1 CELEBRAZIONE EUCARISTICA IN SUFFRAGIO DI MONS. LUIGI GIUSSANI La Spezia, San Paolo Apostolo, 27 febbraio 2012 Omelia del Vescovo Celebriamo l’Eucarestia nel ricordo di don Giussani. Sappiamo che la Chiesa ufficialmente si sta muovendo per riconoscere - a Dio piacendo - le virtù eroiche di quest’uomo che ha rappresentato tanto e continua a essere il riferimento del movimento da lui creato. Certamente la santità è il sigillo della vita battesimale, quindi noi auspichiamo che in don Giussani - uomo di grande intelligenza - possa essere riconosciuto anche il dono della santità. In questa breve riflessione ci soffermiamo su un testo autografo, una frase che ci consegna don Giussani nella sua totalità, nella sua interezza; un testo che, come succede in Giussani, è soppesato in ogni particolare; ogni parola, ogni virgola è valutata, non è a caso; ogni particolare diventa sostanziale per esprimere il suo pensiero. Chiedo, quindi, attenzione per cogliere in queste parole lapidarie, quasi scolpite, il suo carisma: «Man mano che maturiamo, siamo a noi stessi spettacolo e, Dio lo voglia, anche agli altri. Spettacolo cioè - e qui c’è il realismo di Giussani - di limite e di tradimento, e perciò di umiliazione, e nello stesso tempo di sicurezza inesauribile nella grazia che ci viene donata e rinnovata ogni mattino. Quella idea concreta, reale, fatta di uomini con le loro storie, coi loro vizi, con le loro virtù, coi loro “sì”, coi loro “no” è la Chiesa reale, è la Chiesa che ha bisogno soprattutto della grazia». Qui troviamo un punto fondamentale che don Giussani ha voluto sottolineare perché senza la grazia, senza il richiamo alla misericordia di Dio, alla vicinanza di Dio, alla tenerezza di Dio, il cristianesimo rischia di ridursi soltanto a un insegnamento, una dottrina. Giussani poi continua dicendo: «Da qui viene quella baldanza ingenua che ci caratterizza, per la quale ogni giorno della nostra vita è concepito come un’offerta a Dio». Ecco, questo é il rischio per chi, nella Chiesa, è chiamato a predicare, a fare conferenze, a scrivere libri: perdere il contatto con la quotidianità della fede; allora don Giussani ci ricorda che noi siamo un’offerta a Dio quotidiana, ogni giorno. Sottolineo, infine, un punto fondamentale: «Purché la Chiesa esista dentro i nostri corpi e le nostre anime, attraverso la materialità della nostra esistenza». In un’epoca in cui il Concilio Vaticano II ha messo al centro la Chiesa nel rapporto con Dio, in un periodo in cui sembra che taluni uomini e donne di Chiesa pensino di poter rapportarsi a Dio a prescindere dalla Chiesa, in un periodo in cui si enfatizza la Chiesa peccatrice, quasi come se i peccati non appartenessero agli uomini e alle donne di Chiesa, don Giussani dice, anzi pone come condizione «purché la Chiesa esista». E si chiede: dove esista? Non certo sotto forma di pensiero intellettuale ma, al contrario, dentro i nostri corpi, dentro le nostre anime, attraverso - conclude - la materialità della nostra esistenza. Mi sembra che in questo riflessione ci sia tutto il pensiero e il carisma di don Giussani, ci sia tutto il movimento da lui sorto. Il resto mi sembra sia soltanto esplicitazione di questo dato fondamentale. Preciso, infine, che in ciò che dice don Giussani non vi è nulla di originale rispetto al Vangelo; e sono convinto che don Giussani 2 sia contento di questa precisazione; Giussani, infatti, non ha inteso dire nulla di nuovo rispetto al Vangelo. La grandezza della vita cristiana è proprio ritornare al Vangelo con la “V” maiuscola, ossia all’evento cristiano che è quella grazia che ha un nome, un volto, una storia, un corpo, quello di Gesù di Nazareth. Allora, in don Giussani non c’è niente di nuovo rispetto al Vangelo; semplicemente c’è il Vangelo nel suo mistero portante e credo che questa sia la migliore lode che si possa fare a un battezzato; quella frase da cui siamo partiti, e sulla quale dovremmo ritornare frequentemente, non è altro che il commento al Vangelo: «Il Verbo si fece carne» (Gv 1, 14), oppure: «Davvero il Signore è risorto» (Lc 24, 34), o ancora: «Ti sono perdonati i peccati» (Mc 2, 9). Giussani si è limitato al vangelo e questa è la sua grandezza: è la grandezza del cristiano, del battezzato, del discepolo del Signore; si tratta di prendere sul serio la lettera e lo spirito del Vangelo, declinandolo nella modernità: la fedeltà al Vangelo nell’oggi. Quando sento parlare della preoccupazione di essere originali, rimango perplesso. Il discepolo non è chi vuole essere più del maestro, è colui che pone i suoi piedi sulle orme del maestro, in un contesto diverso, in una situazione diversa, ma non vuole essere più del maestro, non vuole essere diverso dal suo maestro. E allora, di conseguenza, possiamo dire che don Giussani ci chiede una fede capace di farsi cultura, seguendo il metodo della libertà evangelica. La teologia, ma forse è meglio dire il carisma e la spiritualità di don Giussani, si situano nel solco della grande tradizione della fede cristiana, iniziando dal prologo del quarto Vangelo: «Il Verbo si fece carne». Giussani s’inserisce in questa realtà, che da Giovanni passa per Ireneo di Lione; la tentazione di scindere il cristianesimo dalla carne è un errore, è l’eresia che vuole addomesticare il cristianesimo e renderlo gradito, espungendovi lo scandalo dell’incarnazione. Quindi Giussani si muove su questa linea, la linea che ha in san Benedetto un momento irrinunciabile; l’umanità e la fraternità in Cristo che si traducono nell’equilibrio naturale e soprannaturale della regola di Benedetto. Siamo ancora nella linea di san Bernardo, di san Francesco, di santa Teresa d’Avila, per i quali Gesù non è mai stato un’idea ma una persona, per la quale la fede non è una teoria ma il donarsi con la propria vita, la propria carne e il proprio sangue, quindi con ogni frammento della propria vita, della propria umanità, della propria persona a Colui che ha dato la carne e il sangue per noi. Ricordo un intervento di don Giussani nell’Aula del Sinodo, nel 1996. Citando Kafka, Giussani diceva: «Per alcuni c’è una meta, ma non c’è la via per raggiungerla, per noi c’è la meta e la via per raggiungerla: è Cristo nella sua carne e nel suo sangue». Saluto finale Noi, a differenza di altri, possiamo usare la parola “per sempre” e la possiamo usare guardando colui che ci sta di fronte e al quale diciamo questa parola in modo vero e sincero perché la nostra fragilità umana è sostenuta dalla Grazia del Signore. La cosa che ci deve veramente consolare anche nei momenti del distacco che pesano molto, anche se non si danno a vedere questi sentimenti. In questi momenti noi sappiamo che mentre facciamo i conti con la nostra precarietà umana, col divenire, con lo scorrere delle cose, il passato, il presente, il futuro, noi in realtà scriviamo nell’eternità. Allora abbiamo qualcosa di più degli altri, per grazia: lo dobbiamo dire con molta umiltà, pensando che di questo il Signore ci chiederà conto. Allora i momenti del distacco per un cristiano continuano a 3 mantenere quella sofferenza della carne e del sangue, ma partecipano anche di una risorsa, quella dell’eternità. Noi non scriviamo sulla sabbia, noi scriviamo sulla roccia. Io ricorderò per sempre le quattro celebrazioni eucarestiche che ho presieduto in questi anni in occasione dell’anniversario del passaggio al cielo di don Giussani; li ricorderò sempre come momenti belli dal punto di vista degli incontri umani e come momenti che ci hanno aiutato anche – ritornando alla grandezza del carisma - a riscoprire nel quotidiano la nostra fede. E voi seguite i vostri preti, perché i vostri preti sono preti che appartengono alla Chiesa e la amano profondamente. Ricorderò sempre Giussani, ormai provato fisicamente, inginocchiato di fronte a Giovanni Paolo II; tale immagine mi sembra l’icona della nostra fatica e della nostra grandezza. Amiamo la Chiesa, cerchiamo di viverla, cerchiamo di affascinare gli altri attraverso la nostra vita ecclesiale che ha come fondamento Gesù Cristo, perché la Chiesa ha senso in quanto guarda Lui, ci dà Lui e ci continua a ripetere che Lui è il solo, l’unico Signore.