Philomusica on-line 13/2 (2014) Dalle periferie al museo Note sul processo di legittimazione culturale della musica elettronica da ballo Paolo Magaudda Università di Padova [email protected] § L’articolo ricostruisce un particolare frammento della traiettoria di legittimazione culturale della musica elettronica da ballo. Questo genere musicale è infatti passato da essere considerato una ricorrente componente della devianza giovanile negli anni Ottanta, a rappresentare, dagli anni Duemila in poi, una forma artistica sempre più riconosciuta in quanto tale. L’evoluzione di questa traiettoria viene raccontata mettendo a confronto due particolari fenomeni legati alla musica elettronica da ballo e riferiti al contesto spagnolo. Da un lato, il movimento dance noto come ‘Ruta del Bakalao’ o ‘Ruta Destroy’, sviluppatosi in Spagna, soprattutto nella provincia valenziana, nel corso degli anni Ottanta. Da un altro lato, il festival Sónar di Barcellona, avviato nel 1994 e diventato il più importante evento di musica elettronica a livello mondiale. Questi due esempi sono considerati per riflettere sul processo di legittimazione artistica e culturale della musica elettronica negli ultimi trent’anni. § The article traces a specific portion of the trajectory of cultural legitimation of electronic dance music since the eighties. This trajectory has consisted in the change from considering dance music as a recurring dimension of youth deviance, to represent, since the twenty-first century onward, a fully accepted and recognized form of art. This evolution is addressed by comparing two particular cultural phenomena related to electronic dance music both located in Spain. On the one hand, the dance movement known as the ‘Ruta del Bakalao’ or ‘Ruta Destroy’, developed in Spain, especially in the province of Valencia, during the Eighties. On the other hand, the Sónar Festival in Barcelona, launched in 1994 and turned into the most important electronic music festival in the world. These two examples are considered to reflect on the process of legitimation of electronic music as form of art over the last thirty years. «Philomusica on-line» – Rivista del Dipartimento di Musicologia e Beni culturali e-mail: [email protected] – Università degli Studi di Pavia <http://philomusica.unipv.it> – ISSN 1826-9001 – Copyright © 2014 Philomusica on-line – Pavia University Press Philomusica on-line 13/2 (2014) N corso del novecento le musiche popular hanno costantemente combattuto una di ‘battaglia culturale’ per essere riconosciute come cultura ‘seria’ e come forme artistiche ‘legittime’ e accettate. L’obiettivo di questo articolo è quello di tracciare un piccolo frammento della storia del processo di legittimazione della musica elettronica da ballo. Tale traiettoria ha visto il passaggio di questo tipo di musica dall’essere una componente ricorrente della devianza giovanile e del degrado metropolitano degli anni Ottanta, fino a rappresentare, dagli anni Duemila in poi, una forma artistica sempre più riconosciuta in quanto tale, con i propri festival, esposizioni in musei e gallerie, nonché corsi all’università. Una storia della legittimazione della musica elettronica non è stata ancora scritta; questo articolo intende dunque offrire un piccolo contributo a questa storia, mettendo a confronto due particolari fenomeni culturali legati alla musica elettronica da ballo. Da un lato, il movimento dance noto come ‘Ruta del Bakalao’ o ‘Ruta Destroy’, sviluppatosi in Spagna, soprattutto nella provincia valenziana, nel corso degli anni Ottanta. Da un altro lato, il festival Sónar di Barcellona, avviato nel 1994 e diventato non solo il più importante festival di musica elettronica a livello mondiale, ma anche uno dei principali epicentri del processo culturale di legittimazione della musica elettronica come forma d’arte degli ultimi vent’anni. EL 1. Legittimazione culturale, ‘campi artistici’ e musica elettronica da ballo Negli ultimi decenni le scienze sociali che si occupano di cultura hanno messo in rilievo che il riconoscimento del titolo di ‘artisticità’ (e dunque di ‘valore culturale’) riservato a determinati generi culturali non dipende solo dagli aspetti estetici, ma è il risultato di vari processi che coinvolgono spesso fattori di ordine sociale, che influiscono su come certi ‘oggetti culturali’ vengono percepiti e valutati (GRISWOLD 1994). Il sociologo dell’arte Howard Becker (1982) ha per esempio mostrato che il valore delle opere d’arte dipende da una serie di convenzioni culturali proprie dei ‘mondi dell’arte’ di appartenenza, tanto nel caso della pittura classica di Leonardo quanto del rock classico dei Rolling Stones. Un altro importante sociologo culturale, Pierre Bourdieu (1993), ha messo in rilievo che l’attribuzione di valore artistico in determinati ‘campi’ culturali è il frutto di vere e proprie ‘lotte’ per affermare l’autonomia di taluni stili o generi innovativi rispetto a quelli tradizionalmente riconosciuti. Inoltre, egli ha mostrato che, proprio per tale ragione, il processo di attribuzione di valore artistico nei confronti di determinati stili può essere letto come un processo che si evolve attraverso forme di consacrazione collettiva e che si concretizza nella conquista di prestigio all’interno di un particolare ‘campo artistico’ di riferimento. Entrambi questi studiosi, pur con sfumature e approcci differenti, hanno contribuito a rendere evidente che l’attribuzione di un certo valore artistico, da parte di critica e pubblico, dipende direttamente dall’evolversi di processi collettivi di attribuzione di significati sociali rispetto 158 P. Magaudda – Dalle periferie al museo a taluni oggetti culturali, che spesso, in una fase iniziale della propria storia, erano considerati ‘scadenti’, ‘non artistici’ o solamente legati alla sfera del divertimento superficiale. Ragionando sui processi di legittimazione artistica, il caso della popular music ha rappresentato nel corso del Novecento, con le proprie molteplici e differenti declinazioni, un esempio paradigmatico. Pensiamo in termini generali a come il rock’n’roll di Elvis Presley e ancor più il pop dei Beatles si siano trasformati da passatempo (a volte anche sconveniente) degli adolescenti degli anni Cinquanta e Sessanta a forme d’arte riconosciute da Università, Conservatori e musei. Rispetto allo specifico contesto italiano, il sociologo Marco Santoro (2002; 2010) ha, per esempio, ricostruito il processo di legittimazione della ‘canzone d’autore’ a partire dal traumatico suicidio del cantante Luigi Tenco durante il festival di Sanremo del 1967: in seguito a questo tragico evento una parte della musica ‘leggera’ e di intrattenimento italiana iniziò un processo di legittimazione artistica che ha portato, a distanza di tre decenni, alla consacrazione di figure come Fabrizio De Andrè e Lucio Dalla al ruolo di ‘poeti’ e ‘artisti’. Più recentemente, invece, soffermandosi sul caso della musica rock indipendente italiana, è possibile osservare come l’affermazione di gruppi musicali possa essere letto – adottando una cornice teorica ispirata a Pierre Bourdieu (cfr. MAGAUDDA 2009) – anche come un percorso di ‘istituzionalizzazione’ di tale ambito musicale, che si è sviluppato attraverso l’evoluzione di nuove ‘istituzioni’ come festival, premi ed eventi, oppure attraverso la ‘conquista’ da parte di queste musiche prima marginali di un ruolo centrale nelle istituzioni musicali della tradizione popular, come nel caso del festival di Sanremo. Come è stato ricorrente anche nel caso di altri generi musicali popular sviluppatisi nel corso del Novecento, anche la musica elettronica da ballo è diventata oggetto di una particolare traiettoria di legittimazione culturale, che possiamo considerate tuttora in divenire. Sebbene, infatti, sia possibile ricondurre le origini della musica elettronica alle sperimentazioni ‘colte’ degli anni Cinquanta e Sessanta (come quelle di Pierre Henry, Karlheinz Stockhausen e Luigi Nono), è indubbio che l’influenza preponderante sia quella che rimanda la musica elettronica alle musiche da ballo e del divertimento nate e consumate in ambiti marginali della società: i locali da ballo per adolescenti degli anni Cinquanta, le discoteche e le balere degli anni Sessanta e la discomusic degli anni Settanta (cfr. SHAPIRO 2005). I tratti socialmente più caratteristici della musica elettronica da ballo, infatti, affondano le proprie radici proprio nella disco music e nel mondo dell’edonismo delle discoteche e del divertimento notturno. Ebbene, la disco music rimase, almeno fino alla fine degli anni Settanta, un fenomeno non solo di nicchia, ma spesso circoscritto a gruppi sociali marginali, eccentrici o considerati apertamente devianti, come nel caso delle comunità omosessuali dei grandi centri urbani statunitensi negli anni Settanta e, successivamente, del proletariato nero (spesso anch’esso omosessuale) che affollava i capannoni in disuso nella Chicago in via di deindustria- 159 Philomusica on-line 13/2 (2014) lizzazione dove, nei primi anni Ottanta, prese avvio il movimento della house music (cfr. REYNOLDS 1998, trad. it. 2000, pp. 30 e segg.). Non è un caso che le prime forme di approfondimento culturale attorno al fenomeno della ‘musica disco’ siano provenute da ambienti intellettuali politicizzati, spesso legati alla cultura omosessuale e ai diritti civili, come nel caso del noto articolo In Defense of Disco di Richard Dyer (1979). Sia la collocazione sia le argomentazioni dell’articolo di Dyer sono altamente significative per comprendere la traiettoria attraverso la quale la disco music è entrata in quegli anni nel dibattito pubblico. In Defense of Disco apparve, infatti, in un numero di «Gay Left», una rivista più orientata alle questioni politiche che ai temi musicali: insomma una rivista pienamente radicata nelle controculture e nell’attivismo politico. Tra i principali argomenti sollevati da Dyer vi era una difesa della disco music rispetto alla diffusa accusa di essere un’espressione dell’ideologia capitalistica, sovvertendo così la perdurante idea – radicata nella tradizione della Scuola critica di Francoforte (ADORNO – HORKHEIMER 1944; ADORNO 1946) – secondo la quale le musiche popular, e soprattutto le musiche da ballo, non posseggano un valore artistico e producano, anzi, annichilimento e povertà culturale. Peraltro, a rimarcare ancor di più le radici culturalmente ‘umili’ della musica disco possiamo considerare il modo come il fenomeno della disco music divenne noto a livello internazionale alla fine degli anni Settanta, ovvero attraverso un film hollywoodiano ‘da cassetta’: La febbre del sabato sera (Saturday night fever, John Badham 1977). Sebbene il film contribuì a popolarizzare la disco music a livello globale, esso ne mise in rilievo gli aspetti più superficiali, e non aiutò così a contribuire alla costruzione di una connotazione di artisticità attorno a questo genere musicale. Rispetto alla diffusione della disco music nel contesto italiano, uno dei documenti più interessanti e ricchi di riflessioni è costituito da uno dei primi libri in assoluto sul fenomeno della disco music, intitolato Disco Music (BARONI – TICOZZI 1979), edito dall’editore Arcana (ancora una volta una collocazione che era diretta espressione della scena controculturale degli anni Settanta). Anche nel nostro paese la portata socio-culturale della musica da ballo fu dunque inizialmente messa a fuoco in primo luogo all’interno delle aree intellettuali più radicali, critiche tanto nei confronti della mercificazione capitalistica della musica (rappresentata dalle nascenti grandi discoteche), sia rispetto all’atteggiamento ‘bacchettone’ nei confronti delle nuove tendenze sociali del ballo, che caratterizzava invece gli esponenti culturali della sinistra istituzionale. A livello internazionale sul finire degli anni Ottanta, grazie all’esplosione dei fenomeni house e techno si espanse la scena dei club e iniziò a prendere forma quella che è stata definita come la club culture. Sebbene i club fossero luoghi socialmente più accettati rispetto ai magazzini abbandonati in cui si diffusero le prime forme di house e techno, questi spazi non possedevano certo una connotazione ‘artistica’ e rimasero associati alle tendenze edonistiche del divertimento (o tutt’al più dell’impresa economica; cfr. TORTI 1997). 160 P. Magaudda – Dalle periferie al museo L’analisi accademica più dettagliata e influente del mondo dei club, tra la fine degli anni Ottanta e gli inizi degli anni Novanta, è stata senza dubbio la ricerca etnografica dalla sociologa dell’arte Sarah Thornton (1995), che ha messo a fuoco alcuni dei processi culturali ed artistici nel momento di passaggio tra la scena dei nightclub a quella dei rave party illegali in Inghilterra agli inizi degli anni Novanta. Questa ricerca ha mostrato efficacemente che frequentare questi ambienti non fosse solo un divertimento edonistico, ma che le discoteche fossero invece un contesto significativo in cui osservare sia alcuni dei meccanismi tipici della stratificazione sociale, sia il modo in cui estetiche e forme artistiche appaiono indissolubilmente legate a processi sociali e culturali più generali. Nel periodo che va dagli inizi degli anni Novanta ai primi del Duemila abbiamo invece assistito ad una svolta rilevante nel percorso di legittimazione della musica da ballo come espressione artistica e come oggetto di valore culturale. La musica elettronica da ballo, insieme ai creatori (DJ e produttori), ha infatti iniziato a essere ospitata in contesti artistici e ad essere raccontata e accettata come una delle faglie dell’avanguardia artistica digitale contemporanea. Così, nell’arco di circa tre lustri, la musica elettronica da ballo ha smesso di essere considerata solo come un ingrediente del divertimento edonistico fine a se stesso – spesso relegato ai margini dell’esperienza sociale o addirittura alla devianza giovanile (o tutt’al più alla sensibilità delle controculture), ma ha iniziato ad ottenerne un vasto e convinto riconoscimento estetico e culturale. Nelle pagine seguenti, questo articolo racconta un particolare frammento di questo processo di riconoscimento, facendo luce su un particolare fenomeno musicale, la cosiddetta Ruta del Bakalao o Ruta Destroy, un movimento dance sviluppatosi nelle periferie della città spagnola di Valencia nella seconda metà degli anni Ottanta. Questa scena musicale sarà poi messa in relazione con un fenomeno musicale successivo, divenuto cruciale nell’evoluzione del profilo artistico della musica elettronica, ovvero il festival Sónar di Barcellona, nato nel 1994 e divenuto negli anni Duemila il principale evento internazionale in cui la musica elettronica ha iniziato ad essere raccontata come un oggetto dalle rilevanti implicazioni estetiche e artistiche. 2. Musica dance, devianza e repressione negli anni Ottanta: la Ruta Destroy La Ruta Destroy è stato uno dei primi e più vasti movimenti giovanili legati alla musica elettronica da ballo in Europa. La Ruta si sviluppò infatti a partire dagli inizi degli anni Ottanta nella regione di Valencia, la parte centroorientale della penisola iberica, anticipando varie altre note scene seminali della musica elettronica europea, come quelle di Ibiza o di Manchester. Questo movimento musicale fu caratterizzato da una rilevante e diffusa frequentazione, da parte di decine di migliaia di giovani spagnoli, di diverse grandi discoteche collocate lungo la statale di El Saler, che dal centro della città di 161 Philomusica on-line 13/2 (2014) Valencia porta verso il sud della provincia. Questo movimento musicale può essere considerato un equivalente valenciano della nota movida madrileña, nata negli stessi anni e anch’essa alimentatasi dell’entusiasmo e del sentimento di libertà delle generazioni giovanili successive alla dittatura franquista. Tuttavia, il movimento valenziano fu differente rispetto a quello della capitale spagnola, poiché fu carente nell’articolare, accanto alla dimensione edonistica, un nesso con la produzione culturale ‘colta’ di registi, poeti e scrittori o anche con il rock autoctono cantato in spagnolo (cfr. FOUCHE 2004). Anche per il suo antiintellettualismo, nonostante si sia trattato di un movimento sorprendentemente grande e articolato, non esiste a oggi nessuna vera e propria ricostruzione storica di questa scena musicale, men che meno con una prospettiva scientifica. A dispetto della vasta notorietà ottenuta nei media alla fine degli anni Ottanta, nei due decenni successivi non si sentì più parlare di questo fenomeno: come ha scritto recentemente un giornalista catalano di «El Pais» a poco a poco, la Ruta Destroy, ovvero il circuito dei locali dove si proponeva questa musica, è diventata una leggenda sussurrata tra le differenti generazioni: i giovani volevano sapere in che cosa consistessero queste ‘feste’, il nome dato alle sessioni musicali lunghe 72 ore, che coinvolgevano migliaia di devoti a ogni fine di settimana (OLEAQUE 2011) In effetti, l’aspetto più ricorrente nel descrivere la Ruta del Bakalao era il fatto che in questo circuito, costituito da almeno una ventina di locali, tra enormi discoteche e piccoli pub, il divertimento del fine settimana si moltiplicò temporalmente, allungando il week end fino a durare 72 ore: per quattro giorni interi, che iniziavano il giovedì e si prolungavano fino alla mattina del lunedì successivo migliaia di giovani facevano la spola tra le differenti discoteche, che alternavano stili, situazione e ritmi musicali tra loro. Un’altra delle caratteristiche principali della Ruta Destroy riguardava il numero di locali da ballo e i ritmi con i quali si sviluppava la loro frequentazione. Nel corso degli anni Ottanta, la periferia di Valencia (una città di circa 700.000 residenti) era infatti densa di grandi discoteche, alcune delle quali costituivano gli snodi principali della Ruta, come il Barraca, la Spook Factory, il Chocolate, l’Espiral e il NOD. L’epicentro del circuito da ballo fu la discoteca Barraca, che dal 1982 iniziò a introdurre i suoni pop elettronici della new wave (come The Cure, Depeche Mode, Smiths, Tears For Fears, Ultravox e Soft Cell), e, successivamente, nella seconda parte del decennio, i suoni house e techno attraverso la mediazione inglese. Una delle particolarità del Barraca riguardava gli orari: fu, infatti, questa una delle prime grandi discoteche in Europa ad aprire al pubblico direttamente alle sei della mattina di domenica, contribuendo in questo modo ad allungare i tempi del ballo del fine settimana e ad aprire le porte al fenomeno del cosiddetto after-hour. Non deve stupire che il movimento della Ruta Destroy si caratterizzò anche per un vasto uso di droghe e di sostanze illecite. Come ricorda il sito www.rutadestroy.com – un forum web di appassionati, che ha raccolto in anni 162 P. Magaudda – Dalle periferie al museo recenti alcune testimonianze e ricostruzioni dirette di quel periodo – la prima metà degli anni Ottanta coincise con la diffusione della mescalina estratta dal peyote, che si poteva acquistare a circa 3.000 pesetas di allora (una ventina di euro di oggi); successivamente si assistette alla diffusione delle anfetamine, per giungere poi all’invasione dell’ecstasy sul finire degli anni Ottanta. Anche per tale ragione, la Routa Destroy divenne, alle soglie degli anni Novanta, un vero e proprio problema sociale, legato al disagio giovanile e il movimento musicale iniziò a essere identificato con comportamenti devianti delle nuove generazioni, legati al consumo eccessivo di alcool, alle droghe e – trattandosi di un fenomeno itinerante tra vari locali differenti – agli incidenti di auto del fine settimana. A partire all’incirca dal 1990, il movimento della Ruta Destroy divenne sempre più partecipato e assunse una portata geografica sempre più ampia, espandendosi nelle regioni vicine di Alicante, Zaragoza e fino a Madrid. Contemporaneamente, il fenomeno iniziò a essere descritto in televisione in termini allarmanti, come nel caso di un noto documentario trasmesso nel 1993 nell’ambito della trasmissione 24 horas su Canal Plus, in cui veniva data grande enfasi all’uso delle droghe come problema giovanile. La questione divenne talmente rilevante nel dibattito pubblico che nel Novembre 1993 – come riportò il quotidiano «El Pais» (1993a) – fu avviata un’iniziativa repressiva di polizia nei confronti dei giovani che frequentavano la Ruta Destroy: una vera e propria campagna di repressione del fenomeno a livello nazionale per limitare la frequentazione delle discoteche, il consumo di droga e gli incidenti stradali. Sempre «El Pais» (1993b) scrisse che nell’arco di due fine settimana furono arrestati ben 1.052 giovani e avvennero più di 100 incidenti stradali legato alla Ruta. Come conseguenza di questo atteggiamento repressivo e della pessima reputazione che questo movimento vide svilupparsi attorno a esso, nel giro di pochi anni il fenomeno si ridusse considerevolmente. Alla fine degli anni Novanta nella città di Valencia della Ruta Destroy rimaneva solo un vago ricordo, «una leggenda sussurrata da generazione in generazione». Una delle conseguenze della repressione e della cattiva fama di questo movimento non fu solo la sua repentina scomparsa, ma anche la mancanza di ricostruzioni storiche, ricerche e di approfondimenti critici attorno a questo movimento musicale dal profondo impatto sociale. Negli ultimi anni, come in molti casi simili, l’interesse nei confronti della Ruta è stato riportato alla luce da un documentario intitolato 72 horas... y Valencia fue la ciudad, prodotto nel 2008 da Juan Carlos García e Óscar Montón e contenente interviste ad alcuni organizzatori e DJ dell’epoca e molto materiale video d’archivio originale. A seguito di questo documentario, solo alcuni articoli di giornale (come quello uscito nel 2010 su «El Mundo» e significativamente intitolato Le ceneri della Ruta Destroy; Perez 2010) e qualche sito di appassionati e DJ (e in particolare quello del negozio di dischi online Rutadestroy.com) hanno mantenuto vivo il ricordo del fenomeno. 163 Philomusica on-line 13/2 (2014) Questa sintetica ricostruzione di alcuni degli aspetti principali che hanno caratterizzato la Ruta Destroy rende evidenti almeno tre dimensioni del ruolo sociale e culturale che ebbe la musica elettronica da ballo in Spagna negli anni Ottanta. In primo luogo, la Ruta si sviluppò ‘dal basso’, a partire dall’offerta musicale di alcune discoteche e dalla partecipazione di migliaia di giovani. In secondo luogo, il proliferare di questa cultura del ballo non ottenne alcun riconoscimento istituzionale e divenne, anzi, uno dei principali simboli del degrado giovanile e, in quanto tale, fu anche oggetto di provvedimenti repressivi. Infine, anche a causa di non essere stato un movimento di portata internazionale e legato al turismo, come nel caso di Goa o Ibiza (D’ANDREA 2007), la Ruta non diventato oggetto di alcun lavoro di documentazione e men che meno è diventato un caso di approfondimento da parte di studiosi di movimenti musicali. Solo oggi, a distanza di quasi trent’anni, e con una prospettiva prevalentemente nostalgica, iniziano a emergere le prime forme di interesse nei confronti di quel peculiare momento della storia della musica dance spagnola, a cui – come accenneremo più avanti – è stata dedicata un esposizione nel 2013 nel museo dell’illustrazione di Valencia. È ben differente, come adesso vedremo, l’attenzione generata alcuni anni dopo la fine della Ruta da un altro evento spagnolo legato alla musica elettronica da ballo il festival di musica elettronica Sónar di Barcelona, oggigiorno uno dei più importanti eventi di musica elettronica a livello globale, nonché una delle manifestazioni in cui la musica elettronica ha iniziato a essere considerata come una forma artistica riconosciuta. 3. Dalla periferia al museo: il festival Sónar e la musica elettronica come arte Proprio al culmine degli anni in cui la Ruta Destroy valenciana venne identificata con un fenomeno di devianza giovanile e con l’uso delle droghe, a poche centinaia di chilometri da Valencia, iniziò a svilupparsi l’idea di un evento che, nell’arco di qualche anno, è sarebbe poi diventato il più importante festival al mondo della musica elettronica, il Sónar. Organizzato nella città di Barcelona a partire dal 1994, il Sónar non solo a partire dal 2000 ha assunto il ruolo di principale punto di riferimento del genere, diventando così il modello di riferimento per i festival di musica elettronica di mezzo mondo, ma questo festival anche ha giocato un ruolo centrale nell’intero processo di legittimazione culturale e artistica della musica elettronica dance. Il Sónar ha infatti preso avvio a metà degli anni Novanta, un momento in cui la musica elettronica era ancora pesantemente identificata con gli estremi edonistici della ‘generazione ecstasy’ (cfr. in Italia, DE LUCA 1996); anche per il suo ruolo di riferimento a livello internazionale, il festival ha contribuito a trasformare la percezione della musica elettronica dance, che nel frattempo è divenuto un oggetto artistico ed estetico sempre più spesso ospitato in gallerie di arte contemporanea e nei musei. A livello simbolico possiamo probabilmente assumere come 164 P. Magaudda – Dalle periferie al museo passaggio definitivo la mostra Sonic Process: A New Geography of Sound, realizzata nel 2003 dallo spazio di arte contemporanea Centre Pompidou di Parigi, ma proposta in anteprima nel 2002 proprio all’interno degli spazi espositivi del Sónar presso il Museo d’Arte Contemporanea di Barcellona (cfr. Processo Sonico 2003). Nei primi anni del festival, come ricorda una delle organizzatrici del Sónar – intervistata dall’autore nel corso di una ricerca sociologica sui festival musicali in Europa1 – la percezione che circondava la musica elettronica da ballo era particolarmente negativa, proprio a causa dell’idea dominante che associava la musica elettronica soprattutto con il consumo di droghe: Direi che la fase più dura per noi sono stati gli anni Novanta. Dal 2000 in poi la gente ha cominciato a dissociare la droga dal discorso musica elettronica a livello soprattutto mediatico. Devo dire che i media hanno aiutato molto, perché i media a un certo punto – grazie a Dio! – si sono stancati di accusare la musica elettronica di provocare grandi disgrazie come a suo tempo si era accusato il rock. E hanno capito che è un genere musicale colto, preparato, con una base, con dei musicisti e che non erano solo quattro macchinine (Georgia Taglietti, Ufficio Stampa Sónar, intervista con l’autore). Non è dunque un caso che il sottotitolo del festival, fin dalla sua prima edizione, non contenesse un riferimento esplicito alla musica elettronica, ma fosse invece quello di ‘Festival of Advanced music and multimedia arts’. Come ha notato il musicologo Luca Marconi (2012), quella di non fare riferimento diretto alla definizione di ‘dance music’ è una strategia ricorrente tra i festival di musica elettronica, che riflette la tendenza da parte di organizzatori a prendere le distanze dalle categorizzazioni ricorrenti di ‘musica elettronica’ o ‘musica techno’, in parte ancora stigmatizzate dai media e nel senso comune. La prima edizione del festival fu organizzata nel 1994 con l’appoggio di istituzioni nazionali e locali e con la possibilità di utilizzare come sede principale il Centre de Cultura Contemporània de Barcelona (CCCB), una allora recentissima struttura espositiva, situata nel centro storico della città. Durante le prime edizioni del festival, il Sónar iniziò a caratterizzarsi per la presenza di due distinte sensibilità musicali, che riflettono altrettante tradizioni caratteristiche della musica elettronica. Per un verso ritroviamo una tradizione legata alla musica elettronica sperimentale e d’avanguardia, che affonda le proprie radici nel lavoro di compositori ‘colti’ come Karlheinz Stockhausen e Luciano Berio e che si diffuse commercialmente a partire dagli anni Settanta con il successo di gruppi come Kraftwerk e di artisti come Brian I materiali di ricerca del festival Sónar provengono dalla una ricerca europea EURO-FESTIVAL - Art festivals and the European public culture (2008-2010). La parte della ricerca dedicata ai festival musicali è stata realizzata dall’Istituto Cattaneo di Bologna, sotto la responsabilità scientifica di Marco Santoro (Università di Bologna). Alba Colombo (Universitat Oberta de Catalunya, Barcelona) ha collaborato ad alcune fasi della raccolta di dati utilizzati in questo articolo (per una visione più generale della ricerca sui festival europei, cfr. GIORGI et al. 2011; SANTORO 2013). 1 165 Philomusica on-line 13/2 (2014) Eno. Per un altro verso, invece, una parte del Sónar rimandava direttamente alle culture del ballo o alla dance culture, sebbene con la necessità di differenziarsi completamente dall’immaginario sociale legato alla Ruta Destroy. Il Sónar ha così sviluppato estetiche e modalità finalizzate a sedimentare un profilo artistico attorno alla musica elettronica, ma mantenendo una dimensione radicata nel divertimento e nelle forme di consumo musicale di tipo edonistico. Una delle principali strategie elaborate da parte del Sónar fin dai primi anni è stata quella di strutturare la programmazione attorno a una particolare differenziazione di tempi, luoghi e contenuti. Il festival ha così proposto una versione ‘di giorno’ (‘by day’), organizzata presso gli spazi espositivi del CCCB e del MACBA (Museo d’arte contemporanea di Barcelona), nel centrale quartiere del Raval (a poche centinaia di metri dalla Rambla), e dedicata agli eventi musicali più piccoli, più ricercati dal punto di vista ‘artistico’, oltre che alle esposizioni e agli incontri tra i professionisti del settore. Vi è poi una versione ‘notturna’ (‘by night’), organizzata negli ultimi anni presso gli enormi spazi della fiera della città, situata in una zona periferica e dedicata più esplicitamente alla musica da ballo e agli eventi di maggior richiamo di pubblico. Il percorso di evoluzione del festival può essere schematizzato in tre periodi principali. Un primo periodo iniziale (1994-1997), che rappresenta la fase di avvio e di assestamento, è quello durante il quale il festival ha assunto una propria identità e ha consolidato alcune delle principali collaborazioni organizzative e istituzionali. Un secondo periodo (1998-2002), è stato caratterizzato da una fase di notevole espansione, durante il quale si è assistito a un aumento consistente di pubblico e del budget a disposizione del festival; in questa fase il Sónar ha raggiunto una indiscussa centralità nel panorama mondiale della musica elettronica, che si è concretizza anche nell’espansione internazionale, attraverso l’organizzazione di eventi a marchio ‘Sónar’ in molti paesi stranieri. Il terzo periodo (2003-oggi) si è infine contraddistinto per una stabilizzazione del numero di pubblico, mentre le innovazioni introdotte hanno riguardano soprattutto la creazione di nuove sezioni musicali, l’organizzazione di ulteriori eventi internazionali e la sperimentazione dei linguaggi estetici del festival. Nell’arco degli anni il Sónar è così passato dal radunare circa 5.000 spettatori nelle prime edizioni ai circa 80.000 biglietti venduti delle ultime edizioni (cfr. OLIVERAS 2008; MAGAUDDA 2013). Come osserveremo più dettagliatamente nel prossimo paragrafo, il successo del Sónar, relativamente all’apprezzamento sia del pubblico sia della critica musicale internazionale, si è andato evolvendo insieme a un effettivo riconoscimento e supporto da parte delle istituzioni pubbliche. È anche grazie a tale riconoscimento istituzionale che il festival è stato in grado di gestire in modo autonomo le proprie scelte organizzative e culturali, così da creare un evento in grado di ‘negoziare’ in modo efficace tra, da un lato, le aspettative culturali e artistiche delle istituzioni e dei media e di parte del pubblico e, 166 P. Magaudda – Dalle periferie al museo dall’altro, la richiesta di una dimensione edonistica e legate al divertimento, che caratterizza la maggioranza dei partecipanti agli eventi di elettronica dance. 4. Strategie di legittimazione, ‘cornici’ di consumo e autonomia culturale del Sónar Ma quali sono gli aspetti principali attraverso i quali il Sónar è riuscito a ‘ribaltare’ la percezione della musica elettronica da ballo? Una delle principali strategie attraverso le quali il Sónar è riuscito a costruire una cornice di fruizione della musica elettronica coerente con quello di un consumo ‘artistico’ (oltre che edonistico), è ben rappresentata dalla strutturazione dei tempi e degli spazi del festival. L’aspetto attraverso cui questa gestione di spazi e tempi si è manifestata in modo più evidente riguarda la distinzione già considerata tra il ‘Sónar By Day’ e il ‘Sónar By Night’, due dimensioni del festival che si svolgono in spazi e tempi differenti e che, anche per tale ragione, contribuiscono a definire differenti modelli di partecipazione del pubblico e dunque un diverso tipo di aspettative culturali attorno alla musica elettronica. Questa principale divisione dell’offerta del festival riproduce e articola ulteriormente uno dei confini simbolici più radicati nella cultura della musica elettronica, ovvero quello che riconosce, da un lato, una tradizione elettronica colta e sperimentale, connotata in senso intellettuale e artistico e, dall’altro, la tradizione più popular, legata al mondo delle discoteche, delle periferie delle città post-industriali e più esplicitamente connotata da un atteggiamento di consumo edonistico da parte del pubblico. Non si tratta solo di una differenza tra contenuti e artisti invitati, quanto di un mutamento degli spazi e dei tempi del consumo: ascoltare musica di giorno, in un luogo generalmente deputato alle esibizioni artistiche, ha senza dubbio rappresentato una rottura nei modelli di riferimenti e nella percezione della musica elettronica da ballo. Da un certo punto di vista, la capacità del Sónar di coniugare queste due dimensioni – artistica ed edonistica – è stata cruciale per decostruire il confine esistente tra due mondi separati, potendo così mescolare nelle due sezioni del festival famosi DJ usualmente acclamati nelle discoteche più affollate (come Jeff Mills o Richie Hawtin) insieme a musicisti abituati a presentare i propri lavori tra ristrette cerchie di ascoltatori appassionati di musica elettronica colta (Alva Noto o Ryoji Ikeda). Questa strategia di differenziazione non solo in termini dell’offerta musicale, ma anche del tipo di spazi e di contesti di consumo proposta, è stato certamente uno dei dispositivi centrali nelle strategie del festival per tenere insieme un discorso ‘artistico’ e una modalità di fruizione assimilabile alla musica ‘da ascolto’ con il contesto tipico della musica elettronica da ballo, che prevede non solo l’intera notte come arco temporale di riferimento, ma anche l’uso espressivo del corpo come attività principale, nonché l’assunzione di droghe come tratto caratteristico della fruizione. Durante i giorni del festival, la dimensione artistica del festival convive, infatti, con i tipici comportamenti 167 Philomusica on-line 13/2 (2014) edonistici della musica da ballo e in primo luogo l’uso di droghe. Come ha scritto un giornalista musicale statunitense a proposito dell’uso di droghe presso il Sónar: Al pubblico del Sónar piace consumare droghe. Un sacco. Certo, forse io sono influenzato dalle mie radici puritane americane; ma che fine ha fatto la pratica di andare in bagno maliziosamente, o anche di appartarsi in un angolo buio per ingerire le sostanze portate con sé o acquisite sul posto? Forse gli europei sono davvero più liberi rispetto a queste cose, perché ovunque si guardasse, c’erano persone di tutte le età che sfacciatamente “tiravano” e ingerivano cose. Certo, questa non vuole essere una constatazione allarmista, del tipo che: “le droghe erano fuori controllo” al Sónar. Al contrario. La maggior parte delle persone, eccetto l'idiota di turno o il cafone antipatico, stavano festeggiando in modo responsabile. Non era l’uso di droghe a essere sorprendente, ma piuttosto è stata l'apertura con cui tutto ciò avveniva che ha attirato la mia attenzione (SHAWN 2012). Un secondo aspetto di significativo rilievo attraverso il quale il Sónar è riuscito a costruire la musica elettronica come un fenomeno culturalmente ‘legittimo’ riguarda l’uso, nella versione ‘by day’, di spazi esplicitamente connotati dal punto di vista artistico. Fin dai primi anni, infatti, il Sónar ha avuto a disposizione quasi interamente le sedi dei due centri di arte moderna e contemporanea della città, tra i più noti in Europa: il CCCB e il MACBA. Non vi è dubbio che la possibilità di utilizzare gli spazi di queste due aree espositive è stata cruciale per costruire una cornice di consumo connotata artisticamente, nonché per proporre, almeno in parte, un modello di fruizione della musica in grado di mettere in rilievo gli aspetti di artisticità e autorialità della musica. Vi sono anche altri aspetti hanno contribuito a creare le condizioni favorevoli affinché il Sónar potesse proporre un modello di fruizione differente rispetto gli stereotipi diffusi attorno alla musica elettronica, appiattiti su un consumo edonistico e deviante. Senza dubbio, l’appoggio istituzionale ricevuto fin dai primi anni da parte delle principali istituzioni politiche locali ha rappresentato una condizione essenziale per l’evoluzione e la legittimazione del festival. L’appoggio ricevuto dalle istituzioni cittadine e regionali al progetto del Sónar è stata il frutto della necessità, da parte di Barcellona, di ricercare una nuova proiezione turistica internazionale. Barcellona aveva avviato un processo di internazionalizzazione nel 1992, grazie all’organizzazione dei Giochi olimpici, e nel corso degli anni ’90 aveva l’esigenza di costruire e sviluppare nuove attrattive culturali e turistiche per un pubblico internazionale. La capacità del festival di costituire un offerta allettante per il turismo giovanile internazionale è stato senza dubbio un aspetto centrale nel successo del festival e nell’appoggio da esso ricevuto dalle istituzioni. A livello istituzionale, uno dei principali sostenitori del festival nei suoi primi anni è stato Ferran Mascarell, un Assessore alla Cultura che ha giocato un ruolo centrale non solo nel sostegno al Sónar, ma anche come intellettuale e teorico della necessità di trasformare Barcellona in uno snodo della cultura contemporanea globale (cfr. MASCARELL 2007). Senza dubbio, l’appoggio da parte di Mascarell e delle istituzioni politiche locali, è stato importante nel 168 P. Magaudda – Dalle periferie al museo creare le condizioni per nuove forme di offerte culturali e di attrazione turistica della città, giocando così un ruolo fondamentale nella costruzione dell’identità artistica del festival. Vi è infine da segnalare un’ultima dimensione strutturale che ha permesso al festival di sviluppare un proprio discorso legittimante attorno al fenomeno della musica elettronica. Si tratta dell’autonomia artistica garantita al festival da un modello di business basato sugli introiti provenienti dal mercato (e dunque sponsor privati e biglietti venduti), piuttosto che sulle sovvenzioni pubbliche. La quasi totale indipendenza economica rispetto alle istituzioni pubbliche ha così permesso al festival non solo di disporre di un alto grado di libertà per quanto riguarda le proprie scelte artistiche, ma anche di poter negoziare con forza le proprie scelte logistiche rispetto alle istituzioni pubbliche. In sintesi, possiamo notare come il processo di legittimazione artistica della musica elettronica da ballo attraverso il Sónar sia difficilmente scindibile dal fatto che, nel corso degli anni, questo genere musicale sia divenuto un tassello all’interno dei meccanismi dell’economia capitalistica del divertimento e del turismo. Questo insieme di aspetti contribuisce a mettere in luce alcune delle principali condizioni che hanno permesso a un festival come il Sónar di divenire una delle principali e autorevoli ‘istituzioni culturali’ della musica elettronica da ballo. Il festival Sónar è senza dubbio riuscito a produrre un proprio discorso autonomo attorno al consumo di musica elettronica, riuscendo a tenere insieme, per un verso il registro culturale dell’arte e della ‘cultura alta’ e, per un altro verso, i modelli di consumo edonistico tipici della cultura del ballo notturno. 5. Conclusione: la Ruta Destroy, il Sónar e le traiettorie di legittimazione culturale della musica elettronica Non vi è dubbio che la Ruta Destroy e il Sónar proiettino due modelli sociali assai differenti di musica elettronica da ballo: da un alto la devianza e i comportamenti estremi di una generazione giovanile spagnola alla scoperta della libertà civile; dall’altro, un festival che è stato in grado sia di presentare la musica elettronica come una forma d’arte, sia di catalizzare attorno a sé l’attenzione di giovani cosmopoliti provenienti da tutto il mondo. Questa differenza ci racconta di un percorso pluridecennale: il ventennio compreso tra gli inizi degli anni Ottanta e gli inizi degli anni Duemila ha infatti costituito una fase fondamentale nell’affermazione della musica dance quale dimensione integrante e pienamente legittimata nella società contemporanea. Si tratta di un periodo in cui la musica elettronica da ballo ha sviluppato, mutuandole dalla disco music, alcune caratteristiche peculiari sia sotto il profilo estetico sia rispetto alle pratiche di consumo e partecipazione a essa associati. Nel corso degli anni queste caratteristiche culturali e sociali si sono arricchite di altre dimensioni, più in sintonia con la fruizione artistica e ciò ha 169 Philomusica on-line 13/2 (2014) coinciso con l’avvio di una trasformazione nella percezione sociale della musica elettronica. Questa da forma estrema di edonismo, e spesso di esplicita devianza sociale, è divenuta non solo un tema di riflessione accademica socioantropologica – e più recentemente anche estetico-musicologica – ma anche un ‘oggetto culturale’ considerato di valore e di interesse dalla società di oggi e, dunque, adatto a essere presentato nei musei e nelle gallerie d’arte. Sebbene il processo di legittimazione culturale della musica dance investa molteplici dimensioni, in questo articolo abbiamo inteso rendere le misure delle trasformazioni prodotte da questo processo di legittimazione della musica elettronica. Abbiamo dunque raccontato, mettendoli in controluce, due particolari fenomeni legati alla musica elettronica da ballo, vicini temporalmente e geograficamente, ma profondamente differenti nella considerazione culturale e artistica che hanno ricevuto. La Ruta Destroy di Valencia è stata, negli anni Ottanta, un movimento musicale giovanile diventato oggetto di un allarme sociale nella società del proprio tempo; il festival Sónar di Barcellona tra la fine degli anni Novanta e gli inizi degli anni Zero, è diventato non solo il più autorevole festival di musica elettronica al mondo, ma anche un punto di riferimento delle politiche turistiche internazionali della Catalunia. Un ultima considerazione verte infine sulle conseguenze culturali di questo processo di legittimazione della musica elettronica. Queste conseguenze, infatti, hanno anche effetti retroattivi. È interessante notare, infatti, che molto recentemente, nel novembre del 2013, il MuVIM, il Museo dell’illustrazione della città di Valencia, ha inaugurato una mostra retrospettiva dedicata della Ruta Destroy e ai fenomeni culturali legati al divertimento notturno degli anni Ottanta in città (cfr. BONO 2013). Ciò che fu considerato un problema giovanile nei primi anni Novanta, a vent’anni di distanza è dunque divenuto il tema di un esposizione in un museo cittadino. La trasformazione del divertimento notturno basato sulla musica da problema sociale a oggetto da museo rappresenta un passaggio dall’indubbio valore simbolico nella traiettoria di legittimazione della musica elettronica nel corso del periodo che va dagli anni Ottanta fino a oggigiorno. Se ragioniamo sull’evoluzione delle ‘traiettorie di legittimazione culturale’ degli oggetti artistici, possiamo così riconoscere questo passaggio come un’ulteriore tassello nella costruzione simbolica della musica elettronica da ballo quale oggetto elevato alla dignità dell’arte. La differenza che separa i due esempi della storia della musica elettronica che abbiamo qui considerato ci aiuta quindi a mettere a fuoco la distanza percorsa dal processo di legittimazione sociale della musica elettronica: un fenomeno nato e sviluppatosi nei capannoni di periferia, spesso nelle sacche di marginalità sociale, ma divenuto un oggetto culturale e artistico di valore, ospitato in musei e sempre più spesso assunto come punto di riferimento da parte di critici culturali e studiosi musicali. 170 P. Magaudda – Dalle periferie al museo Bibliografia ADORNO, T. (1941), Sulla popular music, trad. it., Armando, Roma 2004. BARONI, S. – TICOZZI, N. (1979), Discomusic. 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Paolo Magaudda is sociologist at the University of Padua, where he works on the relationship between technology, society and culture, with particular reference to the case of music. He is the author of several books, including a study (in Italian) on the use of music devices titled Objects of listening, HiFi, iPod and consumption of music technologies (Il Mulino, 2012) and a History of Digital Media (with G. Balbi, Laterza, 2014). 172