Dalle periferie al museo - Riviste elettroniche

Philomusica on-line 13/2 (2014)
Dalle periferie al museo
Note sul processo di legittimazione culturale della musica
elettronica da ballo
Paolo Magaudda
Università di Padova
[email protected]
§ L’articolo ricostruisce un particolare
frammento della traiettoria di legittimazione culturale della musica elettronica da ballo. Questo genere musicale è infatti passato da essere considerato una ricorrente componente della
devianza giovanile negli anni Ottanta, a
rappresentare, dagli anni Duemila in
poi, una forma artistica sempre più
riconosciuta in quanto tale. L’evoluzione di questa traiettoria viene raccontata
mettendo a confronto due particolari
fenomeni legati alla musica elettronica
da ballo e riferiti al contesto spagnolo.
Da un lato, il movimento dance noto
come ‘Ruta del Bakalao’ o ‘Ruta
Destroy’, sviluppatosi in Spagna, soprattutto nella provincia valenziana, nel
corso degli anni Ottanta. Da un altro
lato, il festival Sónar di Barcellona,
avviato nel 1994 e diventato il più
importante evento di musica elettronica
a livello mondiale. Questi due esempi
sono considerati per riflettere sul processo di legittimazione artistica e culturale della musica elettronica negli
ultimi trent’anni.
§ The article traces a specific portion
of the trajectory of cultural legitimation of electronic dance music
since the eighties. This trajectory has
consisted in the change from considering dance music as a recurring
dimension of youth deviance, to represent, since the twenty-first century
onward, a fully accepted and recognized form of art. This evolution is
addressed by comparing two particular cultural phenomena related to
electronic dance music both located
in Spain. On the one hand, the dance
movement known as the ‘Ruta del
Bakalao’ or ‘Ruta Destroy’, developed
in Spain, especially in the province of
Valencia, during the Eighties. On the
other hand, the Sónar Festival in
Barcelona, launched in 1994 and
turned into the most important electronic music festival in the world.
These two examples are considered to
reflect on the process of legitimation
of electronic music as form of art over
the last thirty years.
«Philomusica on-line» – Rivista del Dipartimento di Musicologia e Beni culturali
e-mail: [email protected] – Università degli Studi di Pavia
<http://philomusica.unipv.it> – ISSN 1826-9001 – Copyright © 2014 Philomusica on-line – Pavia University Press
Philomusica on-line 13/2 (2014)
N
corso del novecento le musiche popular hanno costantemente
combattuto una di ‘battaglia culturale’ per essere riconosciute come
cultura ‘seria’ e come forme artistiche ‘legittime’ e accettate. L’obiettivo di
questo articolo è quello di tracciare un piccolo frammento della storia del
processo di legittimazione della musica elettronica da ballo. Tale traiettoria ha
visto il passaggio di questo tipo di musica dall’essere una componente
ricorrente della devianza giovanile e del degrado metropolitano degli anni
Ottanta, fino a rappresentare, dagli anni Duemila in poi, una forma artistica
sempre più riconosciuta in quanto tale, con i propri festival, esposizioni in
musei e gallerie, nonché corsi all’università. Una storia della legittimazione
della musica elettronica non è stata ancora scritta; questo articolo intende
dunque offrire un piccolo contributo a questa storia, mettendo a confronto due
particolari fenomeni culturali legati alla musica elettronica da ballo. Da un lato,
il movimento dance noto come ‘Ruta del Bakalao’ o ‘Ruta Destroy’, sviluppatosi
in Spagna, soprattutto nella provincia valenziana, nel corso degli anni Ottanta.
Da un altro lato, il festival Sónar di Barcellona, avviato nel 1994 e diventato non
solo il più importante festival di musica elettronica a livello mondiale, ma anche
uno dei principali epicentri del processo culturale di legittimazione della musica
elettronica come forma d’arte degli ultimi vent’anni.
EL
1. Legittimazione culturale, ‘campi artistici’ e musica elettronica da
ballo
Negli ultimi decenni le scienze sociali che si occupano di cultura hanno messo
in rilievo che il riconoscimento del titolo di ‘artisticità’ (e dunque di ‘valore
culturale’) riservato a determinati generi culturali non dipende solo dagli
aspetti estetici, ma è il risultato di vari processi che coinvolgono spesso fattori
di ordine sociale, che influiscono su come certi ‘oggetti culturali’ vengono
percepiti e valutati (GRISWOLD 1994). Il sociologo dell’arte Howard Becker
(1982) ha per esempio mostrato che il valore delle opere d’arte dipende da una
serie di convenzioni culturali proprie dei ‘mondi dell’arte’ di appartenenza,
tanto nel caso della pittura classica di Leonardo quanto del rock classico dei
Rolling Stones. Un altro importante sociologo culturale, Pierre Bourdieu
(1993), ha messo in rilievo che l’attribuzione di valore artistico in determinati
‘campi’ culturali è il frutto di vere e proprie ‘lotte’ per affermare l’autonomia di
taluni stili o generi innovativi rispetto a quelli tradizionalmente riconosciuti.
Inoltre, egli ha mostrato che, proprio per tale ragione, il processo di attribuzione di valore artistico nei confronti di determinati stili può essere letto come
un processo che si evolve attraverso forme di consacrazione collettiva e che si
concretizza nella conquista di prestigio all’interno di un particolare ‘campo
artistico’ di riferimento. Entrambi questi studiosi, pur con sfumature e
approcci differenti, hanno contribuito a rendere evidente che l’attribuzione di
un certo valore artistico, da parte di critica e pubblico, dipende direttamente
dall’evolversi di processi collettivi di attribuzione di significati sociali rispetto
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a taluni oggetti culturali, che spesso, in una fase iniziale della propria storia,
erano considerati ‘scadenti’, ‘non artistici’ o solamente legati alla sfera del
divertimento superficiale.
Ragionando sui processi di legittimazione artistica, il caso della popular
music ha rappresentato nel corso del Novecento, con le proprie molteplici e
differenti declinazioni, un esempio paradigmatico. Pensiamo in termini generali a come il rock’n’roll di Elvis Presley e ancor più il pop dei Beatles si siano
trasformati da passatempo (a volte anche sconveniente) degli adolescenti degli
anni Cinquanta e Sessanta a forme d’arte riconosciute da Università, Conservatori e musei. Rispetto allo specifico contesto italiano, il sociologo Marco
Santoro (2002; 2010) ha, per esempio, ricostruito il processo di legittimazione
della ‘canzone d’autore’ a partire dal traumatico suicidio del cantante Luigi
Tenco durante il festival di Sanremo del 1967: in seguito a questo tragico
evento una parte della musica ‘leggera’ e di intrattenimento italiana iniziò un
processo di legittimazione artistica che ha portato, a distanza di tre decenni,
alla consacrazione di figure come Fabrizio De Andrè e Lucio Dalla al ruolo di
‘poeti’ e ‘artisti’. Più recentemente, invece, soffermandosi sul caso della musica
rock indipendente italiana, è possibile osservare come l’affermazione di gruppi
musicali possa essere letto – adottando una cornice teorica ispirata a Pierre
Bourdieu (cfr. MAGAUDDA 2009) – anche come un percorso di ‘istituzionalizzazione’ di tale ambito musicale, che si è sviluppato attraverso l’evoluzione di
nuove ‘istituzioni’ come festival, premi ed eventi, oppure attraverso la
‘conquista’ da parte di queste musiche prima marginali di un ruolo centrale
nelle istituzioni musicali della tradizione popular, come nel caso del festival di
Sanremo.
Come è stato ricorrente anche nel caso di altri generi musicali popular
sviluppatisi nel corso del Novecento, anche la musica elettronica da ballo è
diventata oggetto di una particolare traiettoria di legittimazione culturale, che
possiamo considerate tuttora in divenire. Sebbene, infatti, sia possibile ricondurre le origini della musica elettronica alle sperimentazioni ‘colte’ degli anni
Cinquanta e Sessanta (come quelle di Pierre Henry, Karlheinz Stockhausen e
Luigi Nono), è indubbio che l’influenza preponderante sia quella che rimanda
la musica elettronica alle musiche da ballo e del divertimento nate e consumate in ambiti marginali della società: i locali da ballo per adolescenti degli anni
Cinquanta, le discoteche e le balere degli anni Sessanta e la discomusic degli
anni Settanta (cfr. SHAPIRO 2005). I tratti socialmente più caratteristici della
musica elettronica da ballo, infatti, affondano le proprie radici proprio nella
disco music e nel mondo dell’edonismo delle discoteche e del divertimento
notturno. Ebbene, la disco music rimase, almeno fino alla fine degli anni
Settanta, un fenomeno non solo di nicchia, ma spesso circoscritto a gruppi
sociali marginali, eccentrici o considerati apertamente devianti, come nel caso
delle comunità omosessuali dei grandi centri urbani statunitensi negli anni
Settanta e, successivamente, del proletariato nero (spesso anch’esso omosessuale) che affollava i capannoni in disuso nella Chicago in via di deindustria-
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lizzazione dove, nei primi anni Ottanta, prese avvio il movimento della house
music (cfr. REYNOLDS 1998, trad. it. 2000, pp. 30 e segg.).
Non è un caso che le prime forme di approfondimento culturale attorno al
fenomeno della ‘musica disco’ siano provenute da ambienti intellettuali
politicizzati, spesso legati alla cultura omosessuale e ai diritti civili, come nel
caso del noto articolo In Defense of Disco di Richard Dyer (1979). Sia la
collocazione sia le argomentazioni dell’articolo di Dyer sono altamente
significative per comprendere la traiettoria attraverso la quale la disco music è
entrata in quegli anni nel dibattito pubblico. In Defense of Disco apparve,
infatti, in un numero di «Gay Left», una rivista più orientata alle questioni
politiche che ai temi musicali: insomma una rivista pienamente radicata nelle
controculture e nell’attivismo politico. Tra i principali argomenti sollevati da
Dyer vi era una difesa della disco music rispetto alla diffusa accusa di essere
un’espressione dell’ideologia capitalistica, sovvertendo così la perdurante idea
– radicata nella tradizione della Scuola critica di Francoforte (ADORNO –
HORKHEIMER 1944; ADORNO 1946) – secondo la quale le musiche popular, e
soprattutto le musiche da ballo, non posseggano un valore artistico e producano, anzi, annichilimento e povertà culturale.
Peraltro, a rimarcare ancor di più le radici culturalmente ‘umili’ della musica disco possiamo considerare il modo come il fenomeno della disco music
divenne noto a livello internazionale alla fine degli anni Settanta, ovvero
attraverso un film hollywoodiano ‘da cassetta’: La febbre del sabato sera
(Saturday night fever, John Badham 1977). Sebbene il film contribuì a
popolarizzare la disco music a livello globale, esso ne mise in rilievo gli aspetti
più superficiali, e non aiutò così a contribuire alla costruzione di una connotazione di artisticità attorno a questo genere musicale. Rispetto alla diffusione
della disco music nel contesto italiano, uno dei documenti più interessanti e
ricchi di riflessioni è costituito da uno dei primi libri in assoluto sul fenomeno
della disco music, intitolato Disco Music (BARONI – TICOZZI 1979), edito
dall’editore Arcana (ancora una volta una collocazione che era diretta espressione della scena controculturale degli anni Settanta). Anche nel nostro paese
la portata socio-culturale della musica da ballo fu dunque inizialmente messa
a fuoco in primo luogo all’interno delle aree intellettuali più radicali, critiche
tanto nei confronti della mercificazione capitalistica della musica (rappresentata dalle nascenti grandi discoteche), sia rispetto all’atteggiamento ‘bacchettone’ nei confronti delle nuove tendenze sociali del ballo, che caratterizzava
invece gli esponenti culturali della sinistra istituzionale.
A livello internazionale sul finire degli anni Ottanta, grazie all’esplosione
dei fenomeni house e techno si espanse la scena dei club e iniziò a prendere
forma quella che è stata definita come la club culture. Sebbene i club fossero
luoghi socialmente più accettati rispetto ai magazzini abbandonati in cui si
diffusero le prime forme di house e techno, questi spazi non possedevano
certo una connotazione ‘artistica’ e rimasero associati alle tendenze edonistiche del divertimento (o tutt’al più dell’impresa economica; cfr. TORTI 1997).
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L’analisi accademica più dettagliata e influente del mondo dei club, tra la fine
degli anni Ottanta e gli inizi degli anni Novanta, è stata senza dubbio la ricerca
etnografica dalla sociologa dell’arte Sarah Thornton (1995), che ha messo a
fuoco alcuni dei processi culturali ed artistici nel momento di passaggio tra la
scena dei nightclub a quella dei rave party illegali in Inghilterra agli inizi degli
anni Novanta. Questa ricerca ha mostrato efficacemente che frequentare
questi ambienti non fosse solo un divertimento edonistico, ma che le discoteche fossero invece un contesto significativo in cui osservare sia alcuni dei
meccanismi tipici della stratificazione sociale, sia il modo in cui estetiche e
forme artistiche appaiono indissolubilmente legate a processi sociali e
culturali più generali.
Nel periodo che va dagli inizi degli anni Novanta ai primi del Duemila
abbiamo invece assistito ad una svolta rilevante nel percorso di legittimazione
della musica da ballo come espressione artistica e come oggetto di valore
culturale. La musica elettronica da ballo, insieme ai creatori (DJ e produttori),
ha infatti iniziato a essere ospitata in contesti artistici e ad essere raccontata e
accettata come una delle faglie dell’avanguardia artistica digitale contemporanea. Così, nell’arco di circa tre lustri, la musica elettronica da ballo ha smesso
di essere considerata solo come un ingrediente del divertimento edonistico
fine a se stesso – spesso relegato ai margini dell’esperienza sociale o addirittura alla devianza giovanile (o tutt’al più alla sensibilità delle controculture), ma
ha iniziato ad ottenerne un vasto e convinto riconoscimento estetico e
culturale. Nelle pagine seguenti, questo articolo racconta un particolare
frammento di questo processo di riconoscimento, facendo luce su un particolare fenomeno musicale, la cosiddetta Ruta del Bakalao o Ruta Destroy, un
movimento dance sviluppatosi nelle periferie della città spagnola di Valencia
nella seconda metà degli anni Ottanta. Questa scena musicale sarà poi messa
in relazione con un fenomeno musicale successivo, divenuto cruciale
nell’evoluzione del profilo artistico della musica elettronica, ovvero il festival
Sónar di Barcellona, nato nel 1994 e divenuto negli anni Duemila il principale
evento internazionale in cui la musica elettronica ha iniziato ad essere raccontata come un oggetto dalle rilevanti implicazioni estetiche e artistiche.
2. Musica dance, devianza e repressione negli anni Ottanta: la Ruta
Destroy
La Ruta Destroy è stato uno dei primi e più vasti movimenti giovanili legati
alla musica elettronica da ballo in Europa. La Ruta si sviluppò infatti a partire
dagli inizi degli anni Ottanta nella regione di Valencia, la parte centroorientale della penisola iberica, anticipando varie altre note scene seminali
della musica elettronica europea, come quelle di Ibiza o di Manchester. Questo
movimento musicale fu caratterizzato da una rilevante e diffusa frequentazione, da parte di decine di migliaia di giovani spagnoli, di diverse grandi
discoteche collocate lungo la statale di El Saler, che dal centro della città di
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Valencia porta verso il sud della provincia. Questo movimento musicale può
essere considerato un equivalente valenciano della nota movida madrileña, nata
negli stessi anni e anch’essa alimentatasi dell’entusiasmo e del sentimento di
libertà delle generazioni giovanili successive alla dittatura franquista. Tuttavia,
il movimento valenziano fu differente rispetto a quello della capitale spagnola,
poiché fu carente nell’articolare, accanto alla dimensione edonistica, un nesso
con la produzione culturale ‘colta’ di registi, poeti e scrittori o anche con il rock
autoctono cantato in spagnolo (cfr. FOUCHE 2004). Anche per il suo antiintellettualismo, nonostante si sia trattato di un movimento sorprendentemente
grande e articolato, non esiste a oggi nessuna vera e propria ricostruzione
storica di questa scena musicale, men che meno con una prospettiva scientifica.
A dispetto della vasta notorietà ottenuta nei media alla fine degli anni Ottanta,
nei due decenni successivi non si sentì più parlare di questo fenomeno: come ha
scritto recentemente un giornalista catalano di «El Pais»
a poco a poco, la Ruta Destroy, ovvero il circuito dei locali dove si proponeva
questa musica, è diventata una leggenda sussurrata tra le differenti generazioni: i
giovani volevano sapere in che cosa consistessero queste ‘feste’, il nome dato alle
sessioni musicali lunghe 72 ore, che coinvolgevano migliaia di devoti a ogni fine di
settimana (OLEAQUE 2011)
In effetti, l’aspetto più ricorrente nel descrivere la Ruta del Bakalao era il
fatto che in questo circuito, costituito da almeno una ventina di locali, tra
enormi discoteche e piccoli pub, il divertimento del fine settimana si moltiplicò temporalmente, allungando il week end fino a durare 72 ore: per quattro
giorni interi, che iniziavano il giovedì e si prolungavano fino alla mattina del
lunedì successivo migliaia di giovani facevano la spola tra le differenti
discoteche, che alternavano stili, situazione e ritmi musicali tra loro. Un’altra
delle caratteristiche principali della Ruta Destroy riguardava il numero di
locali da ballo e i ritmi con i quali si sviluppava la loro frequentazione. Nel
corso degli anni Ottanta, la periferia di Valencia (una città di circa 700.000
residenti) era infatti densa di grandi discoteche, alcune delle quali costituivano gli snodi principali della Ruta, come il Barraca, la Spook Factory, il
Chocolate, l’Espiral e il NOD. L’epicentro del circuito da ballo fu la discoteca
Barraca, che dal 1982 iniziò a introdurre i suoni pop elettronici della new wave
(come The Cure, Depeche Mode, Smiths, Tears For Fears, Ultravox e Soft
Cell), e, successivamente, nella seconda parte del decennio, i suoni house e
techno attraverso la mediazione inglese. Una delle particolarità del Barraca
riguardava gli orari: fu, infatti, questa una delle prime grandi discoteche in
Europa ad aprire al pubblico direttamente alle sei della mattina di domenica,
contribuendo in questo modo ad allungare i tempi del ballo del fine settimana
e ad aprire le porte al fenomeno del cosiddetto after-hour.
Non deve stupire che il movimento della Ruta Destroy si caratterizzò anche per un vasto uso di droghe e di sostanze illecite. Come ricorda il sito
www.rutadestroy.com – un forum web di appassionati, che ha raccolto in anni
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recenti alcune testimonianze e ricostruzioni dirette di quel periodo – la prima
metà degli anni Ottanta coincise con la diffusione della mescalina estratta dal
peyote, che si poteva acquistare a circa 3.000 pesetas di allora (una ventina di
euro di oggi); successivamente si assistette alla diffusione delle anfetamine,
per giungere poi all’invasione dell’ecstasy sul finire degli anni Ottanta. Anche
per tale ragione, la Routa Destroy divenne, alle soglie degli anni Novanta, un
vero e proprio problema sociale, legato al disagio giovanile e il movimento
musicale iniziò a essere identificato con comportamenti devianti delle nuove
generazioni, legati al consumo eccessivo di alcool, alle droghe e – trattandosi
di un fenomeno itinerante tra vari locali differenti – agli incidenti di auto del
fine settimana.
A partire all’incirca dal 1990, il movimento della Ruta Destroy divenne
sempre più partecipato e assunse una portata geografica sempre più ampia,
espandendosi nelle regioni vicine di Alicante, Zaragoza e fino a Madrid.
Contemporaneamente, il fenomeno iniziò a essere descritto in televisione in
termini allarmanti, come nel caso di un noto documentario trasmesso nel 1993
nell’ambito della trasmissione 24 horas su Canal Plus, in cui veniva data
grande enfasi all’uso delle droghe come problema giovanile. La questione
divenne talmente rilevante nel dibattito pubblico che nel Novembre 1993 –
come riportò il quotidiano «El Pais» (1993a) – fu avviata un’iniziativa
repressiva di polizia nei confronti dei giovani che frequentavano la Ruta
Destroy: una vera e propria campagna di repressione del fenomeno a livello
nazionale per limitare la frequentazione delle discoteche, il consumo di droga
e gli incidenti stradali. Sempre «El Pais» (1993b) scrisse che nell’arco di due
fine settimana furono arrestati ben 1.052 giovani e avvennero più di 100
incidenti stradali legato alla Ruta.
Come conseguenza di questo atteggiamento repressivo e della pessima
reputazione che questo movimento vide svilupparsi attorno a esso, nel giro di
pochi anni il fenomeno si ridusse considerevolmente. Alla fine degli anni
Novanta nella città di Valencia della Ruta Destroy rimaneva solo un vago
ricordo, «una leggenda sussurrata da generazione in generazione».
Una delle conseguenze della repressione e della cattiva fama di questo
movimento non fu solo la sua repentina scomparsa, ma anche la mancanza di
ricostruzioni storiche, ricerche e di approfondimenti critici attorno a questo
movimento musicale dal profondo impatto sociale. Negli ultimi anni, come in
molti casi simili, l’interesse nei confronti della Ruta è stato riportato alla luce
da un documentario intitolato 72 horas... y Valencia fue la ciudad, prodotto
nel 2008 da Juan Carlos García e Óscar Montón e contenente interviste ad
alcuni organizzatori e DJ dell’epoca e molto materiale video d’archivio
originale. A seguito di questo documentario, solo alcuni articoli di giornale
(come quello uscito nel 2010 su «El Mundo» e significativamente intitolato Le
ceneri della Ruta Destroy; Perez 2010) e qualche sito di appassionati e DJ (e
in particolare quello del negozio di dischi online Rutadestroy.com) hanno
mantenuto vivo il ricordo del fenomeno.
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Questa sintetica ricostruzione di alcuni degli aspetti principali che hanno
caratterizzato la Ruta Destroy rende evidenti almeno tre dimensioni del ruolo
sociale e culturale che ebbe la musica elettronica da ballo in Spagna negli anni
Ottanta. In primo luogo, la Ruta si sviluppò ‘dal basso’, a partire dall’offerta
musicale di alcune discoteche e dalla partecipazione di migliaia di giovani. In
secondo luogo, il proliferare di questa cultura del ballo non ottenne alcun
riconoscimento istituzionale e divenne, anzi, uno dei principali simboli del
degrado giovanile e, in quanto tale, fu anche oggetto di provvedimenti
repressivi. Infine, anche a causa di non essere stato un movimento di portata
internazionale e legato al turismo, come nel caso di Goa o Ibiza (D’ANDREA
2007), la Ruta non diventato oggetto di alcun lavoro di documentazione e men
che meno è diventato un caso di approfondimento da parte di studiosi di
movimenti musicali. Solo oggi, a distanza di quasi trent’anni, e con una prospettiva prevalentemente nostalgica, iniziano a emergere le prime forme di
interesse nei confronti di quel peculiare momento della storia della musica
dance spagnola, a cui – come accenneremo più avanti – è stata dedicata un
esposizione nel 2013 nel museo dell’illustrazione di Valencia.
È ben differente, come adesso vedremo, l’attenzione generata alcuni anni
dopo la fine della Ruta da un altro evento spagnolo legato alla musica elettronica da ballo il festival di musica elettronica Sónar di Barcelona, oggigiorno
uno dei più importanti eventi di musica elettronica a livello globale, nonché
una delle manifestazioni in cui la musica elettronica ha iniziato a essere considerata come una forma artistica riconosciuta.
3. Dalla periferia al museo: il festival Sónar e la musica elettronica
come arte
Proprio al culmine degli anni in cui la Ruta Destroy valenciana venne identificata con un fenomeno di devianza giovanile e con l’uso delle droghe, a poche
centinaia di chilometri da Valencia, iniziò a svilupparsi l’idea di un evento che,
nell’arco di qualche anno, è sarebbe poi diventato il più importante festival al
mondo della musica elettronica, il Sónar. Organizzato nella città di Barcelona
a partire dal 1994, il Sónar non solo a partire dal 2000 ha assunto il ruolo di
principale punto di riferimento del genere, diventando così il modello di
riferimento per i festival di musica elettronica di mezzo mondo, ma questo
festival anche ha giocato un ruolo centrale nell’intero processo di legittimazione culturale e artistica della musica elettronica dance. Il Sónar ha infatti preso
avvio a metà degli anni Novanta, un momento in cui la musica elettronica era
ancora pesantemente identificata con gli estremi edonistici della ‘generazione
ecstasy’ (cfr. in Italia, DE LUCA 1996); anche per il suo ruolo di riferimento a
livello internazionale, il festival ha contribuito a trasformare la percezione
della musica elettronica dance, che nel frattempo è divenuto un oggetto
artistico ed estetico sempre più spesso ospitato in gallerie di arte contemporanea e nei musei. A livello simbolico possiamo probabilmente assumere come
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P. Magaudda – Dalle periferie al museo
passaggio definitivo la mostra Sonic Process: A New Geography of Sound,
realizzata nel 2003 dallo spazio di arte contemporanea Centre Pompidou di
Parigi, ma proposta in anteprima nel 2002 proprio all’interno degli spazi
espositivi del Sónar presso il Museo d’Arte Contemporanea di Barcellona (cfr.
Processo Sonico 2003).
Nei primi anni del festival, come ricorda una delle organizzatrici del Sónar – intervistata dall’autore nel corso di una ricerca sociologica sui festival
musicali in Europa1 – la percezione che circondava la musica elettronica da
ballo era particolarmente negativa, proprio a causa dell’idea dominante che
associava la musica elettronica soprattutto con il consumo di droghe:
Direi che la fase più dura per noi sono stati gli anni Novanta. Dal 2000 in poi la
gente ha cominciato a dissociare la droga dal discorso musica elettronica a livello
soprattutto mediatico. Devo dire che i media hanno aiutato molto, perché i media
a un certo punto – grazie a Dio! – si sono stancati di accusare la musica elettronica di provocare grandi disgrazie come a suo tempo si era accusato il rock. E
hanno capito che è un genere musicale colto, preparato, con una base, con dei
musicisti e che non erano solo quattro macchinine (Georgia Taglietti, Ufficio
Stampa Sónar, intervista con l’autore).
Non è dunque un caso che il sottotitolo del festival, fin dalla sua prima
edizione, non contenesse un riferimento esplicito alla musica elettronica, ma
fosse invece quello di ‘Festival of Advanced music and multimedia arts’.
Come ha notato il musicologo Luca Marconi (2012), quella di non fare
riferimento diretto alla definizione di ‘dance music’ è una strategia ricorrente
tra i festival di musica elettronica, che riflette la tendenza da parte di organizzatori a prendere le distanze dalle categorizzazioni ricorrenti di ‘musica
elettronica’ o ‘musica techno’, in parte ancora stigmatizzate dai media e nel
senso comune.
La prima edizione del festival fu organizzata nel 1994 con l’appoggio di
istituzioni nazionali e locali e con la possibilità di utilizzare come sede
principale il Centre de Cultura Contemporània de Barcelona (CCCB), una
allora recentissima struttura espositiva, situata nel centro storico della città.
Durante le prime edizioni del festival, il Sónar iniziò a caratterizzarsi per la
presenza di due distinte sensibilità musicali, che riflettono altrettante tradizioni caratteristiche della musica elettronica. Per un verso ritroviamo una
tradizione legata alla musica elettronica sperimentale e d’avanguardia, che
affonda le proprie radici nel lavoro di compositori ‘colti’ come Karlheinz
Stockhausen e Luciano Berio e che si diffuse commercialmente a partire dagli
anni Settanta con il successo di gruppi come Kraftwerk e di artisti come Brian
I materiali di ricerca del festival Sónar provengono dalla una ricerca europea EURO-FESTIVAL
- Art festivals and the European public culture (2008-2010). La parte della ricerca dedicata ai
festival musicali è stata realizzata dall’Istituto Cattaneo di Bologna, sotto la responsabilità
scientifica di Marco Santoro (Università di Bologna). Alba Colombo (Universitat Oberta de
Catalunya, Barcelona) ha collaborato ad alcune fasi della raccolta di dati utilizzati in questo
articolo (per una visione più generale della ricerca sui festival europei, cfr. GIORGI et al. 2011;
SANTORO 2013).
1
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Eno. Per un altro verso, invece, una parte del Sónar rimandava direttamente
alle culture del ballo o alla dance culture, sebbene con la necessità di differenziarsi completamente dall’immaginario sociale legato alla Ruta Destroy. Il
Sónar ha così sviluppato estetiche e modalità finalizzate a sedimentare un
profilo artistico attorno alla musica elettronica, ma mantenendo una dimensione radicata nel divertimento e nelle forme di consumo musicale di tipo
edonistico.
Una delle principali strategie elaborate da parte del Sónar fin dai primi
anni è stata quella di strutturare la programmazione attorno a una particolare
differenziazione di tempi, luoghi e contenuti. Il festival ha così proposto una
versione ‘di giorno’ (‘by day’), organizzata presso gli spazi espositivi del CCCB
e del MACBA (Museo d’arte contemporanea di Barcelona), nel centrale
quartiere del Raval (a poche centinaia di metri dalla Rambla), e dedicata agli
eventi musicali più piccoli, più ricercati dal punto di vista ‘artistico’, oltre che
alle esposizioni e agli incontri tra i professionisti del settore. Vi è poi una
versione ‘notturna’ (‘by night’), organizzata negli ultimi anni presso gli enormi
spazi della fiera della città, situata in una zona periferica e dedicata più
esplicitamente alla musica da ballo e agli eventi di maggior richiamo di
pubblico.
Il percorso di evoluzione del festival può essere schematizzato in tre periodi principali. Un primo periodo iniziale (1994-1997), che rappresenta la
fase di avvio e di assestamento, è quello durante il quale il festival ha assunto
una propria identità e ha consolidato alcune delle principali collaborazioni
organizzative e istituzionali. Un secondo periodo (1998-2002), è stato caratterizzato da una fase di notevole espansione, durante il quale si è assistito a un
aumento consistente di pubblico e del budget a disposizione del festival; in
questa fase il Sónar ha raggiunto una indiscussa centralità nel panorama
mondiale della musica elettronica, che si è concretizza anche nell’espansione
internazionale, attraverso l’organizzazione di eventi a marchio ‘Sónar’ in molti
paesi stranieri. Il terzo periodo (2003-oggi) si è infine contraddistinto per una
stabilizzazione del numero di pubblico, mentre le innovazioni introdotte
hanno riguardano soprattutto la creazione di nuove sezioni musicali, l’organizzazione di ulteriori eventi internazionali e la sperimentazione dei linguaggi
estetici del festival. Nell’arco degli anni il Sónar è così passato dal radunare
circa 5.000 spettatori nelle prime edizioni ai circa 80.000 biglietti venduti
delle ultime edizioni (cfr. OLIVERAS 2008; MAGAUDDA 2013).
Come osserveremo più dettagliatamente nel prossimo paragrafo, il successo del Sónar, relativamente all’apprezzamento sia del pubblico sia della
critica musicale internazionale, si è andato evolvendo insieme a un effettivo
riconoscimento e supporto da parte delle istituzioni pubbliche. È anche grazie
a tale riconoscimento istituzionale che il festival è stato in grado di gestire in
modo autonomo le proprie scelte organizzative e culturali, così da creare un
evento in grado di ‘negoziare’ in modo efficace tra, da un lato, le aspettative
culturali e artistiche delle istituzioni e dei media e di parte del pubblico e,
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P. Magaudda – Dalle periferie al museo
dall’altro, la richiesta di una dimensione edonistica e legate al divertimento, che
caratterizza la maggioranza dei partecipanti agli eventi di elettronica dance.
4. Strategie di legittimazione, ‘cornici’ di consumo e autonomia
culturale del Sónar
Ma quali sono gli aspetti principali attraverso i quali il Sónar è riuscito a
‘ribaltare’ la percezione della musica elettronica da ballo? Una delle principali
strategie attraverso le quali il Sónar è riuscito a costruire una cornice di
fruizione della musica elettronica coerente con quello di un consumo ‘artistico’
(oltre che edonistico), è ben rappresentata dalla strutturazione dei tempi e
degli spazi del festival. L’aspetto attraverso cui questa gestione di spazi e
tempi si è manifestata in modo più evidente riguarda la distinzione già
considerata tra il ‘Sónar By Day’ e il ‘Sónar By Night’, due dimensioni del
festival che si svolgono in spazi e tempi differenti e che, anche per tale ragione,
contribuiscono a definire differenti modelli di partecipazione del pubblico e
dunque un diverso tipo di aspettative culturali attorno alla musica elettronica.
Questa principale divisione dell’offerta del festival riproduce e articola
ulteriormente uno dei confini simbolici più radicati nella cultura della musica
elettronica, ovvero quello che riconosce, da un lato, una tradizione elettronica
colta e sperimentale, connotata in senso intellettuale e artistico e, dall’altro, la
tradizione più popular, legata al mondo delle discoteche, delle periferie delle
città post-industriali e più esplicitamente connotata da un atteggiamento di
consumo edonistico da parte del pubblico. Non si tratta solo di una differenza
tra contenuti e artisti invitati, quanto di un mutamento degli spazi e dei tempi
del consumo: ascoltare musica di giorno, in un luogo generalmente deputato
alle esibizioni artistiche, ha senza dubbio rappresentato una rottura nei
modelli di riferimenti e nella percezione della musica elettronica da ballo. Da
un certo punto di vista, la capacità del Sónar di coniugare queste due dimensioni – artistica ed edonistica – è stata cruciale per decostruire il confine
esistente tra due mondi separati, potendo così mescolare nelle due sezioni del
festival famosi DJ usualmente acclamati nelle discoteche più affollate (come
Jeff Mills o Richie Hawtin) insieme a musicisti abituati a presentare i propri
lavori tra ristrette cerchie di ascoltatori appassionati di musica elettronica
colta (Alva Noto o Ryoji Ikeda).
Questa strategia di differenziazione non solo in termini dell’offerta musicale, ma anche del tipo di spazi e di contesti di consumo proposta, è stato
certamente uno dei dispositivi centrali nelle strategie del festival per tenere
insieme un discorso ‘artistico’ e una modalità di fruizione assimilabile alla
musica ‘da ascolto’ con il contesto tipico della musica elettronica da ballo, che
prevede non solo l’intera notte come arco temporale di riferimento, ma anche
l’uso espressivo del corpo come attività principale, nonché l’assunzione di
droghe come tratto caratteristico della fruizione. Durante i giorni del festival,
la dimensione artistica del festival convive, infatti, con i tipici comportamenti
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edonistici della musica da ballo e in primo luogo l’uso di droghe. Come ha
scritto un giornalista musicale statunitense a proposito dell’uso di droghe
presso il Sónar:
Al pubblico del Sónar piace consumare droghe. Un sacco. Certo, forse io sono
influenzato dalle mie radici puritane americane; ma che fine ha fatto la pratica di
andare in bagno maliziosamente, o anche di appartarsi in un angolo buio per
ingerire le sostanze portate con sé o acquisite sul posto? Forse gli europei sono
davvero più liberi rispetto a queste cose, perché ovunque si guardasse, c’erano
persone di tutte le età che sfacciatamente “tiravano” e ingerivano cose. Certo,
questa non vuole essere una constatazione allarmista, del tipo che: “le droghe
erano fuori controllo” al Sónar. Al contrario. La maggior parte delle persone,
eccetto l'idiota di turno o il cafone antipatico, stavano festeggiando in modo
responsabile. Non era l’uso di droghe a essere sorprendente, ma piuttosto è stata
l'apertura con cui tutto ciò avveniva che ha attirato la mia attenzione (SHAWN 2012).
Un secondo aspetto di significativo rilievo attraverso il quale il Sónar è
riuscito a costruire la musica elettronica come un fenomeno culturalmente
‘legittimo’ riguarda l’uso, nella versione ‘by day’, di spazi esplicitamente
connotati dal punto di vista artistico. Fin dai primi anni, infatti, il Sónar ha
avuto a disposizione quasi interamente le sedi dei due centri di arte moderna e
contemporanea della città, tra i più noti in Europa: il CCCB e il MACBA. Non
vi è dubbio che la possibilità di utilizzare gli spazi di queste due aree espositive
è stata cruciale per costruire una cornice di consumo connotata artisticamente, nonché per proporre, almeno in parte, un modello di fruizione della musica
in grado di mettere in rilievo gli aspetti di artisticità e autorialità della musica.
Vi sono anche altri aspetti hanno contribuito a creare le condizioni favorevoli
affinché il Sónar potesse proporre un modello di fruizione differente rispetto gli
stereotipi diffusi attorno alla musica elettronica, appiattiti su un consumo
edonistico e deviante. Senza dubbio, l’appoggio istituzionale ricevuto fin dai
primi anni da parte delle principali istituzioni politiche locali ha rappresentato
una condizione essenziale per l’evoluzione e la legittimazione del festival.
L’appoggio ricevuto dalle istituzioni cittadine e regionali al progetto del Sónar è
stata il frutto della necessità, da parte di Barcellona, di ricercare una nuova
proiezione turistica internazionale. Barcellona aveva avviato un processo di
internazionalizzazione nel 1992, grazie all’organizzazione dei Giochi olimpici, e
nel corso degli anni ’90 aveva l’esigenza di costruire e sviluppare nuove
attrattive culturali e turistiche per un pubblico internazionale. La capacità del
festival di costituire un offerta allettante per il turismo giovanile internazionale
è stato senza dubbio un aspetto centrale nel successo del festival e nell’appoggio
da esso ricevuto dalle istituzioni.
A livello istituzionale, uno dei principali sostenitori del festival nei suoi
primi anni è stato Ferran Mascarell, un Assessore alla Cultura che ha giocato
un ruolo centrale non solo nel sostegno al Sónar, ma anche come intellettuale
e teorico della necessità di trasformare Barcellona in uno snodo della cultura
contemporanea globale (cfr. MASCARELL 2007). Senza dubbio, l’appoggio da
parte di Mascarell e delle istituzioni politiche locali, è stato importante nel
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creare le condizioni per nuove forme di offerte culturali e di attrazione
turistica della città, giocando così un ruolo fondamentale nella costruzione
dell’identità artistica del festival.
Vi è infine da segnalare un’ultima dimensione strutturale che ha permesso
al festival di sviluppare un proprio discorso legittimante attorno al fenomeno
della musica elettronica. Si tratta dell’autonomia artistica garantita al festival
da un modello di business basato sugli introiti provenienti dal mercato (e
dunque sponsor privati e biglietti venduti), piuttosto che sulle sovvenzioni
pubbliche. La quasi totale indipendenza economica rispetto alle istituzioni
pubbliche ha così permesso al festival non solo di disporre di un alto grado di
libertà per quanto riguarda le proprie scelte artistiche, ma anche di poter
negoziare con forza le proprie scelte logistiche rispetto alle istituzioni pubbliche. In sintesi, possiamo notare come il processo di legittimazione artistica
della musica elettronica da ballo attraverso il Sónar sia difficilmente scindibile
dal fatto che, nel corso degli anni, questo genere musicale sia divenuto un
tassello all’interno dei meccanismi dell’economia capitalistica del divertimento e del turismo.
Questo insieme di aspetti contribuisce a mettere in luce alcune delle principali condizioni che hanno permesso a un festival come il Sónar di divenire
una delle principali e autorevoli ‘istituzioni culturali’ della musica elettronica
da ballo. Il festival Sónar è senza dubbio riuscito a produrre un proprio
discorso autonomo attorno al consumo di musica elettronica, riuscendo a
tenere insieme, per un verso il registro culturale dell’arte e della ‘cultura alta’
e, per un altro verso, i modelli di consumo edonistico tipici della cultura del
ballo notturno.
5. Conclusione: la Ruta Destroy, il Sónar e le traiettorie di legittimazione culturale della musica elettronica
Non vi è dubbio che la Ruta Destroy e il Sónar proiettino due modelli sociali
assai differenti di musica elettronica da ballo: da un alto la devianza e i
comportamenti estremi di una generazione giovanile spagnola alla scoperta
della libertà civile; dall’altro, un festival che è stato in grado sia di presentare
la musica elettronica come una forma d’arte, sia di catalizzare attorno a sé
l’attenzione di giovani cosmopoliti provenienti da tutto il mondo.
Questa differenza ci racconta di un percorso pluridecennale: il ventennio
compreso tra gli inizi degli anni Ottanta e gli inizi degli anni Duemila ha
infatti costituito una fase fondamentale nell’affermazione della musica dance
quale dimensione integrante e pienamente legittimata nella società contemporanea. Si tratta di un periodo in cui la musica elettronica da ballo ha sviluppato, mutuandole dalla disco music, alcune caratteristiche peculiari sia sotto il
profilo estetico sia rispetto alle pratiche di consumo e partecipazione a essa
associati. Nel corso degli anni queste caratteristiche culturali e sociali si sono
arricchite di altre dimensioni, più in sintonia con la fruizione artistica e ciò ha
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coinciso con l’avvio di una trasformazione nella percezione sociale della musica elettronica. Questa da forma estrema di edonismo, e spesso di esplicita
devianza sociale, è divenuta non solo un tema di riflessione accademica socioantropologica – e più recentemente anche estetico-musicologica – ma anche
un ‘oggetto culturale’ considerato di valore e di interesse dalla società di oggi
e, dunque, adatto a essere presentato nei musei e nelle gallerie d’arte.
Sebbene il processo di legittimazione culturale della musica dance investa
molteplici dimensioni, in questo articolo abbiamo inteso rendere le misure
delle trasformazioni prodotte da questo processo di legittimazione della musica elettronica. Abbiamo dunque raccontato, mettendoli in controluce, due
particolari fenomeni legati alla musica elettronica da ballo, vicini temporalmente e geograficamente, ma profondamente differenti nella considerazione
culturale e artistica che hanno ricevuto. La Ruta Destroy di Valencia è stata,
negli anni Ottanta, un movimento musicale giovanile diventato oggetto di un
allarme sociale nella società del proprio tempo; il festival Sónar di Barcellona
tra la fine degli anni Novanta e gli inizi degli anni Zero, è diventato non solo il
più autorevole festival di musica elettronica al mondo, ma anche un punto di
riferimento delle politiche turistiche internazionali della Catalunia.
Un ultima considerazione verte infine sulle conseguenze culturali di questo processo di legittimazione della musica elettronica. Queste conseguenze,
infatti, hanno anche effetti retroattivi. È interessante notare, infatti, che molto
recentemente, nel novembre del 2013, il MuVIM, il Museo dell’illustrazione
della città di Valencia, ha inaugurato una mostra retrospettiva dedicata della
Ruta Destroy e ai fenomeni culturali legati al divertimento notturno degli anni
Ottanta in città (cfr. BONO 2013). Ciò che fu considerato un problema giovanile nei primi anni Novanta, a vent’anni di distanza è dunque divenuto il tema di
un esposizione in un museo cittadino. La trasformazione del divertimento
notturno basato sulla musica da problema sociale a oggetto da museo rappresenta un passaggio dall’indubbio valore simbolico nella traiettoria di legittimazione della musica elettronica nel corso del periodo che va dagli anni
Ottanta fino a oggigiorno. Se ragioniamo sull’evoluzione delle ‘traiettorie di
legittimazione culturale’ degli oggetti artistici, possiamo così riconoscere
questo passaggio come un’ulteriore tassello nella costruzione simbolica della
musica elettronica da ballo quale oggetto elevato alla dignità dell’arte. La
differenza che separa i due esempi della storia della musica elettronica che
abbiamo qui considerato ci aiuta quindi a mettere a fuoco la distanza percorsa
dal processo di legittimazione sociale della musica elettronica: un fenomeno
nato e sviluppatosi nei capannoni di periferia, spesso nelle sacche di marginalità sociale, ma divenuto un oggetto culturale e artistico di valore, ospitato in
musei e sempre più spesso assunto come punto di riferimento da parte di
critici culturali e studiosi musicali.
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Paolo Magaudda, sociologo dell’Università di Padova, si occupa del rapporto tra
tecnologie, società e cultura, con particolare riferimento al mondo della musica. È autore
di vari libri, tra cui una ricerca sull’uso dei dispositivi musicali, Oggetti d’ascoltare, HiFi,
iPod e consumo delle tecnologie musicali (Il Mulino, 2012) e una Storia dei media
digitali (con G. Balbi, Laterza, 2014).
Paolo Magaudda is sociologist at the University of Padua, where he works on the
relationship between technology, society and culture, with particular reference to the
case of music. He is the author of several books, including a study (in Italian) on the use of
music devices titled Objects of listening, HiFi, iPod and consumption of music technologies
(Il Mulino, 2012) and a History of Digital Media (with G. Balbi, Laterza, 2014).
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