Mariano FRESTA
DEL CONCETTO DI TEATRO POPOLARE
Pietro Clemente ha chiesto a se stesso e a noi tutti cosa significhi oggi il concetto di «teatro
popolare». A me è difficile rispondere dato che negli ultimi 15 anni non mi sono posto questo
problema, primo perché non mi sono occupato più di teatro popolare, secondo perché, non essendo
né filologo né demoantropologo di professione, non sono stato costretto a pormi certe domande.
L’anno scorso, però, mi sono dovuto occupare della pubblicazione di un manoscritto
contenente testi di Maggiolata, una forma di spettacolo popolare di cui Clemente, io e molti studenti
ci siamo occupati tra la fine degli anni ’70 e per quasi tutti gli anni ’80. Ho studiato, tuttavia, il
manoscritto senza preoccuparmi di discutere l’espressione “teatro popolare”, che anzi ho usato
ampiamente per continuità con quello che avevo fatto negli anni precedenti 1.
Oltre alle mie inclinazioni filologiche il motivo per cui mi piaceva l’idea di studiare e
pubblicare il manoscritto era dovuto alla possibilità di indagare su documenti della Maggiolata
antecedenti il 1850: nonostante, infatti, me ne fossi occupato per più di dieci anni, non ero riuscito a
trovare per questa forma di spettacolo una documentazione anteriore alla metà dell’Ottocento; in
sostanza, a parte qualche cenno o qualche frammento di testo, nessuno sapeva cosa era prima
dell’Ottocento la Maggiolata e quali fossero i testi e le modalità di esecuzione. C'era qualche
notiziola che riguardava il Bianciardi 2, un’altra riguardava un certo Contrucci, ricordato dal Tigri in
una nota dei suoi Canti popolari toscani; però non c'erano né riferimenti sulle modalità di
rappresentazione di questa forma di spettacolo (come si può vedere, nonostante Clemente li abbia
messi in discussione, continuo ad usare i termini tradizionali, perché di nuovi non ne ho). Non
c'erano, quindi, notizie sulle modalità di rappresentazione e a volte non c'erano nemmeno testi
molto antichi. Si sapeva del Manni che aveva scritto qualcosa sul Maggio, c'era chi ricordava la
pubblicazione su «Lares» del Ganz degli anni '50 su due Bruscelli antichi, c'era qualche
pubblicazione riguardante il Bruscello di Celle sul Rigo, se non erro. Però erano notizie
frammentarie, piuttosto scarse, che non davano assolutamente nessuna indicazione precisa su come
questo teatro si svolgesse o su che cosa fosse3. Studiando questo manoscritto, forse, avrei avuto la
possibilità di trovare le informazioni che mi mancavano.
Il manoscritto, che la Contrada della Pantera di Siena mi aveva proposto di editare già circa
sei anni fa, contiene una trentina di testi cantati tra gli anni 1680 e il 1702. Si tratta di testi non
accompagnati da nessuna didascalia, da nessuna spiegazione sui modi dell’esecuzione; ma i testi
stessi ci forniscono una serie importante di notizie, confermandoci così che, dalla fine del Seicento
ad oggi, le variazioni della festa sono state minime; testi ed esecuzione, infatti, compresa la questua
finale, si sono ripetuti da allora ad oggi quasi negli stessi modi.
Quindi, l’aver studiato questo manoscritto mi ha dato la possibilità di vedere che negli ultimi
trecento anni la Maggiolata ha conservato gli stessi aspetti e che non ha avuto modificazioni di sorta
come invece è accaduto o potuto accadere per altri generi dello spettacolo popolare. Questa mi è
sembrata una scoperta piuttosto importante.
1
Per il ms. di cui si parla si veda Il “cantar maggio” delle contrade di Siena nel sec. XVII, Introduzione edizione e
commento di M. Fresta, Ed. Cantagalli, Siena 2000.
2
Su S. Bianciardi si veda N. Tommaseo, Canti popolari toscani,corsi, illirici e greci, Venezia 1841, vol. I, p.
205, nota 1.
3
Per tutte queste notizie rimando al volume da me curato Vecchie segate ed alberi di maggio, Montepulciano 1983.
Un’altra informazione di rilievo riguarda il Maggio delle anime del purgatorio, del quale
avevamo solo alcune notizie frammentarie; nel manoscritto di questo tipo di Maggiolata si trovano
ben sette testi su 34, il che significa che la tradizione era piuttosto diffusa.
Poiché anche l’apporto ecdotico è stato minimo, trattandosi solo di mettere a posto la
punteggiatura e di spiegare qualche termine o qualche espressione desueti, la mia attenzione si è
appuntata su quegli aspetti dei testi che potessero suggerire qualcosa sull’ambiente della
performance: il rapporto campagna/città, la questua, le finalità della questua. E qui la sorpresa più
grande: il canto del Maggio nella Siena di fine ‘600 si utilizzava per raccogliere fondi per la
costruzione delle chiese delle Contrade e non per organizzare l’abituale cena rituale tra tutti i
maggiaioli, in onore dell’arrivo della primavera. I testi cantati dalle Contrade in un primo momento
rispettavano in qualche modo i contenuti tradizionali; successivamente i contenuti si modificavano,
passando dall’elogio della primavera a quello dei santi patroni delle Contrade.
Ritengo che questa notizia sia importante, sia per le questioni relative alla circolazione
sociale dei fatti culturali, sia perché negli anni 1970/80 quando il dibattito sul teatro popolare era
piuttosto acceso, si discusse e si litigò a lungo se mantenere il folklore nella sua purezza originaria o
se, invece, era possibile utilizzare le sue strutture formali come veicolo di temi nuovi e progressivi.
Mi ricordo, durante il Convegno di Montepulciano rammentato da P. Clemente, la violenta
contestazione da parte democristiana allo spettacolo della Vecchia umbra messo in scena dagli
attori dell’Università di Perugia in tre diverse versioni, quella filologica e altre due con contenuto
modificato: quella a difesa del divorzio e quella sui problemi dell’agricoltura4. Mi ricordo, anche,
l’attenzione che, una ventina d’anni prima, Vito Pandolfi aveva rivolto al Bruscello sulla Guerra di
Liberazione di Candido Berti di Montepulciano che, sulla struttura del Bruscello tradizionale, aveva
sviluppato una trama in cui c’erano tedeschi, fascisti, partigiani e si inneggiava al Fronte Popolare5.
Il manoscritto senese, dunque, ci dice chiaramente che quella forma di teatro epico, come il
Bruscello, che racconta storie metatemporalizzate, e le altre forme di spettacolo tradizionale, a
dispetto di tutti gli studiosi che le vogliono nella loro presunta purezza originaria, possono essere
modificate e usate per altri fini da quelli rituali. In questo modo il discorso non è più incentrato
sull’essenza del teatro popolare tradizionale, ma sulla circolazione culturale di questi fatti.
Nell’introduzione ai testi pubblicati del manoscritto, ho ripetutamente chiamato la
Maggiolata “spettacolo” o forma di “teatro popolare”. Certo, se noi teniamo presente il concetto di
teatro attuale, con un edificio apposito ad esso destinato, con le scenografie, con l’autore, il regista,
gli attori, ecc. la Maggiolata non può essere chiamata né “spettacolo”, né può essere inquadrata
nelle forme del teatro da noi conosciuto. Probabilmente la categoria di “rito” le si adatta di più. Ma
credo che oggi i contadini sappiano abbastanza bene che non è necessario dare vita a cerimonie
rituali per far tornare la buona stagione; come tutti seguono le previsioni meteorologiche
ammanniteci più volte al giorno dalla televisione. Per questo non credo che a Castiglione d’Orcia
facciano la Maggiolata come rito propiziatorio; ormai essa ha cambiato le sue finalità:
probabilmente, come lo stesso Clemente ha spiegato, la Maggiolata serve per visitare gli amici, gli
altri membri della comunità, che abitano in zone isolate di campagna, con i quali è raro vedersi in
paese; serve in definitiva a ricomporre l’unità della comunità sparsa nel territorio.
Oltre al termine “rito”, per indicare questi fenomeni della tradizione popolare è stato usato
anche quello di “festa”; ma anche questo mi sembra inadeguato. Invece di ricorrere a teorizzazioni
antropologiche, mi piace qui ricordare ciò che dice il Manzoni nel cap. XXV dei suoi Promessi
sposi. La gente del villaggio di Renzo e Lucia aspetta la visita del cardinale Federigo Borromeo; il
Manzoni scrive che alle finestre e sui balconi sono comparsi coperte, drappi, lenzuoli, cioè tutte
quelle piccole e povere cose che servono a dimostrare il superfluo, o come dice lo scrittore, quel
«poco necessario» che può far «figura di superfluo». La festa, dunque, è il momento in cui il
4
Per queste vicende si veda nel volume Teatro popolare e cultura moderna, a cura di P. Clemente, M. Fresta e M.L.
Meoni, Vallecchi, Firenze 1978, il mio contributo A lato del convegno: una polemica a Montepulciano, pag. 74 sgg.
5
Si veda V. Pandolfi, Copioni da quattro soldi, Firenze 1958, pp. 97-103.
superfluo e lo spreco diventano essenziali, come dimostra il potlach, che è la massima
manifestazione del superfluo e dello spreco. Ora anche nel teatro popolare c’è spreco: i maggiaioli
di Castiglione d’Orcia o quelli della Maremma grossetana partono alle tre del pomeriggio e
ritornano alle sei del mattino del giorno successivo, ubriachi di vino e di stanchezza. Hanno
sprecato un mucchio di energie, ma hanno sprecato anche vino e varie cibarie, avendo fatto decine e
decine di spuntini. Tuttavia, questo aspetto dello spreco nel teatro popolare è piuttosto secondario,
tra l’altro solo nella Maggiolata appare più consistente, mentre è minimo nelle altre forme di
spettacolo.
Per la Maggiolata, dunque, risultano insufficienti le categorie di “festa” e di “rito”; quella di
“teatro” appare invece non pertinente. Ma neanche il Maggio epico, il Bruscello e la Vecchia, a
rigor di logica, potrebbero rientrare nella nostra categoria di teatro, anche se essi sono rappresentati
in uno spazio deputato, anche se esiste un loro copione e ci sono degli attori e un minimo di
scenografia che ci permettono di indicarli come spettacoli e come forme teatrali.
Certo il teatro popolare, come l’abbiamo conosciuto nelle forme in cui si è manifestato nelle
sopravivenze e nel revival, è morto, pur se rimangono zone in cui ancora viene agito Ma è questa
una ragione sufficiente per non usare più il concetto e il nome di “teatro popolare”? Credo che chi
si mette a studiare storicamente questo fenomeno non possa rinunciare a chiamarlo con la vecchia
espressione coniata nell’Ottocento dal D’Ancona (drammatica popolare) e nel Novecento dal
Toschi (teatro popolare). Se il D’Ancona nel fenomeno vedeva solo una trama svolta in forma
dialogica (drammatica), il Toschi, sulla scorta di una letteratura antropologica ampia, in esso vedeva
un teatro, un genere, cioè, formalizzato in cui confluiscono non solo codici diversi (testo scritto,
recitazione, cinesica, scenografia, coreografia, canto) ma anche comportamenti rituali di origine più
o meno ancestrale. In sostanza, nell’analisi e nella definizione toschiana veniva recuperato in
qualche modo quel concetto di teatro che noi ritroviamo nella Grecia classica: anche in quel tempo,
il teatro assumeva caratteri molteplici di significazione; la differenza tra quello greco e quello
popolare tradizionale forse sta nel fatto che nel primo c’è la rappresentazione del mito e nel secondo
la riproduzione del rito. Nel primo prevalgono i contenuti morali e pedagogici, nel secondo gli
aspetti cerimoniali.
Io credo, poi, che potremmo accettare la definizione di teatro anche per le forme del
cosiddetto spettacolo popolare se facciamo attenzione alla persona che fa teatro. Infatti, l’attore
professionista e il giovane contadino che partecipa al Bruscello o alla Vecchia lasciano la loro
personalità e prendono quella del personaggio che devono rappresentare: in questo senso fanno
teatro. L’interpretare l’altro da sé io credo che si possa chiamare teatro. In questo modo non solo il
Bruscello, il Maggio drammatico, la Zingaresca, che hanno uno sviluppo drammatico, possono
essere definiti come espressioni teatrali, ma anche la Maggiolata, la Befanata ed altre forme simili
appartengono al teatro. I maggiaioli, infatti, ed i befanotti, una volta che si accingono a percorrere il
circuito della campagna e del paese, non sono più Giovanni, Nello, Corrado, Elia, ecc., ma sono
invece i Befanotti, più o meno mascherati, sono i Maggiaioli, i quali stanno compiendo un’azione
annuale che la comunità si aspetta che avvenga e che condivide.
La conclusione, secondo il mio parere, è che si possa continuare ad usare l’espressione
“teatro popolare”, individuando poi nell’evento anche tutti gli elementi che riguardano il rito, la
cerimonialità e la festa. Semmai il problema riguarda l’aggettivo “popolare”; da un lato, questo, sta
ad indicare tutti quegli aspetti (come, per es., il canto, il tipo di gestualità, l’intonazione della voce,
la mancanza di realismo narrativo così ben descritta da Bogatirëv6) non più presenti nel cosiddetto
teatro culto; dall’altro crea non pochi problemi teorici e pratici per la sua ambiguità di significato.
L’aggettivo “popolare” nella lingua italiana, infatti, sta a indicare cose tra loro ben diverse; se si
dice che il calcio è uno sport popolare e che Gianni Morandi è un cantante popolare, certamente
l’aggettivo indica un concetto diverso rispetto a quando è riferito al teatro del mondo folklorico. Nel
primo caso vogliamo dire che il calcio e Gianni Morandi sono conosciuti a livello di massa, nel
secondo ci riferiamo al teatro espresso da classi subalterne che, nel periodo romantico e
6
P. Bogatirëv, Semiotica del teatro popolare, in Lotman-Uspenskij, Ricerche semiotiche, Einaudi, Torino 1973.
successivamente, sono state indicate col termine di “popolo”, che poi è stato accettato nella storia
degli studi.
Ma a questo punto a me sembra che sia solo un problema di comunicazione, come lo stesso
Clemente diceva in apertura di questa discussione. E che sia un problema di comunicazione lo
sapeva bene Galileo Galilei il quale, prima di parlare di fisica, dava la definizione chiara e precisa
dei termini che avrebbe usato: io adotterò il termine “specie” non per parlare di pepe e di cannella,
ma per indicare il peso specifico dei corpi. Così, il demologo, prima di affrontare la discussione sul
teatro popolare, farà bene a spiegare cosa intende per “popolare”, per “tradizionale” e così via di
seguito.
In questo senso credo che l’espressione “teatro popolare”, magari con l’aggiunta di
“tradizionale”, possa essere ancora impiegato proficuamente.
(Intervento ad un seminario sul teatro tradizionale tenutosi a Monticchiello nel febbario del
2001; pubblicato in parte su «Toscanafolk », Anno X, n. 11, marzo 2006, p. 15-19)