comorbilità psichiatrica o continuum psicopatologico?

Rassegna
Dipendenze patologiche da sostanze:
comorbilità psichiatrica o continuum psicopatologico?
Pathological drug-dependence: psychiatric comorbidity
or psychopathological continuum?
VINCENZO MANNA*, SALVATORE RUGGIERO**
*Dipartimento dipendenze patologiche ASL FG/3 - Foggia - Dipartimento salute mentale ASL FG/3 - Foggia
RIASSUNTO. Negli ultimi e più recenti anni, l’attenzione di molti clinici e ricercatori è stata focalizzata sulla comorbilità psichiatrica presente tra i tossicodipendenti nell’ipotesi che le farmaco-tossicodipendenze potesserro rappresentare una sorta di
auto-medicazione. In questo breve articolo di aggiornamento, vengono passati in rassegna recenti studi sui correlati psicopatologici delle tossicodipendenze, nonchè l’approccio diagnostico dimensionalistico contemporaneo all’abuso di sostanze. Particolare attenzione è stata riservata alla psicodinamica della dipendenza patologica da sostanze, nella prospettiva di una integrazione terapeutica tra farmacoterapia e psicoterapia nel suo trattamento.
PAROLE CHIAVE: abuso di sostanze, tossicodipendenza, comorbilità psichiatrica, continuum psicopatologico
SUMMARY. In the last few years, the attention of many researchers and clinicians was focused on the psychiatric comorbidity in substance abusers, in the light of the self-medication hypothesis of addictive disorders. In this brief up-date article,
recent studies on the psychopathologic correlates of drug addictions and contemporary dimensional diagnostic approaches
to pathological dependence disorders were reviewed. A particular attention was reserved to psycodynamics of drug dependence, in the perspective of integrating pharmacotherapy and psychotherapy in the treatment of addictive disorders.
KEY WORDS: substances abuse, drug addiction, psychiatric comorbidity, psycho-pathological continuum.
INTRODUZIONE
zione di efficaci rimedi. Va sottolineato, comunque,
come il sapere psichiatrico, per sua natura, risulti l’unico
in grado di contenere, nel proprio ambito, tanto gli
aspetti neuro-biologici che quelli psicologici e sociali,
sottesi al problema tossicodipendenza (1, 5).
Il termine di “dipendenza patologica da sostanze”
descrive, in modo relativamente preciso, la condizione
di subordinazione del benessere psicofisico, di un individuo, all’assunzione più o meno regolare di una
sostanza esogena, con specifici effetti farmacologici,
prevalentemente psicotropi, talora dannosi, per il sistema nervoso o l’organismo nel suo insieme.
In questa prospettiva, tutte le problematiche cliniche
proprie delle dipendenze patologiche da sostanze possono essere ricondotte a tre fattori:
1. la sostanza d’abuso;
2. l’organismo assuntore;
La dipendenza patologica da sostanze assume, per
sua natura, una connotazione di intrinseca complessità, nel contesto clinico.
Essa nasce, infatti, dalla convergenza, nel singolo
consumatore:
1. degli effetti farmacologici delle sostanze d’abuso;
2. della vulnerabilità psico-biologica del paziente;
3. dell’influenza di numerosi fattori socio-ambientali.
Ciò ha fatto della tossicodipendenza oggetto di studio
e di interesse da parte di istanze scientifiche e culturali
profondamente diverse, quali la neuro-biologia, la farmacologia, la psichiatria, la psicologia, l’antropologia e
la sociologia, ponendo le premesse per un conflitto di
linguaggi e di interpretazioni, che non ha sicuramente
aiutato la comprensione del fenomeno né l’individua-
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3. l’interazione complessa tra sostanza ed organismo,
in un determinato contesto socio-ambientale.
I fenomeni di dipendenza possono anche essere
descritti, mutuando il linguaggio dalla fisica dinamica,
come la somma vettoriale risultante dall’interazione
tra un vettore organismo (nella pratica clinica, l’individuo umano con la sua specificità e complessità biopsico-sociale) ed un vettore ambiente, che include le
sostanze d’abuso. Ognuno di questi due vettori principali è ovviamente la risultante di diverse e numerose
componenti. L’accento sugli aspetti dinamici di queste
interazioni sottintende la intrinseca variabilità cronorelata di tali fenomeni.
• temporalità dell’associazione: il fattore causa deve
precedere il fattore effetto;
• stabilità dell’associazione: l’associazione deve essere verificata da osservatori diversi in circostanze,
luoghi ed epoche differenti;
• plausibilità e coerenza: l’insieme delle osservazioni
non deve essere incoerente e contraddittorio;
• evidenza sperimentale: qualora un disegno sperimentale in quest’ambito sia eticamente accettabile;
• gradiente biologico dell’associazione: identificazione di una relazione dose-risposta, qualora esistente.
Le definizioni nosografiche più recenti (DSM IV)
sostengono che si possa parlare di comorbilità, in un
soggetto, quando vengano soddisfatti i criteri diagnostici per più di un disturbo psichiatrico, contemporaneamente. Lo studio epidemiologico Epidemiological Catchment Area (ECA) condotto, nella prima metà degli
anni ’80, su 20.291 soggetti, appartenenti alla popolazione generale, ha fornito alcuni termini quantitativi di
riferimento (10). In particolare, tra tutti i soggetti che
avevano avuto nella loro vita una diagnosi di disturbo
mentale, ben il 14.7 % aveva in anamnesi un disturbo da
abuso-dipendenza da sostanze, mentre il 28.9 % riferiva
un disturbo da abuso-dipendenza da alcool. In altri termini, per coloro che hanno una storia di abuso di sostanze il rischio di presentare disturbi mentali risulta essere
di circa 4 volte superiore a quello della popolazione
generale. All’interno dei sottogruppi diagnostici sono
stati evidenziati tassi di comorbilità con disturbi da
abuso di sostanze nel 27.5 % per la schizofrenia, nel 19.4
% per i disturbi affettivi, nonchè nel 42 % per i disturbi
di personalità, soprattutto antisociale. Lo studio ECA
soffre, purtroppo, di alcuni limiti metodologici, in conseguenza dell’utilizzo di interviste strutturate che raccolgono informazioni retrospettive. Alcuni ‘bias’ legati alla
affidabilità mnesica, circa la diagnosi psichiatrica e circa
l’uso dichiarato di sostanze, potrebbero aver agito sensibilmente sui dati complessivi raccolti. I dati, inoltre, non
sono stati trattati per evidenziare se l’uso di sostanze
precedeva o seguiva cronologicamente le diagnosi psichiatriche. Non sempre esistono, inoltre, dati disponibili
circa il tipo specifico di sostanza d’ abuso. (11-12) Purtroppo, gli studi in materia risultano condotti, quasi
tutti, in modo retrospettivo e con metodologie non scevre da effetti confondenti legati a diversi ‘bias’ di rilevazione dei dati, se non alla selezione stessa del campione
esaminato.
COMORBILITÀ PSICHIATRICA ED ABUSO DI
SOSTANZE
Edwards et al. (6) in un lavoro per l’Organizzazione
Mondiale della Sanità, hanno sottolineato logicamente
che tra disturbi mentali e uso di sostanze possono
intercorrere tre diversi tipi di associazione:
• i disturbi mentali causano l’assunzione di sostanze;
• i disturbi mentali conseguono all’uso di sostanze;
• tra disturbi mentali ed uso di sostanze esiste solo
una associazione casuale.
L’assunto che una sostanza induca “tout court” un
quadro psico-patologico va sempre adeguatamente e
criticamente verificato. Infatti, nell’associazione clinica
ed epidemiologica tra uso di sostanze e quadro clinico
psico-patologico possono sussistere diversi rapporti
etio-patogenetici:
1. una sostanza può indurre una sindrome psicopatologica ex novo;
2. una sostanza può evidenziare un disturbo psicopatologico latente;
3. una sostanza può causare la ricaduta in un pre-esistente disturbo mentale;
4. il quadro psico-patologico può indurre all’assunzione più o meno frequente della sostanza;
5. la relazione tra quadro psico-patologico ed abuso
di sostanze è spurio, cioè un quadro psico-patologico precede l’uso di sostanze, ma, talora, subisce per
effetto delle sostanze una evidente patomorfosi;
6. non vi è relazione tra quadro psichiatrico ed assunzione di sostanze (7-8-9).
Alcuni requisiti logici devono essere soddisfatti,
inoltre, per passare dal livello epidemiologico di associazione al livello interpretativo o causale:
• forza dell’associazione: il rischio relativo deve essere sensibilmente elevato;
• specificità dell’associazione: il rischio relativo deve
riguardare quadri clinici ben definiti e non equivoci;
DISTURBI DI PERSONALITÀ
Secondo il DSM IV, un disturbo di personalità rappresenta un modello di strutturazione dell’esperienza
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e del comportamento, pervasivo e costante, che risulta
marcatamente deviante rispetto alle aspettative della
cultura a cui l’individuo appartiene. Esso si evidenzia
clinicamente in epoca adolescenziale o nella prima
giovinezza. È stabile nel tempo. Determina disagio e
menomazione (13-14).
I Disturbi di Personalità (DP) vengono raccolti in tre
gruppi in base ad analogie sintomatologiche. Il gruppo
A include i DP Paranoide, Schizoide, Schizotipico con
aspetti comportamentali comuni di stranezza ed
eccentricità. Il gruppo B include i DP Antisociale, Borderline, Istrionico e Narcisistico, in cui prevalgono
comportamenti emotivi, amplificativi ed imprevedibili.
Il gruppo C include i DP Evitante, Dipendente ed
Ossessivo-Compulsivo. Gli individui con questi disturbi si mostrano spesso ansiosi e paurosi. In particolare,
il DP Paranoide è caratterizzato da sospettosità, sfiducia, per cui vengono interpretate come persecutorie le
motivazioni e le azioni degli altri. Il DP Schizoide è
caratterizzato da distacco emotivo, ritiro sociale, ridotta espressività, inibizione delle comunicazioni interpersonali. Il DP Schizotipico si esprime in forte disagio
nelle relazioni strette, distorsioni percettive o cognitive, eccentricità dei comportamenti. I DP Antisociale è
caratterizzato dal mancato rispetto degli altri e dei
loro diritti, con atti spesso violenti, aggressivi o appropriativi. Il DP Borderline si manifesta con instabilità
nelle relazioni interpersonali, svalutazioni ed ipervalutazioni eccessive e repentine, conflittualità ed instabilità negli affetti e nell’immagine di sè, nonchè, marcata
impulsività. Il DP Istrionico si estrinseca in comportamenti di ricerca dell’attenzione, con eccessiva e clamorosa espressione emotiva. Il DP Narcisistico è caratterizzato da grandiosità, necessità di ammirazione e
mancanza di empatia, che facilitano l’espressione di
sgarbi nei rapporti sociali. Il DP Evitante è caratterizzato da inibizione, bassa autostima, sentimenti di inadeguatezza, ipersensibilità al giudizio altrui. Il DP
Dipendente induce l’espressione di comportamenti
sottomessi ed accondiscendenti legati all’eccessivo
bisogno di protezione ed accettazione. Il DP Ossessivo-Compulsivo si esprime nella ricerca costante e continuativa di ordine, perfezionismo e controllo.
Numerosi studi sulla comorbilità psichiatrica tra
disturbi di personalità e tossicodipendenza hanno confermato una associazione variabile dal 26.5% al 100 %
(15-16). Il Disturbo di Personalità più frequente è
risultato quello Antisociale, insieme agli altri disturbi
del gruppo diagnostico B del DSM IV. La diagnosi di
DP Antisociale in un soggetto con diagnosi di dipendenza da sostanze risulta chiaramente associata a:
maggiori e più frequenti problemi legali; minore compliance terapeutica; peggiore prognosi; minore effica-
cia dei programmi terapeutici integrati con psicoterapia; ridotta efficacia delle terapie farmacologiche con
peggiori esiti. Inoltre, alcuni studiosi hanno suggerito
che i tossicodipendenti portatori di un DP dei cluster
A e C tendono ad una distribuzione omogenea negli
ambiti terapeutici ambulatoriali o residenziali. Al contrario, i soggetti con DP del cluster B si concentrano
maggiormente nei servizi ambulatoriali per le tossicodipendenze, probabilmente in relazione alle difficoltà
che vengono incontrate in programmi terapeutici ad
alta valenza sociale ed interpersonale, come quelli residenziali comunitari (17, 18, 19).
DISTURBI DELL’UMORE
Disturbi dell’umore, con episodi depressivi maggiori,
secondo i criteri del DSM IV, si ritrovano in circa un
terzo della popolazione di tossicodipendenti da eroina.
La prevalenza lifetime risulta compresa tra il 60% ed
il 90%, che si riduce al 30.48% per le condizioni di gravità media e/o severa. In circa il 90% degli eroinomani
con gesti suicidari, spesso, è presente una storia di
disturbi depressivi. Nel St. Diego Study (SDS), il
rischio di suicidio nei tossicodipendenti è risultato
maggiore in presenza di disturbi dell’umore, rappresentati, nel 29 % dei casi da quadri di depressione atipica. In questo studio, effettuato negli anni ‘80 e relativo ad un campione di 283 suicidi consecutivi, avvenuti
nella Contea di S. Diego, dal 1981 al 1983, è stata dimostrata una prevalenza di problemi correlati all’abuso di
alcool e sostanze nel 58% dei casi. Questa percentuale
risulta nettamente superiore a quella registrata nella
popolazione generale che varia dal 11% al 18%. La
frequenza di suicidi nella popolazione tossicodipendente risulta essere compresa tra i 30 casi e gli 82 casi
su 100.000 ed è, quindi, circa 11 volte superiore rispetto alla popolazione generale. La prevalenza lifetime di
suicidi tra i tossicodipendenti risulta oscillare tra il 7%
ed il 25%.(20) Negli eroino-dipendenti il suicidio viene
attuato in età usualmente precedente i 40 anni di vita,
e, nel 50% dei casi, prima dei 28 anni, quindi, in età più
giovanile rispetto alla popolazione dei suicidi alcolisti
o rispetto alla popolazione generale. Nel SDS, inoltre,
circa il 67% delle persone suicidatesi prima dei 30 anni
sono tossicodipendenti, mentre solo nel 46% dei suicidi avvenuti dopo i trenta anni e in circa il 14% di quelli successivi ai 40 anni sono stati evidenziati problemi
correlati alla tossicodipendenza. La poli-tossico-dipendenza, cioè l’uso contemporaneo di diverse sostanze, in
particolare l’associazione tra farmaci sedativo-ipnotici
ed alcool, costituisce un ulteriore fattore di rischio suicidario tra i tossicodipendenti, determinando la disini-
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bizione di comportamenti autolesivi. Lo studio SDS
conferma, per esempio, che il numero medio di sostanze utilizzate dai tossicodipendenti suicidi è stato di 3,6.
Circa l’84% di tali pazienti aveva utilizzato alcolici,
farmaci ed eroina. Solo un 8% di questo campione
poteva essere considerato un alcolista ‘puro’ e circa un
8% un ‘puro’ tossicodipendente (12).
I disturbi maniacali ed ipo-manicali sono stati evidenziati, nei diversi studi, con frequenze molto variabili, senza raggiungere univocità di opinioni. Il disturbo bipolare, al contrario, appare associato ad un
abuso di sostanze tra il 21% ed il 58% dei casi, con
una più elevata frequenza di ricoveri, episodi disforici, un più precoce esordio del disturbo dell’umore ed
una più alta frequenza di disturbi mentali di Asse I. Il
disturbo ossessivo-compulsivo tra i tossicodipendenti
raggiunge percentuali superiori all’11% contro una
incidenza di circa il 2.5% della popolazione generale
(8-11-19).
Un disturbo dell’umore di tipo depressivo rappresenta la diagnosi psichiatrica più frequente, tanto nei
soggetti con AIDS ricoverati, quanto nei soggetti con
infezione da HIV asintomatici. Valori tra il 4% ed il
32% sono stati riscontrati anche nei soggetti a rischio
di infezione, ma ancora siero-negativi. Tali dati appaiono largamente sovrapponibili a quelli registrati in soggetti affetti da patologie croniche e potenzialmente
mortali, come quelle cancerose. La diagnosi di AIDS o
di infezione di HIV non necessariamente deve essere
considerata, di per sè, depressogena, sebbene lo stato
di siero-positività possa associarsi a periodi prolungati
di ‘helplessness’ e di ‘hopelessness’ con mancanza di
speranza, senso di abbandono, tristezza e rabbia. In
realtà, il disturbo depressivo può precedere cronologicamente l’infezione, la quale sarebbe, perciò, slatentizzante rispetto al disturbo psichico. Nella personalità
premorbosa di tali soggetti spesso vengono registrati
altri fattori predisponenti quali: precedenti episodi
depressivi; condotte suicidarie; altri disturbi psichiatrici; disturbi di personalità; perdita di ogni supporto
psico-sociale (9, 21).
1. comparsa di sintomi psicotici prima dell’inizio dell’uso di sostanze;
2. persistenza dei sintomi psicotici dopo la cessazione
dell’assunzione delle sostanze d’abuso;
3. intensità dei sintomi o caratteristiche sintomatologiche incongrue, riguardo a quanto atteso in rapporto all’uso di specifiche sostanze psicotrope;
4. anamnesi positiva per episodi morbosi non correlati all’uso di sostanze.
Possono costituire ulteriori dati clinici dirimenti:
l’età di insorgenza; le modalità di decorso dei sintomi;
le caratteristiche sindromiche specifiche.
La confrontabilità dei dati riportati dagli studi sull’argomento risulta, inoltre, condizionata da diversi fattori metodologici:
a. il disegno strutturale dello studio (prospettico,
retrospettivo o trasversale);
b. la selezione del campione esaminato per parametri
demografici o clinici;
c. le diverse definizioni di abuso e dipendenza adottate;
d. gli strumenti di diagnosi psico-patologica adottati,
nonchè il sistema nosografico generale di riferimento;
e. la condizione clinica al momento dello studio (astinenza protratta, astinenza recente, intossicazione in
atto, etc.).
USO DI SOSTANZE IN PAZIENTI PSICOTICI
Alcuni Autori hanno sostenuto che il pattern di
abuso negli schizofrenici differisce sia in senso qualitativo sia in senso quantitativo, da quello degli altri
tossicodipendenti. Infatti, un incremento di prevalenza dell’abuso di sostanze è stato evidenziato, negli
ultimi anni, tra i pazienti psicotici. Tale rilievo
potrebbe essere solo apparente, in rapporto alla
maggiore attenzione riservata al problema. Un ruolo
reale, in tale direzione, potrebbe essere stato svolto
anche dalla deistituzionalizzazione psichiatrica, con
facilitato accesso alle sostanze, dei soggetti psicotici
non più assistiti in ambito residenziale protetto, per
un fenomeno di deriva sociale passiva verso ambienti ad elevata diffusione di droga (22). L’abuso di
sostanze psicotrope, da parte di soggetti schizofrenici, è stato interpretato da alcuni Autori come una
sorta di automedicazione dei sintomi positivi (con
sostanze ad effetto sedativo) o dei sintomi negativi
(con sostanze ad effetto stimolante), nonchè della
condizione di anedonia secondaria all’uso cronico di
neurolettici. La familiarità per disturbi dell’umore
e/o da uso di sostanze potrebbe svolgere un ruolo nel
rendere più vulnerabili alcuni schizofrenici a forme
DISTURBI DELLO SPETTRO SCHIZOFRENICO
Numerosi studi clinici hanno evidenziato:
A. la presenza di disturbi da uso di sostanze in pazienti
psicotici;
B. disturbi mentali gravi, dello spettro schizofrenico,
in pazienti tossicodipendenti.
Secondo il DSM IV, la diagnosi differenziale tra
disturbi psicotici primitivi e disturbi psicotici indotti da
sostanze va posta sulla base dei seguenti dati clinici:
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concomitanti di tossicodipendenza (23). Nell’esame
dei campioni clinici, il dato che gli schizofrenici abusino prevalentemente di cannabis, stimolanti ed allucinogeni, nonchè di caffeina e nicotina, rispetto ad
altre sostanze ad effetto più sedativo, come gli oppiacei, è un dato relativamente consolidato (24-25). L’esistenza di scelte privilegiate e specifiche per determinate sostanze, riferita da alcuni studiosi, nell’ottica interpretativa dell’uso di sostanze come ‘autoterapia’ non sempre è confermata da osservazioni epidemiologiche più rappresentative, che, al contrario,
sembrerebbero supportare una ipotesi interpretativa
di ‘esposizione passiva’ e casuale alle sostanze, più
diffusamente reperibili sul mercato, con effetti
tutt’altro che auto-curativi (23). Lo sviluppo di un
disturbo da abuso di sostanze, in un soggetto psicotico, comporta una serie di conseguenze negative,
quali: peggioramento della sintomatologia; aumento
delle ricadute; effetti negativi da interazione farmacologica; perdita degli effetti terapeutici dei neurolettici; aumento della probabilità di sviluppare discinesie tardive; peggioramento delle capacità di interazione sociale, lavorativa ed affettiva; aumento dei
comportamenti violenti auto ed eterodiretti; decadimento delle funzioni cognitive; grave degrado sociale (22). Secondo altri Autori, i disturbi da uso di
sostanze possono mascherare i sintomi psicotici,
interferendo in fase diagnostica e terapeutica sui
risultati dei trattamenti, senza influire sostanzialmente sulla evoluzione clinica della psico-patologia.
Ciò nonostante, l’esacerbazione dei sintomi può peggiorare la prognosi, incrementando anche il rischio
di mortalità per l’incremento del tasso di suicidi o di
condotte a rischio (26). Risulta difficile stabilire se
l’uso di sostanze e la schizofrenia vadano considerati fattori di rischio suicidario indipendenti oppure, se
l’uso di sostanze possa favorire l’ideazione o l’attuazione di un gesto autolesivo, in schizofrenici tossicodipendenti vulnerabili (23). L’abuso di psico-stimolanti si associa ad un aumento delle recidive, anche in
seguito ad assunzioni quantitativamente limitate di
sostanze, nonchè ad un aumento dei ricoveri, ad una
riduzione degli effetti terapeutici dei neurolettici, ad
un peggioramento complessivo della compliance
terapeutica e della prognosi. Invece, l’assunzione di
oppiacei non solo non induce un peggioramento sintomatologico del quadro psicotico, ma sembra avere
effetti terapeutici nel controllo della sintomatologia
positiva della schizofrenia. La percentuale di pazienti affetti da schizofrenia che presentano dipendenza
da nicotina varia tra il 50% ed il 90% con frequenza
di gran lunga superiore a quella osservata nella
popolazione generale ed in pazienti affetti da altri
quadri psico-patologici. Da un punto di vista neurobiologico, la nicotina risulta aumentare i livelli di
tirosina-idrossilasi, influenzando direttamente la
liberazione di dopamina e stimolando i recettori
nicotinici posti sulle terminazioni pre-sinaptiche dei
neuroni dopaminergici, a livello dell’area ventrale
del tegmento e del nucleo accumbens. Tali effetti stimolerebbero le aree coinvolte direttamente nei circuiti neuronali di modulazione della gratificazione e
del piacere. La nicotina risulta essere, inoltre, efficace nell’attivazione del tono colinergico centrale, nonchè nella stimolazione della corteccia prefrontale,
ipoattiva nei soggetti schizofrenici (27-28).
DISTURBI PSICOTICI INDOTTI IN
TOSSICODIPENDENTI
Tutte le principali sostanze d’abuso sono state chiamate in causa nello sviluppo di un disturbo psicotico
indotto. Un disturbo psicotico indotto, secondo il DSM
IV, è caratterizzato da:
1. rilevanti allucinazioni o deliri;
2. sintomi sviluppati durante o entro un mese dall’intossicazione o dall’astinenza da sostanze;
3. uso del farmaco eziologicamente correlato al
disturbo psico-patologico indotto;
4. disturbo non meglio giustificato da un disturbo psicotico primitivo;
5. disturbo non esclusivamente presente nel corso di
un delirium.
Dal punto di vista strettamente sintomatologico le
psicosi tossiche possono non distinguersi dai quadri
psicotici primitivi. Inoltre, alcune osservazioni cliniche
tendono a ridimensionare la specificità sindromica dei
quadri psicotici indotti da determinate sostanze.
Gli allucinogeni, includono farmaci eterogenei per
origine e struttura chimica, che, però, condividono
effetti clinici e meccanismo d’azione. Tali sostanze
inducono effetti psicotici acuti, psicosi protratte e
disturbi percettivi post-allucinogeni (29). Circa il 50%
dei soggetti presenta manifestazioni psicotiche alla
prima assunzione. Manifestazioni psicotiche protratte
sono state descritte in circa lo 0,1% dei soggetti trattati sperimentalmente con LSD. Il disturbo percettivo
post-allucinatorio si manifesta con ricorrenti distorsioni della percezione sensoriale con ‘flash back’ avulsi
dal campo percettivo, che insorgono in oltre la metà
dei soggetti esposti e che possono persistere, a distanza di anni, dall’ultima esposizione alla sostanza. L’insorgere di disturbi psichici a distanza di anni dall’esposizione alle sostanze deriverebbe, secondo alcuni studi,
da effetti neuro-biologici persistenti della dietilamide
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dell’acido lisergico, che causa spopolamento dei piccoli interneuroni inibitori corticali GABAergici, che ricevono afferenze serotoninergiche (3-4-29).
I consumatori di derivati della cannabis presentano,
di frequente, disturbi transitori dell’ideazione a sfondo
paranoide. Thornicroft (7) distingue:
1. sintomi psicotici isolati e brevi come idee prevalenti di riferimento, derealizzazione, depersonalizzazione, allucinazioni, etc.;
2. sindromi mentali organiche, con alterazioni cognitive e disturbi di coscienza, includenti delirium e
demenza, con aspetti amotivazionali ed anaffettivi;
3. psicosi funzionali indotte senza alterazioni di
coscienza, sovrapponibili ad episodi sintomatici di
schizofrenia paranoide acuta.
Uno studio di coorte su militari di leva ha dimostrato che, rimosse le variabili confondenti, i forti consumatori di cannabis presentano un rischio tre volte
superiore, rispetto ai controlli, per lo sviluppo di
disturbi dello spettro schizofrenico (7). Lo sviluppo di
un disturbo schizofrenico, in seguito all’assunzione di
derivati della cannabis, sembra correlato alla familiarità per i disturbi psicotici e, quindi, ad una predisposizione genetica (30).
La fenciclidina (PCP) e le altre sostanze aril-cicloesilaminiche risultano agire su recettori specifici inducendo sintomi neurologici (nistagmo) in quasi tutti gli
assuntori e sintomi psicotici, in meno del 10 % degli
abusatori, con sintomatologia clinica, che può perdurare per settimane dopo la cessazione dell’uso di tali
sostanze.
Gli psico-stimolanti, come amfetamine e cocaina,
possono indurre disturbi d’ansia con attacchi di panico
e disturbi psicotici, a forte impronta paranoide. L’effetto psicotogeno non risulta essere dose-relato, anzi,
sembra esistere un fenomeno di sensibilizzazione, per
cui, dopo assunzioni reiterate i disturbi deliranti o
dispercettivi si presentano prima nel tempo, anche
dopo dosi più basse di sostanza. Alcuni studiosi hanno
postulato un effetto di slatentizzazione dei quadri psicotici, in soggetti predisposti, dopo l’uso di psico-stimolanti. Gli studi sulla suscettibilità allo sviluppo di
psicosi, in seguito all’uso di allucinogeni o stimolanti,
hanno evidenziato una sensibile variabilità di risposta
tra individui differenti, ma anche a carico dello stesso
individuo in tempi ed in condizioni differenti (25-29).
L’assunzione cronica di amfetaminici è in grado di
indurre una psicosi paranoide, che può perdurare ben
oltre l’assunzione della sostanza oppure recidivare
senza assunzione della sostanza, in rapporto a fattori di
scatenamento aspecifici, come lo stress (31-32). L’uso
di stimolanti risulta, inoltre, in grado di precipitare la
comparsa di una schizofrenia in soggetti predisposti e
vulnerabili, accellerandone l’età di comparsa (23). Evidenze neuro-biologiche suggeriscono l’esistenza di una
base organica delle manifestazioni psicotiche protratte
o recidivanti in assenza di una nuova esposizione alle
sostanze, che si manifestano nei soggetti, che hanno
assunto allucinogeni o psico-stimolanti. La metamfetamina induce, infatti, alterazioni permanenti a carico
dei sistemi di trasporto intraneuronali delle catecolamine (3, 4, 31, 33).
APPROCCIO DIAGNOSTICO DIMENSIONALISTICO
E PROSPETTIVE TERAPEUTICHE
Dopo lo sforzo di sistemazione diagnostico-nosografica delle malattie mentali prodotto da Kraepelin (34),
l’avvento della moderna psico-farmacologia è sembrato confermare l’efficacia di specifiche classi di farmaci
(ansiolitici, anti-psicotici, anti-depressivi, etc.) su specifiche categorie diagnostiche (ansia, psicosi, depressione), confermando apparentemente che tali categorie
avevano una loro validità reale e non erano semplici
astrazioni razionali o iper-semplificazioni del reale.
L’accrescersi formidabile delle conoscenze scientifiche
in campo neuro-biologico degli ultimi decenni ha
messo profondamente in crisi, forse in modo irreversibile, certi concetti nosografici e, contemporaneamente,
quello di specificità, di varie classi di psicofarmaci nel
trattamento di determinate classiche “categorie psicopatologiche”. Numerosi studi neuro-morfologici, neurofisiologici, neuro-endocrinologici e di andamento
inter-generazionale delle malattie mentali sembrano
deporre per una continuità patologica tra i diversi
disturbi dello spettro schizofrenico (35-36-37-38).
Altrettanto si potrebbe dire per i disturbi d’ansia ed i
disturbi dell’umore che potrebbero essere interpretati
come entità nosografiche distinte o come un fenomeno dimensionale unico (21-39). Attualmente, perciò, la
diagnosi in campo psichiatrico ha più un valore di convenzione comunicativa che di identificazione di una
specifica etio-patogenesi e di una corrispondente
risposta farmaco-terapeutica. Queste considerazioni
servono a ridimensionare il ruolo essenziale svolto dai
più recenti sforzi di sistematizzazione categoriale dei
disturbi mentali come DSM IV e ICD10. Da un lato è
possibile evidenziare l’esistenza di dimensioni patologiche trans-sindromiche, dall’altro l’approccio categoriale non permette di cogliere le similarità sintomatologiche parcellari tra sindromi diverse che potrebbero
sottendere comuni meccanismi patogenetici. Lo sviluppo della ricerca in campo psico-biologico e psicofarmacologico è paradossalmente il principale fattore
di crisi del sistema nosografico categoriale. La sommi-
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Dipendenze patologiche da sostanze: comorbilità psichiatrica o continuum psicopatologico?
nistrazione di un farmaco presuppone, in medicina,
una ben definita categoria diagnostica, su cui quella
sostanza agisce su uno specifico substrato fisio-patologico. I più recenti studi di psico-biologia e di psico-farmacologia hanno dimostrato alterazioni di determinati parametri neurochimici, neuromorfologici e neurofisiologici largamente sovrapponibili in disturbi mentali
nosograficamente distanti. In psico-patologia le barriere categoriali, che mantengono una loro valenza didattica e convenzionale-comunicativa, si scontrano con la
realtà terapeutica, che evidenzia l’efficacia di composti
psicotropi attivi in situazioni cliniche nosograficamente diverse. Il concetto di specificità farmacologica
appare intrinsecamente legato all’approccio categoriale alla psico-patologia. In anni recenti si sono raccolte
numerose evidenze scientifiche che hanno messo in
crisi la concettualizzazione categoriale. Si è passati,
così, da un approccio nosografico rigidamente sindromico ad un approccio dimensionalistico che tende a
non considerare come entità reali le categorie, che in
psichiatria raramente si presentano nella loro ideale
descrizione, considerando i diversi sintomi autonomamente, in un “continuum” trans-nosografico. Van
Praag (40) ha affermato che: “ Le categorie diagnostiche in psichiatria erano null’altro che ampi cesti che
contenevano una varietà di sindromi più o meno collegate tra loro, non certo entità patologiche genuine. Tale
tassonomia non è stata una buona compagna per la
ricerca in psichiatria biologica ed è stata, in larga parte,
responsabile del fatto che gran parte della ‘biologia’
che veniva evidenziata nella patologia mentale sembrava essere priva di specificità diagnostica...”. Si è
andati, perciò, verso una visione psico-patologica
disfunzionale, cambiando l’approccio diagnostico a
favore di una visione dimensionalistica dei disturbi
mentali, anzichè rigidamente categoriale (41). L’utilizzo nella pratica clinica degli SSRI, farmaci che inibiscono selettivamente il reuptake di serotonina, ha
dimostrato, per esempio, una loro attività terapeutica
in quadri nosografici disomogenei (depressione,
disturbo ossessivo-compulsivo, aggressività, bulimia,
etc.) che sarebbero patogeneticamente secondari, in
una certa misura, a complesse disfunzioni del tono
serotoninergico cerebrale, che risulta essere il denominatore comune, ai diversi quadri psico-patologici, su
cui sono attivi. Questi disturbi appartengono ad uno
spettro patologico che include il disturbo depressivo, i
disturbi alimentari, i disturbi ossessivo-compulsivi,
l’alcolismo, le tossicodipendenze, alcuni disturbi di
personalità, alcuni disturbi somatoformi, nonchè i
disturbi da perdita del controllo sugli impulsi, l’aggressività, gli attacchi di panico ed, in parte, l’ansia. Evidenze analoghe sono state raccolte circa il ruolo pato-
genetico svolto dalla noradrenalina nella regolazione
della spinta psico-motoria, nell’arousal, nell’anedonia.
Stiamo assistendo, in questi ultimi anni, ad una rivoluzione, che vede la ricerca impegnata a trovare non più
un legame patogenetico, tra un neuro-mediatore ed
una “categoria” nosografica, ma tra esso ed alcuni
componenti sintomatologici fondamentali del disturbo
mentale (ansia, aggressività, cognitività, etc.) (42-43).
Oggigiorno, l’approccio dimensionale alla psico-farmaco-terapia è considerato il modo più corretto di
operare del clinico e trova il suo razionale scientifico
nel crescente numero di studi che, con metodi di analisi statistica complessa, dimostra la “dimensionalità”
della psicopatologia al di là della tradizionale nosografia categoriale.
Si pone, in questa ottica, un nuovo quesito. Le dipendenze patologiche da sostanze mantengono una loro
identità categoriale e, quindi, una loro comorbilità psichiatrica, la cosiddetta doppia diagnosi, oppure rappresentano solo una espressione clinica di un più complesso quadro sindromico psico-patologico? In altre
parole, le dipendenze patologiche da sostanze non solo
rientrerebbero, a pieno titolo, tra i disturbi psicopatologici, come la loro inclusione, nel contesto del DSM
IV, implicitamente suggerisce, ma andrebbero collocate, probabilmente, in un più ampio profilo dimensionale psicopatologico. La questione del continuum psicopatologico, tra dipendenze patologiche ed altri disturbi psichiatrici, risulta essere gravida di conseguenze
non solo sul piano clinico-diagnostico, ma anche su
quello terapeutico-riabilitativo.
CRAVING E CORRELATI NEUROBIOLOGICI
DELLE DIPENDENZE PATOLOGICHE
Il termine “craving” (letteralmente fame), in quanto
appetizione compulsiva, sembra rappresentare il
comune denominatore, l’essenza stessa, delle dipendenze patologiche. Il “craving” viene associato ad un
ampio spettro di condizioni psico-patologiche, che spaziano dai disturbi mentali organici, ai disturbi dell’umore (depressione stagionale), ai disturbi dell’alimentazione (bulimia), ai disturbi del controllo degli impulsi (gambling patologico, etc.) ma il campo in cui viene
maggiormente studiato è la clinica delle dipendenze
patologiche da sostanze. Il “craving” da sostanza rappresenta il desiderio di assumere una sostanza psicotropa, i cui effetti sono stati già sperimentati, in precedenza. Questo desiderio può assumere le caratteristiche dell’impellenza e della compulsività, soprattutto in
presenza di stimoli e rinforzi, interni o esterni. L’Organizzazione Mondiale della Sanità, nel 1955, propose di
Rivista di psichiatria, 2001, 36, 1
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Manna V, Ruggiero S
non usare il termine “craving”, in ambito scientifico, in
quanto fonte di confusione, perchè comprensivo di
stati fisici, emotivi, cognitivi e comportamentali.(44)
Probabilmente, la caratteristica principale del “craving” è rappresentata proprio dal sommarsi di sintomi
somatici, psichici e comportamentali. Il “craving” da
sostanze si caratterizza per la presenza di alcuni aspetti fondamentali:
• forte attrazione compulsiva verso situazioni che
permettono l’assunzione di sostanze;
• presenza di una complessa e variabile costellazione
di sintomi somatici e neurovegetativi;
• presenza di una complessa e variabile costellazione
di sintomi emotivi (ansia, etc.);
• presenza di una complessa e variabile costellazione
di sintomi cognitivi (ideazione compulsiva, etc.);
• attivazione comportamentale per la ricerca delle
sostanze e per la loro assunzione;
• incapacità ad interrompere questa attivazione comportamentale anche in presenza di forti ostacoli
sociali o legali (comportamenti criminali) e/o di
pericoli per la propria salute e per la propria integrità fisica;
• comportamenti di evitamento fobico delle condizioni di astinenza.
È possibile, perciò, distinguere nel “craving” da
sostanze, una componente tesa a facilitare l’approccio
ed il contatto con lo stimolo ambientale gratificante
(sostanza) ed una componente tesa ad allontanare
condizioni spiacevoli o dolorose (astinenza come stimolo avversivo).
L’assunzione di cibo, i comportamenti sessuali e
materno-infantili sono diretti verso obiettivi essenziali
per la sopravvivenza dell’individuo e della specie. La
selezione naturale ha assicurato la sopravvivenza degli
organismi che esibivano questi comportamenti associati a potenti proprietà di ricompensa. Gli stimoli ed i
comportamenti, naturalmente gratificanti, presentano
due componenti distinguibili: una componente preparatoria incentivante ed una componente consumatoria, propriamente compensante. L’aspetto incentivante
degli stimoli naturalmente gratificanti è dato dalle loro
proprietà sensoriali specifiche (odore, colore, forma e
temperatura) che li identifica (seno materno). La componente consumatoria comprende, invece, gli effetti
fisiologici e metabolici del contatto e dell’interazione
con lo stimolo compensante. Ognuna di queste componenti è piacevole ed elicita uno stato affettivo positivo (gratificazione), ma entrambe risultano necessarie
agli stimoli naturali per essere del tutto rinforzanti. La
fase incentivante e preparatoria di tali stimoli si associa a cambiamenti ergotropi, con aumento del livello di
vigilanza, attivazione motoria, aumento del tono sim-
patico, catabolismo. La fase consumatoria si associa a
cambiamenti trofotropi con sedazione, anabolismo ed
aumento del tono parasimpatico (3).
Il tono dopaminergico mesolimbico sembra svolgere
un importante ruolo in questo processo. Infatti, risulta
direttamente coinvolto nell’aumento del livello di vigilanza e di attivazione motoria necessari al riconoscimento sensoriale ed all’approccio locomotorio allo stimolo naturalmente gratificante. Il tono dopaminergico
risulta correlato, inoltre, anche alle capacità di apprendimento operante, cioè, al riconoscimento ed all’approccio agli stimoli neutri associati (incentivi secondari) a quelli naturalmente gratificanti (incentivi primari). Il tono dopaminergico risulta meno direttamente
coinvolto alla componente consumatoria di tali comportamenti, che, invece, sembra avere correlati neurobiologici, prevalentemente serotoninergici ed endorfinergici. In questa prospettiva, le droghe d’abuso possono essere considerate come surrogati degli stimoli
gratificanti naturali. La dipendenza patologica da droghe, può essere interpretata, come una sorta di automedicazione. Gli psicostimolanti agiscono prevalentemente sul tono dopaminergico mimando la componente incentivante ed attivante sul piano comportamentale, della gratificazione indotta dagli stimoli naturali. I sedativi narcotici agiscono prevalentemente
mimando la componente consumatoria e trofotropa
della gratificazione (4).
Una condizione soggettiva particolare, in cui componenti ambientali e costituzionali, in cui aspetti di “tratto psicopatologico” ed aspetti di “stato psicopatologico” si sommano e si intersecano, in modo complesso,
potrebbe indurre il paziente, prima all’uso di sostanze,
quindi, al loro abuso, e, successivamente, ad una condizione di dipendenza propriamente detta.
Numerosi studi hanno dimostrato l’utilità clinica dei
dopamino-agonisti nel trattamento farmacologico del
craving da cocaina e psicostimolanti, così come, di
alcuni farmaci serotoninergici nel trattamento del craving da alcool (44).
APPROCCI TERAPEUTICI INTEGRATI
Prima dell’introduzione dei neurolettici nella terapia
delle psicosi, negli anni cinquanta, l’approccio psicoterapeutico alle psicosi era impedito dalle manifestazioni aggressive e, spesso, esplosive, delle dinamiche psicopatologiche contro il terapeuta, nonchè dalla difficoltà a comunicare con pazienti, spesso chiusi in se
stessi ed incapaci di esprimere i loro pensieri ed i loro
sentimenti. Solo da allora, un approccio terapeutico
integrato, che prevedesse, cioè, la combinazione di psi-
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Dipendenze patologiche da sostanze: comorbilità psichiatrica o continuum psicopatologico?
coterapia e farmacoterapia, è diventato possibile e la
sua utilità è risultata immediatamente evidente nel
trattamento delle psicosi (38). La terapia psico-farmacologica, infatti, ha dimostrato la sua indubbia utilità
nel ridurre l’aggressività e nel migliorare la comunicazione interpersonale, indipendentemente dal disturbo
psicopatologico, da cui è affetto il paziente. Sempre più
numerosi psichiatri, competenti sul piano psicoterapeutico, hanno considerato i disturbi emozionali e
mentali come eventi bio-psico-sociali, non separando
la mente dal corpo. Il modello bio-psico-sociale, in cui
la malattia viene interpretata come un’interazione tra
processi biologici e psico-sociali, permette al terapeuta
di usare, con maggiore efficacia, una terapia integrata.
Una ulteriore indicazione alla terapia combinata consiste nell’alleviare il disagio psichico, quando i segni ed
i sintomi del disturbo del paziente sono così intensi da
richiedere un miglioramento più rapido di quello che
può fornire la sola psicoterapia. Inoltre, ciascuna delle
due tecniche può facilitare l’altra. La psicoterapia
aiuta il paziente ad accettare uno psicofarmaco necessario, mentre lo psicofarmaco può aiutarlo a superare
la resistenza ad iniziare o a proseguire la psicoterapia
(45). Nella terapia delle dipendenze patologiche da
sostanze, l’integrazione tra interventi farmacologici ed
interventi psico-terapeutici risulta ampiamente utilizzata e clinicamente efficace. Tale relativa efficacia
nasce, verosimilmente, dalla personalizzazione degli
interventi sul nucleo psicopatologico.
degli edonisti alla ricerca del piacere, inclini all’autodistruzione, alcuni psicanalisti contemporanei interpretano il comportamento tossicomanico, come l’espressione dell’incapacità di prendersi cura di se stessi, piuttosto che come un impulso autodistruttivo. Questa
incapacità a prendersi cura di sè potrebbe conseguire a
precoci disturbi nello sviluppo, che portano ad una
inadeguata interiorizzazione delle figure genitoriali,
lasciando il tossicodipendente incapace di autoproteggersi e di sviluppare un maturo senso di realtà. Infatti,
la maggior parte di essi, per esempio, mostra un basilare difetto di giudizio, riguardo ai danni derivati dall’uso di stupefacenti. Di non minore importanza nella psicopatogenesi della tossicodipendenza è la deficiente
funzione regolatoria degli affetti, del controllo degli
impulsi e del mantenimento dell’autostima (47-48).
L’uso degli stupefacenti è stato messo in rapporto
diretto, da alcuni, con l’incapacità del tossicodipendente di tollerare e regolare il rapporto interpersonale
(49-50). A questi problemi relazionali contribuisce una
evidente fragilità narcisistica, nonchè una relativa
incapacità di modulare gli affetti. Talvolta, il comportamento di dipendenza da sostanze svolge la funzione
adattiva di contenimento delle dolorose sensazioni di
impotenza e disperazione provate. In un certo senso,
surroga, per via esogena, il controllo e la regolazione
psico-affettiva. Talora, la rabbia narcisistica e l’umiliazione impongono al tossicodipendente l’uso di droghe,
come stumento in grado di ristabilire una sensazione
di autocontrollo (50).
Khantzian e Treece (46) in sintesi, ritengono che il
fattore critico è rappresentato dalla percezione esperienziale, che una data sostanza rappresenta un modo
per far fronte a un perentorio bisogno adattivo, offrendo pertanto non solo sollievo, ma anche la sensazione,
seppure temporanea, di una accresciuta capacità di
superare gli ostacoli della vita. L’uso di droga, in questa ottica, potrebbe rappresentare una forma di automedicazione. In tale ottica, si assume droghe per ottenere sollievo da dolorosi stati affettivi. Per tentativi ed
errori, specifiche sostanze vengono scelte per specifici
effetti psicologici e farmacologici, in rapporto ai bisogni di ciascun tossicodipendente. La cocaina sembra
attenuare lo stress legato alla depressione, all’iperattività e all’ipomania, mentre i narcotici sembrano ridurre i disturbi di ansia, l’aggressività e l’impulsività. (51)
In uno studio di Blatt et al.(52) i dipendenti da
oppiacei sono risultati significativamente più depressi
dei soggetti con poli-tossicomania. Inoltre, gli autori
identificarono nell’autocritica uno dei principali componenti della loro depressione. Questi individui combattono con sentimenti di colpa, di vergogna e di bassa
autostima. La loro depressione sembra intensificarsi
PSICOTERAPIA DELLE DIPENDENZE
PATOLOGICHE DA SOSTANZE
In Letteratura, gli approcci, diagnostico-interpretativi e/o terapeutico-riabilitativi, all’abuso di sostanze,
nell’ottica psicodinamica, sono stati numerosi e suggestivi. La originaria interpretazione psicoanalitica, che
vedeva in ogni abuso di sostanze una regressione allo
stadio orale dello sviluppo psico-sessuale, è stata sostituita da una visione degli abusi di sostanze stupefacenti come meccanismi, in larga parte, difensivi e adattivi,
piuttosto che regressivi (46-47-48). L’elevata incidenza
e la evidente eterogeneità dei disturbi psicopatologici
evidenziati tra i tossicodipendenti hanno indotto
numerosi studiosi a proporre approcci terapeutici
diversificati, centrati sulle problematiche psico-patologiche dell’individuo, piuttosto che sul suo abuso di
sostanze. Tali evidenze cliniche hanno avuto un ruolo
importante nello sviluppo di più sofisticate interpretazioni psicodinamiche delle problematiche connesse
all’abuso di sostanze. A differenza di molti loro predecessori, che dipingevano i tossicodipendenti come
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nel rapporto interpersonale, così, l’eroina sembra fornire loro un beato isolamento, che ha dimensioni sia
regressive sia difensive.
Secondo Wurmser (53) i tossicodipendenti trattabili
analiticamente con successo sono proprio quelli con
personalità dominate da un Super-Io eccessivamente
duro e tormentante, piuttosto che i soggetti con disturbo antisociale di personalità.
Negli scorsi decenni, numerosi studiosi hanno sostenuto l’efficacia dell’approccio psicodinamico al trattamento delle dipendenze patologiche da sostanze. Molti
di questi studi non avevano, però, sufficiente rigore
metodologico. Di recente, una serie di osservazioni cliniche, effettuate con maggiore rigore metodologico,
hanno dimostrato che aggiungere la psicoterapia al
piano di trattamento globale degli eroinomani produce chiari benefici. In uno di questi studi, pazienti dipendenti da oppiacei, trattati con un programma di mantenimento a base di metadone, vennero casualmente
assegnati a una delle tre condizioni di trattamento:
- esclusiva consulenza con operatori paramedici;
- psicoterapia psicodinamica più consulenza con
operatori paramedici;
- psicoterapia cognitivo - comportamentale più consulenza con operatori paramedici.
I pazienti che erano stati sottoposti a psicoterapia
migliorarono considerevolmente di più rispetto a quelli che avevano ricevuto solo terapia farmacologica,
completando l’intero programma di trattamento.
Woody et al. (54) notarono che i miglioramenti maggiori li ebbero i pazienti depressi, con dipendenza da
oppiacei, mentre quelli con disturbo antisociale di personalità ebbero benefici solo quando la depressione
faceva parte della loro sintomatologia. Tali studi, in
sostanza, inducono alle seguenti conclusioni:
a. il sostegno psicoterapeutico aiuta il processo terapeutico dei tossicodipendenti che frequentano e
intraprendono regolarmente il trattamento;
b. i pazienti che traggono maggior vantaggio dalla psicoterapia, sono coloro che presentano sintomi
psico-patologici più evidenti, soprattutto la depressione;
c. i migliori risultati si ottengono integrando la psicoterapia nel trattamento, con lo psicoterapeuta
all’interno dell’equipe di clinici coinvolti nella terapia del singolo caso;
d. si evidenziano maggiori benefici nell’abbinamento
della psicoterapia ai programmi di trattamento farmacologico sostitutivo a base di metadone.
Queste considerazioni contraddicono quei clinici che
sostengono la necessità di raggiungere l’astinenza
prima di intraprendere un adeguato trattamento psicoterapeutico dei disturbi sottostanti: ansia, depressio-
ne, disturbi di personalità, problemi di autostima ed
altro. Infatti, la psicoterapia, soprattutto quella di ispirazione psicoanalitica, può, nelle sue fasi iniziali, incrementare l’espressione di alcuni sintomi psico-patologici, soprattutto l’ansia, che hanno trovato nell’uso di
droghe un problematico sollievo, incrementandone
paradossalmente l’uso. Inoltre, in fase di astinenza, il
soggetto spesso è disperato per aver rinunciato a qualcosa che è più della droga, cioè ad un meccanismo
adattivo e di controllo dell’angoscia. Ciò può indurre
un peggioramento complessivo del funzionamento
psico-sociale e non sempre risulta essere premessa ad
un vero cambiamento evolutivo e maturativo nelle
diverse aree della vita affettiva, sociale e lavorativa.
Nella fase in cui il tossicodipendente lotta tra il suo
desiderio compulsivo di droga ed il dolore per averla
persa, il terapeuta deve criticare l’idea, fortemente
sostenuta, che l’uso di droga sia una soluzione adattiva
ai problemi della vita ed aiutare il paziente a trovare
risposte nuove e diverse a quei problemi. Krystal (55)
ritiene che molti tossicodipendenti siano alessitimici,
cioè, non in grado di riconoscere e identificare i loro
stati affettivi interiori. Perciò, nella prima fase della
terapia, egli ritiene importante dare spazio all’informazione ed all’educazione, con il terapeuta che insegni
a riconoscere ed identificare i sentimenti spiacevoli e
del loro rapporto con all’assunzione di droghe. Ritornando alla ipotesi interpretativa del Super-Io opprimente, come nucleo patogenetico dell’uso compulsivo
di sostanze stupefacenti, Wurmser (53) ha messo in
guardia i terapeuti dall’essere eccessivamente punitivi
o critici. Egli ha suggerito che lo psicoterapeuta non
devo punire o criticare il paziente ed evitare di fare
“prediche” sull’uso di droghe. Risulta, invece, importante acquisire consapevolezza circa le pressioni del
Super-Io sul paziente, analogamente a quanto avviene
nei pazienti gravemente nevrotici. Inoltre, egli sostiene
che il terapeuta dovrebbe analizzare le problematiche
sottostanti, piuttosto che focalizzarsi solamente sull’uso di droga, cosa che può essere fatta da altri membri
dell’èquipe terapeutica.
La psicoterapia di gruppo è stata adottata in numerosi contesti clinici, perchè risulta accettata e utile a
molti pazienti e risponde alle esigenze degli operatori
di poter trattare più pazienti, in tempi più brevi, sebbene nessuno dei più importanti studi di controllo
sulla validazione della psicoterapia psicodinamica di
gruppo, nel trattamento delle dipendenze da droghe,
condivida il rigore metodologico di alcuni studi sulla
psicoterapia individuale. Poichè la psicoterapia di
gruppo raramente è l’unica modalità di approccio al
paziente con problemi di dipendenza patologica da
sostanze risulta difficile determinarne l’efficacia in ter-
Rivista di psichiatria, 2001, 36, 1
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Dipendenze patologiche da sostanze: comorbilità psichiatrica o continuum psicopatologico?
mini assoluti. Tuttavia, nella prassi clinica, molti tossicodipendenti si sentono sostenuti dal confrontare con
altri, che hanno avuto le stesse esperienze, le loro problematiche. La negazione, come si sa, rappresenta una
difesa frequente e forte, in tutti coloro che fanno abuso
di sostanze. Un setting gruppale di pari facilita l’insight
e porta, spesso, i tossicodipendenti ad accettare la gravità del loro abuso di sostanze. Il gruppo diventa, di
per sè, un valido strumento di sostegno e di confronto
(56). I programmi terapeutici svolti in comunità residenziali, spesso, fanno forte affidamento sugli interventi di gruppo, per la ragione pratica che è più facile
obbligare alla frequenza i soggetti residenti, rispetto a
quelli ambulatoriali (54). Una forte e frequente resistenza ad intraprendere una psicoterapia di gruppo è
rappresentata dal fatto che molti pazienti possono
aver commesso reati e sono, perciò, riluttanti ad aprirsi tra estranei per il timore delle conseguenze che
potrebbero derivarne.
In conclusione, le indicazioni per un approccio psicoterapeutico alle dipendenze patologiche da sostanze
possono essere sintetizzate come segue:
• evidente psicopatologia associata all’uso di sostanze;
• inclusione in un programma di trattamento integrato, che includa un supporto di gruppo, l’astinenza
associata a terapia sostitutiva (metadone, buprenorfina, etc.) e/o una appropriata terapia psicofarmacologica;
• assenza di un disturbo antisociale di personalità, a
meno che non sia presente anche una evidente sindrome depressiva;
• sufficiente motivazione a seguire con impegno il
processo terapeutico.
diosi hanno evidenziato come la psicoterapia e la farmacoterapia presentino una intrinseca complementarità. (59-60). Nella loro prospettiva, i farmaci hanno
maggiore influenza sul disagio affettivo e sull’espressione dei sintomi, agendo in tempi relativamente brevi
e con durata d’azione prevedibile, con effetti più evidenti su disturbi di “stato”, limitati ed autonomi, come
l’ansia o la depressione. Al contrario, l’approccio psicoterapeutico avrebbe maggiori effetti sulle relazioni
interpersonali e sull’adattamento sociale, con risultati
più tardivi, ma più persistenti, soprattutto, sui disturbi
di “tratto”(61). A prescindere da altre considerazioni,
è comunque, vero che gli effetti di una terapia farmacologica risultano più rapidamente evidenti, mentre i
risultati di una psicoterapia possono richiedere tempi
più lunghi per evidenziarsi. Questa constatazione ha
portato alcuni clinici a proporre una “strategia terapeutica a due fasi” (61-62). In questo approccio, l’agente psico-farmacologico è utilizzato per attenuare i
sintomi, per preparare e facilitare il successivo processo psicoterapeutico (57). La psicoterapia sarà, perciò,
orientata a migliorare le relazioni interpersonali, l’adattamento sociale e l’attività lavorativa. Risulta, però,
indispensabile che i clinici, che combinano i due
approcci, abbiano piena consapevolezza della peculiarità del rapporto inerente al doppio ruolo che si assumono. Infatti, mentre, da un punto di vista farmacologico, è necessario utilizzare un modello di approccio
medico-oggettivo, in ambito psico-terapeutico il
paziente necessita di un approccio empatico-soggettivo (5, 60). In Letteratura esistono studi che convalidano l’efficacia del trattamento combinato (63, 64).
Nonostante la sostanziale compatibilità tra psico-dinamica e neuro-biologia, mancano ancora solidi ponti
concettuali tra i due approcci e la pratica clinica risulta ancora empirica. Come in ogni altro campo della
medicina e della psichiatria, nel trattamento delle
dipendenze patologiche da sostanze, il principio guida
deve essere quello di aiutare il paziente, piuttosto che
quello di restare fedeli a proprie impostazioni teoretiche o, più semplicemente, didattico-formative. In una
prospettiva scientifica più ampia, infatti, le polarizzazioni teoriche tra vita mentale e neuro-biologia, tra
psicoterapia e farmacoterapia non fanno che suggerire
e sottintendere la sostanziale unicità ed unitarietà
della vita psichica.
L’efficacia e la diffusa applicazione, in ambito clinico, di approcci terapeutici integrati ai disturbi da
dipendenze patologiche, conferma e sottintende, in un
certo senso, la possibilità di considerare tali disturbi,
nonchè quelli ad essi clinicamente correlati, più coerentemente e proficuamente, in un continuum psicopatologico, anzichè nella più restrittiva ottica nosogra-
CONCLUSIONI
Le possibilità terapeutiche disponibili, a tutt’oggi,
nel trattamento delle dipendenze patologiche da
sostanze risultano fortemente limitate, sul piano clinico, in rapporto alla disponibilità di pochi strumenti farmacologici specifici e di limitate conoscenze propriamente scientifiche sull’argomento. L’integrazione di
strumenti terapeutici farmacologici e psico-terapeutici
è, perciò, indispensabile nella personalizzazione degli
interventi. Gli approcci terapeutici integrati si sono
dimostrati opportuni ed efficaci.
Molte resistenze degli psicoterapeuti professionisti
allo sviluppo di un modello integrato di trattamento
sorgono dal modo tradizionale di vedere l’approccio
farmacologico e quello psicoterapeutico, come antitetici piuttosto che come sinergici (57, 58). Alcuni stu-
Rivista di psichiatria, 2001, 36, 1
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fica categoriale, sottesa al tradizionale concetto di
comorbilità. In una moderna visione diagnostica
dimensionalistica, i disturbi da dipendenza patologica
entrano, perciò, a pieno titolo, in un ambito specificamente psico-patologico, premessa questa che potrebbe
aiutare ad aprire prospettive terapeutiche, anche in
ambito psico-farmacologico, sostanzialmente nuove.
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