REPUBBLICA ITALIANA IN NOME DEL POPOLO ITALIANO LA COMMISSIONE TRIBUTARIA REGIONALE Dl VENEZIA SEZIONE 24 riunita con l’intervento dei Signori: Pietrogrande Gian Maria - Presidente Corletto Daniele - Relatore De Troia Antonio - Giudice ha emesso la seguente SENTENZA sull’appello n. 686/05 depositato il 18.06.05 - avverso la sentenza n. 14/13/04 emessa dalla Commissione Tributaria Provinciale di Venezia proposto dall’ufficio: Agenzia Entrate Ufficio Venezia 2 controparte: Sa. S.r.l. Via To. 151/A - Me. (…) Ve. Ve difeso da: Gi. G. Do., Ag. Vo. Me. Via To. 151/A (…) Ve. Ve Atti impugnati: Avviso di Liquidazione n. (...) Registro FATTO Nell’atto di compravendita di un immobile sito in Ve., e oggetto di notifica ai sensi della L. n. 1089 del 1939, le parti dichiaravano di aver convenuto il prezzo in £ 1.380.000.000; la parte acquirente chiedeva però di essere tassata sull’imponibile di £ 104.448.750, risultante “dalla determinazione del valore catastale degli immobili applicando i coefficienti di estimo più bassi previsti per la zona censuaria I del Comune di Ve., in considerazione del fatto che l’immobile è vincolato”. L’Ufficio delle Entrate di Venezia 2, dopo aver riscosso in sede di registrazione l’imposta di registro in misura fissa, una volta decorso il termine per l’esercizio del diritto di prelazione da parte del Ministero per i beni ambientali e culturali, liquidava la stessa imposta nell’importo di 42.649,01, in misura proporzionale sulla base imponibile rappresentata dal prezzo indicato in atto. Contro il provvedimento di liquidazione ricorreva il contribuente, Sa. S.r.l., alla Commissione Tributaria Provinciale di Venezia, la quale con sentenza n. 14 della 13^ sezione, depositata il 15.07.04, accoglieva il ricorso ritenendo in sostanza che la tassazione dovesse riferirsi al “valore convenzionale” del bene, cosi come “risultante dall’applicazione del criterio valutativo automatico, ancorato alle rendite catastali”. L’appello dell’Ufficio fa presente che l’imposta di registro si riferisce al “valore venale in comune commercio” del bene oggetto dell’atto registrato, che il prezzo pattuito è una indicazione di valore che le parti non possono modificare a fini fiscali, dovendo escludersi in sostanza il potere delle parti di individuare un valore rilevante ai soli fini fiscali che prescinda dal prezzo: il valore catastale non può costituire valore imponibile, ma solo un limite al potere accertativo dell’Ufficio. D’altra parte - osserva l’Ufficio - la norma che consente di determinare la base imponibile facendo riferimento alla minore delle tariffe d’estimo della zona è applicabile soltanto all’imposizione diretta, e non per l’imposta di registro. La società contribuente, ampiamente argomentando, difende l’impugnata sentenza, e ribadisce i rilievi sulla illegittimità dell’atto impositivo in questione già svolti in primo grado. Conclude che ai fini dell’imposta di registro si deve fare riferimento al valore catastale del bene, prescindendo dal corrispettivo pagato, e che in particolare per gli immobili di interesse culturale, la base di riferimento è costituita dalla rendita catastale di minore importo fra quelle previste per la zona censuaria. Quanto alla imposta ipotecaria, fa notare che il punto non è stato oggetto di rilievi nell’appello dell’ufficio, e che quindi su di esso si è formato il giudicato; nel merito ripete che l’imposta deve applicarsi in misura fissa. Aggiunge infine rilievi sul difetto di motivazione, e su altri difetti formali, dell’avviso di liquidazione, e sulla nullità della notifica di esso. DIRITTO L’appello va accolto. La sentenza impugnata basa le sue conclusioni su due passaggi logici, il primo, enunciato, è che il dato rilevante ai fini fiscali non e il prezzo ma il “valore convenzionale” del bene. Il secondo, che è rimasto implicito e non è stato oggetto di motivazione, è che tale valore, per gli immobili di interesse culturale, si debba determinare applicando l’art. 11 della L. n. 413 del 91, e quindi sulla base della rendita catastale minore fra quelle della zona. Quanto al primo punto, si tratta di decidere se l’imposta di registro abbia come base il valore attribuito dalle parti al bene nella loro transazione economica, ossia il prezzo, che (normalmente almeno) corrisponde al valore venale nel comune commercio; o se il “valore” sul quale effettuare la tassazione possa o debba essere un valore convenzionale, e precisamente quello “catastale”. La questione è stata oggetto di pronunce, talvolta contrastanti, della Corte di Cassazione e anche di questa Commissione regionale. La Commissione osserva che in materia di imposta di registro l’art. 43, 1, lett., a, D.P.R. n. 131 del 86 fissa la base imponibile, per i contratti onerosi traslativi di diritti reali, nel “valore del bene”; si precisa poi, al secondo comma dell’art. 51, che “si intende per valore il valore venale in comune commercio”. Ora il valore venale in comune commercio non è altro che il prezzo al quale, in una contrattazione sul libero mercato, il bene è stato effettivamente scambiato, o il prezzo al quale il bene avrebbe potuto essere scambiato, se fosse stato oggetto di scambio sul libero mercato. La disposizione intende garantire che la tassazione di registro avvenga con riferimento al vero prezzo pagato o ad un valore corrispondente a quello di mercato, ove il prezzo dichiarato dalle parti risulti inferiore a quello. Si tratta quindi di garantire l’autenticità del prezzo dichiarato e comunque la sua corrispondenza ai valori di mercato, vanificando per quanto possibile il tentativo di evadere parzialmente l’imposizione dichiarando prezzi di vendita inferiori al vero. Come limite alle possibilità di accertamento dell’amministrazione si è poi previsto (art. 52, 4) che l’amministrazione non possa rettificare il valore degli immobili “dichiarato in misura non inferiore a cento volte il reddito risultante in catasto ...”. Ove le parti dichiarino quindi di aver concluso la compravendita ad un prezzo corrispondente o superiore al dato numerico risultante dall’applicazione del criterio “catastale” citato, rimane preclusa la possibilità per l’amministrazione di accertare un valore superiore. Ma rimane esclusa altresì la possibilità di riferirsi per l’applicazione dell’imposta ad un valore diverso da quello risultante dal prezzo dichiarato, il quale corrisponde nella normalità dei casi al “valore venale in comune commercio” del bene. In questo senso si è recentemente espressa anche la Corte di Cassazione che ha ritenuto (sent. 09.09.04, n. 18150) che l’imposta di registro debba essere applicata sull’effettivo prezzo dichiarato nel contratto, e non sulla base dell’applicazione dei criteri catastali: pertanto, il contribuente non ha diritto a chiedere l’applicazione dell’imposta su un valore “fiscale” (automatico) se, in effetti, ha indicato in atti un corrispettivo di valore superiore. Nello stesso senso la Sez. XIX di questa Commissione (sent. 08/19/05 depositata il 31.03.05), che ha deciso che “il prezzo dichiarato nell’atto è sicuro segno del valore venale, l’entità che rappresenta la base imponibile. Ed a questo pertanto si attiene l’amministrazione per la liquidazione delle imposte”, e che “non può esservi un valore dichiarato dalle parti a fini fiscali, che sia diverso da quello concordato come prezzo”. Da ultimo, un decisivo argomento a conferma di questa conclusione si ritrae dalla Legge finanziaria per il 2006 (L. 23.12.05, n. 266), che all’art. 497 dispone che “In deroga alla disciplina di cui all’art. 43 del testo unico delle disposizioni concernenti l’imposta di registro, di cui al D.P.R. 26.04.86, n. 131, per le sole cessioni fra persone fisiche che non agiscano nell’esercizio di attività commerciali, artistiche o professionali, aventi ad oggetto immobili ad uso abitativo e relative pertinenze, all’atto della cessione e su richiesta della parte acquirente resa al notaio, la base imponibile ai fini delle imposte di registro, ipotecarie e catastali è costituita dal valore dell’immobile determinato ai sensi dell’art. 52. commi 4 e 5, del citato T.U. di cui al D.P.R. n. 131 del 1986, indipendentemente dal corrispettivo pattuito indicato nell’atto”. Si tratta della inequivoca conferma, da parte dello stesso legislatore, che le previsioni vigenti non consentono l’indicazione del valore catastale come base imponibile diversa dal prezzo pattuito, tanto che per far si che come base imponibile per l’imposta di registro sia assunto il valore catastale, e che si possa prescindere dal corrispettivo indicato nell’atto, si è dovuta espressamente disporre con legge una deroga, per determinate ipotesi, alla normativa vigente. Nel caso di specie poi va ulteriormente osservato come il dato numerico - indicato come base imponibile nell’atto di compravendita - non venga in alcun modo dalle parti presentato come il “valore”, sia pure convenzionale, del bene compravenduto. La conclusione sin qui raggiunta rende inutile la ulteriore valutazione della questione se trovi applicazione alla determinazione del valore catastale l’art. 11, 2, della L. n. 413 del 1991, ossia se il valore catastale si debba ottenere, per gli immobili storici, dalla moltiplicazione per il coefficiente di legge della rendita corrispondente alla minore delle tariffe d’estimo della zona censuaria. La Commissione si limita ad osservare che la questione è stata oggetto di decisione da parte della Corte di Cassazione, che, con sentenza n. 17152 del 27.08.04, ha ritenuto che la previsione dell’articolo 11, comma 2, della L. 413 del 1991, vada riferita soltanto alle imposte sul reddito. Per gli immobili di interesse storico rimane del resto la disposizione di favore che fissa l’aliquota del registro nel 3%. Non hanno poi fondamento gli ulteriori rilievi della ricorrente, dal momento che l’atto si presenta sufficientemente motivato, pur nella stringatezza delle espressioni utilizzate, che i difetti di forma rilevati non sono suscettibili di determinare invalidità dell’atto, mentre del tutto infondati sono i rilievi in tema di notifica dell’atto impugnato. Quanto alle imposte ipotecaria e catastale, la società contribuente fa presente che l’ufficio non ha svolto motivi di appello sul punto, e che quindi l’annullamento pronunciato dalla Commissione provinciale è passato, quanto al punto specifico, in cosa giudicata. La Commissione osserva che il motivo proposto in primo grado circa il relativo calcolo, pur non espressamente deciso, deve ritenersi essere stato accolto dalla Commissione provinciale, che ha, come richiesto, annullato l’avviso di liquidazione, e che effettivamente nessuno specifico rilievo sul tema è stato rappresentato dall’Ufficio nell’atto di appello. Il punto non è quindi in discussione, e deve ritenersi già deciso favorevolmente per la società contribuente, nel senso che le imposte in questione vadano applicate in misura fissa. La difficoltà della questione giustifica la compensazione delle spese. P.Q.M. La Commissione Tributaria Regionale di Venezia, sezione 24. accoglie l’appello e dichiara dovuta l’imposta di registro nella misura determinata dall’Ufficio. Spese compensate.