfologiche e anatomiche cerebrali, ha evidenziato un’organizzazione decisamente più articolata di quella teorizzata dal modello penfeildiano. Innanzitutto da un punto di vista morfologico la corteccia motoria non si presenta come una struttura unitaria ma può essere divisa in due sezioni, ossia la corteccia motoria primaria e quella premotoria. Prendendo le basi da questa partizione, l’analisi del cervello dei primati inferiori ha indicato nella divisione ventrale della corteccia premotoria, più precisamente nell’area F4, il principale sito di controllo dei segmenti superiori del corpo [Matelli, et al. 1986; Matelli et al. 1992]. L’adeguata stimolazione di questo sito evoca il movimento, perfettamente direzionato nello spazio, di effettori quali mani, braccia, testa, bocca e tronco. Studi di registrazione condotti sui singoli neuroni di F4 hanno inoltre dimostrato che la maggior parte di queste cellule si attiva in relazione a movimenti di raggiungimento in cui vengono implicati solo i singoli segmenti corporei, mentre rimangono silenti di fronte a movimenti a lungo raggio. L’area F4 sembrerebbe allora ricoprire un ruolo centrale nella pianificazione dei movimenti prossimali, indipendentemente dal loro essere espliciti o potenziali. Numerosi studi odologici [Hyvarinen 1982; Andersen et al. 1990; Graziano et al. 2006] hanno poi dimostrato che F4 è fortemente connessa con l’area VIP, contenuta nel solco intraparietale. Possiamo quindi ragionevolmente attribuire al circuito corticale collegante F4 e VIP un ruolo di primaria importanza nell’elaborazione delle 16 informazioni relative allo spazio peripersonale [Graziano et al. 1994; Graziano et al. 1997]. Un discorso analogo vale, con le dovute differenze, anche nei confronti dello spazio extrapersonale. Poiché queste differenze non sono per nulla irrilevanti cerchiamo di capire come mai operare nei confronti dello spazio lontano è molto più problematico di quanto non lo sia per la dimensione vicina. Parlando delle intuizioni filosofiche di Husserl e di Poincaré abbiamo già avuto modo di ipotizzare che la dimensione della lontananza sia generata a partire dall’abilità di muovere localmente il nostro corpo. Il problema è che, a differenza di quanto accade con i movimenti prossimali, nel caso della locomozione non vengono coinvolti singoli effettori, ma tutto il corpo nella sua interezza e complessità. Si tratta quindi di identificare, fra le tante componenti motorie implicate nella locomozione, quella dal contributo maggiormente fondamentale. Anche in questo caso, avvaliamoci dell’aiuto di un esempio tratto dalla nostra vita quotidiana. Immaginiamo di doverci spostare da un angolo all’altro della nostra stanza. Per poter fare questo dobbiamo ovviamente controllare il movimento delle nostre gambe coordinandolo all’assunzione di un determinato atteggiamento posturale. Soltanto così potremo riuscire a bilanciare il nostro peso per non perdere l’equilibrio dopo aver mosso il primo passo. Tuttavia, nessuna delle suddette operazioni avrebbe il benché minimo valore se, banalmente, non sapessimo dove andare. In altre parole, prima di poter camminare dobbiamo rivolgerci verso il nostro bersaglio e il nostro primo strumento per fare questo è l’orientamento oculare. Stiamo parlando di un’esplorazione visiva del mondo resa possibile dall’esercizio dei movimenti saccadici - quella classe di movimenti oculari che permette di direzionare lo sguardo verso gli oggetti che vogliamo osservare - che garantisce la possibilità di eseguire una sorta di locomozione immobile [Berthoz 1997, p.155] nell’ambiente esterno. Del resto, ne abbiamo costantemente esperienza: se vogliamo osservare un oggetto dobbiamo portare i nostri occhi su di lui e facendo questo eseguiamo una saccade. Di fatto, eseguiamo con gli occhi un raggiungimento del tutto equivalente a quello che eseguiremmo con la mano se il nostro braccio fosse sufficientemente lungo. È ormai abbondantemente noto [Moore et al. 2001; Moore et al. 2004] che nei primati inferiori questa classe di rapidissimi movimenti viene controllato dall’area FEF, posta anteriormente alla già citata F4. Evidenze in questo senso provengono sia da studi di stimolazione sia 17 da stimoli di registrazione. Stimolando FEF si può provocare una gamma di spostamenti oculari di ampiezza variabile, molto rapidi ed estremamente riproducibili. Al tempo stesso, se si registra l’attività di questi neuroni durante compiti di orientamento visivo, appare evidente la selettività della loro risposta. Studi odologici [Schall et al. 1995; Tehovnik et al. 2000; Tolias et al. 2001] hanno infine permesso di mettere in luce le principali connessioni dell’area FEF, evidenziando uno scambio particolarmente ricco con l’area intraparietale LIP [Schall 1997]. Possiamo ora tracciare un quadro riassuntivo delle circuiterie neurali implicate nella costruzione dello spazio peripersonale ed extrapersonale. Si tratta ovviamente di un quadro semplificato, poiché la rete di connessioni di F4 e di FEF sono molto più articolate di quanto non emerga dal nostro resoconto. In questo senso tale descrizione può risultare non totalmente esaustiva. Tuttavia, credo che una simile perdita in precisione venga compensata da un analogo guadagno in chiarezza. Il nostro quadro, infatti, segnala molto chiaramente la differenza e l’irriducibilità dei due circuiti in cui vengono codificate le informazioni legate allo spazio vicino e a quello lontano. Nell’elaborazione delle prime vengono coinvolte principalmente F4 e VIP mentre nella codifica delle seconde hanno un ruolo dominante FEF e LIP. Lo spazio, allora, è veramente un’entità discreta e composta almeno da due dimensioni, costruite grazie all’esercizio di abilità tanto diverse da richiedere basi neurali separate e indipendenti. 5. Coordinate somatocentriche retinocentriche e coordinate A seguito della selezione naturale, il cervello affina la capacità di controllare il movimento del corpo, ampliando la gamma di soluzioni a problemi computazionali che si fanno sempre più complessi. Se siamo disposti ad accettare questo - e sembra veramente difficile non farlo - non possiamo esentarci dal riconoscere che il confine fra spazio peripersonale e extrapersonale ha una natura funzionale. Kemmerer [Kemmerer 1999] suggerisce di considerare la spazialità vicina come l’orizzonte in cui vengono controllati gli spostamenti dei singoli distretti corporei. Abbiamo detto che la capacità di esercitare tale controllo acquista sempre maggiore importanza nella storia dei primati e degli ominidi, in particolare dal 18 momento dell’adozione di una postura eretta. Riuscendo a rimanere verticale, l’animale riesce a sostenere il proprio corpo semplicemente utilizzando i suoi arti posteriori. Così facendo, lascia gli arti anteriori da adesso superiori - liberi di essere usati in altre maniere. Nel caso dei primati inferiori queste alternative sono estremamente semplici ma, nondimeno, godono di una certa significatività. Infatti, seppur necessariamente stereotipate, esse esprimono già una tensione verso il mondo esterno che indica chiaramente la necessità, soggettiva, di considerare gli oggetti circostanti in termini di relazioni interattive. Nel caso dell'essere umano, l’uso delle braccia viene sviluppato in modo ancora più perfetto. Di fatto non utilizziamo le nostre braccia solo per funzioni relativamente semplici, quali la raccolta di cibo e l'esecuzione di parate difensive, ma anche per veri e propri comportamenti manipolatori che possono raggiungere livelli di complessità anche estremamente alti. Ovviamente, possiamo svolgere questi compiti in modo utile solo a patto che il nostro bersaglio si venga a trovare “a portata di mano” ossia all’interno dello spazio peripersonale. Come cambiano le cose quando abbiamo a che fare con l’orizzonte della extrapersonalità? E considerando che esso contiene oggetti troppo distanti per costituire una minaccia diretta, come cambia il modo in cui ci rapportiamo ai relativi punti nello spazio? Una prima risposta potrebbe consistere nel qualificare tale orizzonte come l’ambito in cui avviene il riconoscimento visivo e la classificazione degli oggetti percepiti. Seguendo i suggerimenti di Kemmerer [Kemmerer 1999], dovremmo estendere anche a questi processi gli effetti benefici della selezione naturale. Nel corso della loro evoluzione, primati e ominidi hanno necessitato di una quantità e di una varietà di cibo sempre maggiori. È chiaro quale vantaggio abbia potuto procurare lo sviluppo della capacità di riconoscere gli oggetti da lontano, principalmente grazie alla vista, e non è necessario insistere ulteriormente su questo. Se le cose stessero esattamente così dovremmo considerare uno stesso oggetto sotto due aspetti diversi interpretandolo, a seconda della sua posizione, come un insieme di qualità o come il potenziale bersaglio di una nostra azione. A parere di chi scrive però, non è possibile relegare la dimensione della lontananza al ruolo di arena per una visione esclusivamente finalizzata alla percezione. Al contrario, credo che anche allo spazio extrapersonale debba essere ascritta una valenza legata alla capacità soggettiva di agire sul mondo in esso rappresentato. C'è certamente un fondo di ragione nell'insistere sull’importanza della ricerca visiva all'interno dei 19 processi che portano alla costituzione della spazialità distante. D’altra parte però, ritengo non sia il caso di assumere una posizione tanto radicale da spogliare questa esplorazione visiva di ogni suo aspetto tensorio. Verrebbe così meno quel rapporto di interdipendenza e di interazione fra soggetto e ambiente, che abbiamo già detto essere a fondamento dei processi di costruzione delle dimensioni spaziali. Lo spazio lontano è allora uno spazio d'azione, esattamente come lo spazio vicino, ma con la differenza di poggiarsi su azioni a lungo raggio. Non dobbiamo dimenticare, poi, l'enorme importanza che l’abilità di sondare il mondo esterno attraverso movimenti oculari esplorativi volontari ha per la nostra sopravvivenza. Grazie ai movimenti saccadici siamo in grado di localizzare uno stimolo visivo, le cui caratteristiche potranno poi essere interpretate in termini iconici o in termini motori. Computando gli aspetti motori delle informazioni visive, il nostro cervello riesce ad elaborare una classe di possibili movimenti che rendono possibile la pianificazione di un’interazione soggetto-oggetto. Ciò si concretizza nell’adozione di un orientamento del corpo verso il bersaglio, che sia coerente indipendentemente dalle distanze coinvolte. Con questo, però, non stiamo in alcun modo sostenendo che la direzione dello sguardo abbia lo stesso peso nella peripersonalità e nell’extrapersonalità. Mountcastle [Mountcastle et al. 1975] mostra che alcuni neuroni della corteccia parietale di scimmia non rispondono soltanto a stimoli tattili ma anche a stimolazioni visive. Per questa loro caratteristica, tali neuroni sono stati definiti bimodali visuo-tattili [Bremmer et al. 2001; Husain et al. 2006]. Più specificatamente, i neuroni registrati da Mouncastle [Mountcastle et al. 1975] scaricavano spontaneamente ogni volta che lo sperimentatore faceva entrare un chicco d’uva nello spazio peripersonale del primate. Al contrario l’attività dei bimodali cessava completamente quando il chicco d’uva faceva la sua comparsa nello spazio extrapersonale. Negli anni Novanta del secolo scorso, infine, una serie di esperimenti condotti dai ricercatori del gruppo di Parma ha localizzato dei neuroni bimodali anche all’interno della corteccia premotoria [Fogassi et al. 1992]. Considerate insieme, queste due scoperte hanno permesso di dimostrare che lo spazio vicino e lo spazio lontano non differiscono soltanto per il loro aspetto genetico, ma anche per quel che riguarda il grado della loro polisensorialità. Lo spazio extrapersonale avrebbe così una connotazione principalmente visiva e oculomotoria, mentre quello peripersonale 20 sembrerebbe essere il risultato di una sintesi multisensoriale più complessa, che trova un fondamento biologico nelle reazioni dei neuroni visuo-tattili. Cerchiamo allora di comprendere il funzionamento di queste peculiari cellule nervose. I bimodali sono, per così dire, sintonizzati su due formati percettivi diversi e di conseguenza possiedono due campi recettoriali distinti. Il primo di essi è di tipo aptico e si attiva in seguito a stimoli tattili. Il secondo essendo visivo risponde alla vista di immagini, principalmente tridimensionali. Lo stesso neurone che “controlla” una determinata porzione della superficie del corpo e che scarica quando essa viene toccata, reagisce anche di fronte ad uno stimolo visivo in avvicinamento, anticipandone il contatto. Di fatto, lo spazio visivo immediatamente circostante al corpo viene rappresentato come se fosse una sorta di estensione tridimensionale della superficie cutanea stessa. La presenza di caratteristiche visive in queste cellule, appartenenti alla corteccia premotoria e a quella parietale, sembrerebbe renderle simili a quella visiva del lobo occipitale. Tale somiglianza è però soltanto superficiale. I neuroni contenuti nelle aree occipitali possiedono dei campi recettoriali visivi che coprono porzioni circoscritte di uno spazio esclusivamente visivo. Ognuna di queste cellule reagisce selettivamente all’ingresso di un oggetto nella zona spaziale di propria competenza. Per ovvi motivi, la posizione di questi campi recettoriali dipende dal modo in cui sono orientati i nostri occhi, tanto che un movimento della retina è sempre accompagnato da un analogo spostamento da parte loro. I campi visivi dei neuroni visuo-tattili invece si comportano in modo del tutto differente. Le loro risposte visive sono infatti modulate dalla posizione del corrispondente campo aptico [Fogassi et al. 1996; Graziano et al. 1998b]. Consideriamo il caso di un neurone bimodale avente un campo tattile situato su un braccio. Il corrispondente campo visivo catturerà lo spazio visivo immediatamente circostante a quel braccio. Proviamo ora a spostare il braccio e a portarlo nell’emispazio controlaterale. Sorprendentemente, la reazione visiva segue lo spostamento del braccio, dimostrando che il campo recettivo visivo si mantiene solidale al corrispondente campo visivo. Lo spazio peripersonale fa dunque riferimento a coordinate centrate sulle varie parti del corpo [Làdavas et al. 1998]. Del resto, è facile ipotizzare che lo spazio peripersonale - essendo legato all’azione diretta del soggetto sul mondo - faccia esplicitamente riferimento ai segmenti corporei di 21 volta in volta implicati nell’azione. Diversamente, lo spazio extrapersonale si configura come il campo delle azioni capaci di coinvolgere il corpo in tutta la sua interezza. Per questo motivo ha senso supporre che esso esprima le proprie relazioni utilizzando un sistema centrato sugli occhi. Come conseguenza, possiamo legare i punti dello spazio lontano ad altrettanti punti della retina. In questo modo, la distanza fra due punti nello spazio sarà equivalente all’ampiezza del movimento necessario a spostare il nostro sguardo più precisamente, la nostra fovea - dalla prima posizione alla seconda. In conclusione, credo che alla suddetta differenza funzionale fra spazio vicino e spazio lontano, di cui abbiamo discusso nei paragrafi precedenti, possiamo ora sovrapporre l’uso di coordinate altrettanto diverse. La differenza delle azioni che in essi possono essere compiute suggerisce infatti di adottare dei sistemi di riferimento somato-centrici per lo spazio peripersonale e uno retino-centrico per quel che riguarda lo spazio extrapersonale. 6. Evidenze neuropsicologiche sull’uomo La neuropsicologia, nata nella seconda metà dell’Ottocento grazie al contributo di Broca, studia gli effetti comportamentali delle lesioni cerebrali. In questo paragrafo ci concentreremo sulle cosiddette dissociazioni spaziali, che provocano una distorsione nella rappresentazione dello spazio. In particolare analizzeremo i casi del neglect e dell’estinzione visuo-tattile. Fra le due patologie quella più grave è sicuramente quella del neglect che insorge a causa di lesioni molto estese all’emisfero cerebrale destro, provocando una perdita di consapevolezza delle relazioni topografiche controlesionali. Bisiach e Luzzatti [Bisiach et al. 1978] chiedono ad un loro paziente di chiudere gli occhi e di pensare agli edifici presenti in piazza Duomo a Milano. In risposta a questa richiesta il paziente descriveva soltanto gli edifici situati nella metà destra del suo spazio immaginato. Successivamente, allo stesso paziente viene richiesto di ripetere l’esperimento dopo aver cambiato l’orientamento del suo corpo, ruotando su se stesso. In risposta a questa seconda prova il soggetto descriveva nuovamente soltanto la metà della piazza che, questa volta, si veniva a trovare alla sua destra. È chiaro dunque che non si possa trattare di un deficit mnemonico. Oltre alla perdita dei valori topografici, il neglect induce l’errata rappresentazione delle relazioni metriche controlesionali. 22 Molti dei pazienti di neglect hanno difficoltà a riprodurre graficamente gli oggetti che vedono, persino quando sono estremamente semplici e stilizzati. Ad esempio, davanti all’immagine di un fiore essi la ricopiano disegnando soltanto i petali posizionati alla destra del gambo, ignorando gli altri. Allo stesso modo, davanti alla richiesta di ricopiare un orologio riportano solo i numeri posti nella metà destra del quadrante. Halligan e Marshall [Halligan et al. 2001] studiano il comportamento di Tom Greenshield, un pittore professionista che aveva perso la funzionalità di gran parte del suo lobo parietale destro dopo essere stato colpito da ictus cerebrale. Analizzando i suoi quadri è chiara la forte tendenza dell’autore a ignorare la metà sinistra degli oggetti rappresentati graficamente. Un altro test clinico particolarmente utilizzato è quello di bisezione, in cui si chiede al paziente di indicare il punto medio di segmenti di varia lunghezza. Questo paradigma si basa su una semplice constatazione: il paziente da neglect, rappresentando la porzione sinistra della linea più corta di quella destra, tenderà a collocare il punto medio inevitabilmente più a destra di quanto non lo sia in realtà. Il test di bisezione, poi, si presta alla perfezione per fornire una misura quantitativa dell’intensità degli effetti comportamentali della patologia. Tanto più, infatti, il presunto punto medio sarà spostato verso destra, tanto maggiore sarà la severità della negligenza e, di conseguenza, tanto più compromessa sarà la relativa rappresentazione spaziale. Questo aspetto della patologia è sicuramente molto eclatante, basti pensare al fatto che in alcuni casi i pazienti arrivano anche a mangiare solo metà del cibo contenuto nel loro piatto e a radersi soltanto metà del proprio volto; tuttavia, questa non è anche la caratteristica ritenuta più interessante. La letteratura scientifica ha infatti sempre prestato molta attenzione al fatto che gli effetti di questa patologia sono modulabili dalla distanza che intercorre fra il paziente ed il proprio bersaglio [Butler et al. 2004]. Brain [Brain 1941] riporta il caso di un uomo che pur riuscendo ad indicare con grande precisione la posizione di oggetti lontani, non era in grado di fare altrettanto nei confronti degli oggetti posti nelle immediate vicinanze del suo corpo. Allo stesso modo, Halligan e Marshall [Halligan et al. 1991], analizzano un caso clinico in cui il neglect aveva un forte impatto sulle prestazioni del paziente solo quando queste erano rivolte verso la peripersonalità. Di nuovo, gli effetti patologici diminuivano sensibilmente quando il soggetto interagiva con bersagli distanti. In modo diametralmente opposto, Cowey, Smart e Ellis 23 [Cowey et al. 1994] argomentano a favore dell’esistenza di una forma di neglect rivolta non verso la peripersonalità ma verso l’extrapersonalità. Nel caso dell’estinzione, invece, gli stimoli sensoriali controlesionali non vengono ignorati completamente, come nel caso del neglect, ma trascurati solo quando vengono presentati simultaneamente ad altri stimoli ipsilesionali. Un test molto semplice per verificarne la presenza consiste nel chiedere al paziente di guardare il naso dell’esaminatore mentre quest’ultimo muove le dita. Se l’esaminatore muove una sola mano alla volta, il paziente non ha la minima difficoltà a descrivere il suo movimento. Quando invece lo sperimentatore muove entrambe le mani contemporaneamente, il paziente descrive solo il movimento della mano posta nell’emispazio ipsilaterale alla lesione. In altre parole, l’informazione sensoriale proveniente dalla sezione di spazio monitorata dall’emisfero leso viene ignorata solo quando deve competere con l’informazione proveniente dalla metà controllata dall’emisfero sano. Nel caso specifico dell’estinzione visuo-tattile, il conflitto si verifica fra informazioni visive e tattili. Inhoff e colleghi [Inhoff et al. 1992] analizzano questo tipo di estinzione toccando i loro pazienti mentre nello spazio extrapersonale dei soggetti faceva la sua comparsa un evento luminoso. Le risposte dei pazienti erano molto accurate e sicure. In un primo momento, ciò suggerì di negare l’esistenza di una versione multi-modale della patologia. Si deve a Mattingley [Mattingley et al. 1997] la ripresa critica di queste considerazioni grazie all’introduzione, come variabile di controllo, della distanza fra il paziente e lo stimolo visivo. Se il segnale compariva lontano dal paziente, egli riusciva a recepire entrambi gli stimoli senza difficoltà, in pieno accordo con i dati ottenuti dal gruppo di Inhoff [Inhoff et al. 1992]. Quando invece l’evento visivo compariva vicino alla mano del paziente, la performance peggiorava sensibilmente, mostrando inequivocabilmente gli effetti dell’estinzione. La versione cross-modale dell’estinzione dunque esiste, è stata certificata e presenta degli effetti che, come quelli del neglect, sono modulabili dalla distanza soggetto-stimolo. Considerate insieme, le evidenze che abbiamo descritto forniscono una prova neuropsicologica di come lo spazio esterno abbia una natura intrinsecamente discreta e frammentaria. Lo studio dell’estinzione ha dimostrato che fra lo spazio peripersonale e quello extrapersonale esiste una differenza qualitativa molto solida, legata al loro grado di integrazione multisensoriale. Così, lo spazio lontano si 24 configura come a dominanza visiva mentre quello vicino assume una forma ibrida, in cui le sensazioni visive vengono fortemente influenzate da quelle tattili. Gli studi sul neglect, invece, ci suggeriscono che i due spazi vengono elaborati attraverso processi che sono solo diversi ma anche indipendenti fra di loro. A questo punto, rimane solo da capire se il confine fra queste due dimensioni spaziali sia fissato univocamente o se, al contrario, possa variare nel tempo e ce ne occuperemo nel prossimo paragrafo. 7. Plasticità e schema corporeo Durante la nostra vita, modifichiamo naturalmente la conformazione del corpo accrescendone la taglia. Basta guardare qualche vecchia foto per rendersene conto: oggi le nostre gambe, il nostro collo, le nostre braccia, sono qualche centimetro più lunghe di qualche anno fa e molto più lunghe di quando eravamo bambini. E’ la logica conseguenza del fatto che siamo organismi in costante crescita che, di conseguenza, modificano con il passare del tempo il proprio rapporto con il mondo esterno. Una gran parte di questo cambiamento è dovuto all’allungamento dei nostri arti, in particolare di quelli superiori, che rende raggiungibili punti e oggetti sempre più lontani. Ognuno di noi ne avrà sicuramente un ricordo vivido: chissà quante volte, da bambini, abbiamo provato a prendere un barattolo nella dispensa, non riuscendoci perché la mensola era troppo in alto! Da bambini, eravamo costretti a salire su una sedia per raggiungere la mensola mentre ora, che siamo cresciuti, è sufficiente alzare un braccio per afferrarlo: alcuni punti che eravamo abituati a considerare lontani, con lo sviluppo naturale del nostro organismo sono diventati vicini. Oggetti che prima erano considerati appartenenti allo spazio extrapersonale, perdono così la loro qualifica di oggetti distanti per entrare nello spazio peripersonale. Di conseguenza, il confine fra i due orizzonti spaziali non può avere una collocazione univoca. Al contrario, esso si sposta in profondità nel tempo come risultato della progressiva crescita del corpo e delle sue potenzialità. Questo vale, lo ripeto, nel caso di una crescita naturale dell’organismo. Che cosa succederebbe, però, se invece di aumentare la portata delle nostre azioni in questo modo, ricorressimo a soluzioni artificiali? Se un oggetto è fuori dalla nostra portata diretta possiamo, come abbiamo detto, camminare verso di lui fino ad averlo a portata di mano. Oppure, potremmo anche raggiungerlo rimanendo fermi al 25 nostro posto: basterebbe ricorrere all’aiuto di un attrezzo sufficientemente lungo. Parlando dei neuroni visuo-tattili abbiamo avuto modo di notare che lo spazio visivo peripersonale può essere descritto nei termini di un’estensione tridimensionale della superficie corporea. Iriki e collaboratori [Iriki et al. 1996] mostrano per la prima volta che l’uso di un attrezzo lungo sposta in profondità i campi recettoriali di questi neuroni. Registrando l’attività di molti neuroni bimodali parietali, egli fa avvicinare ripetutamente del cibo all’animale. I campi recettoriali aptici erano collocati sulla mano e di conseguenza le risposte visive si riscontravano quando il cibo entrava nello spazio peri-mano del primate. Ciò conferma l’idea che nello spazio peripersonale la percezione visiva assume anche un significato tattile. Successivamente, il cibo veniva presentato a distanze maggiori, e l’animale doveva raccoglierlo con un rastrello. Non appena finita la sessione di training, ma prima che l’animale abbandonasse l’oggetto, l’esperimento veniva ripetuto. Prima di proseguire, facciamo brevemente il punto del discorso. Se l’uso dello strumento lungo portasse ad una rimappatura spaziale, la reazione dei neuroni visuo-tattili alle due condizioni dovrebbe essere diversa. Se invece l’incremento artificiale delle capacità funzionali non avesse alcun effetto sulle relazioni spaziali, dovremmo aspettarci di ottenere delle reazioni equivalenti. Confrontiamo ora i risultati delle due registrazioni, così da capire cosa è avvenuto. Nella prima condizione, ovviamente, i bimodali controllavano la porzione di spazio visivo immediatamente circostante all’effettore. Dopo che l’animale aveva utilizzato il rastrello invece le reazioni visive non avvenivano più vicino alla mano dell’animale, bensì in prossimità della punta dell’attrezzo impugnato. Di fatto, lo stesso neurone che prima reagiva all’ingresso del cibo nello spazio peri-mano, ora si ritrova sintonizzato sull’estremità dell’attrezzo. L’uso di uno strumento estensivo induce così a ridefinire le nostre relazioni spaziali, in quanto trasferisce nello spazio lontano quell’integrazione multimodale che abbiamo visto essere la qualità principale dello spazio vicino. Siamo ora in grado di rispondere affermativamente al quesito che avevamo sollevato all’inizio del paragrafo. Per ottenere una rimodulazione spaziale è necessario modificare il parametro che fonda la dicotomia fra vicino e lontano, indipendentemente dal modo in cui tale ampliamento avvenga. Risultati analoghi sono stati riscontrati anche nei confronti dell’uomo, grazie agli studi condotti sulle patologie 26 spaziali come il neglect e l’estinzione [Làdavas et al. 2002; Làdavas et al. 2004; Maravita et al. 2002; Pegna et al. 2001]. Abbiamo già accennato al fatto che i loro effetti sono modulabili dalla distanza fra il soggetto e il suo bersaglio, nel senso che i deficit possono sorgere alternativamente tanto nei confronti degli oggetti vicini quanto verso quelli distanti. Sottoponendo un paziente da neglect a un test di bisezione di linea, Berti e Frassinetti [Berti et al. 2000] attestano l’interesse della patologia per lo spazio vicino. Di fronte a segmenti vicini il paziente commetteva degli errori decisamente marcati, mentre la precisione cresceva quando il segmento veniva spostato in profondità. In questa condizione di lontananza, il test poteva essere eseguito in due modi diversi: sia attraverso l’uso di un puntatore laser, sia attraverso l’uso di un bastone lungo. Confrontiamo ora l’accuratezza riscontrata nei due test di bisezione lontani. Per fare questo è sufficiente misurare, in ognuna delle due condizioni, la distanza che separa il presunto punto medio da quello reale. Paragonando i due errori otteniamo che la performance legata all’utilizzo del puntatore è decisamente meno precisa di quella in cui viene utilizzato lo strumento estensivo. Riflettiamo un istante sulla natura spazialmente settoriale della patologia. Le due bisezioni “lontane” coinvolgono le stesse linee situate alle stesse distanze, per cui l’origine della differenza non è riconducibile ad un qualche effetto degli oggetti in questione. Al contrario, essa deve essere cercata in ciò che accade nel passaggio dall’uso del primo strumento a quello del secondo. La domanda allora è la seguente: cos’è che cambia, di preciso, in questo passaggio? La risposta è estremamente semplice: ricorrere ad uno strumento piuttosto che all’altro conduce alla realizzazione dello stesso compito - la bisezione - in due modi radicalmente differenti. Nel caso del puntatore laser il paziente agisce veramente a distanza e non fa altro che indicare il punto selezionato, esattamente come farebbe con il suo dito indice se il bersaglio fosse per così dire a portata di mano. Al contrario quando il paziente utilizza il bastone, non si limita ad indicare il punto medio ma lo raggiunge: in qualche modo, pur rimanendo fermo, egli ci si avvicina. È come se l’attrezzo diventasse un estensione del suo braccio, ossia un prolungamento del suo corpo capace di rendere accessibili bersagli altrimenti irraggiungibili. Confrontiamo ora la performance della modalità “raggiungimento” con quella del compito rivolto verso lo spazio vicino. Otterremo che la precisione del task è peggiorata rispetto alla modalità “puntamento”, fino a raggiungere un errore medio 27 paragonabile a quello delle bisezioni “vicine”. Una porzione di spazio extrapersonale perde così la sua qualifica di spazio lontano per entrare, diventando raggiungibile, nell’orizzonte della peripersonalità. Se quanto detto fino ad ora riguardo l’uso di attrezzi estensivi fosse veramente corretto, dovremmo trovare variazioni analoghe anche negli effetti dell’estinzione visuo-tattile. È ormai noto [Farnè et al. 2000; Farnè et al. 2005; Maravita, et al. 2001] che esiste una forte correlazione fra la lunghezza dello strumento e lo slittamento in profondità della distanza massima in cui uno stimolo visivo può competere con uno stimolo tattile. Nel caso dell’estinzione uno stimolo visivo entra in conflitto con uno stimolo tattile controlaterale solo se entrambi si trovano nello spazio peripersonale. Quando invece l’evento visivo viene allontanato dallo stimolo tattile, non si verifica alcuna interferenza. Tuttavia, il fatto che le detezioni dei pazienti peggiorino sensibilmente quando questa distanza viene coperta da uno strumento lungo indica che, in questa condizione, l’evento visivo viene codificato come vicino e non più come lontano. Farné e Làdavas [Farné et al. 2000] hanno poi dimostrato che un simile slittamento in profondità avviene solo quando lo strumento viene utilizzato attivamente, sottolineando il fatto che una semplice variazione morfologica non produce alcun effetto modulatorio. Al contrario, è necessario che si crei un rapporto attivo fra soggetto agente e l’attrezzo utilizzato. Soltanto così gli strumenti possono fungere da vere e proprie estensioni del nostro corpo, diventandone a tutti gli effetti parte. A questo punto, però, sorge un problema, che non possiamo ignorare. Come può un oggetto esterno, non biologico, venire annesso al nostro corpo, che invece è un’entità biologica? La mia intenzione è quella di mostrare la scarsità di tale problema, che a mio avviso è capace di costituire una difficoltà soltanto fittizia. A scanso di equivoci, partiamo subito da una precisazione. È bene notare che il corpo di cui stiamo parlando ora non è il nostro corpo fisico. Al contrario, in accordo con la tradizione fenomenologica, stiamo facendo riferimento a un’entità fenomenica e rappresentata, che possiede caratteristiche profondamente differenti dal suo corrispondente materiale. Per quale motivo è così importante possedere una rappresentazione del nostro corpo? Immaginiamo di sentire improvvisamente squillare il telefono e di volere rispondere, possibilmente nel minor tempo possibile. Come prima cosa dobbiamo raggiungere il telefono ma, ancora prima, dobbiamo localizzarlo. Questo però non è ancora sufficiente. Dobbiamo infatti sapere anche 28 dove si trova la nostra mano, in modo da poter pianificare un movimento coerente. Una volta afferrato il telefono, sarà giunto il momento di utilizzarlo. Per fare questo, dobbiamo sapere l’esatta posizione della nostra testa ed in particolare del nostro orecchio. Inoltre, dobbiamo stare attenti a non perdere l’equilibrio durante l’esecuzione del nostro gesto; perciò dovremo saper coordinare fra loro i vari anelli di questa catena motoria. Riusciamo ad avere accesso a queste informazioni perché oltre a possedere un corpo lo sappiamo usare. Mi rendo conto, però, che non abbiamo ancora risposto alla nostra domanda. Davanti ad una considerazione del genere è infatti possibile sollevare l’obiezione di non avere ancora chiaro il modo in cui si possano possedere e gestire tutte queste competenze. La risposta è molto semplice e, questa volta, esaustiva: sappiamo utilizzare così bene il nostro corpo perché possediamo una sorta di mappa - lo schema corporeo - utile a guidarlo in tempo reale [Sekiyama 2006]. Cerchiamo ora di analizzare quali sono le informazioni che confluiscono all’interno di una simile rappresentazione sintetica. Prima di tutto dobbiamo considerare le informazioni vestibolari, utili al mantenimento dell’equilibrio, e quelle cinestetiche, che costituiscono una copia afferente degli spostamenti eseguiti. Lo schema corporeo serve per monitorare automaticamente tutti gli aggiustamenti posturali utili all’esecuzione ottimale dei nostri atti motori [Head 1918; Head et al. 1911-12; Holmes 1924]. Abbiamo però anche accennato al fatto che queste informazioni non sono ancora sufficienti: manca infatti la conoscenza della posizione del corpo, e delle sue parti, nello spazio. Alle già citate informazioni vestibolari e cinestetiche, dobbiamo dunque aggiungere anche quelle propriocettive. Ne segue che lo schema corporeo, essendo espressione di queste caratteristiche pragmatiche, non può essere il risultato della semplice giustapposizione delle varie parti del nostro corpo. Al contrario, deve essere qualcosa di più complesso. Bene faceva, allora, Merleau-Ponty a paragonarlo ad una forma gestaltica. Ci si avvia quindi verso una seconda definizione di schema corporeo: esso non sarà più il semplice risultato delle associazioni stabilite nel corso dell’esperienza, ma una presa di coscienza globale della mia postura nel modo intersensoriale, una “forma”, nel senso Gestaltpsychologie. […] Lo schema corporeo non è il semplice calco, né la coscienza globale delle parti esistenti del copro, ma se le integra attivamente in ragione del loro valore per i progetti dell’organismo. (Merleau-Ponty 1945, p. 153) 29 Solitamente il corpo oggettivo e quello rappresentato presentano la stessa configurazione. Tuttavia, esistono delle occasioni in cui il secondo si discosta dal primo. A prescindere da alcune condizioni patologiche, come il fenomeno dell’arto fantasma, su cui però non ho intenzione di soffermarmi, il caso più frequente in cui si verifica tale dissociazione è quello in cui viene utilizzato un supporto estensivo. Attraverso l’uso ripetuto e attivo di strumenti lunghi, le nostre capacità di agire aumentano e gli attrezzi cessano di essere semplici oggetti esterni per diventare una sorta di estensione del nostro corpo. è in questo senso che possiamo considerare il martello di un fabbro come indistinguibile dalla sua mano, o il bastone di un cieco come un’estensione del suo braccio. In casi come questi, il soggetto agente passa dal controllo di una semplice mano al controllare il sinolo di una mano e di un attrezzo. Si badi ancora una volta che così facendo non modifichiamo in alcun modo il nostro corpo materiale: se misuriamo il nostro braccio prima e dopo l’uso di un attrezzo, otterremo inevitabilmente sempre la stessa lunghezza. Ciò che viene modificato ed esteso quindi non è il nostro corpo biologico, bensì il nostro schema corporeo [Maravita et al. 2003; Maravita et al. 2004]. Possiamo ora fare riferimento alla plasticità dello schema corporeo per spiegare una caratteristica dello spazio - la dinamicità del confine fra spazio peripersonale ed extrapersonale - di cui il parametro “corpo biologico” non riesce a rendere conto. Il nostro corpo oggettivo cambia naturalmente nel tempo, ma questi cambiamenti possono essere misurati solo nell’arco di una vita intera. Non possiamo quindi chiamare in causa queste variazioni per spiegare fenomeni con tempistiche decisamente minori, come la rimappatura spaziale che segue l’uso di strumenti lunghi. Fenomeni del genere insorgono molto rapidamente e si dissolvono in maniera altrettanto rapida; per questo devono essere legati a qualcosa che possieda un’analoga dinamicità elastica: lo schema corporeo. Lo spazio allora è veramente, come sostengono Rizzolatti e colleghi [Rizzolatti et al. 1997] “attorno a noi”, ma adesso dovremmo avere capito bene che quando parliamo di “noi” non facciamo riferimento tanto al nostro corpo materiale, quanto piuttosto al nostro corpo fenomenico. E è proprio grazie ad una simile esperienza corporea che possiamo dire, in accordo con Merleau-Ponty, di non vivere nello spazio ma di abitare lo spazio. Conclusione 30 Riusciamo ad ordinare spazialmente il mondo esterno grazie alle nostre capacità di interagire con gli oggetti che ci circondano. Seguendo le intuizioni di Poincaré, siamo indotti a ridurre i punti dello spazio a bersagli di vari movimenti finalizzati o, per essere più precisi, a scopi di altrettanti raggiungimenti. La metrica dello spazio, dunque, non può che essere proporzionale alle dimensioni del nostro corpo. Tuttavia la corporeità, intesa in termini biologici, costituisce un parametro troppo rigido per fondare le molteplici mappe spaziali con cui guidiamo il nostro comportamento nell’ambiente esterno. Molto più adeguato si dimostra invece lo schema corporeo che, essendo intrinsecamente plastico, può estendersi e modificarsi in relazione agli scopi delle nostre azioni. Tenuto conto di questa sua capacità di discostarsi dalla morfologia del corpo “materiale”, lo schema corporeo riesce a rendere conto della natura dinamica e funzionale propria confine fra lo spazio peripersonale e quello extrapersonale. Utilizzando strumenti lunghi, ampliamo la portata delle nostre azioni e rendiamo vicini oggetti che prima erano lontani. L’attrezzo in questione diventa parte del nostro corpo, e viene letteralmente incorporato come un’appendice del nostro schema corporeo. Spazio e corpo si rivelano dunque profondamente legati fra loro nella loro natura dinamica e nella loro stretta dipendenza comune dalla sfera dell’azione. Se infatti è vero che estendendo la gittata dei nostri gesti spostiamo il confine della nostra “vicinanza”, è anche vero che una simile traslazione passa inevitabilmente per una modificazione dello schema corporeo. Lo spazio allora è sì costruito attorno a noi, ma con questo “noi” non dobbiamo intendere tanto il nostro corpo biologico quanto, piuttosto, il nostro schema corporeo. 31 Bibliografia [Andersen et al. 1990]: Andersen, R.A.; Asanuma, C.; Essick, C.; Siegel, R.M. “Corticocortical connections of anatomically and physiologically defined subdivisions within the inferior parietal lobule”, in Journal of comparative neurology, 296, 1990, pp. 65-113. [Berthoz 1997]: Berthoz, A. Il senso del movimento, tr. it. a cura di , McGraw-Hill, Milano 1998(1997). 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