Alberto Camplani
(12) 2. Da Efeso attraverso Calcedonia alle chiese separate: i riflessi della crisi teologica
e istituzionale in oriente e la formazione di chiese nazionali
1. Caratteristiche del periodo e premesse della crisi
Le violentissime crisi religiose tra V e VI secolo furono generate non solo dalla varietà delle
tradizioni teologiche e liturgiche, evolutesi nel mondo cristiano orientale in direzioni diverse e
spesso opposte, ma anche dal fatto che ciascuna delle regioni cristiane facenti capo alle grandi
metropoli, come Roma, Alessandria, Antiochia, Costantinopoli, Gerusalemme, Efeso, Cartagine,
Seleucia-Ctesifonte aspiravano a definire per sé una sempre più vasta sfera di competenza religiosa
e influenza politica. Le prime cinque metropoli erano destinate a dare origine ai patriarcati (→EW),
e vissero le loro complesse relazioni nel quadro di un Impero romano ormai pienamente
cristianizzato, i cui dirigenti manifestavano un’accentuata tendenza all’interventismo in materia di
religione, finalizzato all’unità politico-religiosa e all’ordine pubblico, pur nel quadro di scelte
politiche spesso molto diverse. Altrimenti andavano le cose nell’impero persiano, che,
nell’alternarsi di momenti di scontro e di fasi di coesistenza con l’Impero romano, aveva
reimpostato la propria politica religiosa rispetto a quella dell’epoca di Shapur II, riducendo da una
parte gli atti di persecuzione anticristiana generalizzata, mantenendo dall’altra un controllo capillare
sui massimi rappresentanti delle gerarchie episcopali, spesso costretti a sottostare a decisioni non
gradite, che, se rifiutate, potevano portare alla condanna a morte per tradimento o apostasia. Tale
processo non poteva che favorire nella chiesa persiana un atteggiamento di progressiva
autonomizzazione da quella occidentale e di definizione identitaria della propria ecclesiologia e
teologia.
Gli effetti delle crisi religiose nell’Impero romano d’oriente erano destinati a produrre
drammatiche novità nel mondo cristiano: al termine del periodo qui preso in considerazione
constateremo non solo l’esistenza di chiese orientali (chiese d’Egitto, d’Etiopia, di Siria, d’Armenia,
di Georgia, di Persia) consapevolmente separate dall’asse ecclesiale rappresentato dagli episcopati
di Roma e di Costantinopoli, soprattutto a partire dalla seconda metà del VI secolo, ma anche la
crisi di questo stesso asse per alcune decine di anni, il cosiddetto scisma acaciano, che anticipò di
mezzo millennio il grande scisma del 1054. È dunque in questa fase storica che affondano le loro
radici alcune delle divisioni ecclesiali tutt’oggi perduranti.
La controversia cristologica, che si manifestò in maniera chiara a partire dal 428, aveva
premesse molto lontane nel passato, addirittura nella seconda metà del III secolo. Infatti, già nel
concilio di Antiochia del 268, che portò alla condanna di Paolo di Samosata e alla sua deposizione
da vescovo di Antiochia (→GR) per opera di un gruppo di vescovi vicini alle posizioni teologiche
della scuola e dell’episcopato di Alessandria, intravvediamo il nucleo della questione cristologica
destinata a esplodere nel V secolo e intuiamo il divaricarsi di due grandi tradizioni di pensiero. Tale
divaricazione venne oscurata dalla violenza e dal clamore della questione ariana nel IV secolo, tanto
che i disaccordi in tema di cristologia risultarono spesso trasversali rispetto ai partiti in lotta in
campo trinitario, al punto che vescovi tra loro avversari potevano condividere la medesima
cristologia. Nel concilio del 268 si fronteggiarono due modelli destinati a lunga durata nonostante le
profonde rielaborazioni, che possiamo schematizzare in questo modo: 1) il modello di origine
alessandrina, definito logos / sarx, secondo il quale l’ipostasi divina del Logos, Figlio eterno del
Padre, si unisce direttamente alla carne umana divenendo con essa una cosa sola, lasciando poco o
nessuno spazio all’anima e all’intelletto umano di Gesù Cristo; il soggetto in Cristo è il Logos,
unico centro di riflessione, volizione, decisione; 2) il modello di matrice antiochena, chiamato logos
/ anthropos, che insiste sulla completezza dell’uomo Gesù e sulla incontaminazione della divinità
del Logos, che a lui si unisce nell’incarnazione senza sostituirsi a nessuna delle facoltà umane. Il
soggetto ‘Cristo’ è dato dall’unione dell’uomo completo di corpo, anima, intelletto con la divinità, il
Logos: egli è il sacerdote universale, che con il suo stesso sacrificio trasferisce l’intera umanità da
un’epoca all’altra, verso l’immortalità e l’incorruttibilità. I soggetti sono due, uno umano e l’altro
divino: solo il loro accordo permette l’identità di decisione e operazione. Semplificando al massimo
possiamo affermare che nel primo schema prevale l’idea della completa identità di soggetto tra
l’ipostasi del Figlio / Logos e il Cristo della storia totalmente pervaso dal Logos; nel secondo
emerge l’insistenza sulla completezza dell’uomo, necessaria alla salvezza di tutta l’umanità, ma
rimane un residuo di dualità a proposito del soggetto. Il primo schema sembra sia stato enunciato
con chiarezza dai vescovi e presbiteri origenisti che denunciano l’eresia di Paolo di Samosata. Il
secondo schema sembra tipico di quest’ultimo e di coloro che si sono ispirati alla sua impostazione,
correggendola negli elementi dogmaticamente più pericolosi, come fecero Eustazio di Antiochia, e,
a cavallo tra IV se V secolo, gli antiariani Diodoro di Tarso e Teodoro di Mopsuestia.
La crisi ebbe una premessa più recente nella cristologia di Apollinare di Laodicea (seconda
metà del IV sec.) e nelle reazioni che questa cominciò a suscitare in ambito antiocheno. Il teologo,
di impostazione antiariana, e dunque portato a esaltare la divinità del Logos, tentò di dare una
soluzione alla dicotomia che pervadeva la riflessione cristologica di molti antiariani, la quale
attribuiva le azioni e i sentimenti straordinari e sovraumani in Cristo alla sua divinità, le limitazioni
di Gesù invece alla carne. Per Apollinare solo una strettissima connessione tra Logos e carne poteva
garantire la salvezza dell’uomo, anche a scapito della funzione dell’anima e dell’intelletto umano di
Cristo: per lui la cristologia poteva compendiarsi nella formula «una sola natura del Logos
incarnata», là dove la ‘natura’ era ovviamente quella divina, poiché alla carne non poteva essere
riservato lo statuto di ‘natura’ autonoma, soprattutto dopo l’unione con il Logos.
Tale formula, fatta passare dai discepoli di Apollinare come di Atanasio, fu effettivamente
creduta atanasiana da Cirillo di Alessandria. Questi, ben conscio della condanna che la cristologia di
Apollinare aveva subito al Concilio di Costantinopoli del 381, aveva dato maggiore spazio alla
componente umana, sottolineando con più forza l’unità di soggetto tra il Logos e il Cristo della
storia. L’unione del Logos con l’umanità era per Cirillo così stretta e completa da rendere possibile
l’uso vasto della communicatio idiomatum, vale a dire della possibilità di dire della divinità di
Cristo ciò che è proprio dell’umanità, e di predicare dell’umanità ciò che è proprio della divinità.
Tale metodo divenne ben presto caratteristico di tutti coloro che si ispirarono a Cirillo.
A questa impostazione avevano reagito due rappresentanti di una tradizione cristologica,
oltre che di un’innovativa impostazione esegetica, che in Antiochia aveva il suo fulcro: i nomi di
Diodoro di Tarso e Teodoro di Mopsuestia sono i più rappresentativi di questa linea di pensiero.
2. Il concilio di Efeso del 431 e l’unione del 433
La tensione latente tra Alessandria, da una parte, e Antiochia e Costantinopoli, dall’altra,
sfociò in una vera e propria crisi quando attorno al 428 il monaco antiocheno Nestorio fu ordinato
vescovo di Costantinopoli, la vera rivale di Alessandria a livello di politica ecclesiastica.
L’occasione per sferrare l’attacco non solo alla cristologia antiochena, ma anche alla sede
costantinopolitana, fu offerta dall’imprudenza commessa da Nestorio e dai suoi di manifestare
pubblicamente alcune perplessità circa l’opportunità di chiamare Maria “Madre di Dio”, titolo
ormai acclimatato da lungo tempo nelle comunità cristiane del Mediterraneo, nel quale l’antiocheno
scorgeva un’indebita confusione tra la divinità, cui nessuna donna può dare la nascita, con
l’umanità. Cirillo, ottenuto l’appoggio del papato romano, e sfruttando qualche espressione
dell’impostazione cristologica antiochena, accusò allora Nestorio di credere a due Cristi differenti,
da una parte il Figlio di Dio, e dall’altra l’uomo nato da Maria. Il papa Celestino, informato da
Cirillo circa la questione, fece condannare in absentia Nestorio per il suo divisismo cristologico.
Cirillo inviò quindi una missiva a Nestorio contenente sia il documento di condanna del concilio
romano sia una sua personale lettera contenente dodici anatematismi, che il costantinopolitano
avrebbe dovuto sottoscrivere senza discutere: in essi l’impostazione alessandrina era espressa nella
sua forma più estrema. Nel frattempo l’alessandrino, con adeguate pressioni sull’imperatore, riuscì
a far organizzare un concilio di notevoli dimensioni a Efeso nel 431, nel quale, in maniera del tutto
irregolare (ad esempio, non si attese l’arrivo della delegazione episcopale antiochena, certamente
favorevole al vescovo costantinopolitano), ottenne la condanna di Nestorio, che venne esiliato fino
alla sua morte. Cirillo, eliminato l’avversario, poté dedicarsi negli anni a seguire a ricucire lo
strappo con gran parte dei vescovi orientali vicini a Nestorio, giungendo con essi alla formula di
compromesso tra cristologia alessandrina e quella antiochena del 433. Tuttavia, non a tutti piacque
questa versione della definizione di fede troppo aperta alla tradizione sentita come avversaria.
3. Secondo Concilio di Efeso (449) e Concilio di Calcedonia (451)
Tale compromesso, mai venuto meno vivo Cirillo, era tuttavia destinato a sbriciolarsi dopo
la sua morte (444). Le spinte per una nuova battaglia teologica giungevano già da tempo anche dal
mondo monastico, portato a estremizzare le posizioni del dibattito religioso. Negli anni di Cirillo e
del suo successore Dioscoro si era affermato con sempre maggior forza il movimento, di ispirazione
pacomiana, diretto da Shenute di Atripe, archimandrita del Monastero Bianco, vicino a Panopolis,
una forma cenobitica con alcuni tratti eremitici. Fautore dei diritti dell’episcopato di Alessandria e
della chiesa egiziana nel contesto del cristianesimo del Mediterraneo, promotore della lotta contro
l’eresia e il paganesimo, Shenute offrì ai patriarchi alessandrini Teofilo, Cirillo, Dioscoro, il
sostegno di un monachesimo popolare, attento ai ceti sociali più deboli, estremamente rigoroso e
ben organizzato, capace di produrre cultura anche in lingua copta. Certamente esso, assieme alle
varie forme monastiche affermatesi lungo il litorale di Alessandria, influenzò profondamente gli
orientamenti dei dirigenti ecclesiastici in periferia e nella capitale (→FV).
In altre regioni, Cirillo aveva conquistato dopo il Concilio di Efeso nuovi alleati: fra questi
un vecchio difisita, Rabbula vescovo di Edessa (412-435), aveva aderito a tal punto alle sue
posizioni, da entrare in contrasto con la locale scuola di Edessa, dove l’esegesi e l’insegnamento
teologico seguivano le linee più tipiche della tradizione antiochena e dove si praticava su larga scala
la traduzione in siriaco degli scritti di Teodoro di Mopsuestia. Il capo della scuola, Ibas, era tuttavia
destinato a diventare a sua volta vescovo di Edessa nel 435, riportando in auge la tradizione
antiochena non solo nella scuola, ma anche a livello episcopale, e per questo ad andare incontro a
una deposizione. Da questo momento Edessa diventò uno dei luoghi in cui le divisioni si
manifestarono in forma più acuta.
Ugualmente complessa era la situazione della chiesa armena (→AC). Negli anni finali della
funzione primaziale di Sahak, anche a seguito della lettera del filocirilliano Proclo di Costantinopoli
agli armeni, il vescovo, che prima aveva favorito la traduzione in armeno di autori antiocheni, si
allineò alla cristologia alessandrina. Ma con la sua morte il primato passò ad un’altra famiglia, più
filopersiana e più aperta alla cultura siriaca: era ovvio anche in questo caso il ritorno ad
un’impostazione di tipo antiocheno. Negli anni successivi, la chiesa armena non potè tuttavia
partecipare al dibattito religioso. La politica di annessione praticata dalla potenza persiana, che si
accompagnava spesso a conversioni forzate, incontrò nel 451 una resistenza accanita da parte dei
principi armeni. Lo scontro, una vera strage di nobili e una grandiosa sconfitta, venne interpretato
anche come atto di resistenza cristiana a una Persia zoroastriana e intollerante.
L’occasione per un nuovo conflitto tra le due impostazioni cristologiche fu offerta
dall’accusa lanciata da alcuni vescovi orientali contro il monaco costantinopolitano Eutiche di
credere in una sola natura di Cristo, secondo il dettato letterale del simbolo di Nicea, in termini tali
da rendere impossibile la sua reale consustanzialità con gli uomini, premessa indispensabile alla
loro salvezza. Il monaco, condannato dal vescovo di Costantinopoli Flaviano nel 448, fu invece
difeso da vescovi di altra tendenza, tra i quali spiccava Dioscoro, successore di Cirillo (444-454).
Questi ottenne la convocazione di un concilio ad Efeso nel 449, chiamato in seguito “latrocinum”.
In vista di questa riunione, il 13 giugno 449, il papa Leone aveva indirizzato una dichiarazione
cristologica al vescovo di Costantinopoli, nota come Tomus ad Flavianum, destinata a diventare
l’espressione più tipica di una cristologia delle due nature, sebbene non di matrice antiochena: due
nature unite in un solo soggetto (persona). Nel corso del concilio, Dioscoro, forte dell’appoggio
imperiale e di Giovenale vescovo di Gerusalemme, non solo fece in modo che Eutiche ottenesse il
riconoscimento della sua ortodossia e che il Tomus di Leone non venisse preso in considerazione,
ma procedette alla deposizione di tutti i capi orientali di tendenza antiochena (tra questi, Ibas di
Edessa e Teodoreto di Cirro) e persino di Flaviano di Costantinopoli. Questi fu talmente maltrattato
dai soldati imperiali giunti per arrestarlo che morì poco tempo dopo. Dioscoro riusciva a far metter
sul seggio costantinopolitano un suo uomo, Anatolio. Per un momento si poté assistere alla
realizzazione del sogno di Teofilo e Cirillo: Alessandria era diventata la prima città d’Oriente e la
sua comunità cristiana la vera guida religiosa dell’Impero romano orientale.
Tale stato di cose fu di breve durata. La situazione si capovolse infatti con la scomparsa
improvvisa di Teodosio II il 28 luglio 450, morto per un incidente a cavallo, senza lasciare eredi. La
sorella Pulcheria (†453), unica a poter gestire l’Impero, preferì annettersi come sposo e dunque
come imperatore un anziano senatore, proveniente dai ranghi militari, Marciano (450-457).
Ambedue cambiarono radicalmente la politica religiosa. Il Concilio di Calcedonia del 451, da lui
voluto, e organizzato in maniera tale da radunare centinaia di vescovi, non solo condannò Eutiche
per motivi teologici, sconfessò gli atti del concilio di di Efeso del 449, depose ed esiliò Dioscoro
per motivi disciplinari (anche grazie al clamoroso voltafaccia di Giovenale di Gerusalemme), ma
prese pure alcune decisioni concrete a livello ecclesiale: reinstallò i vescovi deposti nel 449 (Ibas di
Edessa, Teodoreto di Cirro e altri) e sanzionò la supremazia del seggio di Costantinopoli su quelli di
Antiochia e Alessandria, attribuendo ad esso competenze territoriali in Asia Minore e un posto
d’onore in Oriente con espressioni tali da mettere in difficoltà anche uno dei fondamentali fautori
del Concilio, il papato romano. Quest’ultimo infatti mai approvò quel canone 28, che, appunto,
conferiva un nuovo statuto alla capitale orientale.
Si apriva a partire da questo momento una crisi gravissima in tutta la cristianità, che provocò
in tempi diversi la nascita di chiese separate da quella imperiale: gli scismi erano suscitati sia dal
fatto che il concilio aveva approvato, pur mettendone in rilievo la consonanza con la teologia di
Cirillo di Alessandria, il Tomus ad Flavianum di papa Leone, da molti percepito come documento
prossimo alle posizioni di Nestorio, sia dal fatto che l’imperatore, nonostante le divisioni e le
incertezze dell’episcopato convenuto, aveva imposto la formulazione di una definizione di fede in
materia di cristologia che specificasse ciò che rimaneva implicito nel simbolo di Nicea. Eccone il
testo:
Seguendo perciò i santi padri insegnamo a professare tutti concordemente un solo e
stesso Figlio, il signore nostro Gesù Cristo, lo stesso perfetto nella divinità e perfetto
nella umanità, lo stesso veramente Dio e veramente uomo, di anima razionale e corpo,
consustanziale al Padre secondo la divinità e lo stesso consustanziale a noi secondo
l’umanità, in tutto simile a noi ad eccezione del peccato. Generato dal Padre prima dei
tempi secondo la divinità, negli ultimi giorni egli stesso per noi e per la nostra salvezza
è nato da Maria Vergine, la Madre di Dio, secondo l’umanità, un solo e lo stesso Cristo,
Figlio, Signore, Unigenito, che si fa conoscere in due nature senza confusione, senza
mutamento, senza divisione, senza separazione. Poiché assolutamente non è stata
eliminata la differenza delle nature a causa dell’unione, ma invece sono state preservate
le proprietà dell’una e dell’altra natura e sono confluite in un solo prosopon e in una
sola ipostasi, non viene ripartito o diviso in due prosopa, ma uno solo e lo stesso è il
Figlio e Unigenito, Dio Logos, signore Gesù Cristo. Così ci hanno insegnato
anticamente i profeti intorno a lui e poi lo stesso signore Gesù Cristo, e il Simbolo dei
padri ci ha trasmesso (trad. M. Simonetti).
Il perfetto equilibrio qui espresso tra umanità e divinità in Cristo, che «si fa conoscere in due
nature», doveva certamente andare incontro all’impostazione del Tomus di papa Leone, ma non
mancano riferimenti precisi al linguaggio cristologico di Cirillo di Alessandria, come l’insistenza
sull’identità tra il soggetto del Logos e quello dell’incarnazione: si tratta insomma di un
compromesso non lontano da quello della formula di unione del 433, ma con un’attenzione
maggiore sull’unità, ora designata anche con il termine cirilliano di hypostasis.
4. La crisi dopo Calcedonia: Palestina, Siria ed Egitto fino all’ Enotico dell’imperatore
Zenone (482)
L’impatto delle decisioni dogmatiche del concilio suscitò reazioni particolarmente violente
in Palestina e in Egitto, da parte del popolo e dei monaci, che indussero nella stessa politica
imperiale un atteggiamento piuttosto oscillante nei decenni a seguire, fino al tempo dell’imperatore
Giustino (518-527): per l’impero si trattava pur sempre di difendere l’ordine pubblico, di rendere
comprensibile a tutti l’iniziativa imperiale del concilio, di favorire l’unità religiosa del popolo nei
limiti del possibile, sulla base di una qualche piattaforma. Ciò venne perseguito in modi diversi a
seconda dei contesti e degli imperatori, in alcuni casi accentuando l’imposizione di un’ortodossia
legata alla lettera della definizione dogmatica, in altri casi ammettendo un’adesione a formulazioni
generiche, che tacevano i termini del conflitto e lasciavano in ombra gli atti del Concilio di
Calcedonia. Seguiamo qualche momento esemplare di questi complessi sviluppi.
Giovenale non poté tornare immediatamente nella sua sede di Gerusalemme perché alcuni
vescovi e monaci, che avevano visto da vicino il suo voltafaccia nei confronti di Dioscoro, lo
avevano preceduto in Palestina suscitandogli contro il mondo dei monaci ed eleggendo vescovo uno
di loro, Teodosio. Solo nel 453 egli riuscì a rientrare, ma con l’appoggio delle truppe imperiali. La
situazione in Palestina rimase incerta per diversi decenni. Questo fu dovuto sia all’attività molto
vivace di un monachesimo anticalcedonese, come quello di Pietro Ibero, sia alla moderazione con
cui si mossero alcuni dirigenti ecclesiastici procalcedonesi, che seppero fare in modo da non
inimicarsi il mondo monastico: le due correnti si contesero a lungo il territorio, che alla fine fu
conquistato in maggioranza alla causa calcedonese, soprattutto grazie al monaco Saba e alla sua
laura.
Persino nella patria della cristologia delle due nature, Antiochia, ebbero luogo
sconvolgimenti tali da trasformare la città in uno degli epicentri dell’impostazione avversa e
dell’anticalcedonismo. Qui agì, quando poté esercitare il suo episcopato, Pietro il Fullone: a partire
dal biennio 469-470, nonostante fosse vescovo solo a intermittenza, sostenne la causa degli
anticalcedonesi in varie regioni e fu fautore di una nuova formulazione del trisaghion “Dio santo,
santo forte, santo immortale, abbi pietà di noi”, aggiungendovi l’espressione “egli che è stato
crocifisso per noi”. Tale formulazione poteva essere ben accetta in ambienti monofisiti, dove la
communicatio idiomatum veniva praticata in maniera generosa, ma risultava sospetta in ambienti
difisiti o calcedonesi, che nella formulazione potevano intravvedere il rischio di attribuire a tutta la
trinità, o anche alla sola divinità del Logos, la passione umana di Cristo sulla croce. Pietro il Fullone
favorì inoltre l’affermazione di un monofisismo tipicamente siriaco eleggendo Axenaia, altrimenti
noto come Filosseno, corepiscopo e poi vescovo dell’importante sede di Mabbug nel 484: tale scelta
dovette rivelarsi molto felice quando il neo-eletto potè agire in connessione ad altri personaggi
significativi come Severo di Antiochia.
In altra zona di cultura siriaca, Edessa e la sua regione, il contrasto si manifestava in forma
sempre più acuta: la restaurazione di Ibas di Edessa (che morì nel 457) non aveva significato la
sconfitta definitiva delle correnti anticalcedonesi, che riemersero con i vescovi dei decenni
successivi. Questi accentuarono sempre di più il conflitto con la locale scuola teologica ed
esegetica, che nel 489 dovette chiudere per ordine di Zenone. Ma già prima di questo evento, molti
dei maestri e degli allievi erano emigrati nell’Impero persiano, dove furono benevolmente accolti
dal vescovo di Nisibi, Barsauma, anch’egli ex-allievo della scuola. Nella città essi dettero vita a una
grande Accademia cristiana, basata sullo studio dell’esegesi e della teologia antiochena (Teodoro di
Mopsuestia), di cui ci sono conservati i diversi statuti: si tratta certamente di uno degli esperimenti
di università cristiana più riusciti della tarda antichità.
In Egitto lo scontro ebbe risvolti assolutamente drammatici. Al ritorno dal Concilio di
Calcedonia, quattro vescovi egiziani che avevano abbandonato Dioscoro, consacrarono vescovo
Proterio, a suo tempo presbitero di Dioscoro, ma passato poi dalla parte dei suoi avversari. La
notizia della deposizione di Dioscoro e della sua sostituzione con Proterio provocò gravi disordini.
Come al tempo dei vescovi ariani, si assistette al fenomeno di un vescovo imposto con il potere
delle armi, a discapito della volontà della maggioranza dei fedeli: in effetti Proterio poteva contare
sull’appoggio di qualche settore della popolazione di Alessandria, di qualche vescovo e dei monaci
pacomiani del convento della Metanoia, cioè su una minoranza. Tale situazione di tensione
riesplose alla notizia della morte di Marciano (26 gennaio 457), che spinse il clero e i cristiani fedeli
a Dioscoro, morto nel frattempo (454), a ordinarsi un proprio vescovo nella figura di Timoteo
Eluro, presbitero di Cirillo e collaboratore di Dioscoro. L’intervento delle truppe per arrestare
Timoteo provocò un’altra sollevazione popolare, che terminò tragicamente con l’assassinio di
Proterio nella chiesa di Quirino, seguito dal macabro rito del trascinamento del suo cadavere nelle
vie della città e della sua combustione. Timoteo Eluro approfittò della situazione di disordine per
eleggere vescovi a lui fedeli e far condannare da un sinodo sia papa Leone, sia i vescovi calcedonesi
di Antiochia e Costantinopoli.
La reazione non si fece attendere. Il nuovo imperatore Leone lanciò nel 457 una
consultazione presso tutto l’episcopato dell’Impero in cui chiedeva un giudizio sul concilio di
Calcedonia e un pronunciamento sulla legittimità dell’elezione di Timoteo Eluro a vescovo di
Alessandria. Dalle risposte in parte conservate nel Codex encyclius deduciamo che la maggioranza
dei vescovi dichiarò la validità del concilio e l’illegittimità dell’ordinazione di Timoteo: egli veniva
quindi esiliato a Gangra, dove era stato relegato a suo tempo anche Dioscoro, e, da qui, in altre
località più distanti. Ad Alessandria fu eletto vescovo Timoteo Solofaciolo, un monaco pacomiano
di fede calcedoniana, il quale praticò una politica moderata nei confronti di amici e avversari.
Timoteo Eluro potè ritornare ad Alessandria solo nel 475, richiamato dall’usurpatore
imperiale Basilisco. Timoteo, dopo essere passato per Efeso, fu accolto trionfalmente dalla
popolazione, cui aveva portato in dono le spoglie di Dioscoro, ormai assimilato a un martire della
fede; il Solofaciolo preferì ritirarsi senza creare disordini. Il nuovo effimero imperatore aveva
emanato un’enciclica in cui si condannavano esplicitamente il concilio di Calcedonia e il Tomus di
papa Leone. Questo documento, pur approvato da numerosi vescovi anticalcedonesi e da molti
incerti, suscitò reazioni tali di opposizione in altri settori, soprattutto da parte di Acacio patriarca di
Costantinopoli, con l’appoggio del papato romano, che l’usurpatore dovette ritirarlo: l’unica politica
di sostegno imperiale all’anticalcedonismo era dunque fallita nel giro di due anni.
Zenone riconquistò dunque il potere (477). Sembrava ormai giunto il momento di imporre
senza incertezze il Concilio di Calcedonia in ogni zona dell’impero, ma l’imperatore era ben
conscio del fatto che le resistenze popolari avrebbero osteggiato qualsiasi politica imperiale troppo
rigida. Poco dopo moriva Timoteo Eluro, proprio quando stava per essere nuovamente mandato in
esilio. Il suo clero procedette in segreto all’elezione di Pietro Mongo, anch’egli collaboratore di
Dioscoro e Timoteo, ma Zenone impose come vescovo di nuovo il vecchio Timoteo Solofaciolo.
Alla morte di questi, un altro pacomiano di simpatie calcedonesi, Giovanni Talaia, non poté
succedergli a causa della sua amicizia con Illo, un altissimo ufficiale sospettato di tramare contro
Zenone. Rimaneva dunque solo il vescovo clandestino, Pietro Mongo.
Nel 482 Zenone emanava, proprio per suggerimento di Acacio, quell’editto imperiale che ha
nome di Enotico, cioè “documento di unione”, indirizzato esplicitamente alla chiesa egiziana,
avvertita come la più problematica in Oriente. Esso, nelle intenzioni dell’autorità imperiale, aveva
lo scopo di creare il consenso più largo possibile attorno ad una dichiarazione che evitava di entrare
nel merito dei punti più discussi, cioè le due nature di Cristo e la validità del Concilio di
Calcedonia, mentre, condannando gli estremi teologici di Nestorio e Eutiche, asseriva in positivo il
valore dei concili di Nicea, Costantinopoli, Efeso, nonché degli anatematismi di Cirillo di
Alessandria.
5. Reazioni all’Enotico e momentanea supremazia anticalcedonese in Oriente
Come qualsiasi documento di compromesso fondato sui silenzi, l’ Enotico scontentò sia i
calcedonesi più convinti (i monaci acemeti di Costantinopoli, i monaci della laura di Saba in
Palestina, il papato romano, che sconfessò il documento nel 484), sia i difisiti orientali, sia,
soprattutto, l’ala radicale degli anticalcedonesi.
Ad Alessandria Pietro Mongo cercò di muoversi in consonanza con le intenzioni politiche
del documento, ciò che gli permise di venire incontro ai fedeli di orientamento calcedonense. Con
quest’abile mossa politica, fece in modo da farsi riconoscere vescovo legittimo di Alessandria anche
da Acacio di Costantinopoli, che in lui vedeva non solo un anticalcedonese ma anche un mediatore
ben più esperto e più capace di creare un’unità religiosa popolare che non le scialbe figure
calcedonesi allora attive in Egitto. Tuttavia una parte del mondo monastico e episcopale egiziano
non fu convinto, e diede luogo a una fiera opposizione. Anche l’anatematismo pubblico contro il
Concilio di Calcedonia e il Tomo di Leone I cui Pietro Mongo fu costretto, e che fu ripetuto in
seguito dai suoi successori, seppure gli garantì l’appoggio della maggioranza degli alessandrini, non
impedì la formazione di uno scisma di estremisti monofisiti, che non riconobbero più alcun vescovo
alessandrino (acefali).
L’Enotico era destinato anche a far raffreddare e interrompere i rapporti tra papato romano e
sede di Costantinopoli, accusata di un atteggiamento compromissorio verso strenui anticalcedonesi
come Pietro Mongo: si apriva così lo scisma acaciano (→TS), che proseguì ben oltre la morte del
vescovo (489), fino al 518, e che fu complicato dall’elezione, nella capitale, di un vescovo
apertamente anticalcedonese come Timoteo.
In Antiochia e nella Siria l’Enotico fu accolto grazie all’azione accorta di Pietro il Fullone,
che per questo fu reinstallato sul seggio di Antiochia. Dopo la sua morte (490) i successori si
mostrarono più vicini al Concilio di Calcedonia che alla cristologia dell’unica natura, ma non per
questo meno fedeli all’Enotico. Contro costoro, tuttavia, l’attività degli anticalcedonesi divenne
sempre più aggressiva.
Possiamo in effetti osservare che dopo questa prima lunga fase di alterne fortune dei diversi
fronti teologici, si verifica, a partire dall’ultimo decennio del V secolo, un’affermazione sempre più
diffusa dell’orientamento anticalcedonese cirilliano, dovuta sia a situazioni locali, sia alla pressione
popolare, sia all’acquiscenza degli imperatori che in alcuni rappresentanti del movimento
individuavano persone capaci di garantire una situazione di pace sociale e religiosa. Dopo la morte
di Zenone (491), ad Alessandria l’imperatore Anastasio permise l’elezione di vescovi apertamente
anticalcedonesi. Uno degli eventi più importanti di questa evoluzione, grazie alla capillare azione di
propaganda di Filosseno di Mabbug, fu l’elezione a vescovo di Antiochia di Severo (512). Di
quest’uomo di notevolissima cultura, formatosi ad Alessandria e a Beirut, profondamente convinto
della validità della fase più radicale della teologia di Cirillo, nonché dell’errore irrecuperabile della
definizione calcedonese, la corrispondenza e le omelie registrano un’attività frenetica sia sul fronte
sociale e pastorale, sia su quello dogmatico. Le Epistole a Succenso di Cirillo furono infatti la base
da cui egli partì per un itinerario di chiarificazione concettuale e terminologica che portò
all’elaborazione di una teologia destinata a diventare un punto di riferimento fondamentale in
Oriente, capace com’era di mantenere una via media fra la teologia delle “due nature” calcedonese e
l’estremismo monofisita di Eutiche con l’affermazione dell’unica natura, chiamata anche “ipostasi”.
Non solo le due espressioni “da due nature” e “una sola natura del Verbo incarnata” acquistarono
piena cittadinanza e giustificazione, ma il dinamismo della teologia di Cirillo fu sviluppato in modo
lucido, mettendone in rilievo la capacità di esprimere nella maniera più propria l’incarnazione del
Logos come un “divenire senza cambiamento” di Dio Logos, che si compone (synthetos) con
l’umanità in un’unità personale (henosis): Dio diviene uomo senza cambiamento perché esiste
eternamente in maniera piena, senza essere mai “divenuto” nel modo in cui “divengono” le creature,
le quali passano dal nulla al qualcosa; Dio diviene senza cambiamento perché diviene per noi, e
dunque non per se stesso, essendo il suo divenire non una necessità inerente al suo essere e alla sua
natura, dovuta alla mancanza di qualcosa, ma una scelta volontaria in ordine all’economia della
salvezza.
6. Riflessi orientali della crisi e l’evoluzione della chiesa in Persia
Anche le zone ai confini o al di là dei confini orientali e meridionali dell’Impero romano
subirono in maniera diversificata l’impatto della crisi calcedonese nelle sue due fasi, prima e dopo
la pubblicazione dell’ Enotico. Nell’Impero persiano stava ormai affermandosi una cristologia
basata sull’affermazione rigorosa delle due nature, secondo la prospettiva di Teodoro di
Mopsuestia, e questo in maniera tanto più ferma, quanto più attiva diventava la propaganda della
cristologia dell’unica natura ai confini occidentali del medesimo. Nel Caucaso, nella Siria romana, e
soprattutto in Egitto, l’anticalcedonismo, impostato sulla cristologia dell’unica natura, sebbene
diversificato al suo interno, appariva come il movimento più dinamico e vivace, sebbene spesso
represso dal potere centrale. Avendo già riservato uno spazio agli accadimenti in Egitto e Siria,
presenteremo una rapida sintesi circa la situazione specifica ai confini orientali dell’impero e oltre
questi.
Dopo i drammatici avvenimenti del 451 (→supra), l’Armenia, questa volta alleata con
l’Iberia, ebbe a subire una nuova sconfitta dai Persiani nel 482, le cui conseguenze furono mitigate
dall’improvvisa morte del re di Persia. Data la gravissima situazione politica e militare, non si
registra una presa di posizione ufficiale della chiesa armena almeno fino al 506, quando nel concilio
di Dvin le tre chiese caucasiche degli Armeni, degli Iberi (georgiani) e degli Ałuaniesi si
pronunciarono a favore dell’Enotico promulgato dall’imperatore Zenone nel 482; due anni dopo il
catholicos Babgen confermava le decisioni del concilio, condannando anche la dichiarazione
cristologica di Calcedonia, senza tuttavia rompere apertamente con il seggio di Constantinopoli.
Solo a metà del VI secolo cominciarono a comparire i primi dissensi tra le cristianità caucasiche a
proposito del Concilio di Calcedonia, che provocarono una divisione tra la chiesa armena,
anticalcedonese, e la chiesa georgiana, destinata a rientrare nell’orbita bizantina.
Nella questione armena era intervenuto anche Filosseno di Mabbug, che abbiamo visto
attivissimo in Antiochia e in tutta la zona a oriente. Egli si caratterizza nella storia della cristologia
dell’unica natura per la contaminazione che ha praticato su larga scala tra il pensiero di Cirillo e
quello della tradizione letteraria e teologica siriaca. Una categoria desunta da questa teologia dà
forma al suo pensiero teologico: il concetto di miracolo visto in relazione agli effetti paradossali
dell’incarnazione. Il binomio proposto da Filosseno in relazione alle modalità di esistenza di Cristo
e dei credenti è il seguente: Cristo è Dio Logos (un’unica natura) che esiste in due forme, (a) come
Dio per natura, (b) come uomo per miracolo; noi, credenti battezzati, esistiamo in due modalità, (a)
come uomini per natura, (b) come figli di Dio per miracolo. Cristo, la cui naturale divinità noi
cogliamo non attraverso la nostra naturale percezione ma attraverso il miracolo della fede, si pone
in quanto uomo sullo stesso piano di esistenza della fede: il piano del miracolo, del dono, della
grazia. Ovviamente molti altri intellettuali e vescovi provenienti dal mondo siriaco furono coinvolti
nel dibattito, prendendo posizioni più radicali o più sfumate. Giacomo di Sarug, il grande poeta
prosecutore di Efrem, si presentò come un moderato, sebbene il mondo monastico lo spingesse a
prendere posizioni più estreme.
Proprio nel corso del V secolo si gettarono le basi di una chiesa indipendente, “persiana” in
senso proprio, anche dal punto di vista teologico, oltre che ecclesiale. Abbiamo già visto ((→AC 1)
che alcuni concili (anni 410, 420, 424) avevano sancito la struttura di una chiesa autonoma,
articolata alla maniera antiochena su tre livelli, cioè il capo, il catholicos (in seguito, nel VI sec.,
chiamato anche ‘patriarca’), residente nella capitale imperiale di Seleucia-Ctesifonte (più tardi,
sotto la dominazione araba, a Baghdad); il gruppo dei vescovi delle città più significative, erette a
sedi metropolitane (alcune ormai al di fuori dei confini persiani), con le quali il catholicos
condivideva le sue decisioni; i vescovi delle singole diocesi sottoposte ai metropoliti. La decisione
di ammettere la liceità del matrimonio per tutto il clero, vescovi compresi, nel sinodo del 486, verrà
poi limitata ai soli presbiteri a metà del VI sec. Nello stesso tempo il monachesimo veniva
allontanato dalle città, decisione che ne provocò il drammatico decadimento fino all’epoca della sua
nuova fioritura, alla metà del VI secolo, per opera di Abraham di Kaškar.
L’indipendenza e l’identità di questa chiesa non erano date soltanto dall’organizzazione e
dalla liturgia, ma anche dalla sua cultura teologica, dalla sua esegesi scritturistica di tipo letteralista
e dalla sua impostazione cristologica. La Chiesa siro-orientale definì la propria cristologia con i
termini tecnici ereditati da Teodoro di Mopsuestia, e in seguito anche da Nestorio: divinità e
umanità di Cristo furono chiamate in un primo momento ‘nature’ (sinodo del 486: il termine può
avere un senso estremamente generico e astratto), in seguito, all’inizio del VII sec., furono
qualificate come ‘ipostasi’ (sir. qnome), secondo quanto aveva affermato Nestorio stesso: si trattava
di un termine che ad orecchie occidentali (greche e latine) poteva apparire come l’affermazione di
due persone e dunque di “due Cristi”, ma che in realtà indicava l’individualità delle due nature unite
nel Cristo, la cui unità personale veniva designata con il termine prosopon.
A rafforzare, ma spesso anche ad approfondire e a mettere in discussione questa
impostazione cristologica fu la scuola di Nisibi, erede di quella di Edessa e rifondata grazie al
poeta-teologo Narsai, vera università cristiana, che preparava, assieme ad altre scuole esemplate sul
suo modello, i ceti dirigenti della chiesa siro-orientale, ma che fu anche istituzione di ricerca
esegetica e teologica, destinata in qualche momento a vivere uno stato di tensione con la gerarchia.
Qui si conduceva lo studio dell’esegesi biblica e delle discipline che la rendono possibile, qui si
operava la traduzione dei padri di questa chiesa, in particolare di Diodoro di Tarso, Teodoro di
Mopsuestia e, a partire dal VI sec., di Nestorio (in particolare sotto il catholicos Aba I). Dei tre, il
vero riferimento della storia teologica ed esegetica siro-orientale rimarrà sempre Teodoro, il
mallpānā, cioè l’“interprete” per eccellenza, anche se Babai il grande, uno dei massimi teologi del
VI-VII sec., rielaborerà le concezioni cristologiche anche di Nestorio ((→AC3).
7. La politica dell’imperatore Giustino (518-527): declino del fronte anticalcedonese e
lacerazioni al suo interno
Nel 518 la proclamazione a imperatore di Giustino (518-527) significò la fine di questo
periodo favorevole agli anticalcedonesi. Non solo: la comunione tra Roma e Costantinopoli fu
presto ristabilita, ponendo termine allo scisma acaciano. Qualche diversità tra le due capitali
sussisteva ancora, come dimostrò la vicenda dei monaci sciti, nella quale emerse con chiarezza che
anche nel fronte calcedonese cominciavano ad aver luogo le prime differenziazioni. Essi, del tutto
ortodossi, proclamarono in ambedue le capitali che la dichiarazione di Calcedonia doveva essere
integrata, per non apparire difisita e nestoriana, con la frase «uno della trinità è stato crocifisso»,
atta a sottolineare l’identità di soggetto tra il Logos e il Cristo. Tale formula non poteva non
ricordare l’aggiunta di Pietro il Fullone al Trisaghion ed essere sospettata di monofisismo, come
apparve al papa Ormizda, che non l’accettò. A Costantinopoli invece essa aveva trovato maggiore
accoglienza.
Le politiche imperiali riuscirono tuttavia a superare queste diversità. In ogni caso, ripresero
con lena le persecuzioni nei confronti del clero anticalcedonese, che divennero sistematiche in tutto
l’Oriente, con l’eccezione di Alessandria: qui l’imperatore non ritenne opportuno, per motivi di
ordine pubblico, insediare un patriarca pro-calcedonese. Alessandria e i monasteri dei suoi dintorni
divennero allora luogo di rifugio di eminenti personalità di orientamento anticalcedonese, cacciate
dalle loro sedi episcopali per non aver aderito alla definizione di Calcedonia e al tomo di Leone,
quali Severo di Antiochia e Giuliano di Alicarnasso, che non solo si costituirono quale punto di
riferimento dell’elaborazione teologica in Egitto, ma anche come attori di nuovi dibattiti e di nuove
lacerazioni.
Infatti la dottrina di Giuliano, combattuta energicamente da Severo, riuscì a raccogliere
l’adesione di una parte del mondo monastico, quella più estremista e rigorista. Che cosa opponeva i
due vescovi-teologi anticalcedonesi? Giuliano riteneva l’atto stesso dell’incarnazione del Logos
talmente significativo da rendere il corpo di Cristo differente rispetto a quello degli altri uomini, che
invece vivono nel regime del peccato e della corruzione: l’incorruttibilità, la medesima che Adamo
aveva posseduto prima del peccato, ha caratterizzato il corpo di Cristo fin dal concepimento, ben
prima della resurrezione, ragione per cui chi concepisce una diversità nel corpo di Cristo prima e
dopo la resurrezione, prima passibile e corruttibile, poi impassibile e incorruttibile, immette nella
sua rappresentazione una dualità pericolosa. Severo riteneva che la concezione di Giuliano togliesse
valore alla realtà terrestre di Cristo, alla consustanzialità tra la condizione umana di Cristo e quella
degli altri uomini, a tal punto da metterne a rischio le potenzialità salvifiche e da rendere inutili la
nascita nella carne, la sofferenza e la croce. La controversia tra le due correnti ebbe lunghi strascichi
nei secoli a venire, aggiungendosi alle tante drammatiche divisioni formatesi nella cristianità nel
giro di un secolo.
Bibliografia
Una selezione di fonti e testi relativi alle controversie cristologiche è reperibile in: The Acts
of the Council of Chalcedon, ed. R. Price-M. Gaddis (Translated Texts for Historians 45), Liverpool
2005; A.-J. Festugière, Éphèse et Chalcédoine: actes des conciles, Paris 1982 (ambedue traduzioni
della grandiosa impresa editoriale di E. Schwartz, Acta conciliorum oecumenicorum); M. Simonetti,
Il Cristo. Volume II. Testi teologici e spirituali in lingua greca dal IV al VII secolo, Lorenzo Valla,
Milano 1986.
Sulla controversia in generale ancora è valido W.H.C. Frend, The Rise of the Monophysite
Movement: Chapters in the History of the Church in the Fifth and Sixth Centuries, Cambridge
1972, nonché la sua trattazione nelle seguenti opere collettive: Histoire du christianisme, sous la
direction de J.-M. Mayeur, C. et L. Pietri, A. Vauchez, M. Venard. 3. Les Églises d’Orient et
d’Occident (432-610), Paris 1998 (trad. it. Storia del cristianesimo. Religione, politica, cultura 3.
Le Chiese d'Oriente e d'Occidente (432-610), Roma 2002) e in Histoire générale du christianisme
des originies au XVe siècle, sous la direction de J.-R. Armogathe, P. Montaubin, M.-Y. Perrin, Paris
2010, della quale si vedano B. Meunier, Qui est le Christ?, 195-237 (in particolare 215-237), F.
Alpi, Antioche et le monde syrien, 561-577; B. Flusin, Jérusalem et la Palestine, 578-593; E.
Wipszycka, Alexandrie et l’Égypte, 593-610; M. Debié, L’Empire perse et ses marges, 611-646; J.P. Mahé, L’Arménie et la Géorgie, 652-674.
L’aspetto teologico della crisi efesina, calcedonese e postcalcedonese è approfondito
dall’opera grandiosa di A. Grillmeier e collaboratori, Jesus der Christus im Glauben der Kirche,
Bd. 1. Von der Apostolischen Zeit bis zum Konzil von Chalcedon (451). -- Bd. 2/1. Das Konzil von
Chalcedon (451). Rezeption und Widerspruch (451-518). -- Bd. 2/2. Die Kirche von Konstantinopel
in 6. Jahrhundert, unter Mitarbeit von T. Hainthaler. -- Bd. 2/3. Die Kirchen von Jerusalem und
Antiochien nach 451 bis 600i, mit Beiträgen von A. Grillmeier, T. Hainthaler, Tanios Bou Mansour,
L. Abramowski, Bd. 2/4. Die Kirche von Alexandrien mit Nibien und Äthiopien nach 451, unter
Mitarbeit von T. Hainthaler, Freiburg-Basel-Wien 1979-2002; si veda la traduzione italiana parziale
Gesù il Cristo nella fede della Chiesa, 1/1-2, 2/1-2.4, edizione italiana a cura di E. Norelli, S.
Olivieri e A. Zani, Brescia 1983-2001. Su singoli personaggi e la loro teologia, si vedano le due
trattazioni classiche: J. Lebon, Le monophysisme Sévérien: étude historique, littéraire et
théologique sur la résistance monophysite au Concile de Chalcédoine jusqu'à la constitution de
l'église Jacobite, Lovanii 1909; A. De Halleux, Philoxène de Mabbog: sa vie, ses écrits, sa
théologie, Louvain 1963.
L’aspetto storico e geo-ecclesiologico della crisi calcedonese è ben descritto da F. Alpi, La
Route royale. Sévère d'Antioche et les Églises d'Orient (512–518), I: Texte; II: Sources et
documents (Bibliothèque Archéologique et Historique, 188), Beyrouth 2009; Ph.
Blaudeau, Alexandrie et Constantinople (451-491). De l’histoire à la géo-ecclésiologie, Rome
2006; L. Perrone, La chiesa di Palestina e le controversie cristologiche. Dal concilio di Efeso (431)
al secondo concilio di Costantinopoli (553), Brescia 1980. Circa le origini della chiesa persiana e la
sua evoluzione sotto i Sasanidi, si vedano: Ch. e F. Jullien, Apôtres des confins. Processus
missionnaires chrétiens dans l’empire iranien, Bures-sur-Yvette 2002; A. Panaino, La Chiesa di
Persia e l’impero sasanide. Conflitto e integrazione, in Cristianità d’occidente e cristianità
d’oriente (secoli VI-XI). Settimane di studio della Fondazione Centro Italiano di Studi sull’Alto
Medioevo 51, 23-24 aprile 2003, Spoleto 2004, 765-869; W. Baum-D.W. Winkler, The Church of
the East: A Concise History, Londra-New York 2003.