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Filosofia e cultura nell’Atene del V secolo
I sofisti e Socrate sintesi
I sofisti
� Paragrafo 1 �Fermenti culturali nell’Atene del V secolo
Fu Anassagora il primo filosofo che operò ad
Atene, nel momento in cui si apriva per la città un periodo di straordinaria fioritura intellettuale e artistica. Grazie anche a una serie di riforme democratiche e a un generale clima di
tolleranza e libertà di espressione, l’Atene del V secolo a.C. vide sorgere e perfezionarsi
diverse forme letterarie: il teatro tragico nelle figure di Eschilo, Sofocle ed Euripide, la commedia antica, il cui massimo esponente è Aristofane, la storiografia di Erodoto e Tucidide.
Anche il sapere tecnico-scientifico fece rapidi e importanti progressi, come testimonia la
raccolta di scritti “ippocratici” risalenti al periodo.
� Paragrafo 2 �
Una nuova figura di intellettuale Lo sviluppo politico, sociale e culturale che caratterizza
la Grecia del V secolo a.C. favorisce la comparsa di una nuova tipologia di intellettuale: il sofista. Dal greco sophòs (“sapiente”), sofisti vengono chiamati quei filosofi che iniziano a dare, sotto compenso, lezioni di filosofia, trasformando quest’ultima in una professione. Proprio
per questa loro caratteristica, i sofisti furono aspramente criticati dai loro contemporanei, che li
accusarono di mercificare il sapere, voltando le spalle al tradizionale atteggiamento di ricerca
disinteressata della verità e della conoscenza. Socrate, Platone e Aristotele, in particolare, contribuirono a dare al termine un’accezione dispregiativa, etichettando il sofista come colui
che predilige gli argomenti capziosi e ingannevoli (accezione tuttora presente negli aggettivi
italiani “sofista” e “sofisticato”) e che finisce col barattare la ricerca della verità con una tecnica
di persuasione.
L’arte della parola L’insegnamento sofista si concentra soprattutto sull’arte di usare la
parola, che diventa tecnica, e sull’abilità di formulare discorsi persuasivi, capaci di
suscitare nell’ascoltatore reazioni emotive e finalizzati al raggiungimento di un certo scopo,
come il consenso e l’approvazione dei propri concittadini. In un’epoca in cui le riforme in
senso democratico di Clistene, Efialte e Pericle avevano ad Atene esteso l’accesso alle cariche
politiche e pubbliche anche a chi non era di nobili natali, l’educazione politica e la capacità
di persuadere i cittadini diventano beni fondamentali. Questo è uno dei motivi per cui il
movimento sofistico fu particolarmente apprezzato proprio in quella città.
I nuovi orizzonti della filosofia Con lo sviluppo della scuola sofistica osserviamo un
ampliarsi dell’orizzonte filosofico: la filosofia passa dallo studio della phỳsis, della natura
impersonale e dei suoi elementi, all’indagine sull’uomo e sui suoi prodotti culturali. Essa
diventa studio del linguaggio e dei meccanismi che lo regolano – nascono, infatti, discipline
come la logica, la retorica, la filosofia del linguaggio –, della psicologia umana, delle tecniche
di insegnamento più efficaci, fino a includere argomenti etici, religiosi e politici.
Il relativismo sofistico I sofisti mettono in dubbio i cardini del pensiero filosofico che li
ha preceduti e le certezze raggiunte dalla scuola eleatica, soprattutto l’identità fra pensiero,
parola ed essere, affermata con vigore da Parmenide e difesa dai suoi discepoli e successori.
Comincia così a delinearsi un divario tra pensiero ed essere: la fiducia nella capacità
dell’uomo di cogliere in modo compiuto e definitivo la verità del reale si incrina, così
come la garanzia nella corrispondenza tra ciò che si pensa e ciò che è. Due sono le possibili
conclusioni, rispettivamente abbracciate dai maggiori esponenti del movimento sofistico,
Protagora e Gorgia: la conoscenza umana è irrimediabilmente soggettiva (è questa la conclusione di Protagora); oppure, la conoscenza umana non può uscire dalle maglie del pensiero e del linguaggio, e non incontra mai l’essere (è questa la posizione di Gorgia).
Protagora
� Paragrafo 3 �
«L’uomo è misura di tutte le cose» Il relativismo di Protagora si traduce nella celebre
espressione, contenuta in uno dei pochi frammenti giunti fino a noi, «l’uomo è misura di
tutte le cose». A prescindere dalle diverse interpretazioni che di questa massima sono state
date, è certo l’intento di Protagora di delineare la reale situazione in cui l’uomo vive: poiché
manca un criterio divino per valutare la verità o la falsità dei propri giudizi, l’uomo non può
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che arrendersi di fronte alla loro relatività, al fatto che essi cambiano a seconda delle circostanze, delle esperienze personali, delle prospettive e del tempo in cui vengono formulati.
Perciò Protagora può dire che, in merito a ogni oggetto, esistono due ragionamenti contrapposti.
Il criterio dell’utilità Dal momento che tutti i giudizi godono di una legittima pretesa di
verità, Protagora risolve, a detta di Platone, le inevitabili difficoltà sostituendo il criterio di
verità con quello dell’utilità. Al posto delle variabili vero/falso troviamo quindi quelle
utile/dannoso, sulle quali esiste un certo accordo intersoggettivo. Il lavoro del filosofo si concentrerà di conseguenza, secondo Protagora, nell’individuare i mezzi più efficaci per raggiungere un certo scopo, primo fra tutti quello di produrre le migliori condizioni di vita per l’uomo
e la società nel suo complesso.
La virtù politica Tra i compiti del sofista, il più importante è, secondo Protagora, quello di
insegnare la virtù politica, intesa, in accordo con la concezione greca della virtù (aretè),
come capacità pratica, e non solo morale, di produrre determinati effetti positivi sulla vita
comunitaria. La virtù è per Protagora accessibile a tutti gli uomini, anche se in misura differente: compito di chi la insegna, del sofista, è di stimolare il massimo sviluppo delle potenzialità e capacità di ciascun individuo.
Gorgia
� Paragrafo 4 �
Contro l’eleatismo: la tesi tripartita In netta polemica con l’eleatismo, Gorgia elabora la
sua celebre tesi tripartita: 1) nulla esiste; 2) se anche esistesse, non sarebbe afferrabile con il
pensiero; 3) se anche fosse afferrabile con il pensiero, non sarebbe esprimibile con le parole.
Con la prima tesi, Gorgia intende smontare il concetto di “essere” di Parmenide, che è passibile di determinazioni contraddittorie (per Parmenide, infatti, esso è finito, mentre Melisso lo
concepisce infinito). Con la seconda tesi, che si può accettare come vera solo una volta ammessa la falsità della prima, ritroviamo le posizioni relativistiche di Protagora e la mancata identità di essere e pensiero, cui fa da appendice la sfiducia nelle possibilità del pensiero umano di
cogliere la verità (Gorgia fa notare come l’uomo può pensare cose che non esistono, come i
carri che volano). Con la terza tesi, che è vera se si ritengono false la prima e la seconda, Gorgia sottolinea la differenza qualitativa tra linguaggio e realtà, tra le parole e le cose. Ne deriva
una concezione dell’uomo rinchiuso nel suo universo mentale e linguistico, che sarà oggetto
di un confronto serrato nell’ambito della riflessione filosofica dei secoli successivi.
La parola come «phàrmakon» Una volta negato il valore della parola nell’esprimere la
verità delle cose, il linguaggio si libera dell’uso tradizionalmente attribuitogli e finisce con
l’assumere ben altre funzioni. Per Gorgia il linguaggio ha lo scopo di persuadere, di
“ingannare”, nel senso di creare mondi fittizi capaci di suscitare forti reazioni emotive
nell’interlocutore. La parola è intesa come phàrmakon (che in greco significa sia “medicina”,
sia “veleno”), una sorta di narcotico che non agisce sul piano razionale ma a livello inconscio, determinando meccanicamente certe reazioni e inducendo corrispondenti comportamenti. Ne consegue che, nel pensiero di Gorgia, la razionalità umana e le sue possibilità
conoscitive sono relegate a un ruolo assolutamente subordinato.
Il contrasto tra phỳsis e nòmos
� Paragrafo 5 �
Prodico e Ippia Tra i sofisti ebbero notevole successo Prodico di Ceo e Ippia di Elide,
famosi per aver teorizzato rispettivamente gli espedienti retorici della sinonimica e della
mnemotecnica. Prodico mette in evidenza, come Protagora, la connessione tra il bene e
l’utile: sua è la tesi per cui agire in modo virtuoso procura vantaggi e benessere. Secondo la
tradizione, Ippia avrebbe invece introdotto per la prima volta nel dibattito filosofico la
distinzione tra phỳsis (natura) e nòmos (legge, costume, convenzione), destinata a godere di
ampio successo nel corso della storia della filosofia. Mentre la phỳsis indica ciò che è per
natura, ciò che in essa trova riscontro, con nòmos si intende, al contrario, ciò che è stabilito
dagli uomini per convenzione, ad esempio i costumi di un popolo e le norme morali e giuridiche decise da una comunità. Il contrasto che si profila è allora quello tra le leggi di
natura, che sono le medesime in ogni tempo e luogo, e le leggi convenzionali, che
variano invece a seconda del momento, del luogo, della comunità in cui sono stabilite. L’at-
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tualità del pensiero di Ippia risiede quindi nel suo invito a meditare sui pregiudizi che derivano dal confondere differenze puramente convenzionali, come quelle di lingua, costumi e
credenze religiose, con differenze naturali tra gli uomini, che finiscono con l’avere un valore altamente discriminante.
Antifonte: un contrasto insanabile Dalla contrapposizione tra phỳsis e nòmos sostenuta da Ippia prende l’avvio la riflessione di Antifonte, che a essa aggiunge il principio utilitaristico sottolineato da Protagora. È vero che gli uomini sono per natura tutti uguali, ma
è vero anche che ognuno agisce in vista del proprio bene: ne derivano continui e insanabili conflitti fra gli uomini, dal momento che ognuno è tentato di prevaricare sugli altri
per soddisfare i propri desideri. Qui interviene il nòmos (le leggi) che impone di sacrificare
parte dei propri diritti naturali in vista del bene collettivo; ma Antifonte non rinuncia a
mettere in luce la precarietà di questa situazione e i danni che ogni uomo subisce nel
rinunciare a soddisfare i propri desideri naturali. In sostanza, Antifonte si limita a sottolineare come il contrasto fra phỳsis e nòmos sia un dato di fatto da cui è impossibile prescindere.
Trasimaco, Callicle, Crizia Da simili presupposti parte Trasimaco, per giungere alla tesi per
cui “la giustizia è l’utile del più forte”. Gli interessi individuali contrastano gli uni con gli altri,
e per questo è impossibile concepire una comunità in cui tutti siano pacificamente soddisfatti:
la convivenza sociale nasconde necessariamente una situazione di violenza e predominio.
Anche Callicle, retore e uomo politico, sostiene la tesi per cui nella società civile il più forte
domina sul più debole, ma si distingue da Trasimaco perché definisce giusta e naturale questa
situazione: gli uomini sono diversi per natura, e questa differenza deve essere mantenuta dalla
comunità. Condivide la stessa visione realistica e disincantata Crizia, che fece parte nel 411
a.C. del governo dei Trenta Tiranni: per primo dipinge la religione come strumento di dominio, e gli dei come espedienti inventati dai primi legislatori allo scopo di costringere i cittadini
ad agire virtuosamente instillando in loro la paura delle punizioni divine.
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Socrate
La filosofia come modo di vivere La figura di Socrate rappresenta una tappa fondamentale nella storia del pensiero antico e segna un cambiamento radicale nel modo di intendere
la filosofia: con Socrate si compie definitivamente il passaggio dallo studio della phỳsis allo
studio dell’uomo e del suo mondo interiore, delle sue problematiche etiche, politiche e religiose. La filosofia diventa un vero e proprio modo di vivere basato sull’etica: la ricerca della verità, connaturata alla riflessione filosofica, è indirizzata a produrre la vita felice e
virtuosa. Secondo Socrate, la domanda a cui la filosofia deve saper rispondere è la seguente:
«come deve vivere l’uomo?». Aristotele parlerà di lui sottolineando due cose fondamentali:
egli si occupò di questioni esclusivamente morali, e fu il primo filosofo ad avviare l’indagine
sui concetti universali.
Il metodo confutatorio (l’arte maieutica) Socrate non scrisse nulla, in accordo con il
significato che egli attribuiva alla filosofia come processo chiarificatore dell’anima umana.
Il metodo da lui utilizzato procedeva nel seguente modo: all’interlocutore di turno era solito porre una domanda generale, del tipo “che cos’è x”, dove x sta a indicare un concetto
universale, come il coraggio, la bellezza, la virtù. Scopo dell’interrogazione era individuare i principi generali in base a cui l’uomo agisce e conduce la sua vita. Grazie a tale
metodo, basato su domande e risposte tra Socrate e il suo interlocutore, veniva gradualmente alla luce l’infondatezza di tutte quelle convinzioni personali che gli uomini tendono
a considerare vere, e che invece, a un esame attento e rigoroso, mostrano la loro natura
contraddittoria. Tale metodo è detto anche “arte maieutica”, poiché si basa non sul tentativo di persuadere l’interlocutore di una qualche verità, ma su quello di farlo giungere da
solo alle conclusioni più fondate, proprio come una levatrice aiuta le partorienti a dare alla
luce i loro figli.
Il terreno fertile dell’ignoranza Il metodo confutatorio di Socrate aveva anche lo scopo
di smascherare la presunta saggezza dei suoi interlocutori e dimostrare che anche coloro che
pretendono di sapere in realtà non sanno nulla. Socrate riteneva infatti che l’ignoranza fosse
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il terreno fertile da cui partire, dal momento che solo chi ammette la propria ignoranza è
anche nella condizione di imparare.
L’etica socratica L’etica socratica è tradizionalmente connotata come “intellettualistica”
ed “eudemonistica”: intellettualistica in quanto basata sull’idea che nessun uomo compia
il male volontariamente, ma che questo derivi da un’ignoranza dell’intelletto, che non
conosce il vero bene; eudemonistica in quanto rivolta alla ricerca della felicità. Tutti gli
uomini, secondo Socrate, possiedono per natura la stessa inclinazione alla felicità, ma spesso
sbagliano nell’individuare in che cosa questa consista. L’idea originale di Socrate è quella di
identificare la felicità con la virtù e la giustizia: solo chi si comporta in modo virtuoso, buono
e giusto, può essere felice. Ne deriva una nuova concezione dell’uomo, come essere spirituale che rivolge al suo interno la propria attenzione, e della felicità, intesa non come qualcosa che dipende da fattori esterni, come la gloria o i beni materiali, ma come una qualità
dell’anima orientata alla virtù e al bene.
Il valore etico della ricerca filosofica Condizione essenziale per raggiungere la felicità è,
per Socrate, sapere che cosa essa sia. Ecco perché l’arte maieutica, che costituisce il nucleo
del suo metodo di indagine, ha un’importanza così fondamentale: per essere felici è necessario interrogarsi prima di tutto su che cosa siano “il bene”, “la virtù”, “la giustizia”, cioè scandagliare quei concetti etici universali contenuti nella domanda socratica “che cos’è x”.
Tuttavia, nell’immagine che Platone nei suoi dialoghi ci dà di Socrate, raramente i procedimenti maieutici si concludono con un successo, e mai un concetto universale viene spiegato
in modo compiuto e definitivo. Dal momento che, quindi, i risultati a cui l’uomo può giungere con la sua ricerca saranno sempre parziali e precari, Socrate finisce per identificare la
virtù e la felicità con la stessa attività di ricerca, cioè con la filosofia.
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I socratici minori e le loro “scuole”
L’eredità di Socrate A differenza di Platone e del suo allievo Aristotele, interessati prevalentemente agli aspetti teorici del pensiero di Socrate (di cui hanno proseguito l’indagine sui concetti universali), i socratici minori hanno ripreso dal maestro l’idea di una filosofia strettamente congiunta con la vita, la cui preoccupazione centrale consiste nel mettere in atto un modo di vivere ispirato ad alti principi etici, spesso in contrasto con i valori tradizionali o comunemente accettati. Fra i socratici minori si ricordano Antistene, polemico verso Platone e sostenitore di un’etica rigorista, Aristippo ricordato come edonista,
ed Euclide di Mègara.
Cinici, cirenaici e megarici Alla base del pensiero dei cinici vi è l’idea che la vera felicità
si può raggiungere soltanto praticando la virtù in modo rigoroso e senza compromessi; memori della contrapposizione socratica tra anima e corpo, i filosofi cinici si curano del benessere e dell’indipendenza dell’anima e nutrono un assoluto disprezzo per i beni materiali. Fanno propria l’idea socratica della filosofia come ricerca della felicità ma la sviluppano
in senso edonistico, sostenendo che il massimo tra i beni è il piacere (lo stesso principio è
sostenuto dai cirenaici, che per “piacere” intendevano anzitutto il piacere del corpo), ma
ritengono fondamentale che il soggetto mantenga un certo dominio su di esso. Più attenti,
invece, al versante teorico-speculativo dell’indagine filosofica, i megarici coltivano un profondo interesse per la dialettica. Particolarmente notevoli sono il paradosso del mentitore (attribuito a Eubulide), l’argomento del sorite e soprattutto l’argomento “dominatore”
(concepito da Diodoro Crono), che si propone di eliminare la nozione di “possibile”, dimostrando che tutti gli eventi sono o impossibili o necessari.
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