LO SPAZIO DELLA FILOSOFIA

annuncio pubblicitario
125
LO SPAZIO DELLA FILOSOFIA
Salvatore Natali
Discutere di RoRTY all'intersezione di pragmatismo ed ermeneutica, significa assumerlo prioritariamente come emblema, vale a dire come
il punto in cui vengono a confluire due modalità fondamentali della dissoluzione della scientificità della filosofia o più propriamente della filosofia intesa come scienza. Ecco, se c'è un interesse singolare in questo
personaggio, è proprio dato da questa confluenza. Due grandi traiettorie
con due diverse provenienze ambientali e di tradizioni che vengono, meno paradossalmente di quanto non si pensi, a confluire in un punto: la
dissoluzione della filosofia come scienza. Allora, se cosl è, discorrere di
RoRTY diventa un'occasione aurea per parlare del senso della filosofia,
perché proprio della filosofia ne va in questo bilancio. Una volta detto
questo, si può ritenere che RoRTY sia un pretesto utile per discutere della
dissoluzione della filosofia come scienza, anche per una ragione che nel
corso del nostro ragionamento emergerà sempre più chiaramente: RoRTY
è molto più significativo per la tradizione che mette in liquidazione di
quanto non lo ~ia per l'apertura di nuovi orizzonti riguardanti il senso
della filosofia. E più interessante per l'aspetto di rottura polemico provocatorio che ha soprattutto nel suo ambiente di provenienza, vale a dire
nella tradizione filosofica americana, di quanto non lo sia per la produzione di nuovi effettivi campi di orientamento. E qui uso in un modo
ben ponderàto parole come "orizzonte", parole come "orientamento":
infatti, almeno di una cosa RoRTY ci ha avvertiti: la rottura non bisogna
pensarla in termini di sostituzione di centralità. Se la rottura rispetto alla
tradizione filosofica la si pensa in termini di sostituzione di centralità,
ancora una volta si torna nello schema tradizionale della filosofia. E allora, se non la si pensa in questi termini, bisogna pensarla più che altro
come uno spazio. Si tratta proprio di quello spazio che ci viene incontro
-
----'------'-'------·--------
------
-·
-----""---------·--------"'-------~---------·-~"--'---'-'---------·-
126
nel nostro andare. Bisogna dunque trovare l'orientamento in esso. Ora,
noi non possiamo conoscere i limiti di questo spazio se non percorrendolo; ne possiamo fissare la misura solo attraverso il nostro orientarci in esso. In ciò c'è indubbiamente un elemento di innovazione e di scoperta
ma esso non ha il carattere della definitività, proprio perché è costituito
dall'impossessamento dello spazio attraverso l'andatura, in questo senso
si può parlare di confluenza di pragmatismo ed ermeneutica.
Accedo quindi alla prima parte di questa mia analisi enucleando gli
argomenti con cui RoRTY mette in questione la forma classica della filosofia. Perché e in che senso il pragmatismo e l'ermeneutica mettono in
liquidazione la scientificità della filosofia o la filosofia come scienza? RoRTY
ritiene che anche a proposito della filosofia si debba in un certo senso
parlare di secolarizzazione. Alla filosofia sta accadendo né più né meno
quello che è accaduto alla religione. Quando la religione si è secolarizzata
è diventata la filosofia (che in Conseguenze del pragmatismo, RoRTY segna
con la lettera maiuscola: la Filosofia). Quindi, la secolarizzazione della
religione, la centralità del fatto religioso-teologico, si è tradotta in centralità della Filosofia; non a caso RoRTY fa nascere la filosofia come scienza
in senso stretto con l'età moderna, con CARTESIO (e qui probabilmente
si possono avanzare alcune riserve). Ad ogni modo prima non c'è la filosofia, ma c'è uha centralità della teologia. Tutti, a livello di manuale, sanno
che nel medioevo la filosofia era considerata una ancilla teologiae. Certamente la filosofia aveva una sua specificità, ma la definizione dello spazio della sua specificità era all'interno della teologia, tanto più che la filosofia, in quel contesto, era chiamata, teologia naturale. Di contro alla teologia rivelata c'era la teologia naturale. La teologia naturale copriva un
ambito, uno spazio di oggetti che era pressoché analogo a quello che sarà
poi della filosofia: quando la teologia si secolarizza diventa filosofia. Noi
siamo ora in una fase che, usando il linguaggio di RoRTY, possiamo definire di secolarizzazione della filosofia. La filosofia, che aveva questo posto centrale e lo aveva nella forma di teoria della conoscenza e di epistemologia, si secolarizza: ormai non si può più parlare di filosofia in questo
senso. La filosofia, assunta come teoria della conoscenza e come epistemologia, si può ritenere finita e vedremo il modo e la forma in cui si consuma questa fine. La forma scientifica del filosofare appare fondamentalmente con l'impianto cartesiano. In proposito è da sottolineare come in
area anglosassone, vi sia una stretta connessione tra teoria della conoscenza
-~--~------~------~
--
--~---~----~-~------------
·~-~
127
ed epistemologia. A differenza della nostra cultura, dove per "epistemologia'' si intende in genere la filosofia della scienza, nel mondo anglosassone si intende per "epistemologia" soprattutto la teoria della conoscenza. La filosofia della scienza si inquadra quindi dentro la teoria della conoscenza come la forma migliore e più alta di conoscenza. Ed è questo
il motivo per cui in RoRTY c'è una successione dinastica tra il momento
metafisica, il momento più propriamente cognitivo, teoria della conoscenza, e il momento più specificatamente positivista: c'è una successione dinastica. In queste scansìoni ritorna fondamentalmente la stessa determinazione: l'assolutezza della verità intesa come corrispondenza con un'altrettanta assoluta realtà. Ora, nella secolarizzazione della filosofia viene
meno appunto l'assolutezza della verità come adeguazione ad un' altrettanto assoluta realtà.
Nella tradizione della filosofia vi è un postulato secondo cui la verità non è né può essere altro che adeguazione alla realtà. La definizione
classica della verità, già di origine platonica (vedi appunto il Sofista) è l'adequatio rei et intellectus: c'è verità perché c'è un'adeguazione dell'intelletto alla cosa. Quindi l'essenza della verità è costituita, secondo questa
dizione della verità, dal "rispecchiamento". Non a caso nel suo saggio
di critica della epistemologia RoRTY impiega come titolo La filosofia senza specchi. La presupposizione di una relazione perfetta tra pensiero e realtà
dà luogo ad una filosofia della specularità e a tale scopo torna buona la
metafora dello specchio. Lo specchio, infatti, tanto meglio rispecchia quanto più è trasparente, è tanto più certo quanto meno è attraversato da ombre che ne deformano le immagini impresse. La verità, nella sua dimensione più radicale, equivale a "dire la cosa stessa". Non è da dimenticare
ad esempio, come il progetto della fenomenologia di HussERL era proprio quello di andare alle cose, fare essere le cose cosl come sono, togliere
l'ombra del vissuto, purificare gli Erlebnisse: in questo senso HusSERL è
anch'egli erede di quel processo di purificazione platonico-cartesiano che
avanza la pretesa della massima oggettività. Lo specchio diviene la cosa
stessa: quando è annullata qualsiasi dimensione di disturbo, lo specchio
e la cosa vengono ad essere una cosa sola. Tutta la costruzione epistemologica a partire da CARTESIO è questo tentativo di adeguazione perfetta
della rappresentazione con la cosa. Questo culmina con HussERL, ma è
un culmine che veramente è una dinastia se si pensa che l'HussERL maturo intitolerà una delle sue opere fondamentali e decisive Meditazioni
128
Cartesiane, ove di nuovo viene ripreso e vigorizzato il modello della trasparenza. Che cos'altro è l'epoché se non appunto l'abbattimento delle
ombre in modo che si possa andare alle cose stesse? n progetto della filosofia a partire dall'età moderna tende ad azzerare ogni discrepanza residua o possibile tra pensiero e realtà e proprio per questo non può formularsi altrimenti che in termini di "garanzia".
Questo concetto di "garanzia", mi si consenta una breve parentesi,
era molto meno presente nella tradizione antica: nel mondo antico il tema della garanzia non era centrale. Nel mondo greco non c'era l'idea di
una separazione tra il pensare e l'essere. I Greci, al contrario dei moderni non si ponevano nessuna questione metodologica circa l'essere, ma l'essere era appunto quell'immediato ed inquestionabile orizzonte entro cui
si dava la differenza di vero e di falso. Il terreno di opposizione era infatti essere e divenire e non essere ed apparire. L'indeterminazione dell'apparire, e perciò l'errore, era superabile in quanto riducibile all'identità
dell'essere. Ora, all'interno della notizia immediata dell'essere si configurava l'universo delle essenze in forza del quale le cose erano identiche
a sé stesse e perciò stesso identificabili e conoscibili.
La proprietà fondamentale di una cosa è ciò che è permanente nel
variare degli accidenti; ora ciò che è permanente nel variare degli accidenti è ciò che fa essere la cosa stessa, ossia la cosa esiste in forza di quella proprietà che la fa essere e la proprietà che la fa essere è proprio quella
che permane. Nel mutamento della cosa c'è quindi un principio di stabilità: ecco perché nel mondo antico il problema non è posto in termini
di "apparenza-realtà", dove diventa centrale il tema della garanzia, ma
è posto nei termini di "essere-divenire". In questo senso la filosofia antica non è propriamente una epistemologia, perché appunto non conosce
il tema della garanzia, ma è soprattutto una ontologia dove la notizia immediata dell'essere non può essere insidiata da errore, ma, al contrario,
l'errore è dominato entro l'orizzonte sempre aperto della verità, dell'alétheia. L'elemento centrale della filosofia antica è l'essere e il bene. Non
è occassionale che in PLATONE l'idea somma sia il bene, perché il bene
è il principio realizzativo dell'essere e la "pienezza" ontologica costituisce lo spazio destinale della filosofia.
A fronte della certezza degli antichi, la filosofia moderna è caratterizzata. Nel momento in cui i moderni fanno cominciare l'essere con l' oggettività del mondo lo perdono come l'orizzonte da sempre aperto in cui
129
il mondo accade. Cosa vuole infatti trovare CARTESIO? Il punto di Archimede, ilfundamentum incussussum veritatis su cui costruire l'intero edificio del sapere.
Mi è parso opportuno fare questa distinzione perché come vedremo
più avanti, RoRTY la valorizzerà sia pure in un modo del tutto indiretto
e in un contesto funzionale alla sua teoria della verità e della filosofia.
La filosofia a partire da CARTESIO era dunque epistemologia, teoria
della conoscenza, ma era soprattutto richiesta di garanzia. Garanzia di
che cosa? Garanzia della perfetta adeguazione fra Verità e Realtà. Quel
che CARTESIO ha impiantato passa in KANT; lo troviamo infine in HusSERL, nello stesso neopositivismo e soprattutto nel neopositivismo delle
origini. Il problema fondamentale del neopositivismo logico era quello
di ridurre gli asserti ai dati immediati d'esperienza senza l'integrazione
di nessuna interpretazione. Basti in proposito ricordare Schlick e la questione dei protocolli. Il tentativo era: tanto più verità, tanta meno teoria.
In senso stretto, il pensiero doveva ridursi al silenzio, perché la teoria
era un elemento surdeterminante, era un segno di imperfezione perché,
se le cose si potevano dire così com'erano, non c'era bisogno di una teoria. Nel corso del suo sviluppo, il neopositivismo ha cominciato a comprendere che in effetti intanto ci sono fatti in quanto questi fatti sono
dichiarati in u_n' espressione, fino alla grande formula del WITTGENSTEIN
del Tractatus "che il mondo è la totalità dei fatti, non delle cose", e fatto
è l'oggetto in quanto incluso in un enunciato, in quanto rilevato.
Non sarebbe mai possibile rilevare un oggetto al di fuori del suo accadere. L'oggetto si fa evento in quanto esiste solo nella situazione che
lo pone. Il neopositivismo delle origini intende togliere, ed annullare il
più possibile l'intervallo teorico, intende toccare direttamente le cose.
Il Pragmatismo secolarizza questo modello. La dimensione che il pragmatismo mette in luce è quella per cui non si può più parlare di una "verità'' dell'esperienza ma di una ''esperienza delle verità''. Quando si dice
"verità dell'esperienza" non è difficile associare questa formula ad un
nome: KANT. Cercare la "verità dell'esperienza" vuoi dire porre le condizioni di verità dell'esperire, e le condizioni di possibilità dell'esperire
sono dati appunto dall"'a priori". L"'a priori" è ciò per cui la realtà è
attinta nella sua verità, è, diciamo, costitutivamente fondata. La differenza tra soggetto e oggetto, tra mente e mondo, che nella tradizione precedente andava incontro a delle instabilità perché il reale era qualcosa di
~:__ •. _ '_-_:.:__-._o_:___:_____,:_
--'- --~---'-------
_:_ _ _;_.:.~o_·_·----'--'--
--o-~---~------'---'--"--'-~~
130
presupposto al pensiero, questa dimensione di "realismo ingenuo" viene
in parte ridotta e comunque il fenomeno viene legalizzato. In questa misura il reale viene assiomatizzato e l'esperienza non si configura più come uno spazio di imponderabilità e di arbitrio. Tutto ciò che entra nello
spazio della coscienza è perciò stesso bloccato nel sistema delle categorie.
Resta sospeso in KANT, come ben sapete, il problema del Noumeno, questa esternità che tutto sommato continua a sussistere. In ogni caso questa esternità, in qualunque modo la si possa concepire, è pur sempre limitata nei suoi danni, ed è stabilizzata nell'Idea. Toccherà poi a KANT ampliare (e questo è un tema su cui RoRTY torna) la Critica in una Critica
della Ragion Pratica e in una Critica del Giudizio per potere, attraverso
una partizione disciplinare della filosofia, recuperare l'intero, ed attingere la dimensione della "noumenicità" attraverso un processo che non sia
meramente quello delle categorie. La "verità dell'esperienza" che costituisce il cardine della filosofia di KANT è proprio ciò che il pragmatismo
mette al margine. Non si dà più una verità dell'esperienza, ma un'esperienza delle verità. La posizione del vero e del falso è qualcosa che si produce nell'attività stessa. Nel pragmatismo l'attività è da intendere come
il comporsi determinato di un campo di esperienza, dove accadono sistemi
di relazione comunicativa. E tra le tante forme di relazione c'è anche quel
tipo di relazione che noi diciamo cognitiva, in cui si intuisce che ci può
essere il riferimento ad una Realtà rispetto alle asserzioni. Il problema
del pragmatista non è tanto quello di negare questa intuizione, ma è quello
di farla valere come un'intuizione all'interno di una prassi in generale,
in cui questa intuizione si costituisce come momento. Se questa intuizione si assume al di fuori del contesto in cui essa appare e la si fa diventare
dominante, allora questa intuizione (che c'è una realtà) comincia a diventare normativa di tutta la prassi, e tutta la prassi viene orientata a
trovare questa realtà che sta in sé. Al contrario, se l'intuizione che c'è
unqualcosa di reale rispetto alle asserzioni è guadagnata all'interno di
una prassi comunicativa, allora questa stessa intuizione risulta da un lato
derivata, dall'altro sottodeterminata. In tal caso, non tutta l'attività viene concentrata su questa intuizione, ma l'intuizione diventa un momento di orientamento nell'interno della comunicazione. Nel processo di composizione delle relazioni comunicative, nel processo di formazione dell'esperienza, anche l'intuizione che c'è un qualcosa di Reale rispetto a ciò
che si dice ha un suo peso; ma la determinazione del peso noi la possiamo
131
autenticamente comprendere soltanto quando cogliamo l'intero della prassi.
Non cogliendo l'intero della prassi noi potenziamo questa realtà, e potenziando questa realtà la rendiamo talmente dominante da far sparire
tutta la dimensione comunicativo-pragmatica. Nello stesso tempo questa
cosa talmente dominante finisce per essere da un lato deviante e dall'altro irrilevante. La Realtà diviene un ingombrante presupposto che lungi
dal risolvere i problemi del comprendere la prassi, produce antinomie ulteriori nella prassi stessa. L'oggettività del reale o la pretesa di Realtà assoluta non solo è deviante, ma è non chiarificante: essa fa insorgere falsi
problemi. Se noi cogliamo l'esistenza di realtà nella procedura discorsiva
e la valutiamo come un momento che si inserisce nel processo della comunicazione, come una intuizione che c'è dentro al discorso, allora noi
ne possiamo determinare anche il grado di significanza nell'intero della
prassi. Sotto questo aspetto RoRTY valorizza quell'aspetto del pragmatismo più olistico, che è rappresentato da DEWEY. Per altro verso egli nutre riserve, e comunque non valorizza il pragmatismo nell'accezione ''peirceiana" in quanto gli pare eccessivamente costruito sul categoriale, cioè
sulla modellizzazione scientifica. Si tratterebbe di vedere se in PEIRCE
accade proprio questo ma, in ogni caso, a scanso di equivoci quando Rorty parla di pragmatismo fa un riferimento prioritario alla dimensione "deweiana'' di esperienza e natura, in cui la dimensione dell'esperienza di
verità sta e non oltrepassa il processo di verificazione; dove la verificazione è l'istaurarsi effettivo della comunicazione rispetto ad un ambito
problematico che è quello che di fatto si produce in un certo momento.
Quindi vedete bene che nel pragmatismo non vi sia un'estrapolazione dal
tempo, il che condurrebbe ad una eidetica generale, come tutte le nozioni che puntano su di una "realtà" assoluta e indiveniente. Ed è interessante notare anche, e su questo varrebbe la pena di riflettere più attentamente, la nozione fondamentale di "verificazionismo", che nel pragmatismo non la stessa accezione che poteva avere nel primo positivismo. Ricordate bene che la rottura fra il primo positivismo e PoPPER è proprio
data da questo: PoPPER dice: "non c'è la possibilità di verificare una teoria; una teoria non può essere mai verificata, può essere solo falsificata".
Ma stranamente l'opposizione di PoPPER al verificazionismo è, secondo
la logica pragmatista, ad esso speculare, perché in ambedue i casi si presuppone un'assolutezza di verità: nel primo caso come attingibile, nel secondo caso come non attingibile, ma idealmente proponibile. Quando il
132
primo positivismo dice: "Una proposizione è vera perché è saturata dal
reale", annulla lo scarto fra l'asserto e la cosa. Non è possibile che fra
l'enunciato e la cosa si possa introdurre un minimo intervallo ed una dissidenza. A questo punto il momento della teoria viene ridotto e la verità
è raggiunta: c'è un contatto perfetto fra enunciato e cosa. In questo caso
abbiamo verificazione. Al contrario PoPPER dice: "questo non è vero, perché l'enunciato circa un dato non consente la riduzione totale del dato
all'enunciato. Quando costruisco una teoria, questa teoria non può essere verificata, perché si può sempre supporre che qualcosa accada per ragioni non espresse nella teoria. Se cosi è, una teoria può essere solo falsificata, nel senso che può darsi sempre un evento che la confuti, mai uno
che la verifichi. In che forma si può dunque attingere la verità? Solo per
negazione, per modus tollens. C'è un punto in cui noi possiamo ritenere
di essere nel vero, ed è l'accertabilità della disadeguazione tra teoria ed
evento. Il pragmatismo può anche prendere per buono il falsificazionismo popperiano, ma quel che non condivide è il perdurare di un paradigma di assolutezza, vale a dire la sua centralità metodologica. Il criterio
della congettura e della confutazione ha senso in un spazio di verificabilità costante che però non ha nulla da spartire con il primo positivismo.
Il falsificazionismo non ci garantisce nella verità per il fatto stesso di salvaguardarci dall'errore. In ciò c'è ancora un presupposto di assolutezza
ed una istanza garantista. Al contrario, al di fuori di ogni presupposto
di assolutezza esiste uno spazio continuo di verificazione dato dalla pertinenza problema-soluzione. Si può agire senza verità e la verificazione di
un asserto è data dal modo in cui esso soddisfa le esigenze della prassi.
Nella prassi, cioè nel farsi della verità, c'è la verità: il che vuol dire che
la Verità non è mai un'oggettività, ma è il farsi stesso della discorsività.
E nel farsi stesso della discorsività accade quel caso singolare di forma
discorsiva che è quello per esempio della confutazione, ed essa trova il
suo significato all'interno di un'economia pragmatica.
Ogni cosa trova la propria dimensione nella prassi: ciò vuol dire che
tutto viene compreso nel farsi stesso del linguaggio; ma il farsi stesso del
linguaggio è un farsi d'esperienza, è il determinarsi storico-contestuale
del mondo. In questo senso il pragmatismo attinge, sia pure per una modalità del tutto singolare di sviluppo, quella stessa dimensione che attinge l'ermeneutica: ambedue comprendono un qualsiasi evento, un qualsiasi dato (gli ermeneuti della prima maniera direbbero ''un qualsiasi te-
133
sto"), rispetto al contesto. E il contesto è la prassi discorsiva.
La prassi discorsiva non può essere diversamente appresa se non discorrendo: ogni discorso è già nel discorso. Anche in questo caso viene
guadagnato un altro aspetto della dimensione ermeneutica che è quello
della pre-comprensione rispetto alla comprensione: qualsiasi accadimento di comprensione accade in un orizzonte che è già comprensione. Esiste uno sfondo materiale del discorso, dove con "materiale" non si intende il materialismo nel senso della "cosa" opposta alla "mente", ma
materiale vuol dire il campo d~gli eventi che è a suo modo intrascendibile. Perché è intrascendibile? E intrascendibile poiché siamo localmente
posti in esso. Trascendentale non come "a priori", bensl un trascendentale consegnato interamente alla temporalità: "l'evento discorsivo" o, usando il linguaggio "foucaultiano", "l'ordine del discorso". Ecco perché il
trascendentale diventa trascendentale linguistico.
Il trascendentale linguistico, in questo caso, ha una particolare angolazione, nel senso che si considera la lingua come prassi discorsiva, come processo di comunicazione, e non la lingua (e questo lo riprenderemo
tra poco) nella accezione della filosofia del linguaggio. La filosofia del linguaggio non intende la lingua come processo pragmatico della comunicazione, che può essere solo descritto all'interno della comunicazione stessa, ma intende il linguaggio a partire dall'analisi dei suoi elementi di base
in forza dei quali si ritiene di attingere la verità della lingua. L'analisi
del linguaggio ha carattere fondazionalista, ed è, a suo modo, corrispondente all' epoché cartesiano-husserliana ed, in ultima istanza, al modello
dell'evidenza suprema.
Secondo la concezione pragmatista il linguaggio risulta comprensibile solo a partire dalla effettività della discussione. La misura della verità di un discorso è il modo in cui il discorso funziona. Ma il modo in
cui il discorso funziona non è esperibile al di fuori del discorso, è come
la nave di NEURATH: bisogna modificarla mentre è in movimento; non
possiamo fermarla né tantomeno scendere da essa. Ci si ritroverà su una
nave completamente diversa, perché l'avremo modificata camminando.
Il linguaggio varia stando dentro al linguaggio: non c'è una possibilità di
uscita. Il pragmatismo converge ancora una volta con l'interpretazione
che l'ermeneutica dà del linguaggio: qualsiasi testo è comprensibile soltanto nel contesto. E il contesto è intrascendibile non tanto perché sia
il "trascendentale", o perché sia apriorico, ma è intrascendibile per la sua
134
stessa località; si tratta di una sorta di trascendentale materiale al modo
di FoucAULT. Su questa base si capisce bene in che senso RoRTY riutilizzi e si appropri del punto di vista foucaultiano. Si tratta di mettere in
chiaro la relazione che corre tra testo-contesto, e ciò chiama in causa la
storia. Ma anche qui, di che storia si tratta? Certamente non la storia
come oggettività. NrETZSCHE ci ha insegnato che il metodo storico è l'ultima forma di presunzione di verità. Di qui l' antifilologismo nicciano.
Quando si parla di storia o relazione testo-contesto, si parla del tipo di
relazione che passa tra interpretato e interpretante: si ha a che fare certamente con una forma di relazione empatica ma anche con una selezione
di strati linguistici dentro l'effettività del linguaggio. La storia di tipo
ricostruttivo, ha la presunzione di dire rispetto al già avvenuto, quel che
in assoluto è vero e quello che non è vero. In tal modo la storiografia
erudita ritiene di attingere il massimo di verità col metodo attraverso cui
si accertano i fatti. Un "metodo" talmente "vero" da rendere irrilevanti
i fatti conosciuti. Ma il problema reale della storiografia è un altro: non
si tratta di accertare l'assolutamente vero, di riconoscere quel che ha peso di verità, quel che è interessante per noi. I fatti non avrebbero alcun
interesse, se non fossero relazionati alla nostra situazione attuale di parlanti. Ma se noi li consideriamo in base alla nostra situazione attuale di
parlanti, allora non c'è metodo che tenga perché è l'orizzonte del nostro
domandare che definisce il senso di quei fatti stessi. Anche in questo caso non si annulla la fecondità del metodo, ma la si dimensiona all'evento
discorsivo come esperienza della comunicazione. L'evento storico, a questo
punto, non ci dà tanto la verità dei fatti, e quindi la ricostruzione di una
trasformazione continua: il metodo storico ci dà soprattutto un differenziale, un'apertura di campo semantico. Ci dà l'esperienza di uno scarto.
Quello che al meglio ci dà la storia, ed in questo senso ha una grande
portata cognitiva, non è tanto una linea contenutistico-ricostruttiva, ma
è una linea decostruttiva, dove gli elementi di scarto, di cesura, di intervallo, di incommensurabilità, diventano più significativi degli elementi
di continuità. In questo senso RoRTY recupera bene la tradizione
NrETZSCHE-FouCAULT.
Lo spazio reale in cui avviene questo processo di decostruzione è
quello spazio precomprendente, che è l'attualità del dire, nella sua conformazione storico-sociale, l'attualità del dire nel processo comunicativo
in atto, in cui accade l'accordo e il disaccordo. Ora l'elemento importan-
135
te non è tanto l'accordo e il disaccordo. Al contrario, perché vi sia accordo e disaccordo è quantomeno necessario un elemento minimo di precomprensione, e di traducibilità. L'evento discorsivo, l'orizzonte pragmatico, ha come suo carattere tipico, fondamentale, il fatto che qualsiasi
evento linguistico è esperito nella forma di una traducibilità possibile.
La traducibilità è ciò per cui avviene effettivamente la comprensione. Il
problema non è tanto quello della esattezza o della determinatezza della
traduzione, e in ciò, diciamo che RoRTY discende a pieno titolo da QUINE. L'assolutezza della traduzione supporrebbe un elemento di commensurabilità tra i termini tradotti e quindi l'introduzione di un termine assoluto di verità, che prevarrebbe sulla prassi linguistica. Ricorderete tutti di diritto o di rovescio la critica fondamentale di QVINE alla tradizione
neopositivistica più scaltrita, più sofisticata, e allo stesso CARNAP: è la
critica al concetto di analiticità. Si esclude che possa esserci un qualcosa
di analitico che sia significativo. Non ha alcun significato supporre qualcosa di intemporale, che occorrendo in qualsiasi mondo sia sempre vero.
La traducibilità è essa stessa un fatto d'esperienza: non è importantela traducibilità assoluta, ma è importante che, anche in una situazione
di indeterminazione, resta sempre la possibilità nel contesto generale della
relazione di una possibile comprensione. Non si tratta di una riduzione
all'identità, ma di una comprensione dell'uso e quindi della praticabilità
del rapporto comunicativo. Per cui quello che non si può ottenere in termini di espressioni verbali lo si può ottenere secondo altre forme della
comunicazione, e del comportamento.
Quel che comunque è venuto meno è il punto di vista della verità
che decide di ogni verità. Non esiste una conoscenza che decide di tutte
le esperienze, ma ci sono esperienze diverse che producono eventi che
noi chiamiamo anche "cognitivi". La configurazione formale è un modo
di costruzione di nessi di inferenza, o se volete di grammatiche. Queste
grammatiche sono sostanzialmente una testualità che ci deve orientare
nella traduzione. In base ad equivalenze di comportamento possiamo ipotizzare una corrispondenza di significati e di strutture tali da poter modellizzare una grammatica con un'altra. La Grammatica non è l' Architesto, non è una grammatica "generativa" in senso chomskiano: la grammatica è un'elaborazione pragmatica essa stessa, è la generalizzazione o
se si vuole la formalizzazione di un insieme di corrispondenza.
Linguaggio-evento, linguaggio-temporalità. Questa è una linea di pen-
136
siero già evidente in NIETZSCHE. Se così è, vi è una relazione stretta tra
storia ed esistenza. Storia, esistenza, evento. L'orientamento dell'uomo
nel mondo, la costruzione della sua immagine, quella che la cultura tedesca chiama Bildung, può compiersi soltanto attraverso l'attraversamento
allargato del mondo storico. A questo punto il mondo non è più né la
realtà che sta là fuori e che dobbiamo raggiungere, non è più una verità
assoluta da cui tutto si può dedurre, ma il mondo è il movimento nel mondo. Se così è, l'oggettività del mondo non può che coincidere con il movimento della soggettività, ma la soggettività non può esser molto di diverso dal suo oggettivo andare, dal farsi e disfarsi delle sue forme. In tal caso
viene a cadere l'opposizione soggetto-oggetto, "dentro-fuori". Non c'è
più l'opposizione "mente-natura", ma la natura dell'uomo è in questo
farsi storia, e, per converso la storia si fa natura. In questo modo è superata anche la falsa separazione fra "scienza della natura" e "scienza dello
spirito". Infatti il rinvenimento della natura cos'altro è se non una esposizione linguistica di essa? Ma il linguaggio cos'altro è se non la forma
naturale della comunicazione? Sono tante le conseguenze di questa modificazione: non c'è più una Realtà assoluta, non c'è più un mondo "là
fuori"; non ha più senso parlare di adeguazione; c'è la fine delle coppie
classiche: Mente-Realtà, Soggetto-Oggetto. A questo punto si consuma
la filosofia come scienza, si consuma quella filosofia che si era costruita
come una disciplina specifica, che aveva per oggetto, ricordate KANT, Dio,
l'Anima, il Mondo.
La filosofia viene deperendo non perché ci sia qualcuno che la uccide, ma perché di fatto l'ambito della sua ricerca, che era definito da oggetti, diviene sempre meno capace di possedere quell'oggetto a cui fariferimento: quando la natura diviene oggetto della fisica o delle scienze
naturali, che cos'è la natura di cui parla la filosofia? Quando la cosmologia diventa una fisica, che cos'è la natura di cui parla la filosofia? Stranamente, ma è meno strano di quanto non si pensi, la filosofia era tanto
più viva quando non era codificata come filosofia in senso moderno, quando non era pensata nella forma stretta di una disciplina. La filosofia si
è svuotata dei suoi oggetti proprio a cagione della sua istanza di metodo,
vale a dire in forza di quel principio della garanzia che l'ha istituita come
epistemologia. Questa dimensione del deperimento è l'aspetto che RoRTY considera di meno, perché la sua vis polemica è rivolta contro la filosofia come disciplina, la filosofia come tradizione accademica, come ce-
137
to. Nell'attacco nei confronti della filosofia come istituzione RoRTY perde di vista l'importanza dello svuotarsi della filosofia avvenuto attraverso lo sviluppo reale e differenziato della scientificità. L'unica traccia di
tradizione filosofica che ci può essere nella scientificità è data dal fatto
che appunto si presuppone che esista nella scienza una oggettività che
non c'è nelle altre forme di conoscenza e di comunicazione. Questo è l'unico modo, residuale e surrettizio, attraverso cui l'idea forte di Realtà
continua a permanere. Il buon senso comune, ritiene ormai che il problema della Verità è un problema che può riguardare solo le scienze naturali; se si parla di fisica c'è un regime di controllo e di verità, se si parla
di letteratura non c'è un regime di controllo e di verità. L'unico residuo
forte di Realtà è quello in forza del quale la scienza si riserva un dominio
sul reale, pretende per sé autenticità e la rifiuta alle altre forme di conoscenza. Questa è l'unica eredità metafisica. Qui avrebbe ragione HEIDEGGER quando dice che l'ultima variazione della metafisica come oggettività è la scientificità: lo scontro fra HEIDEGGER e CARNAP si interpreta su
questa base. CARNAP non può che diventare un esegeta a suo modo della
scienza. Egli apprende i criteri del retto ragionamento dalla prassi scientifica, proprio perché nella prassi scientifica si è consumata l'estrema eredità della filosofia, l'oggettività.
Questo ragionamento non riesce più a funzionare nel momento in
cui, e non entro nel dettaglio, anche per la scienza, attraverso il processo
di decostruzione, attraverso un'indagine genealogica, si può mostrare che
l'oggettività è meno certa di quel che si pensi e meno che mai si può parlare di Realtà assoluta. L'oggettività scientifica è anch'essa riducibile all'interno di operazioni di carattere pragmatico. E qui vi rinvio a quella
sezione de La filosofia e lo specchio della natura in cui RoRTY parla di KUHN.
In KUHN c'è proprio il tentativo di mostrare che la scienza non ci dice
che la realtà "sta là". Essa non è vera perché dichiara cosl com'è il mondo, ma fondamentalmente la scienza è il risultato di una competizione
di teorie, dove la competizione non è tanto una lotta in termini di verità
ma di successo. Ricordate la polemica, anche forte, fra KuHN e PoPPER,
in cui PoPPER diceva che le rivoluzioni sono una competizione calda in
cui ad un certo momento la posizione più vera vince, mentre KuHN dice
che non è questo il processo attraverso il quale un paradigma scientifico
diviene egemone. Al contrario si tratta di una trasformazione molto lenta in cui l'arrivare a vittoria non è deciso attraverso un confronto diret-
138
to, non c'è uno spareggio fra le teorie: c'è un modo insinuante, logorante, in taluni casi casuale. Infatti per l'impiantarsi di una teoria passano
secoli: per arrivare alla cosmologia newtoniana, il movimento di trasformazione s'impianta quanto meno alla fine del medioevo. C'è un arco di
più di duecento anni. In proposito è interessante seguire tutto il discorso
che fa KUHN, e in parte quello che fa FEYERABEND, sui criteri di legittimità nella scienza dove si mostra ad esempio come Bellarmino nel contesto in cui si muoveva poteva con tutta legittimità opporsi a Galileo. La
posizione galileiana tuttalpiù era assumibile come ipotesi. Il senso generale del mondo era ciò su cui aveva titolo a decidere la teologia; la fisica
aveva tuttalpiù titolo di legittimità per risolvere alcuni problemi pratici.
Questi processi, queste forme di legittimazione argomentativa, diventano discriminanti con l'impiantarsi di una certa griglia, cosl direbbe FouCAULT. Ora l'impiantarsi della griglia non è un qualcosa che si decida per
convenzione, ma è ciò in cui ad un certo momento ci si viene a trovare
e la modificazione di una prassi linguistica, i termini non sono più quelli
di prima, accade di discutere con un lessico in parte inedito e in parte
trasposto. La storia della scienza mostra che la scienza è cresciuta attraverso una riduzione al falso di ciò che in precedenza era ritenuto vero.
Ora se si accetta che l'attuale verità è candidata ad un errore si cade in
un'autocontraddizione. Per evitare dunque tale autocontraddizione bisogna rinunciare alla nozione assoluta di verità. Questo è ciò che, ad esempio, nota CANGULHEIM a proposito dell'evoluzione del normale e del patologico. In base a quanto finora si è detto, si può convenire con RoRTY
che la Filosofia con la F maiuscola, intesa come epistemologia e teoria
della conoscenza è venuta meno. Per altro verso, quando RoRTY dice "io
ritengo che l'atteggiamento corretto sia quello ermeneutico", deve necessariamente porsi al di fuori della filosofia con la lettera maiuscola. Se
cosl non fosse ribadirebbe, come sempre è avvenuto nella storia della filosofia, la centralità della Filosofia: una posizione assoluta, contro un'altra. Sarebbe, come sempre, un rapporto di negazione-successione: la filosofia cartesiana parte come un'operazione di grande negazione, e finisce
col dire "la vera filosofia sono io"; l'Illuminismo sviluppa una procedura
di grande negazione, e conclude: "la filosofia sono io, sino a questo punto avete sbagliato: adesso c'è la verita". La posizione è sempre nei termini di vero-falso. L'ermeneutica, se vuole con senso rilevare la fine della
Filosofia con la lettera maiuscola, tutto può essere tranne che una filoso-
139
fia. A questo punto, come si configura l'Ermeneutica? RoRTY dice, riprendendo peraltro una formula che proviene da SELLARS, che "la filosofia è capire come le cose formino un tutto coerente nel senso più alto".
Se così è, la filosofia verrebbe ad essere una dimensione in base a cui si
entra in discorso con una attenzione non tanto alla Verità, ma al discorrere come tale: un'attenzione agli eventi della comunicazione, e soprattutto un'attenzione a quegli eventi della comunicazione che sono quelli
più aleatori, quelli più occasionali, quelli meno convenzionali. RoRTY è
il primo a capire che esiste uno statuto normale della comunicazione. Se
io vado dal medico perché sono ammalato, suppongo che il medico sia
nelle condizioni di discriminare rispetto al mio malessere entro un quadro, che è quello della medicina clinica, ed entro questo quadro egli è
capace di decidere se darmi un farmaco piuttosto che un altro, se impiantare o no una terapia. C'è certamente una connivenza fondamentale tra
il medico e il paziente poiché ambedue condividono quello statuto disciplinare detto "medicina" entro cui certe malattie vengono curate o comunque vengono disciplinate e considerate.
In genere gli standard comportamentali ritenuti normali sono caratterizzati da una relativa continuità, o, come avrebbe detto PEIRCE, da
un abito. Ma gli abiti si formano e quel che in un certo momento o in
un certo spazio è ritenuto ovvio, non sempre lo è stato. Per altro verso,
la cosiddetta verità assoluta spesso non è stata nulla di più che l'inerzia
dell'ovvietà. Se così è, non si può sfuggire al predominio dell'ovvio se
in certo senso non lo si problematizza. Il pragmatismo problematizza l' ovvio, poiché lo risolve nel contesto della sua genesi e fa dunque apparire
la necessità come una qualunque casualità. In tale circostanza, l'ovvio è
spogliato dal vero, ma nel contempo non è più ovvia neppure la verità.
Quel che è norma torna ad essere caso, ma casuale è proprio ciò che non
ha scopo. La filosofia si avventura ad indagare l'aleatorietà del caso e perciò
stesso si emancipa dallo scopo: tanto basta perché essa non possa più essere ricondotta all'ovvio. Se ciò è vero, la filosofia non può essere fondante, ma solo edificante. In questo senso si può smettere ad ogni momento di filosofare poiché la filosofia ha perso necessità o comunque ha
sempre meno a che fare con ciò che un tempo non solo era ritenuto necessario ma imprescindibile.
Grosso modo la riflessione di RoRTY accede a quest'esilio e per molti versi può essere condivisa. bal momento che la filosofia non può più
140
:1
;,J
dire la parola ultima sul mondo non le resta che discorrere indefinitamente
su tutte le cose del mondo. Questo e non altro faceva Socrate. Ma se è
così, ritorniamo all'origine.
La filosofia non può essere nulla di più che un infinito intrattenimento per il semplice fatto che l'infinito non è trattenibile, e le reti dell' intelligenza non riescono a catturare il dio 1 . Il filosofo non scioglie l'enigma del mondo, ma proprio da questa sfida è reso sufficientemente astuto
da non rimanere impigliato. Si viene così disegnando il profilo alto della
filosofia, il suo essere sapienza perché sa di non sapere e proprio per questo è implicata in ogni sapere e attraverso il sospetto e la derisione (filosofie edificanti) genera conoscenza, attraverso artifici sublimi di verità
(filosofie sistematiche) sgomina la dogmaticità dell'ovvio. Sotto questo
aspetto, le cosiddette "filosofie sistematiche" differiscono da "quelle edificanti'' molto meno di quanto non ritenga RoRTY e soprattutto sgorgano da una medesima curiosità. Le filosofie sistematiche hanno sempre mancato quella meta che avrebbe dovuto attingere in ragione della loro forma: la conoscenza esaustiva del reale. Proprio per questo è stato sempre
facile opporre un sistema, o più d'uno, ad un altro e tutti avanzavano
la stessa pretesa di assolutezza e di verità. L'obbiettivo è stato sempre
mancato: quel che, al contrario,· si è realizzato è stata una metamorfosi
continua del vero nel falso, una lotta senza fine. Ma in questa lotta molto
si è capito del mondo anche perché non esiste mondo senza che il reale
sia interpretato. L'interpretazione fa, a suo modo, essere il mondo. I grandi
sistemi sono essi stessi interpretazioni e proprio per questo non è necessario andare a cercare l'ermeneutica fuori dai sistemi. L'epistemologia storica di FoucAULT e la ricostruzione-decostruzione che KUHN fa della scienza, nel momento in cui mostrano la congiunturalità di una teoria ed il
suo incerto inizio ne svelano anche l'immanente ermeneuticità. L'ermeneutica, a differenza delle altre forme del filosofare è esplicitamente consapevole del fatto che ogni filosofia, anche quella più sistematica, è un'interpretazione il cui valore è definito dallo spazio della sua origine.
La filosofia non conosce definitività e proprio per questo si svolge
come ininterrotta interpretazione. Se la filosofia fosse stata capace di dire una parola definitiva sul mondo si sarebbe davvero smesso di filosofare. AI contrario, a filosofare si continua perché nulla di definitivo pare
possa essere detto. Sotto questo aspetto, è vero che si può ad ogni momento smettere di filosofare, ma con ciò non tramonta affatto la dimen-
141
sione della filosofia. Proprio per questo, così come si smette di filosofare,
si può ad ogni momento ricominciare.
La filosofia sta sempre nel suo inizio ed in questo senso è impossibile concepire un distacco dall'origine 2 • Ora proprio perché all'origine si
appartiene da sempre e per sempre, è sempre possibile ricominciare a filosofare. In questo senso, l'ermeneutica più alta non può essere nulla di
più che affaticarsi intorno al sapere dell'origine. Questo movimento non
ha scopo, proprio perché insiste nel suo inizio: è svincolato da ogni cosa
perché corrisponde ad una più alta necessità. Per comprendere questo bisogna intraprendere un diverso cammino lasciandosi alle spalle, come storicamente acquisito, quel che Rorty nella sua ricerca ha intelligentemente indagato.
l. Per una più calibrata comprensione della metafora del dio cfr. il mio scritto L'incessante
meraviglia, in Baillamme, n. l, aprile 1987, Milano, Editoriale del Drago.
2. Sul motivo dell'origine cfr. il mio saggio Ermeneutica e genealogia. Filosofia e metodo in
Nietzsche, Heidegger, Foucault, Milano, Feltrinelli, 1988.
Scarica