Il carso 85 milioni di anni fa: Gli straordinari fossili di Polazzo

INDICE
INDICE
INTRODUZIONE
COS’È UN FOSSILE?
IL TEMPO GEOLOGICO E L’EVOLUZIONE DEGLI ORGANISMI
PERCHÈ SI TROVANO IN MONTAGNA I FOSSILI DI ORGANISMI MARINI?
CAMBIAMENTI DI PAESAGGIO: LA PALEOGEOGRAFIA
POLAZZO
LA SCOPERTA DEI FOSSILI DI POLAZZO E STORIA DELLE RICERCHE
LAGERSTÄTTEN
GEOLOGIA DEL CARSO ISONTINO E DEI SITI FOSSILIFERI DI POLAZZO
I MICROFOSSILI E L’ETÀ DEI SITI DI POLAZZO
L’AMBIENTE DI DEPOSIZIONE
I FOSSILI DI POLAZZO
Le rudiste
I fossili dei siti A e B: note generali
Piante
Vertebrati: i Rettili
Vertebrati: i Pesci
Cenni di sistematica dei Pesci
L’associazione ittica
Pycnodontiformes (Picnodonti)
Anguilliformes
Gonorhynchiformes – Chanidae
Cipriniformes?
Alepisauriformes - Dercetidae ed Enchodontidae
Acanthomorpha – Percomorpha - Beryciformes
Teleostei da determinare
Invertebrati
Tracce fossili
PROSPETTIVE FUTURE
DOVE VEDERE I FOSSILI DI POLAZZO OGGI
RINGRAZIAMENTI
BIBLIOGRAFIA
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INTRODUZIONE
Mentre per la zoologia e la botanica qualcosa si è fatto, manca nella nostra Regione una letteratura
divulgativa che valorizzi il patrimonio paleontologico presente nel territorio. Questo è ancor più biasimevole se
si considera l’estremo valore scientifico della geologia e della paleontologia del Friuli-Venezia Giulia a livello
nazionale e anche internazionale.
La conoscenza del territorio in cui si vive, oltre ad essere un naturale obiettivo della curiosità innata
nell’uomo e ad esercitare un certo stimolo culturale nella persona intelligente, dovrebbe essere un dovere per il
cittadino. Ognuno di noi dovrebbe possedere conoscenze sufficienti per decidere in autonomia e col maggiore
grado di coscienza possibile circa le scelte che la Società richiede di avallare o di respingere.
L’evoluzione geologica del nostro territorio non è ancora nota in dettaglio. Gli studi scientifici sono stati
per lo più sporadici e parziali, spesso mirati ad aspetti importanti, ma limitati. Ci sarebbe bisogno di una
attenzione costante e rivolta ad una comprensione totale dell’evoluzione biologica e geologica di questa
interessante regione d’Italia.
Si spendono i soldi pubblici per la didattica e non per la ricerca scientifica, ma cosa si può insegnare se non
c’è una conoscenza alla base?
Purtroppo, lo studio del territorio non è mai stato considerato in Italia qualcosa di realmente importante.
Per poi piangere e imprecare contro una non ben definita “natura matrigna” quando la spregiudicata e miope
attività umana fa crollare una fetta di montagna in un lago o porta alla distruzione di edifici costruiti negli
alvei dei fiumi o in zone soggette a terremoti.
In questo libro si fornirà una visione del Carso che difficilmente gli abitanti della zona avrebbero potuto
immaginare senza il lavoro di geologi e paleontologi. Quella riportata, pure nell’inevitabile incompletezza dei
dati, è una ricostruzione attendibile e di singolare fascino: le pareti di grigio calcare una volta - milioni di anni
fa - erano la sabbia del fondale di un mare tropicale, uno di quei mari che nella nostra immaginazione sono
associati a regioni come i Caraibi o il Mar dei Coralli. I resti litificati di questo mare tropicale si riconoscono
in ogni spuntone roccioso, in ogni pietra del Carso. E nelle rocce si rinvengono, fossilizzati, anche gli antichi
organismi che nel mare vivevano.
Con questo libro vogliamo far conoscere cosa è stato trovato in oltre 13 anni di ricerca in un sito paleontologico
straordinario: il sito di Polazzo. Purtroppo, quello che effettivamente sappiamo dei reperti recuperati è ancora poco.
Ci si renderà conto durante la lettura che trasformare i fossili in dati, e quindi in conoscenza, è un processo che
necessita di tempo e competenze professionali, quindi di un investimento economico, perchè a questi livelli di
specializzazione nessuno può permettersi di lavorare gratis nella società italiana odierna.
COS’È UN FOSSILE?
Si definisce correttamente come "fossile" qualsiasi testimonianza della vita del passato, a prescindere dalla
sua natura ed età geologica. Possono fossilizzarsi non solo le dure conchiglie dei molluschi, ma anche le ossa e
i denti dei vertebrati (Fig. 1A), le scaglie dei pesci, le uova (Fig. 1B), le foglie e le altre parti dei vegetali (Fig.
1C), gli escrementi (che assumono il nome di coproliti; Fig. 1D), i rigurgiti e le tracce del movimento degli
organismi - sia invertebrati che vertebrati - sul sedimento soffice (Fig. 1E). L' ambra (Fig. 1F), la "pietra"
leggerissima dal colore giallo o arancione, molto utilizzata in gioielleria, è la resina fossile di antiche piante.
Talvolta nell'ambra si trovano inglobati e perfettamente conservati gli insetti che vivevano sul tronco
dell'albero.
I fossili sono l'unico strumento diretto che possiamo utilizzare nel tentativo di ricostruire gli organismi
vissuti nel passato geologico del Pianeta, le loro abitudini di vita (Fig. 2), le modificazioni che hanno subito nel
tempo, la loro evoluzione.
Mediante lo studio delle trasformazioni delle forme viventi e degli ambienti nel tempo, possiamo
comprendere come questi "funzionano", di quali processi noi, umani, siamo il risultato (uno dei molti risultati)
e cosa ci si può attendere in futuro, anche in conseguenza dei nostri comportamenti. Scriviamo e sottolineiamo
"anche" perché in realtà l’uomo tende a sopravvalutarsi persino negli aspetti negativi. Lo studio dei fossili ha
permesso di identificare nella storia degli organismi viventi dei momenti di crisi, di fortissima crisi, con una
vera e propria decimazione degli animali e delle piante a livello planetario. Queste crisi hanno cambiato in
modo drastico la composizione delle faune e delle flore. Si pensi, per esempio, alla scomparsa dei dinosauri.
Fino a quel momento la stragrande maggioranza delle nicchie ecologiche dei vertebrati terrestri era stata
occupata da rettili, nel significato ampio che diamo comunemente a questo termine.
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Figura 1 - Esempi di fossilizzazione. A) Dente di dinosauro carnivoro, Cretaceo, Marocco; B) uovo di dinosauro
sauropode con una ricostruzione dell’embrione al suo interno, Cretaceo, Argentina (foto F.M. Dalla Vecchia); C) felce
arborea, Carbonifero, Friuli; D) coprolite, Cretaceo, Madagascar (foto F.M. Dalla Vecchia); E) orma di dinosauro,
Cretaceo, Istria; F) ambra con insetto (freccia), Oligocene, S. Domingo.
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Figura 2 - Pesce (Dapalis macrurus) morto e fossilizzato nell’atto di inghiottire un altro pesce. Miocene, Francia.
(foto F.M. Dalla Vecchia).
Esistevano pure rettili acquatici e rettili volanti, rettili di pochi centimetri di lunghezza e rettili grandi come
palazzi. Circa 65 milioni di anni fa, quasi tutti si estinsero. Nonostante le cause e le modalità non siano ancora
completamente chiare, non c’è dubbio che ciò avvenne, ed in un intervallo comunque relativamente breve dal
punto di vista geologico. Poteva essere la fine della vita sulle terre emerse, ma dopo pochi milioni di anni
queste erano già ripopolate dai Mammiferi - fino ad allora piccoli ed emarginati componenti della fauna - che
avevano occupato le nicchie lasciate libere dai grandi rettili scomparsi. L'umanità, per quanto possa sforzarsi,
non potrà mai distruggere la vita sul pianeta. Potrà sporcare, uniformare, impoverire, riempire di propri simili
gran parte della superficie terrestre - soprattutto quella emersa però, che è appena il 20% circa del totale -, ma
la vita sopravviverà a quel suo fenomeno anomalo che è Homo sapiens sapiens. Solo l'espansione del Sole,
probabilmente tra un miliardo di anni, metterà fine alla vita sulla terra.
La più pesante conseguenza sulla “natura” (o più correttamente, sul resto della natura, perchè non c’è un
motivo, se non artificioso ed egocentrico, per separarci nettamente dagli altri esseri viventi) della presenza
dell'uomo non è il naufragio di qualche petroliera, ma l'inesorabile, lento appiattimento della diversità.
L'abnorme proliferazione umana ha portato all'impoverimento delle faune presenti nelle aree di coabitazione e
alla trasformazione della flora in prati inglesi e campi di granoturco. Pensiamo, per esempio, alla Pianura
Padana, dove, escludendo Homo sapiens, praticamente non ci sono più animali selvatici che superino le
dimensioni di un coniglio.
Ma ritorniamo ai fossili. Il loro utilizzo pratico, a parte i casi dell'ambra in gioielleria o di carbone, gas e
petrolio (tutti di origine organica) per la produzione di energia, riguarda la datazione indiretta delle rocce.
Poiché certi gruppi di organismi sono esistiti durante intervalli limitati della storia terrestre, se li ritroviamo
fossilizzati nelle rocce si può ricondurre la formazione di tali rocce all'intervallo di tempo in cui essi vissero,
intesi non come individui, ma come specie o altra categoria superiore (genere, famiglia ecc.). Datando il
frammento di roccia si ottiene l'età dello strato da cui esso proviene. Per esempio, ritrovando in uno strato
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roccioso un ammonite, la conchiglia spiralata di un gruppo estinto di molluschi marini simili a seppie, si è
sicuri dell’età mesozoica della roccia.
Questo però non permette una datazione assoluta, cioè in anni o, meglio, in milioni di anni. Per la
datazione assoluta ci si basa sul decadimento degli elementi radioattivi.
Semplificando molto la cosa, si può dire che esistono degli elementi chimici, come il piombo e l'uranio,
che si trasformano con velocità costante in altri elementi o in propri isotopi stabili, cioè che non cambiano.
Questo fenomeno si chiama decadimento radioattivo. Conoscendo la quantità teorica iniziale di un elemento
radioattivo che doveva trovarsi nei minerali di una roccia al momento della sua formazione e misurandone la
quantità rimasta, si calcola semplicemente per sottrazione la parte che si è trasformata per decadimento. Se
conosciamo la velocità di decadimento dell’elemento, è facile il calcolo del tempo impiegato dalla quantità
mancante di elemento radioattivo per trasformarsi nella corrispondente quantità di elemento stabile. Se, ad
esempio, è stato calcolato che un elemento radioattivo impiega 300 milioni di anni per ridurre della metà la
propria concentrazione originaria, ritrovandone 1 milligrammo in una roccia che all'origine doveva contenerne
2 milligrammi sappiamo che l'età assoluta della roccia è 300 milioni di anni.
Purtroppo non tutte le rocce contengono cristalli di minerali utilizzabili per le datazioni assolute, e
soprattutto, raramente li contengono le rocce fossilifere. Essi si trovano soprattutto nelle rocce di origine
vulcanica, dove l’età di formazione dei cristalli e della roccia coincidono. Per questo motivo uno dei maggiori
sforzi dei geologi di tutto il mondo negli ultimi 50 anni è stato diretto alla ricerca di correlazioni tra strati
datati in modo assoluto e strati fossiliferi.
Vediamo, in modo molto semplificato, come questo avviene.
Immaginiamo che in una successione di strati sovrapposti (e solo in quella successione anche se in località
diverse), si trovi, più o meno uniformemente distribuita, una determinata forma fossile. Immaginiamo inoltre
che in alcune località il primo strato sopra gli strati fossiliferi ed il primo strato sotto contengano elementi
radioattivi e siano quindi entrambi databili in modo assoluto. L'età degli strati fossiliferi è compresa tra quella
dei due strati datati e così anche i fossili in essa contenuti. Per esempio, se lo strato alla base della successione
di strati fossiliferi ha una età di 96 milioni di anni e quello che giace al tetto risale a 92 milioni di anni fa, il
particolare organismo fossile presente negli strati fossiliferi è comparso (come insieme di individui) 96 milioni
di anni fa, è esistito per 4 milioni di anni e si è estinto 92 milioni di anni fa. Se noi troviamo quell'organismo,
magari sulle pietre del muro di una casa o passeggiando sul Carso, sappiamo che esso e la roccia che lo
contiene hanno una età compresa tra i 92 ed i 96 milioni di anni (Fig. 3). Li abbiamo datati in maniera
assoluta, anche se con un certo grado di approssimazione.
Figura 3 - Esempio ipotetico di correlazione.
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IL TEMPO GEOLOGICO E L’EVOLUZIONE DEGLI ORGANISMI
La storia della Terra non si misura con le nostre comuni unità di tempo, ma in milioni di anni (Fig. 4).
Tutto quello che ci rimane dei milioni di anni passati sono i sedimenti trasformati in rocce e ciò che in essi è
rimasto inglobato, incluse le spoglie degli antichi organismi, cioè i fossili.
Il tempo geologico è suddiviso per utilità in intervalli con ordine gerarchico diverso. Questa divisione del
tempo in numerosi intervalli, in complessa relazione reciproca e dai nomi ostici, spesso infastidisce i lettori
non particolarmente avvezzi alla terminologia scientifica. Le suddivisioni maggiori sono gli Eoni; esistono tre
eoni: Archeano, Proterozoico e Fanerozoico. L'eone Fanerozoico (che significa "dalla vita evidente") è
suddiviso in tre Ere: Paleozoica, Mesozoica e Cenozoica. Le ere sono suddivise in Periodi, intervalli di tempo
della durata variabile tra i 21 e gli 80 milioni di anni. Il periodo Quaternario è iniziato circa 1,8 milioni di anni
fa ed è in tuttora in corso.
L'origine della Terra risale probabilmente a 4,6 miliardi di anni fa sulla base dell'età dei meteoriti e della
Luna, e le più antiche rocce ritrovate sulla Terra sono vecchie di circa 4 miliardi di anni
Ogni corpo roccioso ha quindi una sua precisa età e si è formato in un determinato intervallo di tempo. Le
rocce sedimentarie sono derivate dalla compattazione e cementazione di sedimenti (ghiaie, sabbie, fanghi,
argille) per lo più trasportati e depositati dalle acque e dai venti.
Nella Provincia di Gorizia si trovano rocce con età variabili tra circa 120 milioni di anni fa e l’attuale.
La maggior parte delle rocce affioranti nel Carso sono datate al periodo geologico chiamato Cretaceo dell’era
Mesozoica, l’era dei Dinosauri. Questo intervallo di tempo – riportato in letteratura anche come Mesozoico vide la comparsa e la diffusione dei grandi rettili, che insieme a molti altri organismi, come abbiamo già visto,
si estinsero per cause ancora non del tutto chiare alla fine del Cretaceo, 65 milioni di anni fa.
Le associazioni di organismi cambiano nel tempo, gli individui sono soggetti alla selezione naturale, le
specie si evolvono e le comunità vengono modificate, anche radicalmente, dai cambiamenti ambientali.
I primi indizi sulla presenza di esseri viventi si hanno già in rocce di circa 3,5 miliardi di anni fa. Per i
successivi 2000 milioni di anni la Terra fu abitata solo da organismi unicellulari, le cui dimensioni erano di
molto inferiori a quelle di una capocchia di spillo. La comparsa di organismi pluricellulari, 1,4 miliardi di anni
fa, fu seguita dopo ben 700 milioni di anni dai primi animali, forme molli e piatte che ricordano vermi e
meduse (Fauna di Ediacara). Solo circa 545 milioni di anni fa la vita si diffuse ampiamente nei mari con
organismi relativamente grandi, diversificati e provvisti di guscio. Da quel momento in poi l'evoluzione è stata,
geologicamente parlando, rapida. Oltre 530 milioni di anni fa apparvero i primi Vertebrati marini e 430
milioni di anni fa le prime piante terrestri. Le terre emerse videro i primi Vertebrati terrestri, i Tetrapodi
basali, 370 milioni di anni fa e subito dopo apparvero gli Amnioti, i primi Rettili, che si riproducono mediante
uova che possono essere deposte lontano dall’acqua. I primi, piccoli Mammiferi fecero la loro comparsa circa
215 milioni di anni fa e l'Uccello più antico finora trovato è vecchio di 150 milioni di anni. Nel Mesozoico i
mammiferi erano rappresentati da piccole forme simili a topi che rimasero per decine di milioni di anni
all’ombra dei dinosauri, senza evolversi in forme più grandi e complesse. Solo l’estinzione della maggior parte
dei rettili permise la successiva diversificazione dei Mammiferi, a partire da 65 milioni di anni fa.
I Primati primitivi, alla base dell’evoluzione delle scimmie, c'erano già 55 milioni di anni fa; i primi ominidi
(la famiglia che comprende gli attuali Orang-utan, Gorilla, Scimpanzè e gli Ominini) risalgono a 14 milioni di
anni fa, le prime specie del genere Homo comparvero meno di 2,5 milioni di anni fa e la specie Homo sapiens
calca il palcoscenico della vita da solo 160.000 anni. Ne consegue che noi non c’eravamo quando si formarono
le rocce del Carso e i grandi rettili dominavano il pianeta. Allora il Mondo era molto diverso da quello attuale,
non esisteva ancora l’erba, probabilmente non c’era ghiaccio ai Poli, le terre emerse erano meno estese e il
clima era generalmente più caldo.
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Figura 4 - Il Tempo geologico, sue suddivisioni e maggiori eventi biologici.
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PERCHÈ SI TROVANO IN MONTAGNA I FOSSILI DI ORGANISMI MARINI?
Chi non ha mai trovato conchiglie incastonate nella roccia durante una passeggiata in montagna? Si
potrebbe pensare che quei resti siano stati lasciati da un antico mare che un tempo copriva la pianura, le
colline e, persino, le montagne, che poi si è ritirato nella posizione attuale.
Questa supposizione è errata.
Non fu il mare a ritirarsi in un indefinito e uniforme “passato”, ma è il piatto fondo marino che si è
sollevato.
La Terra è come una sfera suddivisa in strati concentrici, ciascuno con composizione e caratteristiche
fisiche diverse (Fig. 5). La parte centrale, il nucleo, è probabilmente formata di ferro-nichel ed è divisa in una
parte interna solida e una parte esterna fluida. Il nucleo è ricoperto dal mantello che ha uno spessore di circa
2800 km. La parte più esterna del pianeta, quella su cui viviamo noi, è la crosta terrestre, rigida e
relativamente sottile rispetto agli altri “strati” (5-7 km sotto gli oceani e fino a 90 km sotto le montagne). La
crosta in confronto al resto del pianeta costituisce quello che nella mela è la buccia. Per avere un’idea delle
proporzioni possiamo dire che la crosta e la parte superiore del mantello formano uno strato, la litosfera, che
non è integro come la buccia in una mela, ma è frammentato in porzioni chiamati placche o zolle (Fig. 6), che
si muovono uno rispetto all’altra come se “galleggiassero” sulla parte sottostante del mantello (astenosfera),
calda e in grado di deformarsi lentamente. Roccia fusa, che risale continuamente dalle profondità del mantello
e raggiunge la superficie attraverso lunghe fratture sul fondo dell’oceano (dorsali oceaniche), raffreddandosi
forma nuova crosta che spinge a lato quella già esistente. Poichè l’ampiezza della superficie del pianeta deve
mantenersi più o meno costante, in altre zone la litosfera si spacca e ridiscende all’interno del mantello,
fondendo.
Figura 5 - Struttura interna della Terra.
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Figura 6 - L’attuale suddivisione della superficie della crosta terrestre in zolle.
I continenti si trovano sulle zolle come su di un nastro trasportatore e si spostano man mano che da una
parte si crea nuova crosta e dall’altra altrettanta subduce e viene rifusa. Nella storia della Terra le zolle hanno
cambiato continuamente forma e i continenti sono andati “a zonzo” sulla superficie del globo (Fig. 7). Quando
nei loro spostamenti le masse continentali si scontrano, i sedimenti e le rocce accumulate ai margini vengono
schiacciati, deformati, frantumati e innalzati a blocchi e scaglie a formare le catene montuose.
Lo scontro tra il continente Africano e quello Euroasiatico, ha causato la formazione della catena montuosa
Alpina e Dinarica, quindi anche l’innalzamento del Carso, a partire da una topografia originariamente piatta.
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Figura 7 - La posizione dei continenti A) 500 milioni di anni fa, B) 300 milioni di anni fa, C) 130 milioni di anni fa,
D) 50 milioni di anni fa, basata sulle mappe di SMITH et al. (1973). Per chiarezza e per facilitare la comprensione è
stata mantenuta la morfologia delle linee di costa dei continenti attuali, ma in realtà il profilo costiero era totalmente
diverso negli intervalli di tempo qui considerati (si vedano le figure 8-10).
CAMBIAMENTI DI PAESAGGIO: LA PALEOGEOGRAFIA
La geografia è un’opinione e l’Italia al tempo dei dinosauri non esisteva.
Attorno ai 250 milioni di anni fa i continenti erano riuniti in due masse principali, Gondwana a sud e
Laurasia a nord, separate da un ampio golfo marino chiamato Tetide (Fig. 7B). Nel Gondwana si trovavano il
continente Afroarabico (l’unione dell’Africa con la Penisola Arabica), Sudamericano, Australiano, Antartico,
Indiano e il Madagascar. Durante la parte centrale dell’era Mesozoica, per esempio nel Giurassico, la regione
adriatica - isontino compreso - era un promontorio settentrionale del continente Afroarabico; il territorio si
trovava ai tropici e le rocce testimoniano la presenza di un basso mare caldo, nel quale la linea di costa si
ritirava ed espandeva a seconda delle variazioni del livello marino.
L'Italia, così come la vediamo oggi, è il risultato recente (in senso geologico, dato che risale per lo più agli
ultimi 25 milioni di anni) dello scontro fra il continente africano e quello eurasiatico. La struttura centrale - per
così dire - della penisola è l’ex protuberanza dell'Africa, le catene montuose Alpina e Appenninica sono le
deformazioni della crosta terrestre causate dello scontro tra la protuberanza e l'Europa e di alcune altre
complicazioni geologiche. Certe parti del nostro Paese non hanno niente a che fare, dal punto di vista
geologico, con il resto della penisola. La Sardegna è un pezzo di continente europeo, originariamente posto tra
Francia e Spagna, così come gran parte della Calabria.
Nel Cretaceo, la geografia del mondo era radicalmente diversa da quella attuale. Le Alpi e le Prealpi non
esistevano, al loro posto c’era un paesaggio piatto, privo di rilievi. Anche l’Europa sarebbe stata
irriconoscibile all’ipotetico viaggiatore, poichè l’attuale Europa centro-meridionale è un puzzle di frammenti allora molto distanti tra loro - riuniti dalla collisione tra Africa ed Eurasia (Figg. 8-10).
In sintesi, le Alpi, come il Carso, iniziarono a formarsi alla fine del Cretacico (80 milioni di anni fa)
quando, a causa dell’apertura dell’oceano Atlantico meridionale, l’Africa si staccò decisamente dall’America
meridionale e spostandosi a nord “chiuse” l’oceano della Tetide ed entrò in collisione con l’Eurasia. Il lento
scontro, tuttora in atto, deformò i margini dei due continenti, accorciando la crosta terrestre e innalzando le
montagne come pure tutti i rilievi più bassi.
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Figura 8 - Mappa paleogeografica semplificata della Tetide centrale di 95 milioni di anni fa, basata su PHILIP et al
(2000), modificata e ridisegnata. L’asterisco indica la posizione del Carso. Blu = mare profondo, oceano; azzurro =
mare basso; giallo ocra = terre emerse. Abbreviazioni: A = Piattaforma Carbonatica Apula (Puglia e Maiella), ACP =
Piattaforma Carbonatica Appenninica, AD = Piattaforma Carbonatica Adriatico-Dinarica, AM = Massiccio
Armoricano, AnA = Anti Atlante, Bih = Massiccio di Bihor (Romania), BM = Massiccio Boemo (Repubblica Ceca),
Ebr = Massiccio dell’Ebro (Spagna), G = Gavrovo (Bulgaria), IM = Massiccio Iberico (Spagna), InsM = Massiccio
Insubrico (Lombardia settentrionale), MC = Massiccio Centrale (Francia), Me = Menderes (Turchia), Mu =
Muzurdan (Turchia), Pl = zona Pelagoniana, Pn = Panormide (Sicilia), Pr = Provenza (Francia), Rh = Rodope
(Bulgaria), RM = Massiccio Renano, SaP = Piattaforma Sahariana, US = Scudo Ucraino.
Figura 9 - Carta paleogeografica semplificata della Tetide centrale durante il Maastrichtiano superiore (69.5-65
milioni di anni), da PHILIP& FLOQUET (2000b), modificata e ridisegnata. Acronimi, simboli e colori come in figura 9.
Abbreviazioni: AuA = dominio Australpino, BD = Bey Daglari (Turchia), Ca = Calabria, DH = Alto del Donetz, Eb
= Elburz (Iran), FSS = Scudo Fenno-Scandinavo, Hb = Bacino di Hateg (Romania), Ks = Kirsehir (Turchia), Ibl =
Dominio Ibleo (Sicilia), SP = zona Serbo-Pelagoniana, WD = Dacidi occidentali (Romania).
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Figura 10 - Mappa paleogeografica semplificata dell’Oceano Atlantico centrale e della Tetide centro-occidentale 85
milioni di anni fa, basata su EBERLI et al (1993), modificata e ridisegnata. L’asterisco indica la posizione del Carso.
Blu = fondali oceanici (su crosta oceanica); azzurro = mare epicontinentale, su crosta continentale (il mattonato
identifica le piattaforme carbonatiche); giallo ocra = terre emerse. Per permettere una più facile comprensione sono
riportate a volte le linee di costa attuali. Abbreviazioni: A = Piattaforma Carbonatica Apula (Puglia e Maiella), AC =
Atlantico centrale; ACP = Piattaforma Carbonatica Appenninica, AD = Piattaforma Carbonatica Adriatico-Dinarica,
MO = Oceano del Mediterraneo Orientale, PL = Oceano Piemontese-Ligure.
Le zone di mare basso che si trovavano ai margini e nel mezzo dell’oceano della Tetide erano per lo più
piattaforme carbonatiche.
Per piattaforma carbonatica si intende una parte piatta della superficie terrestre ricoperta da un mare
basso (generalmente con profondità inferiore a 50 metri), nella quale si ha l’accumulo di sedimenti carbonatici
(cioè formati da carbonato di calcio, CaCO3). Le piattaforme carbonatiche si sviluppano ai margini dei
continenti o di isole oceaniche. I sedimenti carbonatici, che possono essere fanghi, sabbie, ghiaie ecc., derivano
per lo più dalla frantumazione delle parti dure di organismi marini (conchiglie di molluschi, colonie di coralli,
talli di alghe calcaree, ecc.). Questi sedimenti si accumulano in potenti successioni grazie al lento
sprofondamento locale della crosta terrestre e alla continua produzione di gusci e altre parti dure da parte degli
organismi. Gli accumuli di sedimenti incoerenti si trasformano in rocce per compattazione e cementazione,
originando corpi rocciosi più o meno stratificati.
Le piattaforme carbonatiche non si formano ovunque. Esse sono caratteristiche, anche se non esclusive,
delle zone tropicali e subtropicali della Terra dove la temperatura è costantemente elevata, e si sviluppano
dove l’acqua marina non è inquinata dagli apporti fangosi dei fiumi. Un esempio attuale sono i Bahamas
Banks e le coste del Golfo Persico.
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Figura 11 - Rappresentazione ideale e schematica (non in scala e vista in sezione verticale) di un complesso
piattaforma carbonatica-bacino: 1) sedimenti del margine della piattaforma (banchi di sabbia, scogliera corallina), 2)
sedimenti della piattaforma interna (fanghi, sabbie bioturbate, canali di marea con sabbie e ciottoli, banchi di
invertebrati, tappeti algali, 3) sedimenti della piattaforma esterna/pendio (sabbie e brecce bioclastiche; colate e frane
sottomarine), 4) sedimenti del bacino (fanghi; colate sottomarine, depositi di correnti di torbida).
Una piattaforma carbonatica è spesso delimitata verso il mare aperto da un margine, una zona di mare
basso che fa da “spartiacque” tra la piattaforma interna (verso terra) e la zona esterna della piattaforma (cioè
verso il mare aperto) che passa al pendio del bacino marino dove aumenta la pendenza del fondale. Alla fine
del pendio si ha il raccordo con il fondo del bacino marino. Il margine può essere costituito da barre sabbiose
o dalla “scogliera” (reef). Quest’ultima nelle piattaforme carbonatiche è chiamata “scogliera organogena”
perchè costituita principalmente da aggregati di organismi con strutture rigide (conchiglie dei molluschi,
scheletri dei coralli ecc) cementate tra loro a formare corpi resistenti alle onde. La “scogliera”, che può essere
continua o “a chiazze” (patch-reef), è una zona ricchissima di vita, presentando una grande diversità biologica
con coralli, alghe calcaree, spugne, molluschi, echinodermi, briozoi, pesci, crostacei, ecc. Attualmente le
scogliere che formano i margini delle piattaforme carbonatiche sono costituite soprattutto da colonie di coralli
e per questo motivo si chiamano “scogliere coralline”. Non è però il caso di molte scogliere del passato che
non erano formate dai coralli attuali, ma da altri organismi costruttori.
La piattaforma è costituita verso terra da lagune generalmente poco profonde e da vaste piane tidali,
alternativamente emerse o sommerse durante il ciclo delle maree. Se non esiste un margine a proteggere questa
parte interna della piattaforma, le onde provenienti dal mare aperto aumentano l’energia ambientale e non si
formano piane tidali o calme lagune. Zone più o meno ampie della piattaforma rimangono emerse per lunghi
periodi (dell’ordine di 1.000-100.000 anni) a causa delle continue oscillazioni del livello marino e sono
colonizzate da piante e animali terrestri. Verso il margine l’energia ambientale causata dal moto ondoso è più
elevata e si ha l’accumulo di sedimenti grossolani (sabbie, frammenti di gusci ecc.). La piattaforma esterna è
caratterizzata dal debole, ma costante, approfondimento dei fondali lungo una superficie più o meno inclinata e
dal grande accumulo di sedimenti grossolani (sabbie, ghiaie, brecce, spesso formate da gusci frantumati di
organismi) derivati dallo smantellamento della zona di margine a causa delle tempeste che provengono dal
mare aperto.
La piattaforma esterna o rampa sfuma nel pendio (o scarpata) che raccorda la piattaforma stessa al bacino,
una depressione della superficie terrestre dove il mare raggiunge centinaia o migliaia di metri di profondità.
Nel bacino generalmente si depositano i sedimenti franati lungo il pendio e fanghi finissimi. Gli organismi che
vivono nel bacino sono quelli tipici di mare aperto.
Solo il 12% delle rocce sedimentarie del Pianeta è carbonatico, ha quindi avuto origine da sedimenti
costituiti da carbonato di calcio. Mentre nelle Alpi le aspre cime calcaree e dolomitiche sono una cosa comune,
nel resto del mondo sono invece una rarità.
17
POLAZZO
Il piccolo paese di Polazzo si trova nel
Comune di Fogliano-Redipuglia, in provincia
di Gorizia, alle pendici meridionali della
terminazione occidentale del Carso e al
margine della pianura isontina (Fig. 12). In
due località, che chiameremo sito A e sito B,
posto alla periferia del paese e non sono molto
distanti dal noto Sacrario di Redipuglia, sono
stati scoperti fossili di particolare interesse,
l’oggetto di questo libro.
Figura 12 - A) Posizione di Polazzo nel Friuli-Venezia
Giulia; B) la posizione dei siti A e B alla periferia di
Polazzo e nei pressi del Cimitero Monumentale di
Redipuglia; C) le alture di Polazzo con la localizzazione dei
siti A e B. Il sito A, dove gli scavi ufficiali sono iniziati il
22 settembre 1990, si trova a quota 77 s.l.m. nelle
immediate vicinanze dell’oleodotto transalpino.
18
LA SCOPERTA DEI FOSSILI DI POLAZZO E STORIA DELLE RICERCHE
La prima segnalazione in letteratura di pesci fossili provenienti dalla zona di Fogliano-Redipuglia si deve al
geologo austriaco Guido STACHE (1889). Successivamente, il paleontologo italiano Geremia D’ERASMO
(1952) descrisse una quindicina di esemplari rinvenuti casualmente nel 1904 proprio nei pressi di Polazzo, ma
- secondo le indicazioni dello stesso D’Erasmo - in località diverse dai siti A e B, una posta a nord di Polazzo
e l’altra vicino all’attuale stazione ferroviaria di Fogliano-Redipuglia.
Molti anni dopo, nei primi anni ‘70, i lavori di scavo per la posa dei tubi dell’oleodotto transalpino
nell’immediata periferia del paese, misero alla luce dei livelli contenenti una relativa quantità di fossili. Due
pesci rinvenuti in quell’occasione sono stati l’oggetto della tesi di laurea di Guido GUIDOTTI (1983) presso
l’Università degli Studi di Bologna.
Ricerche successive si focalizzarono in questo sito (sito A) particolarmente promettente e situato ad estnord-est dell’abitato. Una serie di campagne di scavo autorizzate dalla competente Soprintendenza furono
condotte negli anni 1990-1993 sotto la direzione scientifica del professore Nevio Pugliese, dell’allora Istituto
di Geologia e Paleontologia dell’Università di Trieste, in collaborazione con il Museo Carsico GelogicoPaleontologico e il Gruppo Speleologico Monfalconese A.d.F. - Museo Paleontologico Cittadino di
Monfalcone (Figg. 13-14). Durante queste campagne di scavo furono recuperati 726 reperti, attualmente
depositati presso il Museo Paleontologico Cittadino, che sono stati oggetto della tesi di laurea di Davide Rigo
presso il Dipartimento di Scienze Geologiche e Ambientali dell’Università di Trieste (RIGO, 1998). Un breve
contributo divulgativo sui fossili di Polazzo fu pubblicato nel 1990 (ZIMOLO, 1990). Articoli più dettagliati si
trovano nel catalogo della mostra “Pesci fossili Italiani: scoperte e riscoperte” (NARDON, 1990) e nel Field
Guidebook del simposio “Mesozoic fishes: systematics and paleoecology” a cura di TINTORI et al. (1993).
Infatti, nell’agosto 1993 si effettuò nel sito A una tappa dell’escursione italiana del simposio paleontologico
internazionale “Mesozoic fishes: systematics and paleoecology” che si teneva nella Germania meridionale e in
quell’occasione si ribadì la sua potenziale importanza scientifica.
Figura 13 - Lo scavo nel sito A (1991).
19
Figura 14 - Lo scavo nel sito A (1990).
Nel 1996 è iniziata la ricerca in un secondo sito, il sito B, posto in linea d’aria circa 750 metri a sud-ovest
rispetto al sito A (Fig. 12B). Negli anni 1996-2003 gli scavi, naturalmente effettuati previa concessione
ministeriale, sono proseguiti in questo sito (Figg. 15-16).
Durante le campagne di scavo nel sito B sono stati rinvenuti oltre 1000 reperti, tutti in custodia presso il
Museo Paleontologico Cittadino.
I fossili dei siti A e B sono stati oggetto di alcune pubblicazioni a carattere generale (RIGO, 1997, 1999;
DALLA VECCHIA & RIGO, 1998; DALLA VECCHIA & MUSCIO, 1999; DALLA VECCHIA et al., 2001) e sono
20
Figura 15 - L’identificazione della sezione fossilifera oggetto di scavo nel sito B (1996).
Figura 16 - Sito B, la zona di scavo nel 2003.
menzionati nel catalogo dei vertebrati fossili italiani attualmente in stampa a cura del Museo di Storia
Naturale di Verona.
Nell’estate 2003 i vegetali terrestri dei due siti sono stati studiati a Monfalcone dal Dott. Bernard Gomez,
dell’Università di Leeds (Inghilterra), e dal Prof. Frédéric Thevenard, dell’Università Claude Bernard di Lione
(Francia). I pesci Picnodonti di Polazzo sono attualmente oggetto di studio da parte del Prof. Francisco
Poyato-Ariza, Universidad Autónoma di Madrid (Spagna).
21
LAGERSTÄTTEN
Quello di Polazzo può essere considerato un Lagerstätte. Fossil-Lagerstätte è una parola tedesca che
identifica “corpi sedimentari con una non comune quantità di informazioni paleontologiche”. In pratica si
tratta di corpi rocciosi nei quali si rinvengono resti fossili particolarmente numerosi e/o ben conservati, cioè
importanti e non banali testimonianze di organismi vissuti nel passato geologico del pianeta.
I Fossil-Lagerstätten più famosi e fondamentali per la comprensione dell’evoluzione della vita sulla Terra
sono quelli dove sono fossilizzati anche i tessuti non mineralizzati degli organismi (cioè la pelle, i muscoli, gli
intestini, organi interni, ma anche pelo, penne, ecc.) e si rinvengono comunemente scheletri articolati di
vertebrati, gli esoscheletri delicati dei crostacei e resti di piante. Di solito le parti molli degli organismi sono
distrutte dai predatori e dai processi putrefattivi, mentre gli scheletri e gli esoscheletri sono vittime dell’azione
dei predatori e vengono pure smembrati dal moto ondoso e dalle correnti.
Questi importanti Fossil-Lagerstätten sono chiamati Konservat-Lagerstätten e si formano quasi
esclusivamente in ambienti acquatici - lacustri o marini - a causa di particolari e rare condizioni esistenti al
fondo determinate da fattori chimico-fisici o biologici critici, come l’assenza di ossigeno disciolto, ipersalinità
e/o acidità delle acque, e lo sviluppo di tappeti “algali”.
I Konservat-Lagerstätten sono delle vere e proprie finestre aperte sulla vita del passato che ci consentono
di conoscere intere comunità di organismi - con la loro diversità e gli adattamenti particolari - che in altre,
normali condizioni ambientali non si sarebbero conservate. I dati forniti da questi giacimenti ci permettono
anche di seguire l’evoluzione di importanti gruppi di organismi dallo scheletro fragile, per esempio uccelli e
pterosauri, oppure dal corpo non mineralizzato, come vermi e insetti. Sono stati i reperti rinvenuti
recentemente nel Konservat-Lagerstätte del Liaoning (Cina) a rivelarci che alcuni piccoli dinosauri del
Cretaceo inferiore avevano protopenne e in certi casi vere e proprie penne come gli Uccelli attuali. I resti ossei
di dinosauro che si rinvengono nei “normali” sedimenti deposti dai fiumi non presentano mai penne, perchè se
anche ci fossero state non si sarebbero preservate a causa della loro composizione organica.
Le condizioni che hanno consentito la conservazioni dei reperti a Polazzo sono discusse a p. 35.
Figura 17 - Stratificazione regolare ed indisturbata nel Konservat-Lagerstätte cenomaniano di en Nammoura in
Libano (foto F.M. Dalla Vecchia).
22
GEOLOGIA DEL CARSO ISONTINO E DEI SITI FOSSILIFERI DI POLAZZO
(con il contributo di G. Tunis per quanto riguarda la geologia del Carso)
Le rocce che formano il Carso hanno una storia geologica particolare che le rende un esempio di importante
valore scientifico e didattico. La maggior parte è costituita da carbonati ed è derivata da fanghi, sabbie o sedimenti
più grossolani depositati in ambiente marino. Tra i 125 e i 50 milioni di anni fa, quello che oggi è il Carso isontino
era parte di una piattaforma carbonatica: la Piattaforma Friulana, parte settentrionale della più vasta Piattaforma
Adriatico-Dinarica o solo Adriatica secondo alcuni autori croati (Fig. 18). Un bacino di mare profondo centinaia di
metri (Bacino Sloveno) si apriva più a nord, un’altro esisteva ad ovest (Bacino Bellunese). Pure nella zona della
Carnia si trovava un mare profondo.
Le rocce costituiscono nel Carso isontino sono quindi prevalentemente calcari spesso ben stratificati e in minor
quantità dolomie (carbonati con una certa percentuale di dolomite, carbonato di calcio e magnesio, CaMg[CO3]2).
Queste rocce sono spesso ricche di fossili, anche se talvolta di dimensioni così piccole da non poter essere
apprezzati facilmente ad occhio nudo.
Il processo di fossilizzazione è un processo selettivo che favorisce la conservazione delle parti dure e
inorganiche degli organismi morti come, per esempio, le conchiglie che sono costituite per lo più di carbonato di
calcio. Le parti molli, come i muscoli, gli organi interni, la pelle ecc. formate da materia organica deperiscono
rapidamente e vengono distrutte dai processi putrefattivi. Inoltre, l’azione dei predatori e dei necrofagi porta alla
disarticolazione totale delle carcasse. Questo è il motivo per cui nei calcari del Carso di tutta una ricca associazione
animale e vegetale originaria si rinvengono soprattutto le resistenti conchiglie dei molluschi. Accumuli di resti di
rudiste (bivalvi caratteristici che vedremo meglio più avanti), si originavano in acque relativamente basse di zone
“aperte”, non lagunari, della piattaforma.
I geologi definiscono col nome di “unità litostratigrafica” un corpo roccioso con caratteristiche litologiche
uniformi (cioè formato da rocce dello stesso tipo oppure da simili alternanze di rocce diverse), originato in uno
stesso ambiente di sedimentazione (un bacino marino, un lago, una piana di marea, ecc.) e di estensione tale da
poter essere riportato su di una carta geologica. Unità litostratigrafiche di ordine gerarchico decrescente sono il
Gruppo, la Formazione e il Membro.
Le rocce che hanno fornito i fossili di Polazzo si trovano nell'unità litostratigrafica denominata da MARTINIS
(1962) "Calcari di M.te S. Michele" che rappresenta un intervallo di tempo enorme: dal Cenomaniano all’Eocene
medio. Secondo TENTOR, TUNIS e VENTURINI (1994), che usano le unità litostratigrafiche “storiche” definite molto
prima del 1962 e di utilizzo più pratico anche perchè rappresentano intervalli di tempo relativamente ridotti, i siti A
e B appartengono ai “Calcari di Aurisina” noti anche come “Calcari a rudiste” (Turoniano-Senoniano inferiore,
circa 93-71,3 milioni di anni fa) i quali sono compresi fra la Formazione di Monrupino, più antica poichè risale al
Cenomaniano, e il Gruppo Liburnico costituito dagli "Strati di Vreme" del Maastrichtiano [71-65 milioni di anni fa]
e dagli "Strati di Cosina" del Paleocene inferiore (65-61 milioni di anni fa) (Figg. 19-21).
L’ambiente dei “Calcari di Aurisina” durante l’intervallo ?Turoniano superiore - Coniaciano è generalmente
riferibile ad una piattaforma carbonatica interna relativamente “chiusa”. Invece nel Santoniano c’era una più
efficiente circolazione marina e la piattaforma era aperta, cioè priva di un margine biocostruito. Per questo motivo
anche i settori più interni erano esposti alla periodica azione di onde e di tempeste. Si ebbe una grande
proliferazione di rudiste che con la frantumazione e polverizzazione delle loro spesse conchiglie hanno prodotto
grandi accumuli di sedimenti bioclastici carbonatici.
Nel Santoniano si verificò una importante fase tettonica e alla fine importanti eventi di espansione e ritiro del
mare, prodromi dei cambiamenti paleogeografici occorsi nella zona del Carso nel successivo Senoniano superiore.
TENTOR, TUNIS e VENTURINI (1994) ipotizzano un collegamento tra questa fase tettonica e la formazione di piccole
depressioni all’interno della piattaforma quale è quella nella quale si sono probabilmente depositati i sedimenti che
hanno originato le rocce fossilifere dei siti di Polazzo.
Figura 18 (pagina seguente) - Sopra: Le piattaforme carbonatiche periadriatiche e i relativi bacini marini profondi
come affiorano nella geografia attuale e come si suppone siano disposti nel sottosuolo. A= mare profondo, bacino; B =
mare profondo, altopiano sottomarino; C = mare basso, piattaforme carbonatiche. Basato su CATI et al. (1989) e
ZAPPATERRA (1990), modificato.
Sotto: La Piattaforma Carbonatica Friulana, terminazione settentrionale della Piattaforma Carbonatica AdriaticoDinarica. L’asterisco indica la posizione di Polazzo.
23
24
Figura 19 - Mappa geologica schematica del Carso Isontino e di parte di quello Triestino e Sloveno (da TENTOR et al.,
1994). Legenda: 1 = Paleocene-Eocene inferiore (65-50 milioni di anni fa), 2 = Senoniano-Turoniano (93,5-65 milioni
di anni fa), 3 = Cenomaniano (98,9-93,5 milioni di anni fa), 4 = Cretaceo inferiore (circa 140-98,9 milioni di anni fa),
5 = faglie subverticali (i corpi di roccia si muovono uno rispetto all’altro lungo piani verticali), 6 = faglie ad angolo
variabile, prevalentemente inverse (il piano di movimento è inclinato e il blocco superiore si muove su quello
inferiore), 7 = confine di Stato.
Nel sito A la sezione rocciosa oggetto di scavo stratigrafico - cioè togliendo uno strato alla volta partendo
dall’alto (Fig. 22) - comprende 12 strati. Essa si trova vicino ad una faglia che ha impedito la prosecuzione degli
scavi in quanto la stratificazione risultava fortemente disturbata. Una colonna stratigrafica schematica dello scavo è
mostrata nella figura 23. Secondo TINTORI et al. (1993) gli strati fossiliferi consistono in due metri di calcari
laminati, forse stromatolitici, che coprono e sono ricoperti da calcari con rudiste. Infatti, la maggior parte dei calcari
grigi che affiorano attorno al sito sono ricchi di resti frammentari di rudiste. Nei livelli fossiliferi le testimonianze di
organismi bentonici (che vivevano sul fondale) sono rari e probabilmente non sono mai autoctoni, cioè sono stati
trasportati lì dopo la morte da correnti o dal moto ondoso.
Il sito B consiste in un limitato affioramento di calcari ben stratificati, localmente fittamente laminati, con
lamine generalmente di spessore submillimetrico (Figg. 24-26) e con frequenti ondulazioni, legate probabilmente a
fenomeni di carico (dovuto al peso dei sedimenti sovrastanti) o di microslumps (cioè di scivolamento e
deformazione del sedimento lungo un pendio) (Fig. 26 vedi anche p. 36). Il colore delle rocce è solitamente chiaro,
fra il grigio, il nocciola e il verdastro, ma si notano locali colorazioni rossastre a testimonianza di fenomeni di
ossidazione come anche tinte più scure legate alla maggiore presenza di sostanza organica. La granulometria molto
fine è tale da permettere in alcuni casi la perfetta conservazione dei dettagli negli esemplari fossili, soprattutto per
quanto riguarda i resti ossei.
La sezione stratigrafica oggetto di scavo, spessa circa un metro, è stata suddivisa in intervalli e sottointervalli
coincidenti per lo più con giunti di strato e leggeri cambi nelle caratteristiche litologiche (Fig. 27. Gli intervalli
(strati) principali sono sei (A-F). Lo strato A è composto a sua volta da quattro parti (sottointervalli) e lo strato B
da sei. Lo strato C è costituito da una parte superiore suddivisa in quattro sottointervalli e da una parte inferiore
massiccia. Lo strato D è stato diviso in tre sottointervalli, E in due. Lo strato F, diviso in due parti, è laminato
ma non è fissile (cioè non si “sfoglia” in lamine) e finora ha fornito soltanto due reperti.
25
Figura 20 - Successione stratigrafica ideale tra Iamiano e il Villaggio del Pescatore (Duino). Da TENTOR et al (1994).
26
Figura 21 - Successione stratigrafica del Vallone a nord del Lago di Doberdò tra Micoli e Gabria. Da TENTOR et al
(1994).
27
Figura 22 - La sezione oggetto di scavo nel sito A (1992).
28
Figura 23 - La sezione stratigrafica del sito A, con la numerazione degli strati e alcuni reperti in essi ritrovati.
La colonnina di sinistra è tratta da Tintori et al. (1993).
29
Figura 24 - La sezione oggetto di scavo nel sito B.
30
Figura 25 - La fitta laminazione indisturbata nei livelli fossiliferi della sezione stratigrafica del sito B, strati A e B.
Figura 26 - Sezione lucida di un campione della sezione stratigrafica del sito B, strato C. La laminazione è stata
disturbata dalla rimobilizzazione del sedimento, forse innescata da terremoti.
31
Figura 27 - La sezione stratigrafica del sito B, con la suddivisione in intervalli (strati) e sottointervalli.
Per trovare i fossili si devono mettere alla luce ed aprire i calcari laminati. Quindi, partendo dall’alto,
bisogna “sfogliare” accuratamente gli strati mediante martelli, scalpelli e lame, controllando se sulla superficie
così esposta si osservano resti fossili (Fig. 28). Questi ultimi spiccano sulla roccia grigia per il loro colore
nero, marrone o rossiccio. I fossili nel sito B non sono molto frequenti, quindi bisogna esporre pazientemente
molte superfici aprendo gli strati di roccia fino alle più sottili lamine (Fig. 29).
Una caratteristica di questi fossili è che quando gli strati si aprono, i resti scheletrici rimangono interamente
da una parte, su una delle due lastre, mentre nell’altra rimane solo l’impronta. Generalmente, quando si trova
un pesce aprendo una lastra di calcare, lo scheletro si divide secondo un piano sagittale, a metà, rimanendo in
parte su di una lastra in parte sull’altra.
Una volta trovato, il reperto viene accuratamente imballato per il trasporto in laboratorio, ma prima si deve
scrivere in un angolo della lastra un numero provvisorio di registro, la data di rinvenimento e, soprattutto, la
sigla dello strato dove è stato rinvenuto.
32
Figura 28 - Gli strati calcarei sono accuratamente staccati dalla sezione stratigrafica e sfogliati.
Figura 29 - Le lastre vengono subito aperte per verificare la presenza dell’eventuale contenuto fossilifero.
33
I MICROFOSSILI E L’ETÀ DEI SITI DI POLAZZO
(con il contributo di Nevio Pugliese per il sito A e di Sandro Venturini per il sito B)
La Micropaleontologia è la disciplina scientifica che studia i microfossili. Gli organismi di piccole
dimensioni contenuti nelle rocce sono stati di grande utilità nella datazione dei siti di Polazzo e hanno fornito
informazioni sull’ambiente in cui si sono formate le rocce stesse. L’identificazione e lo studio dei microfossili
di Polazzosono stati effettuati secondo una particolare metodologia. I campioni di roccia sono stati tagliati a
fette sottili, le quali sono state poi incollate su di un supporto di vetro quindi ridotte ad uno spessore di frazioni
di millimetro. A questo punto con un apposito microscopio è possibile vedere per trasparenza la fettina di
roccia, che assume il nome di “sezione sottile”. Nel caso dei campioni di Polazzo è possibile osservare
numerosi fossili microscopici, tra i quali Foraminiferi e Alghe Calcaree. I Foraminiferi sono organismi
costituiti da un’unica cellula protetta da un guscio agglutinante o calcareo. A Polazzo si rinvengono
esclusivamente forme che vivono in corrispondenza del fondale marino e sono denominate “bentoniche”; i
foraminiferi che flottano liberamente nella massa d’acqua trasportati dalle correnti sono invece chiamati
“planctonici”. I loro gusci nelle sezioni sottile appaiono come strutture divise in più cellette o camere (si veda
la figura 31). Le alghe calcaree mostrano i loro talli costituiti da una o più cellule.
Essendo vissute per intervalli di tempo geologico relativamente limitati prima di estinguersi o di evolversi,
alcune specie di foraminiferi bentonici e di alghe calcaree sono particolarmente utili per la datazione delle
rocce cretacee.
Figura 30 - Età dei siti di Polazzo all’interno del periodo Cretaceo dell’era Mesozoica.
D’ERASMO (1952) e MARTINIS (1962) avevano attribuito i pesci di Fogliano e Redipuglia al Cenomaniano
(95 milioni di anni fa) sulla base del confronto con quelli rinvenuti presso Comeno (ora Komen) sul Carso
sloveno. Alcuni microfossili vissuti in intervalli di tempo geologico relativamente limitati, scoperti e descritti
successivamente, sono stati molto utili per datare i calcari dei siti A e B. NARDON (1990) e TINTORI et al.
(1993) hanno studiato la successione stratigrafica in corrispondenza del sito A individuando un abbondante
contenuto in foraminiferi e alghe calcaree nei calcari sottostanti e sovrastanti i livelli a pesci. Tra questi si è
rivelata molto utile l’identificazione di Montcharmontia
34
Figura 31 - Foraminiferi. A) Ataxofragmiidi; B) Montcharmontia apenninica; C) Pseudocyclammina sphaeroidea;
D) Accordiella sp.; E) Minouxia sp.; F) Scandonea samnitica.
apenninica (foraminifero; Fig. 31B), Accordiella conica (foraminifero) e Sgrossoella parthenopeia (alga)
rispettivamente al di sotto e al di sopra dei livelli a pesci i quali sono poveri di microfossili. Questi
rinvenimenti hanno consentito di attribuire il sito A al Senoniano inferiore, Coniaciano-Santoniano (circa 85
milioni di anni fa; Fig. 30).
I livelli a pesci fossili hanno fornito foraminiferi, alghe calcaree e ostracodi. Tra le alghe vi sono
Aeolisaccus kotori e Thaumatoporella parvovesiculifera. La rimanente associazione è costituita soprattutto
35
da altri foraminiferi: Textularidae, Nubecularidae, Miliolidae, piccoli rotaliformi Ophtalmidiidae, Minouxia
sp., Pseudocyclammina, ?Rotorbinella scarsellai, ?Sabaudia sp. e ?Nezzazatinella sp.
La sezione di scavo del sito B è risultata povera dal punto di vista micropaleontologico. Non è stata però
ancora eseguita una ricerca del nannoplancton calcareo (piccolissime parti calcaree di microrganismi marini
planctonici) e dei palinomorfi (i pollini fossili delle piante), entrambi molto utili per datare le rocce.
Foraminiferi rotaliformi di minute dimensioni sono presenti in quasi tutti gli strati del sito B. Piccoli
Ataxofragmiidi (Fig. 31A) sono stati trovati nei sottointervalli B5-6 e C1 e Montcharmontia sp. è stata
rinvenuta in D3 e forse C1. Nella sezione sono inoltre presenti foraminiferi Oftalmidiidi, ostracodi, alghe
(Thaumatoporella) e calcisferule.
E’ stata effettuata una campionatura della sezione immediatamente sottostante a quella oggetto di scavo,
affiorante in una vicina cava abbandonata. Questa sezione contiene l’alga calcarea Sgrossoella sp. e i
foraminiferi Montcharmontia apenninica (Fig. 31B), Pseudocyclammina sphaeroidea (Fig. 31C),
Accordiella sp. (Fig. 31D), Minouxia sp. (Fig. 31E) e Scandonea samnitica (Fig. 31F) indicativi del
Senoniano inferiore (Fig. 30).
Una attribuzione al Santoniano è resa plausibile dal fatto che nel Carso isontino questo piano (il “piano” è
lo spessore di roccia corrispondente all’intervallo di tempo chiamato “età”) rappresenta la maggior parte dello
spessore del Senoniano (S. Venturini, comunicazione personale).
Altri foraminiferi presenti in questa sezione, ma banali, sono rotaliformi, Miliolidae, Ophtalmidiidae, e
Ataxophragmiidae. Insieme ai foraminiferi si trovano anche Ostracodi e probabili Caracee. I primi sono
piccoli crostacei muniti di un carapace calcareo bivalve. Le caracee sono alghe che vivono soprattutto nelle
acque dolci o, più raramente, salmastre e presentano caratteristiche strutture riproduttive globose o fusiformi
mineralizzate chiamate girogoniti.
Da questa prima analisi delle sezioni sottili, il sito B sembra grossomodo coevo al sito A. I dati non
consentono di dire con certezza se i due siti A e B siano aperti sulla stessa successione di rocce, separate solo
topograficamente sul piano orizzontale (quindi se si sono originati nello stesso momento e in due zone
leggermente diverse dello stesso ambiente) oppure se rappresentano due momenti leggermente diversi dal punto
di vista temporale (cioè che uno è più antico dell’altro). Come vedremo sotto, gli organismi sono in parte
diversi nei due siti, ma questo non permette ancora di scegliere una ipotesi piuttosto dell’altra.
36
L’AMBIENTE DI DEPOSIZIONE
(con il contributo di Nevio Pugliese per il sito A e di Sandro Venturini per il sito B)
Come abbiamo visto, i calcari di Polazzo si sono originati da sedimenti deposti in ambienti di piattaforma
carbonatica (Fig. 32). La deposizione dei sedimenti del sito A avvenne probabilmente in una laguna poco
profonda che a volte evolveva verso condizioni di stratificazione delle acque o di piana di marea. Non si può
escludere che si siano verificati anche episodi di emersione. I calcari a rudiste presenti nell’area prossima alla
zona di scavo testimoniano invece ambienti a più elevato idrodinamismo.
Figura 32 - Vista aerea di una piattaforma carbonatica attuale, le Bahamas, in cui prevalgono le piane di marea (foto
di D. Masetti).
La sezione della cava vicina al sito B sembra rappresentare soprattutto un ambiente lagunare con alghe
calcaree e rudiste. Alla sommità della sezione diventa prevalente un ambiente di piana tidale con oscillazioni
salmastre e brevi emersioni.
La sezione del sito B, in continuità con la parte superiore della cava, rappresenta probabilmente la
deposizione in una piana tidale, ma con influssi differenziati, per esempio sedimenti apportati da tempeste,
condizioni salmastre e possibili emersioni.
I livelli fossiliferi sono costituiti da lamine millimetriche di calcari a grana fine e finissima; al microscopio
si osservano solo minutissimi organismi, rappresentati solitamente da foraminiferi spesso indeterminabili per le
ridottissime dimensioni, comparativamente molto inferiori rispetto a quelle delle forme rinvenute nella cava. Le
lamine hanno talora un aspetto gradato, con granuli più grossolani alla base e più fini alla sommità. Queste
facies sono generalmente legate ad un trasporto dei clasti in sospensione ed a un successivo rapido deposito.
Nel contesto ambientale prima accennato, tali lamine possono essere interpretate come il risultato di tempeste
che hanno “spazzato” la circostante piattaforma, ridepositando i minuti clasti calcarei in zone interne
leggermente più profonde che intrappolavano i sedimenti stessi. A questo tipo di lamine si alternano spesso
livelletti millimetrici di “fanghi” calcarei finissimi privi di microfossili (micriti) - che possono rappresentare gli
intervalli di sedimentazione “normale” per decantazione o precipitazione da acque calde e sature - e strutture
di tipo stromatolitico (probabili tappeti di mucillaggini formate da alghe unicellulari). Le alghe unicellulari
sembrano essere state gli unici organismi in grado di proliferare normalmente in questo ambiente, mentre le
37
altre forme erano occasionali o alloctone (trasportate). Nel dettaglio, quindi, i livelli con i fossili eccezionali
del sito B testimoniano un ambiente sfavorevole al normale sviluppo di faune autoctone (che vivevano sul
posto), con un tasso di sedimentazione piuttosto elevato grazie a continui apporti da parte delle tempeste
intrappolati in una depressione poco profonda interna alla piattaforma. La locale frequenza di facies pseudostromatolitiche può suggerire anche episodi di parziale riempimento della depressione con formazione di facies
analoghe a quelle tipiche delle piane di marea. La depressione si era probabilmente originata per motivi
tettonici. Una possibile testimonianza di eventi tettonici è registrata in alcuni microslump, deformazioni del
sedimento dovute alla sua rimobilizzazione lungo un piano debolmente inclinato. Talora queste deformazioni
paiono essersi verificate quando il sedimento era già parzialmente litificato, quindi non sono semplici
scivolamenti di un materiale plastico lungo un pendio sottomarino, né una fatturazione quando la roccia era
già cementata e sepolta in profondità. Infatti, in questi intervalli si notano sistemi di microfratturazione nella
zona deformata e frammenti a spigoli vivi nel nucleo della piega, immersi nella matrice calcarea fine che ha
riempito gli interstizi. Gli elementi descritti fanno supporre una deformazione “forzata” da un rapido aumento
del gradiente del pendio (per basculamento tettonico), oppure da una componente di sforzo orizzontale che si è
bruscamente sovrapposta al normale carico dei sedimenti. La seconda ipotesi è strettamente legata ad eventi
sismici (terremoti) e questi tipi di depositi vengono usualmente denominati “sismici”. Tali intervalli hanno
verosimilmente registrato importanti eventi della storia del sito fossilifero, che testimoniano la presenza di
faglie, terremoti e solchi all’interno dell’apparente uniformità della piattaforma carbonatica. In altri campioni
sono state osservate strutture di fluidificazione (forti ondulazioni verticali delle lamine) che in pianta
presentano un assetto ad “alveare”; anche in questo caso si possono chiamare in causa eventi sismici. Infine,
l’intensa fratturazione presente su un lato del sito indica l’esistenza di un disturbo tettonico, possibile
riattivazione di un’antica faglia che bordava un fianco della piccola depressione.
Non si è investigato abbastanza per identificare quali siano stati i fattori eccezionali che hanno permesso la
fossilizzazione, spesso ottimale, degli scheletri di pesci nelle rocce di Polazzo. Il perfetto stato di
conservazione dei reperti, caratteristico dei Konservat-Lagerstätten, si deve probabilmente alla finissima
grana del sedimento. La fitta laminazione piano-parallela e indisturbata suggerisce l’assenza di un’infauna che
potesse amalgamare il sedimento. E’ pure indicativa di un ambiente di deposizione a bassissima energia
ambientale. La rarità sulla superficie di strato di tracce di spostamento e alimentazione e la quasi totale
mancanza di conchiglie, gusci o altre strutture rigide di invertebrati testimoniano una scarsità di fauna
bentonica in generale. Tutto questo è indicativo di un ambiente di deposizione sfavorevole alla vita che
potrebbe essere stato causato da condizioni particolari come carenza di ossigeno disciolto nell’acqua, elevata o
altamente oscillante salinità, acidità delle acque. Tali condizioni sfavorevoli, al momento non definibili in
dettaglio, allontanando predatori e necrofagi sono state una indispensabile concausa della fossilizzazione dei
cadaveri dei pesci.
Probabilmente elementi favorevoli all’accumulo e preservazione dei resti di organismi sono stati la
presenza di una depressione nell’ambito della piattaforma e il rapido seppellimento operato durante eventi
metereologici particolari, quali tempeste ed uragani, relativamente frequenti anche alla scala della vita umana e
comunissimi a scala geologica.
E’ auspicabile che l’aspetto della modalità di conservazione venga sviluppato in futuro con adeguati studi.
38
I FOSSILI DI POLAZZO
Le rudiste
Le rudiste furono un gruppo di molluschi Bivalvi che si differenziano dagli altri bivalvi per la forma
bizzarra della loro conchiglia. Erano in pratica delle “vongole” aberranti che vivevano in banchi come le
attuali ostriche, cementate ad oggetti duri o affossate nella sabbia. Nella zona di Polazzo, come in altre parti
del Carso, le rudiste sono i fossili più comuni.
Le rudiste apparvero nel Giurassico superiore (155-160 milioni di anni fa) con la primitiva famiglia
Diceratidae ed ebbero uno sviluppo esplosivo a partire da circa 120 milioni di anni fa. Nel Cretaceo si
verificarono episodi di grande diversificazione di specie e di ampia distribuzione geografica alternati a
momenti di crisi con riduzione drastica della loro presenza. Tale evoluzione irregolare è dovuta alle
oscillazioni climatiche e ambientali globali alle quali questi bivalvi erano particolarmente sensibili. Le rudiste
si estinsero completamente 65 milioni di anni fa, come i dinosauri. Dato l’intervallo di tempo relativamente
ristretto (geologicamente parlando) durante il quale vissero, esse permettono di datare le rocce in cui sono
presenti.
La conchiglia delle rudiste era composta da due spesse valve, ciascuna di forma marcatamente diversa
dall’altra (Fig. 33). La valva inferiore di solito era cementata al substrato o a valve di altri individui, oppure
era affossata nel sedimento. La valva superiore veniva sollevata per fare passare l’acqua per la respirazione e
l’alimentazione. Le rudiste, infatti filtravano l’acqua aspirandola tramite un sifone dentro la conchiglia e
attraverso il corpo, trattenendo le particelle organiche in sospensione di cui si nutrivano. La conchiglia è
generalmente molto spessa e presenta strutture caratteristiche che permettono di distinguere le diverse famiglie
di rudiste.
Figura 33 - La conchiglia bivalve di una rudista Radiolitide, mostrata in sezione longitudinale e con le due valve
leggermente staccate l’una dall’altra (sinistra). Dalla valva superiore, a forma di tappo, si proiettano due lunghi
“denti” che si articolano in corrispondenti fossette nella valva inferiore, conica e più grande. A destra, la sezione
trasversale della valva inferiore. In grigio è indicata la spessa conchiglia, mentre in grigio-azzurro è evidenziata la
cavità che conteneva le parti molli.
Le rudiste della Tetide centrale sono state raggruppate in sei famiglie principali, che si distinguono
facilmente per la diversa forma delle valve e per altre caratteristiche strutture osservabili nella conchiglia.
39
Diceratidae (160-140 milioni di anni fa):
avevano una conchiglia spirogira e di forma
piuttosto variabile; da questa famiglia sono
derivate tutte le altre rudiste (figura da CESTARI
& SARTORIO, 1995, ridisegnata).
Requienidae (150-65 milioni di anni fa):
avevano conchiglia spiralata, da elicoidale a
trocoide, con la valva inferiore più grande di
quella superiore (figura da CESTARI & SARTORIO,
1995, ridisegnata).
Caprotinidae (150-65 milioni di anni fa): la valva
inferiore non è spiralata, ma è generalmente conica,
mentre quella superiore era conicospirolata o
raramente opercolare (cioè a forma di “tappo”)
(figura da Cestari & Sartorio 1995, ridisegnata).
Caprinidae (122-65 milioni di anni fa): la valva
inferiore è conica e più piccola della valva
superiore. Quest’ultima è spiralata come un corno
di capra e da ciò deriva il nome della famiglia. Lo
spesso guscio era caratteristicamente perforato da
canali longitudinali (figura da CESTARI &
SARTORIO, 1995, ridisegnata
40
Radiolitidae (118-65 milioni di anni fa): la
valva inferiore è conica o cilindrica e appare
come una pila di bicchieri posti uno dentro
l’altro. Il guscio ha una struttura tipicamente
“cellulare” (“reticolata”). La valva superiore è
molto più piccola e opercolare (a forma di
“tappo”) (da CESTARI & SARTORIO, 1995,
ridisegnata).
Hippuritidae (90-65 milioni di anni fa): l’ultimo
prodotto dell’evoluzione delle rudiste. La valva
inferiore è allungata (poteva raggiungere i 50 cm di
altezza), conica o cilindrica. L’interno della valva è
caratterizzato da una cresta e due pilastri
longitudinali. La valva superiore è molto più
piccola, opercolare (a forma di “tappo”) e tutta
perforata da sottili canali e pori (figura da CESTARI
& SARTORIO, 1995, ridisegnata).
Le rudiste non erano presenti in tutto il Mondo durante l’era Mesozoica. Esse popolarono soprattutto le
piattaforme carbonatiche della Tetide, dagli attuali Caraibi sino all’Oceano Pacifico. La Tetide era posta per
tutta la sua lunghezza ai Tropici e quindi era un mare caldo, favorevole all’instaurarsi delle piattaforme
carbonatiche e alla formazione delle scogliere organogene.
Le rudiste vivevano aggregate in “ciuffi” e “cespugli”, talvolta formando delle vere e proprie collinette
(Fig. 34), nelle acque calde e ossigenate delle piattaforme carbonatiche. Si possono trovare nei margini
biocostruiti della piattaforma, ma anche nelle lagune interne come in piattaforme non protette dall’influenza
del mare aperto. Spesso grandi agglomerati si sviluppavano lungo la rampa che dal margine di piattaforma
portava al bacino profondo. Talvolta si rinvengono ancora in posizione di vita, con i “ciuffi” diretti verso
l’alto, ma più spesso si hanno corpi rocciosi formati dall’accumulo caotico delle loro conchiglie, più o meno
intere, trasportate dalle correnti e dal moto ondoso.
Nella nostra regione questi bizzarri bivalvi si trovano in provincia di Pordenone sull’Altipiano del
Cansiglio, sul M. Cavallo, in Val Colvera, nei pressi di Barcis e in Val Caltea, a nord di Meduno, sul M.
Ciaurlec e nei dintorni di Pradis. In provincia di Udine li abbiamo sul M. Bernadia e zone limitrofe nonché
rimaneggiate nei depositi di frana sottomarina nel Flysch eocenico (per esempio, a Vernasso). In provincia di
Gorizia si trovano sul colle di Medea e sul Carso; in quella di Trieste sono abbondanti sempre sul Carso, per
esempio ad Aurisina e a Malchina.
41
Figura 34 - Aggregazione a “cespuglio” (o collinetta, mound) di rudiste Radiolitidi.
Ridisegnato da CESTARI & SARTORIO (1995).
Le rudiste sono i fossili più comuni nelle rocce calcaree grigie circostanti i siti A e B. Queste rocce
rappresentano ambienti di deposizione diversi da quelli dei siti stessi, probabilmente di piattaforma interna ma
con buona ossigenazione e circolazione delle acque. Si tratta soprattutto di Radiolitidi (Figg. 35-36).
Le rudiste sono invece del tutto assenti nel sito B e solo pochi esemplari frammentari sono stati trovati nel sito
A, come vedremo più avanti.
Durante l’intervallo Coniaciano superiore - Santoniano si verificò una grande differenziazione e diffusione
delle rudiste nelle piattaforme carbonatiche periadriatiche, riguardante soprattutto i Radiolitidi (generi
Radiolites, Sauvagesia, Durania, Biradiolites e Bournonia) e gli Ippuritidi (generi Hippurites e Vaccinites)
(CESTARI & SARTORIO, 1995). Questi ultimi mostrano affinità con quelli ritrovati in terreni coevi nelle Alpi
Settentrionali (Austria).
Figura 35 - Radiolitidi nei calcari grigi che circondano il sito A. Quella che si vede è la parte superiore della valva
conica, esposta come sezione trasversale dall’erosione e corrosione del calcare.
42
Figura 36 - Radiolitidi nei calcari grigi che circondano il sito A. Frammento di calcare
con valve intere e frammentarie esposte in sezione trasversale dall’erosione e corrosione.
43
I fossili dei siti A e B: note generali
Nelle collezioni del Museo risultano depositati in totale 1801 reperti provenienti dai siti A, B, e da
affioramenti vicini al sito A. 726 reperti sono il frutto degli scavi nel sito A (anni 1990-93), 48 sono stati
trovati prima del 1990 e 1027 sono stati estratti nel sito B (Fig. 37A).
L’associazione fossile del sito A è costituita soprattutto da pesci ossei (RIGO, 1998). I loro resti scheletrici
sono spesso disarticolati o frammentari, ma in alcuni casi sono perfettamente integri e mostrano tutti i dettagli
anatomici. Sono presenti pesci abitatori delle scogliere come i picnodonti, predatori dal corpo massiccio
(Enchodus e Parachanos) o allungato come le odierne aguglie (Rhynchodercetis) e gli spinosi Bericiformi, ma
la maggioranza dei reperti è costituita da piccoli pesci teleostei di pochi centimetri di lunghezza di incerta
collocazione sistematica. Di notevole importanza è un esemplare incompleto di quella che potrebbe essere la
più antica anguilla rinvenuta in Italia. I resti di rettili sono costituiti da ossa e placche del carapace di cheloni
(tartarughe) e da un dente di coccodrillo. Gli invertebrati sono particolarmente rari: alcuni piccoli gamberi e
qualche resto frammentario di rudista. Sono relativamente frequenti i vegetali terrestri.
L'associazione faunistica ritrovata nel sito B appare in parte differente da quella proveniente dal sito A
(Fig. 37C-D). Anche in questo caso la maggior parte dei reperti sono riferibili a pesci, sia frammentari (da
singoli denti a parti considerevoli del corpo) sia interi. I resti di pesci infatti rappresentano l’80% dei reperti
totali (oltre l’85% considerando anche i reperti identificati con dubbio come pesci). I resti del caratteristico
genere Rhynchodercetis (con esemplari di dimensioni diverse, anche estremamente piccole) rappresentano il
9% dei reperti totali e quelli dei picnodonti circa l’8,5%.
Non sono stati trovati resti di cheloni. Un dente appartiene probabilmente a un piccolo coccodrillomorfo ed
è al momento l’unica testimonianza di rettili nel sito. Rispetto al sito A, i pesci hanno dimensioni
comparativamente minori e gli scheletri molto raramente sono disarticolati. I grandi pesci sono molto rari e le
dimensioni medie di picnodonti e Rhynchodercetis sono inferiori a quelle riscontrate nel sito A. Vi sono alcune
rare forme di teleostei non ancora determinate dal punto di vista sistematico che non sono state trovate nel sito
A. Vi sono pure icnofossili di invertebrati, assenti nell’altro sito.
Anche considerando i reperti dubbi, i vegetali rappresentano meno del 3% del totale e si tratta per lo più di
foglie o rametti mal conservati.
I fossili sono stati rinvenuti in tutti gli strati del sito B e non presentano una concentrazione in livelli
particolarmente ricchi. Alcuni strati però, soprattutto lo strato D, hanno fornito un numero maggiore di
esemplari rispetto agli altri (Fig. 37B).
44
Figura 37 – La frequenza dei reperti nel siti A e B. A) Numero di reperti rinvenuti nelle singole annate di scavo. B) Numero
di reperti rinvenuti nei singoli strati del sito B. Legenda: Cop. = copertura (frammenti rocciosi nel suolo immediatamente sopra
la sezione stratigrafica). C) Numero di reperti rinvenuti nel sito B, secondo categorie sistematiche sulla base del registro di
prima nota (determinazioni provvisorie). 1 = pesci ossei indeterminati, 2 = Rhynchodercetis, 3 = Picnodonti, 4 =“Enchodus”,
5 = coccodrillomorfi, 6 = coproliti, 7 = resti indeterminati, 8 = piante, 9) tracce fossili. D) Numero di reperti rinvenuti
complessivamente nei due siti, secondo categorie sistematiche e per lo più sulla base del registro di prima nota (determinazioni
provvisorie). 1 = pesci ossei indeterminati, 2 = Rhynchodercetis, 3 = Picnodonti, 4 = “Parachanos”, 5 = “Enchodus”, 6 =
Anguilliformes, 7 = resti di cheloni, 8 = coccodrillomorfi, 9 = coproliti, 10 = resti indeterminati, 11 = piante, 12 = rudiste, 13
= crostacei decapodi, 14 = altri invertebrati, 15 = tracce fossili.
45
Piante
(con il contributo di Frédéric Thevenard e Bernard Gomez)
Sono stati rinvenuti poco meno di 200 resti di vegetali terrestri, quasi tutti provenienti dal sito A.
Le piante sono spesso conservate solo come impronte, senza tracce dell’originale sostanza organica. In alcuni
casi le impronte sono coperte da ossido di ferro, di colore giallo o rossiccio e aspetto pulverulento. Talvolta la
sostanza organica originale è in parte conservata, anche se molto compressa.
La maggior parte delle piante (75%) è costituita da conifere. I resti della peculiare conifera Frenelopsis,
appartenente alla famiglia estinta Cheirolepidiaceae, rappresentano circa il 45% degli esemplari di conifere di
Polazzo. In precedenza i resti di questa pianta, tutti rinvenuti nel sito A, erano stati identificati come ottocoralli
(TINTORI et al., 1993) o alghe brune (RIGO, 1998).
Figura 38 - Frenelopsis sp., esemplare 11350. Sito A.
46
Figura 39 - Frenelopsis sp., esemplare 11353a. Sito A.
Anche se la morfologia e la disposizione dei rami fogliari di Frenelopsis è ben conosciuta, non è ancora
chiaro se tutte le specie di questo genere avessero l’aspetto di cespugli, di veri e propri alberi o entrambi.
A Polazzo Frenelopsis è rappresentata solo da assi vegetativi, anche se vi sono esemplari piuttosto grandi
e più volte ramificati (Figg. 38-40). Gli assi vegetativi consistono in internodi cilindrici con foglie ricoprenti
probabilmente disposte in verticilli di tre (Fig. 40, soprattutto nella parte alta). Queste piante avevano quindi
fusti suddivisi in articoli, fotosintetici ed apparentemente succulenti (come le attuali piante grasse) e foglie
piccole. Una parte centrale più spessa e “ali” laterali trasparenti sono chiaramente visibili in parecchi
esemplari (Fig. 40).
Oggi la determinazione delle diverse specie si basa sull’esame al microscopio a luce trasmessa ed a quello
elettronico (SEM) della struttura microscopica della cuticola, uno strato di sostanza dall’aspetto di cera
prodotto dalla maggior parte delle piante e deposto sulla superficie di fusti e foglie per assicurare protezione
contro tutti i tipi di aggressione esterna (per esempio, da parte di batteri, funghi, luce solare,
47
Figura 40 - Frenelopsis sp., esemplare 11367. Sito A.
48
Figura 41 – A) Brachiphyllum sp.,
esemplare 2791; B) Brachiphyllum tipo 2,
esemplare 11379; C) Brachiphyllum tipo 2,
esemplare 11380; D) Brachiphyllum tipo 2,
esemplare 6242. Tutti dal sito A. E)
Probabile Brachiphyllum tipo 2, esemplare
13472, sito B.
49
ecc.). Su questa base sono state finora distinte 16 specie di Frenelopsis, 11 delle quali si rinvengono
nell’attuale Europa (GOMEZ et al., 2002a, b) dove Frenelopsis alata è probabilmente la specie più comune.
Solo pochissimi frammenti di cuticola sono conservati negli esemplari di Polazzo, ma sfortunatamente sono
troppo piccoli per lo studio.
Frenelopsis è un genere esclusivamente Cretaceo ed aveva una ampia distribuzione nelle terre
Laurasiatiche. Infatti, è stato trovato in USA (Maryland e Virginia), Spagna, Portogallo, Francia, Germania,
Boemia, Polonia, Ucraina, Tagikistan, Cina orientale e Giappone. L’unica segnalazione nel Gondwana
proviene dal Cretaceo inferiore del Sudan. Le differenti specie si erano adattate a vivere in ambienti diversi, da
quello lacustre continentale alle paludi salmastre costiere. Erano in ogni caso particolarmente adattate a
superare periodi di siccità; vivevano quindi in climi almeno stagionalmente aridi grazie agli adattamenti
morfologici e cuticolari.
Le altre conifere costituiscono circa il 30% delle piante di Polazzo. L’assenza della cuticola non consente
una determinazione sicura. Inoltre, persino nelle conifere viventi la morfologia esterna è molto simile in specie,
generi e famiglie diverse e le foglie possono differenziarsi all’interno dello stesso individuo mostrando quello
che gli scienziati chiamano “elevato polimorfismo”. Abbiamo stabilito una distinzione di almeno cinque forme
diverse di germogli e ramoscelli. Tali forme assomigliano molto a quelle rinvenute in calcari del ConiacianoSantoniano della ex Cava Italcementi di Vernasso, vicino a Cividale del Friuli (Udine) e attribuiti, tra l’altro,
ai generi viventi Sequoia e Araucaria (BOZZI, 1888, 1891). Tuttavia, seguendo il Codice Internazionale di
Nomenclatura Botanica che raccomanda di non usare nomi di generi viventi come Sequoia per indicare forme
fossili prive degli organi riproduttivi o resti di cuticola, identifichiamo le conifere di Polazzo come
Brachyphyllum sp. (Fig. 41A), Brachyphyllum tipo 2 (Figg. 41B-D), Cunninghamites cf. elegans (Fig. 42),
una forma tipo Pagiophyllum (Fig. 43A) e cf. Sphenolepis (Fig. 43B).
Sono stati ritrovati anche alcuni coni mal conservati, per
esempio un cono sferico e ancora attaccato al ramo del tipo
Pagiophyllum (Fig. 43A) simile a quello delle Taxodiaceae, e un
cono isolato probabilmente femminile (Fig. 43C).
Foglie con una lamina senza alcuna venatura evidente che si
restringe in modo simile ad un picciolo (Fig. 44A) rappresentano
circa il 10% dei reperti vegetali. L’esemplare di figura 44B, con
le foglie ancora attaccate al rachide, sembrerebbe appartenere allo
stesso tipo di pianta. Queste foglie potrebbero essere riferibili alle
Ginkgoales, che hanno venature molto sottili all’interno della
lamina fogliare e sono comuni nelle flore del Cretaceo medio (si
veda, per esempio, KVACEK, 1999; GOMEZ et al., 2000),
piuttosto che alle Angiosperme Dicotiledoni le quali presentano di
solito almeno una spessa nervatura mediana (Fig. 44C).
Le Angiosperme (le piante con i fiori, quelle più comuni oggi)
sono molto rare a Polazzo (costituiscono meno del 2% dei reperti)
e sono rappresentate da un frammento di apice fogliare (Fig. 44C)
e da una foglia lobata (Fig. 44D). Gli ordini superiori di venature
sono mal conservati o assenti.
Un certo numero di reperti rimangono indeterminati (Fig. 45).
Figura 42 - Cunninghamites cf. elegans,
esemplare 6244. Sito A.
La bassa percentuale di Angiosperme distingue l’associazione
di Polazzo dalle altre grossomodo contemporanee nelle quali le piante con i fiori sono dominanti sia come
abbondanza sia come diversità. Questo ha probabilmente una natura paleogeografica o paleoclimatica, legata
all’isolamento della piattaforma carbonatica e alla sua posizione nella fascia tropicale del pianeta.
Le dimensioni e lo stato di frammentazione e di conservazione degli esemplari ci consentono di formulare
qualche ipotesi circa le modalità di formazione dell’associazione vegetale fossile. I resti di
50
Figura 43 – A) Forma tipo Pagiophyllum,
esemplare 11329; B) cf. Sphenolepis,
esemplare 4306; C) cono del tipo
Pagiophyllum, esemplare 2789. Tutti gli
esemplari provengono dal sito A.
51
Figura 44 - Probabili Ginkoales. A)
esemplare 11258, sito A; B) esemplare
11351, sito A. C) Foglia di angiosperma
dicotiledone, esemplare 11713, sito B; D)
foglia di angiosperma, esemplare 11289,
sito A.
52
Figura 45 – Vegetali incertae sedis. A): esemplare 1383, forse
Cunninghamites. B): esemplare 11352. Entrambi provengono
dal sito A.
Frenelopsis, almeno quelli di maggiori dimensioni, crescevano molto vicino alla zona di deposizione e furono
strappati dall’azione di fenomeni atmosferici violenti come tempeste o uragani, e trasportati dal vento. Erano
ancora verdi, cioè non disseccati, quando si depositarono e furono coperti dal sedimento. Infatti, Frenelopsis
era facilmente disarticolata una volta disseccata e quando veniva trasportata per una lunga distanza (GOMEZ
et al., 2001). Questa osservazione è valida anche per il resto delle conifere, nelle quali i rami fogliari muoiono
e quindi si staccano regolarmente dalle piante durante la loro vita (perdite fisiologiche), ma il vento può
aumentare questi distacchi e strappare i rami fogliari ancora verdi (perdite traumatiche).
53
Vertebrati: i Rettili
I Rettili sono rappresentati da ossa e piastre del carapace di cheloni (tartarughe) e da un paio di denti di
coccodrillomorfi.
Una quindicina di reperti riferibili a tartarughe provengono per lo più dagli strati 5 e 6 del sito A (RIGO,
1998). In ogni caso si tratta di resti altamente disarticolati: frammenti di carapace (Fig. 46A), singole ossa
degli arti (omero, falangi) e/o dei cinti (coracoidi, scapole; Figg. 46B, 47A) e singole vertebre isolate (Fig.
47B).
Figura 46 – Cheloni. A) Parte di un arto anteriore (omero) e del carapace (piastra), esemplare 11398.
B) Cinto scapolare incompleto; esemplare 11395. Entrambi gli esemplari provengono dal sito A.
54
Figura 47 – Cheloni. A) Resti sparsi tra i quali si riconoscono una vertebra, parti di arti ed elementi dei cinti
scapolari; esemplare 11396. B) Certebra cervicale isolata; esemplare 11389. Entrambi gli esemplari provengono dal
sito A.
Un dente conico e molto consumato è stato identificato come dente di “coccodrillo” indeterminato (RIGO,
1998) (Fig. 48).
Il dente di rettile trovato durante lo scavo 1997 nel sito B è una corona isolata alta 12,6 mm e con carene
mesiale e distale denticolate (Fig. 49). Il dente è triangolare, leggermente ricurvo e solo debolmente compresso
linguo-labialmente. Verso la base della corona la carena mesiale si sposta sul lato linguale, come nei denti del
dinosauro teropode Dromaeosaurus. Questo dente potrebbe essere riferibile a Doratodon (Angela Buscalioni,
comunicazione personale), un piccolo coccodrillomorfo del Cretaceo superiore caratterizzato da una dentatura
che ricorda quella dei dinosauri teropodi. Doratodon è uno dei pochi coccodrillomorfi del Cretaceo europeo
con denti a margini denticolati (zifodonti) ed è stato trovato nel Campaniano inferiore in Austria e nel
Maastrichtiano in Spagna, Transilvania e Crimea (A. Buscalioni e Zoltan Csiki, comunicazioni personali).
55
Figura 48 - Dente di coccodrillomorfo, esemplare 11303. Sito A.
Figura 49 - Dente probabilmente attribuibile al coccodrillomorfo
zifodonte Doratodon; esemplare 11720. Sito B, sottointervallo B6.
56
Vertebrati: i Pesci
Cenni di sistematica dei Pesci
Quelli che nel linguaggio comune sono chiamati pesci appartengono in realtà a classi separate e distinte di
vertebrati acquatici. Nel periodo Cretaceo, come oggi, le classi presenti erano due: Condritti, i pesci che
possiedono uno scheletro cartilagineo, e Osteitti, i pesci con lo scheletro ossificato e muniti di vescica
natatoria. Questi ultimi sono comunemente chiamati “pesci ossei”. I primi includono gli “squali” (Selacimorfi),
le razze e i pesci sega (Batidoimorfi o Batoidei) e le chimere (Olocefali), i secondi tutti gli altri pesci. Gli
Osteitti si suddividono in Sarcotterigi (Crossotterigi e Dipnoi) ed Attinotterigi (“Condrostei” e Neotterigi)
che si distinguono per la diversa struttura delle pinne. I “Condrostei” furono comuni soprattutto nel Permiano
e nel Triassico. Nel Cretaceo erano già meno frequenti e oggi sono molto rari, rappresentati da pochissime
forme la più nota delle quali è lo Storione (Acipenser sturio). I Neotterigi si dividono in alcuni ordini primitivi
(tra i quali vi sono i Picnodontiformi, comuni a Polazzo) e nella Divisione Teleostei. I pesci moderni
appartengono in maggioranza al gruppo evoluto dei Teleostei, rappresentato oggi da più di 20.000 specie. La
maggior parte dei Teleostei moderni (dal pesce persico alla cernia e dallo sgombro al pesce palla) appartiene
alla serie Percomorfi della Sottodivisione Euteleostei. All’interno dei Percomorfi, i Perciformi, con circa 7.800
specie suddivise in 150 Famiglie, è attualmente il più grande e diversificato ordine di Vertebrati. I Percomorfi
insieme ad altri gruppi minori per numero di specie (Paracantotterigi ecc.) costituiscono gli Acantomorfi, pesci
che si distinguono dalle forme più primitive per la presenza di robusti raggi spinosi nella parte anteriore delle
pinne dorsali e pelviche.
Figura 50- Schema dei rapporti filogenetici dei pesci ossei rinvenuti a Polazzo (basato in parte su GAYET et al., 2003)
L’associazione ittica
La maggior parte dei pesci di Polazzo necessita di un dettagliato studio specialistico che stabilisca la reale
diversità sistematica dell’ittiofauna, cioè che identifichi le varie, specie, generi, famiglie ecc. presenti e il loro
significato paleoecologico ed evolutivo. Alcune forme sono comunque facilmente identificabili anche da chi
non è uno specialista di pesci mesozoici.
Non sono mai stati trovati resti di Condritti - squali e razze - nemmeno singoli denti isolati, quindi a
Polazzo si hanno solo pesci ossei. La maggior parte di essi è rappresentata da molti individui di poche forme di
57
piccole dimensioni. Nel sito B i resti più frequenti identificati senza dubbi appartengono al caratteristico
Rhynchodercetis e ai picnodonti.
PYCNODONTIFORMES (Picnodonti)
I Picnodonti furono comuni abitanti delle piattaforme carbonatiche dalla fine del Triassico (215 milioni di
anni fa) all’inizio dell’Eocene (50 milioni di anni fa). Avevano un corpo piatto lateralmente ed ovale, come
quello delle odierne orate (Figg. 51, 54). Come queste avevano batterie di robusti denti piatti per triturare le
parti dure degli organismi di cui si nutrivano (Figg. 52-53). I centri delle loro vertebre non sono ossificati.
A Polazzo si trovano in entrambi i siti e di solito sono rappresentati da individui di piccole dimensioni,
lunghi 6-15 centimetri quando interi. Esemplari di dimensioni decisamente maggiori sono stati trovati solo nel
sito A, ma si tratta di resti scheletrici del tutto disarticolati (Fig. 52).
Curiosa è la presenza nel sito B di denti faringei isolati, che in un primo momento, date le piccolissime
dimensioni, non erano stati riconosciuti come tali.
I reperti del sito B, spesso completi e in buono stato di articolazione scheletrica, appartengono forse al
genere Ocleodus o Proscinetes (POYATO-ARIZA & WENZ, 2002; Francisco Poyato-Ariza, comunicazione
personale), non al genere Coelodus come è spesso riportato in letteratura (per esempio, in NARDON, 1990,
TINTORI et al., 1993, RIGO, 1998). Coelodus è un genere che è stato recentemente ridimensionato in modo da
includere solo i picnodonti del Cenomaniano di Comeno/Komen nel Carso Sloveno (POYATO-ARIZA & WENZ,
2002).
Figura 51 - Picnodonte in buono stato di articolazione; esemplare 11333. Sito A, strato 8. Si notino nella bocca le
batterie di denti trituranti.
58
Figura 52 - Resti dentigeri spleniali (mandibolari) disarticolati di un grande picnodonte.
Sito A, strato 4.
Figura 53 - Dentatura vomerina (palatale) di un grande picnodonte, esemplare 10856. Sito A, strato 6.
59
Figura 54 - Piccoli picnodonti dal sito B, A), esemplare 12268 (sottointervallo D2), B) esemplare 12214
(sottointervallo E2), C) esemplare 13464 (sottointervallo B3).
60
ANGUILLIFORMES
Un unico esemplare proveniente dal sito A è probabilmente riferibile ad un’anguilla. Ha un corpo
serpentiforme privo di scaglie evidenti, lunghe pinne dorsale e anale e sembra mancare delle pinne pelviche
(Fig. 55). Purtroppo non è conservata né la testa, importante per la sistematica. Si tratterebbe del più antico
anguilliforme rinvenuto in Italia. I primi anguilliformi apparvero circa 95 milioni di anni fa e nelle associazioni
ittiche del Cenomaniano in Libano sono già molto diversificati.
Figura 55 - L’unico anguilliforme trovato a Polazzo, esemplare 11361, sito A. La terminazione posteriore del corpo è
a sinistra. Sotto: particolare della colonna vertebrale con evidenti i raggi delle lunghe pinne dorsale e anale.
GONORYNCHIFORMES - Chanidae
Alcuni resti dal sito A (Fig. 56) sono stati attribuiti in letteratura (NARDON, 1990; RIGO, 1998) al genere
Parachanos, appartenente al superordine Ostariofisi che include molti degli attuali pesci di acqua dolce, per
esempio i Ciprinidi e i pesci gatto. Tuttavia le basi per tale attribuzione appaiono piuttosto deboli ed uno studio di
dettaglio che smentisca o confermi la presenza di questo genere a Polazzo è auspicabile.
CIPRINIFORMES?
Tra i Teleostei di Polazzo è comune una piccola forma snella, lunga da 2 a 6 centimetri, nuda o con una
copertura di scaglie estremamente sottili. Questi pesci sono stati attribuiti da RIGO (1998) agli Ostariofisi
Cipriniformi sulla base di una comunicazione personale della paleoittiologa Gloria Arratia. Tuttavia, tale
determinazione deve ancora essere confermata dall’identificazione di sicuri caratteri diagnostici. L’assenza di
raggi spinosi nelle pinne e la posizione arretrata delle pinne pelviche (Figg. 57-59) indicano comunque una
relativa primitività all’interno dei Teleostei.
61
Figura 56 - L’esemplare 1378 identificato come Parachanos. Sito A.
Figura 57 – Cipriniformes?, esemplare 12242,
stupendamente conservato.
Sito B, sottointervallo D1.
Figura 58 - Cipriniformes?,
esemplare 12239. Sito B,
sottointervallo
D1.
E’
evidente la fratturazione della
colonna vertebrale.
62
Figura 59 - Cipriniformes?, esemplare 12416. Sito B, sottointervallo C2. Si noti la fratturazione in tre segmenti della
colonna vertebrale e la loro dislocazione, probabilmente dovuta al trasporto e all’avanzato stato di decomposizione dei
tessuti.
ALEPISAURIFORMES - Dercetidae ed Enchodontidae
I membri della Famiglia Dercetidae avevano un corpo sottile estremamente allungato e una grande testa. Le
lunghe fauci erano munite di denti conici ed acuminati che indicano come questi pesci fossero degli attivi
predatori. I Dercetidi ricordano per forma l’attuale aguglia che però è un acantotterigio belonide e quindi è più
evoluta. Il genere Rhynchodercetis (Figg. 60-63) si differenzia immediatamente dal simile genere Dercetis per
il minore allungamento della mandibola, che risulta molto più corta della parte rostrale e appuntita del cranio.
Come l’aguglia, era probabilmente un predatore “scattista”, che si spostava velocemente nelle acque
superficiali delle lagune e del mare aperto.
Rhynchodercetis è il genere di pesce più frequente a Polazzo. Similmente a quanto si riscontra nei
picnodonti, i resti rinvenuti nel sito A appartengono spesso ad esemplari di dimensioni relativamente grandi e
sono costituiti da scheletri molto disarticolati (Fig. 61), indice di un avanzato stato di decomposizione dei
cadaveri prima del seppellimento definitivo.
Due esemplari, uno rinvenuto nello scavo del 2000 nel sottointervallo E2 e l’altro nello scavo del 1999 in
D3, presentano all’interno della cassa toracica, nella posizione in cui si trovava lo stomaco, lo scheletro di un
altro pesce. Si tratta di prede ingoiate poco prima della morte degli esemplari. In particolare, un esemplare di
Rhynchodercetis lungo circa 38 centimetri, ha nella regione compresa tra le pinne pettorali e fino a 2,5
centimetri posteriormente alla pinna dorsale, un pesce la cui identificazione tassonomica non è stata ancora
effettuata, lungo 11 centimetri e perfettamente conservato (Fig. 62). Il pesce è stato ingoiato intero
incominciando dalla testa. Lo studio di questi esemplari e di altri che potrebbero essere rinvenuti negli scavi
futuri, potrebbe indicarci quali fossero le preferenze alimentari di Rhynchodercetis. Nel sottointervallo D2
sono stati rinvenuti anche esemplari di soli pochi centimetri di lunghezza, dal corpo caratteristicamente
ripiegato a formare un circolo. Altri esemplari sensibilmente più piccoli della media sono probabilmente
individui giovanili (Fig. 63).
In letteratura (NARDON, 1990) gli esemplari di Polazzo sono attribuiti alla specie Rhynchodercetis
acutissimus, ma una accurata revisione è necessaria per confermare questa attribuzione specifica alla luce
delle decine di nuovi esemplari provenienti dal sito B.
63
Figura 60 – Rhynchodercetis. A e B), esemplari in ottimo stato di articolazione scheletrica. Si notino la lunga testa,
mandibola molto più corta del rostro, le spine vertebrali perpendicolari al corpo, le piccole pinne e le pile longitudinali
di scaglie. A) esemplare 12252, sito B, sottointervallo D1. B) Esemplare 12053, sito B, sottointervallo E1. C)
scheletro parzialmente disarticolato; esemplare 12294, sito B, sottointervallo E2.
64
Figura 61 - Scheletro molto disarticolato di un grande esemplare (11375) di Rhynchodercetis. Sito A, strato 7. Si
notino a destra numerose vertebre sparse e a sinistra il lungo rostro appuntito.
Figura 62 – Rhynchodercetis con all’interno del corpo una preda (rettangolo contornato in rosso), un pesce ingoiato
intero; esemplare 12169. Nell’angolo basso a sinistra: particolare del pesce ingoiato. Sito B, sottointervallo D3.
65
Figura 63 – A) Esemplare molto giovane di Rhynchodercetis (11651) sito B, sottointervallo D2; B): altro esemplare
giovanile di Rhynchodercetis (13469), sito B, sottointervallo B3.
Gli Encodontidi erano predatori dal corpo piuttosto massiccio e con una grande testa munita di denti
appuntiti di due dimensioni nettamente diverse, rispettivamente molto grandi e piuttosto piccoli (Fig. 64).
Potevano raggiungere i 30 centimetri di lunghezza.
Enchodus è sicuramente presente solo nel sito A (NARDON, 1990; TINTORI et al., 1993; RIGO, 1998) dove
ne sono stati trovati alcuni resti in gran parte disarticolati (Figg. 64-65).
Figura 64 - Enchodus sp. (esemplare 11382). A) Cranio e mandibole disarticolate; B) particolare della mandibola con
i denti. Sito A, strato 5.
66
Figura 65 - Possibile esemplare di Enchodus sp. (11386). Sito A, strato 4.
ACANTHOMORPHA - PERCOMORPHA - Beryciformes
I Bericiformi sono un gruppo di Percomorfi considerato piuttosto primitivo da molti autori. Essi apparvero circa
95 milioni di anni fa e oggi sono rappresentati da un numero relativamente ridotto (11) di famiglie. Nei due siti di
Polazzo i Bericiformi sono gli unici acantomorfi finora identificati e quindi rappresentano i pesci ossei più evoluti
dell’intera ittiofauna. Tutti gli acantomorfi dei siti A e B sono rappresentati da individui di dimensioni ridotte, con il
corpo lungo 1,7-7,5 centimetri (Figg. 66-69). Due esemplari (Figg. 66-67A) provenienti dal sito A sono stati
oggetto di una tesi di laurea (GUIDOTTI, 1983) e attribuiti alla famiglia Holocentridae. Probabilmente rappresentano
un nuovo genere e una nuova specie. E’ significativo che questi due esemplari mostrino maggiori somiglianze con i
bericiformi trovati in Serbia, quindi in una zona che aveva probabili connessioni con la piattaforma AdriaticoDinarica.
Numerosi esemplari di acantomorfi in buono stato di conservazione provenienti dal sito B si sono aggiunti alle
prime segnalazioni. Anche se probabilmente sono in gran parte, se non tutti, riferibili ai Bericiformi, non sono stati
effettuati ancora studi di dettaglio a sostegno di tale identificazione. Per questo l’attribuzione ai Beryciformes è del
tutto preliminare e viene qui riportata tra virgolette.
La struttura generale del corpo, la presenza di circa
8-10 raggi spinosi nella parte anteriore della pinna
dorsale (Fig. 66-68B) e di quattro raggi spinosi, dei
quali il terzo o penultimo è il più robusto, nella pinna
anale (Figg. 66-67A e C) permette di identificare
alcuni di essi come Olocentridi, forse appartenenti
alla stessa specie dei due reperti descritti da Guidotti.
Lo studio di questi esemplari e la verifica se nel sito
A e B ci siano le stesse specie o specie diverse, se si
tratta di nuove forme e in che rapporto sono con le
specie già note, sarebbe un ottimo argomento per
unatesi di dottorato.
Figura 66 - Holocentridae; esemplare 1376. Sito A.
Gli otto generi attuali della famiglia Holocentridae sono tutti marini, vivono in corrispondenza delle
scogliere coralline o di fondali rocciosi nelle regioni tropicali e subtropicali degli oceani Atlantico, Indiano e
Pacifico. L’unica specie vivente nel Mediterraneo orientale è immigrata dal Mar Rosso. Hanno abitudini per lo
più notturne e restano nascosti negli anfratti durante il giorno.
67
Figura 67 – Beryciformes. A) Holocentridae; esemplare 11365, sito A, strato 6. B) Un possibile Holocentridae;
esemplare 1377, sito A. C) Un probabile Holocentridae; esemplare 11893a, sito B, sottointervallo D3.
68
Figura 68 - “Beryciformes”.
A) Un possibile Holocentridae; esemplare 12047, sito B, sottointervallo D3.
B) Un possibile Holocentridae; esemplare 13492, sito B, sottointervallo D2.
C) “Beryciformes”?; esemplare 12055, sito B, sottointervallo E1.
69
Figura 69 - “Beryciformes”?. A) Esemplare 12417, sito B, sottointervallo C2. B) Esemplare
13541, sito B, sottointervallo D3.
TELEOSTEI DA DETERMINARE
La maggior parte dei Teleostei di Polazzo non è stata ancora oggetto di uno studio scientifico, senza il quale
una determinazione attendibile non è possibile. Tra di questi vi sono piccole forme, lunghe pochi centimetri,
dal corpo snello, nudo o coperto di scaglie molto sottili, pinne prive di spine e pinne pelviche in posizione
mediana (Figg. 70-71). Talvolta è presente una evidente, seppure apparentemente non completa, copertura di
scaglie (Fig. 72A). In alcuni esemplari dal sito A la copertura di scaglie è più estesa e spessa (Figg. 72B e C).
Un predatore dai denti piccoli ma appuntiti è rappresentato soltanto dalla testa (Fig. 73A). Infine, raramente si
rinvengono i denti isolati di pesci predatori indeterminati di dimensioni maggiori (Fig. 73B).
Figura 70 - Teleosteo indeterminato (esemplare 12232), esposto in vista dorsale. Sito B, sottointervallo E2.
70
Figura 71 - Teleostei indeterminati. A)
Esemplare 12175; sito B, sottointervallo
E2. B) Esemplare 13539 (a destra)
conservato vicino ad un picnodonte. In
realtà il picnodonte è rimasto nella
controlastra ed è stato riportato
virtualmente alla sua posizione originaria
mediante computer. Sito B, sottointervallo
E2. C) Esemplare 13482, parzialmente
conservato; sito B, sottointervallo D2.
71
Figura 72 - Teleostei indeterminati. A) Esemplare 11899 con parte del corpo ricoperto da scaglie; sito B,
sottointervallo D2. B) Esemplare 11368, con una copertura di scaglie relativamente spesse; sito A, strato 7. C)
Esemplare 11364, con il corpo ricoperto da scaglie; sito A.
72
Figura 73 – A) Testa di un teleosteo
predatore
indeterminato
(esemplare
11615A). Le robuste mandibole, così
come le “mascelle” sono munite di piccoli
denti appuntiti. Sito B, copertura.
B) Dente isolato (esemplare 12056) di un
teleosteo predatore di
dimensioni
relativamente
grandi.
Sito
B,
sottointervallo E1.
73
Invertebrati
Gli invertebrati sono particolarmente rari: alcuni piccoli gamberi (Crostacei Decapodi) e qualche resto
frammentario di rudista.
I crostacei decapodi sono rappresentati nel sito A soprattutto da una mezza dozzina di addomi di gamberi
in cattivo stato di conservazione (Fig. 74). Nel sito B non sono mai stati rinvenuti crostacei.
Figura 74 - Resto di un crostaceo decapode (gambero; esemplare 11293) senza
appendici conservate. Sito A, strato 5.
Una mezza dozzina di resti frammentari di rudiste radiolitidi proviene dal sito A (Fig. 75). Questi
frammenti erano trasportati nell’ambiente di deposizione e conservazione dei pesci da correnti di marea
particolarmente forti o dalle tempeste, ma probabilmente vivevano ai suoi margini, perchè questo ambiente non
era favorevole alla vita.
Figura 75 - Resti di una rudista radiolitide (esemplare 11313), sito A.
74
Tracce fossili
Raramente, nel sito B si trovano anche icnofossili (tracce fossili) di invertebrati. Nel sottointervallo A1 è
presente un particolare tipo di bioturbazione superficiale dovuta probabilmente all’attività di invertebrati di
piccole dimensioni che ricorda le maglie di una rete, con piccoli “nodi” dai quali si dipartono “gallerie” strette
e allungate. E’ simile a Vagorichnus dei depositi lacustri del Giurassico cinese (Giorgio Tunis, comunicazione
personale).
Figura 76 - Tracce fossili sulla superficie di strato (esemplare 11654). Sito B, sottointervallo A1.
75
PROSPETTIVE FUTURE
L’associazione fossile dei due siti di Polazzo riveste un particolare valore scientifico. Essa è costituita da
organismi che raramente si fossilizzano perchè di solito vengono distrutti subito dall’attacco di predatori e
necrofagi, nonchè dai processi putrefattivi.
Per i motivi contingenti, dato che si basa sul lavoro volontario non retribuito e quindi dipende dalla
disponibilità dei volontari, lo scavo nel sito B ha interessato finora solo un limitato spessore dell’intervallo
potenzialmente fossilifero presente in zona, come pure una limitata superficie (circa 10 m2).
La prosecuzione degli scavi potrà consentire il rinvenimento di organismi che non solo sono rari per motivi
di conservazione (tafonomici), ma che erano probabilmente poco rappresentati anche come numero di individui
morti. Si potrebbero trovare, quindi, vertebrati terrestri rari come pterosauri, dinosauri e uccelli. Infatti,
investigando un maggior volume di roccia generalmente aumentano le probabilità di imbattersi negli organismi
meno comuni. Questo si è verificato, per esempio, nell’oramai famosissimo giacimento cretaceo del Liaoning
nella Cina settentrionale.
Data la fine granulometria della roccia, le sue caratteristiche sedimentologiche e lo stato di conservazione
dei fossili ritrovati, ci si può aspettare che questi eventuali rari vertebrati siano conservati nei minimi dettagli e
ci permettano osservazioni di enorme interesse scientifico (strutture dell’epidermide, piumaggio, parti molli,
ecc.).
Già lo studio preliminare delle piante terrestri e dei rettili ha evidenziato una affinità con le regioni
settentrionali, Laurasiatiche, piuttosto che con quelle meridionali, del Gondwana. Studi più comprensivi e
dettagliati permetteranno di chiarire meglio la posizione paleogeografica della piattaforma carbonatica alla fine
del Cretaceo.
I reperti più significativi degli scavi nel sito A sono stati preparati per l’esposizione prima del 1994. I
reperti del sito B necessitano di una preparazione per lo studio e per l’eventuale esposizione. L’adeguata
preparazione del materiale in esame non può essere effettuata che in minima parte dal personale volontario (in
pratica si limita al consolidamento per evitare un deterioramento del fossile) e sarebbe auspicabile fosse svolta
da paleontologi con una sufficiente conoscenza dell’osteologia dei pesci e adeguatamente retribuiti.
L’indisponibilità di fondi per la preparazione del materiale di Polazzo è una delle cause della sua mancata
valorizzazione scientifica e didattico-divulgativa.
L’Amministrazione Comunale di Monfalcone ha deliberato già nel 1997 l’istituzione di una una Sezione
Paleontologica del Museo Civico del Territorio che dovrebbe portare sotto la gestione pubblica, previa
convenzione da una parte con la Soprintendenza dall’altra con i volontari, le collezioni, la strumentazione e il
know-how dell’attuale Museo Paleontologico Cittadino. Questo dovrebbe condurre alla realizzazione di un
percorso espositivo museale incentrato sui reperti già custoditi nelle collezioni del Museo Paleontologico
Cittadino e quindi alla valorizzazione dei reperti del sito di Polazzo. Dato il particolare interesse che i fossili
suscitano a livello popolare e soprattutto nei bambini, sono un formidabile strumento per avvicinare il
cittadino agli aspetti naturalistici del territorio in cui vive, del quale generalmente ignora tutto o quasi, e
fornirgli una dimensione (“profondità”) del tempo. Come è già stato effettuato in contesti simili (per esempio,
a Bolca) sarebbe possibile realizzare una sala espositiva del Museo dedicata interamente al giacimento di
Polazzo, con adeguati pannelli illustrativi e bacheche ostensive dei reperti.
In questo modo si potrebbe fornire al visitatore una panorama completo del significato e dell’importanza
di un giacimento fossilifero nel contesto della storia geologica del territorio, dell’evoluzione del paesaggio e
della vita sul Pianeta. Sempre ammesso che si faccia uno sforzo concreto per comprendere davvero questo
contesto.
Noi speriamo che la valorizzazione dei siti di Polazzo non riguardi solo l’ambito meramente espositivo, ma
che ci sia anche un sostegno all’attività di ricerca scientifica, cioè alla pura e semplice conoscenza. Tuttavia,
quest’ultima non sembra essere considerata di alcuna importanza nell’anno domini 2004.
76
DOVE VEDERE I FOSSILI DI POLAZZO OGGI
Molti fossili del Collio e del Carso sono in custodia presso il Museo Paleontologico Cittadino della Rocca
di Monfalcone, che conserva nelle sue collezioni più di 25.000 reperti. Tra questi vi sono anche tutti gli
esemplari regionali figurati in questo libro.
In realtà, a dispetto del nome, il Museo non è sulla rocca veneziana che sovrasta l’abitato della città, dove
si trova invece una piccola esposizione paleontologica permanente. Nella accezione moderna del termine, un
Museo non è solo una esposizione di cose, ma è il luogo dove una determinata tipologia di oggetti culturali (nel
nostro caso, i fossili) viene custodita e tutelata, è oggetto di studio e di divulgazione scientifica ed è ANCHE
esposta al pubblico. Le collezioni, i laboratori, gli uffici e la biblioteca, quindi la sede del Museo, si trovano in
via E. Valentinis 134.
Alcune vetrine dedicate ai siti di Polazzo si trovano nell’esposizione della Rocca, altre sono state allestite
nella sede del Museo.
Tutti gli organismi figurati in questo libro sono estinti. Noi ci auspichiamo che anche la nostra attività
scientifica e divulgativa non faccia la stessa fine.
RINGRAZIAMENTI
Si ringrazia per la collaborazione e l’aiuto i Proff. Nevio Pugliese e Giorgio Tunis dell’Università di
Trieste, Prof. Frédéric Thevenard dell’Università Claude Bernard di Lione, Dott. Bernard Gomez
dell’Università di Leeds, il Dott. Sandro Venturini dell’A.G.I.P. e il Dott. Davide Rigo. Grazie al Prof.
Daniele Masetti dell’Università di Trieste, per la foto di figura 32. Un sentito ringraziamento anche al Dott.
Guido Guidotti, alla Prof. Angela Buscalioni, al Prof. Francisco Poyato-Ariza, ai Sigg. Duna Moratto, Pino
Pacor, Enrico Pacor, Igor Shchurenko e tutti gli altri volontari del Gruppo Speleologico A.d.F.
Si ringrazia la Soprintendenza ai B.A.A.A.A.S. del Friuli-Venezia Giulia e in particolare la Dott.ssa
Franca Maselli Scotti e il Dott. Andrea Pessina per la collaborazione e la gentile concessione dell’uso delle
immagini dei fossili.
Tutte le foto, dove non specificato altrimenti, sono del Gruppo Speleologico A.d.F. - Museo Paleontologico
Cittadino.
Si rammenta che i fossili in Italia sono patrimonio indisponibile dello Stato e la loro ricerca e
detenzione deve essere autorizzata dalla Soprintendenza competente per territorio (Decreto
legislativo n. 490/1999). Anche il ritrovamento fortuito è regolato in modo restrittivo dalla legge
(art. 87).
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