LA MENTE LIBERATA - Istituto Samantabhadra

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LA MENTE LIBERATA
Dialoghi sulla pratica del buddhismo
nell’era della crisi e della globalizzazione
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Interventi di
Dario Doshin Girolami, Khyentse Yeshe,
Ghesce Thubten Dargye, Ghesce Tenzin Tenphel,
Cristiana Ciampa Tsomo, Ahjan Chandapalo,
Riccardo Chushin Venturini, Mario Thanavaro,
Franz Seiun Zampiero, Maria Angela Falà, Giorgio Raspa,
Bianca Pescatori e Loredana Vistarini,
Antonino Raffone e Francesco La Rocca
a cura di Leonardo Libenzi
Foto di Gabriella Parra
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INDICE
Leonardo Libenzi
Nota del curatore
Gabriella Parra
Momenti in movimento
PARTE PRIMA
MAESTRI DI DHARMA
SCUOLA ZEN
Dario Doshin Girolami (Centro Zen l’Arco, Roma)
DZOGCHEN
Khyentse Yeshe (International Dzogchen Community)
SCUOLA TIBETANA GELUGPA
Ghesce Thubten Dargye (Istituto Samantabhadra, Roma)
Ghesce Tenzin Tenphel (Istituto Lama Tzong Khapa, Pomaia)
Cristiana Ciampa Tsomo (Istituto Lama Tzong Khapa, Pomaia)
SCUOLA THERAVĀDA
Ahjan Chandapalo (Monastero Santacittarama, Rieti)
SCUOLA TENDAI
Riccardo Chushin Venturini (Centro di Cultura Buddhista)
BUDDHAYANA
Mario Thanavaro (Associazione Amita Luce Infinita)
Rev. Seiun Zampiero (Tempio Buddhista del Lagorai)
PARTE SECONDA
UNIONE BUDDHISTA ITALIANA E FONDAZIONE MAITREYA
Maria Angela Falà (Presidente Fondazione Maitreya)
Giorgio Raspa (Consigliere Delegato UBI - Unione Buddhista Italiana)
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PARTE TERZA
BUDDHISMO E SCIENZE UMANE
Bianca Pescatori e Loredana Vistarini (Centro Italiano Studi Mindfulness)
Antonino Raffone (Dipartimento di Psicologia dell’Università “La Sapienza” di
Roma)
Francesco La Rocca (Presidente Associazione Dare Protezione)
Postfazione di Maria Immacolata Macioti
(Dipartimento di Sociologia dell’Università “La Sapienza” di Roma)
Glossario
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PARTE PRIMA
MAESTRI DI DHARMA
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SCUOLA TIBETANA GELUGPA
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GHESCE THUBTEN DARGYE
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Nasce nel 1949 a Tashigang, in Bhutan. All’età di quindici anni conosce il suo
primo maestro, un Lama Gelugpa dal monastero di Tawang, in Arunachal Pradesh
(India), giunto in Buthan per dare insegnamenti: studierà sotto la sua guida per i
successivi quattro anni.
Nel 1960 è il primo monaco buddhista di tradizione Gelugpa ad essere ordinato
in India dopo la fallita rivolta tibetana del 1959 e l’esilio indiano di SS. il Dalai Lama
e di molti altri grandi maestri. Riceve i voti dal Ven. Serkong Tsenzhab Rimpoche,
maestro dello stesso Dalai Lama e riconosciuto all’epoca come il più alto tra i lama
reincarnati presenti al monastero di Gaden. Studia presso il medesimo monastero
sotto la guida di vari maestri qualificati, tra cui gli abati Kensur Yeshe Gawa, Kensur
Sonam Gyaltsen e Khenpo Atso Sonam Kunga. Nel 1994 consegue il titolo di studio
di Ghesce Lharampa. Dopo gli esami, viene scelto per dibattere davanti a Sua Santità
il Dalai Lama a Dharamsala, davanti a un’assemblea di Maestri e monaci proveniente
dai più grandi monasteri in India.
Una volta conseguito il titolo, trascorre un anno nel monastero tantrico
di Gyumed, dove studia i testi tantrici. Successivamente torna in Bhutan, e nei sei
anni successivi fa numerosi ritiri in alta montagna, accompagnato da un piccolo
gruppo di discepoli.
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Nel 2002 viene richiamato dal suo monastero per guidare un tour di monaci
della durata di un anno negli Stati Uniti e in Canada. Nel 2005, sempre su richiesta
del monastero, conduce un tour simile in Italia e in altri paesi europei. Tra il 2006 e il
2007 insegna in un centro buddhista in Taiwan.
Dalla primavera del 2012 è maestro residente e guida spirituale dell’Istituto
Samantabhadra di Roma. Conduce ritiri e dà insegnamenti in vari centri di Dharma
del territorio italiano.
L’Istituto Samantabhadra, Centro per lo studio e la pratica del buddhismo
Mahāyāna di tradizione tibetana Gelugpa, è stato fondato nel 1981 dal Ven. Maestro
Ghesce Jampel Senghe discepolo diretto del grande Lama Papongka Rimpoce, e a
partire dallo stesso anno ha avuto come Tutore spirituale Dagpo Rimpoce. Nel 1985,
su espressa indicazione di S.S. Ling Rimpoce, tutore maggiore di S. S. il Dalai Lama,
il Ven. Ghesce Sonam Cianciub è divenuto Maestro Residente dell’Istituto.
Membro fondatore dell’UBI, l’Istituto Samantabhadra si prefigge inoltre di
preservare e tramandare nella loro integrità gli originali aspetti della millenaria
cultura del Tibet, organizzando, in sede o in ubicazioni esterne, corsi di lingua
tibetana, arte del mandala, astrologia tibetana, musica, conferenze, mostre, eventi,
interventi didattici, in collaborazione con istituzioni pubbliche ed associazioni
culturali.
Contatti:
www.samantabhadra.org
[email protected]
www.facebook.com/istitutosamantabhadra/
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Com’è avvenuto il suo incontro con il buddhismo?
Mio nonno era un monaco di origini tibetane. Anche mio padre era un
praticante buddhista, e mi ha insegnato i fondamenti del Dharma e della lingua
tibetana scritta e parlata. Date queste premesse, il mio incontro con il buddhismo è
stato spontaneo e naturale sin dal primo momento.
Successivamente ho iniziato a studiare e praticare sotto la guida di un monaco,
che era stato a sua volta in Tibet. A seguito del suo trapasso, mi sono recato in India
per prendere parte ai riti funebri che si sarebbero tenuti in un distretto al confine tra
l’India e il Buthan: lì ho assistito a un grande raduno di monaci tibetani che si erano
trasferiti in India insieme a Sua Santità il Dalai Lama a seguito del suo esilio del
1959. Vedendoli, ho subito provato il desiderio di prendere i voti e di unirmi a loro.
Così mi sono trasferito nel sud dell’India, dove via via venivano ricostruiti nuovi
monasteri, e dove ho studiato a lungo per ottenere il titolo di Ghesce.
C’è stato poi un successivo incontro, quello con il mondo occidentale, e in
particolare con l’Italia.
Nel 2005 sono stato incaricato di guidare un tour in Occidente dei monaci del
mio monastero di Gaden Jantse. In quell’occasione ho subito creato un legame con
l’Istituto Samantabhadra di Roma, dove sono stato invitato tre anni più tardi per
condurre un ciclo di insegnamenti, e dove infine mi sono trasferito stabilmente.
Fin dalla prima volta, sono rimasto colpito dalla grande quantità di chiese e
monasteri cattolici che si trovano nel vostro paese. Ho intrattenuto solo rapporti
formali con i monaci cattolici, e non intendo in alcun modo esprimere giudizi sulla
loro formazione e sul loro iter di studi; ciò nonostante, trovo che l’organizzazione
della vita monastica in Occidente abbia molti punti di contatto con la vita di un
monaco buddhista - gli spazi comuni, i ritmi della vita quotidiana, il modo in cui
viene preparato il cibo nelle cucine, le attività giornaliere, il voto di castità, e così via.
Questa cosa mi ha fatto un’ottima impressione.
Per quanto riguarda i laici occidentali, di nuovo, non ho avuto modo di
conoscerli uno ad uno, quindi non posso che esprimere un’impressione generale. Ho
visto intorno a me un grande progresso e tanto benessere materiale. Inoltre, sono
rimasto colpito dal grande interesse che occidentali nutrono nei confronti del
buddhismo. Sono molti, insomma, gli aspetti di questa cultura che mi piacciono.
C’è una cosa, però, che mi ha colpito negativamente fin dall’inizio: il rapporto
tra genitori e figli che caratterizza gran parte delle famiglie occidentali. Facendo
visita a molte abitazioni private, ho notato che di rado i figli hanno
quell’atteggiamento di rispetto e di dedizione nei confronti del genitore che invece è
così diffuso nella mia terra d’origine. Ad esempio, quando ci si siede a tavola, le
madri cucinano, apparecchiano, sparecchiano e lavano i piatti; i figli restano a sedere
per tutto il tempo, e si fanno servire e riverire come se fossero degli ospiti. Dalle mie
parti, una cosa del genere sarebbe inconcepibile! [ride]
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Ancora, mi ha colpito il modo in cui gli occidentali intendono e vivono il
rapporto di coppia - e non mi riferisco nello specifico al sacramento del matrimonio.
Nella mia terra, i coniugi si prendono realmente l’impegno di affrontare insieme gli
alti e i bassi della vita, come recita il famoso detto “Finché morte non vi separi”:
l’uomo si prende cura della moglie nel bene e nel male, in tutto e per tutto, e non la
abbandona mai; la moglie fa lo stesso con il marito. Qui in Occidente, invece, ci sono
tantissimi casi di divorzio, le coppie si dividono con grande facilità, e questa cosa mi
è parsa molto strana.
Vorrei ora analizzare con Lei alcuni dei principali equivoci e
fraintendimenti che possono sorgere al giorno d’oggi quando si parla di
buddhismo tibetano. Partiamo dal Lam Rim, il Sentiero graduale verso
l’Illuminazione di Lama Tsongkhapa: un testo fondamentale, a cui molti
occidentali si accostano in modo frettoloso o distratto.
Io cerco innanzitutto di far capire alle persone che intraprendere questo
sentiero è molto importante, ma ancora più importante è percorrerlo fino in fondo:
solo in questo modo avremo la possibilità concreta di trasformare alla radice la nostra
mente e la nostra esistenza e di migliorare noi stessi da tutti i punti di vista - la nostra
condotta morale, il nostro carattere, e così via. Solo così diventeremo oggetto di
rispetto e di riverenza per tutti quelli che ci circondano.
Ancora, illustro alle persone le quattro caratteristiche - o qualità eccelse - che
contraddistinguono tutti gli insegnamenti contenuti nel Lam Rim, e i vantaggi che
derivano da tali qualità.
Innanzitutto, grazie a una pratica costante e sincera, saremo in grado di
recepire ogni singola parola del Buddha come un’istruzione preziosa particolare: in
altri termini, tutte le parole del Buddha ci saranno ugualmente utili e indispensabili, e
non ci sarà nessun aspetto da scartare.
In secondo luogo, riusciremo a capire e a recepire in un tempo relativamente
breve tutti gli infiniti insegnamenti del Buddha contenuti in centinaia e centinaia di
volumi: il Lam Rim è infatti la perfetta sintesi dell’intero Canone buddhista tibetano il Kangyur e il Tenjur - e ci aiuta a comprendere facilmente, senza sforzare la mente,
una gamma infinitamente ampia di concetti e di significati.
In terzo luogo, saremo in grado di percepire l’assenza di contraddizioni interne
tra i vari insegnamenti del Buddha: senza questa profonda visione d’insieme, è facile
cadere in errore, come accade ad esempio quando le persone affermano che il Tantra
non è un vero insegnamento del Buddha, o come chi, al contrario, si interessa
unicamente al Tantra e non si applica nello studio e nella pratica dei sutra. Il Lam
Rim, invece, ci mostra come tutti i diversi aspetti dell’insegnamento del Buddha siano
perfettamente integrati tra di loro: non solo non si contraddicono a vicenda, ma sono
indispensabili l’uno all’altro.
Infine, grazie alla pratica del Lam Rim, tutte le nostre negatività si
pacificheranno e svaniranno automaticamente.
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Per quanto riguarda, infine, i Tre aspetti principali del sentiero - la Nisharana,
la generazione della mente di Bodhicitta e la Śūnyatā, la saggezza che percepisce la
vacuità o mancanza di esistenza intrinseca di tutti i fenomeni - di nuovo, la cosa più
importante è aiutare le persone a comprendere che nessuno di questi tre aspetti, se
separato dagli altri due, sarà sufficiente per liberarsi dalle sofferenze del Samsara e
raggiungere l’illuminazione di un Buddha.
Analizziamo insieme il primo di questi tre punti fondamentali: la
Nisharana, o rifiuto del Samsara. Come si fa, in quanto laici, a realizzare un
atteggiamento di autentica rinuncia?
Si può realizzare la Nisharana senza per questo sentirsi in dovere di
abbandonare il proprio lavoro, il proprio coniuge, e così via. Lo stesso stato di
buddha può essere raggiunto senza necessariamente abbandonare la vita laica. Ce lo
insegna, ad esempio, la storia del re indiano Indrabhuti, il quale chiese a Buddha
Shakyamuni, di cui era discepolo, un insegnamento che gli consentisse di
raggiungere la suprema illuminazione senza per questo abbandonare la propria
dimora e senza dover abdicare al ruolo di guida del proprio reame: il Buddha, per
aiutarlo a realizzare questo scopo, gli trasmise il Tantra di Guhyasamaja. Anche il
venerabile Marpa raggiunse lo stato di Buddha pur avendo moglie e figli. Quindi,
dov’è il problema?
Non solo, al giorno d’oggi chiedere a un laico di abbandonare le proprie
attività quotidiane sarebbe davvero illogico, perché la mancanza di un lavoro gli
impedirebbe di sostentarsi: qui in Occidente tutti, anche i monaci che prendono i voti,
hanno bisogno di una rendita economica, a differenza di quanto accade in Oriente,
dove i monaci possono dedicarsi a tempo pieno alla pratica, ricevendo sostentamento
dai monasteri o dalla società stessa, anche tramite l’elemosina. E una rendita
economica, ancora, non basta: abbiamo tutti bisogno di un corpo sano. Senza cibo,
senza vestiti, senza medicine, come potremmo dedicarci alla pratica?
Qual è, allora, il vero significato della Nisharana? Significa continuare a vivere
la nostra vita di tutti i giorni, senza abbandonare nessuno dei nostri impegni
essenziali, utilizzando al tempo stesso la pratica per giungere a un punto in cui
riusciremo a percepire ogni aspetto di questo mondo, anche il più incredibile e
sublime, alla stregua di un precipizio pieno di lava infuocata. È questa la
realizzazione che possiamo raggiungere grazie alla pratica della meditazione. Se
riusciamo a comprendere che il mondo, così com’è, è un’immensa fonte di
sofferenza, non avremo nemmeno bisogno di abbandonarlo: semplicemente,
smetteremo di anelare ad esso.
Alcune persone si scoraggiano, quando sentono parlare di Bodhicitta: la
mente compassionevole del risveglio è vista come un traguardo irraggiungibile.
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C’è un solo modo per superare questo timore: fare del Lam Rim la nostra
bussola, la nostra guida, e ricordarci ogni giorno che, se continueremo a seguire con
costanza questo insegnamento, i risultati desiderati non mancheranno di manifestarsi.
La prima cosa da fare, per realizzare le del Buddha che adesso ci sembrano
così irraggiungibili, è abbandonare il fattore oscurante del mantenere caro il proprio
sé, e coltivare al tempo stesso il fattore di mantenere cari tutti gli altri esseri senzienti.
Perché dal fattore di mantenere caro il proprio sé hanno origine tutti, ma proprio tutti
i nostri problemi, i nostri dolori, le nostre illusioni, e così via. Viceversa, dal fattore di
mantenere cari gli altri derivano tutte le nostre fortune e tutte le nostre felicità.
Poi, come viene esposto nella sezione del Lam Rim relativa alla preziosa
rinascita umana, è importante meditare sul fatto che le occasioni per incontrare la
pratica buddhista e impegnarsi nella meditazione di equanimità sono davvero molto
rare. Le persone che ci circondano, intanto, continuano a vivere sotto il dominio del
proprio ego: ma noi, anziché scoraggiarci, dovremmo ricordarci in ogni istante che
incontrare questo sentiero è stata per noi un’incredibile fortuna.
La cultura capitalistica incoraggia da sempre l’individualismo e la
competizione: il concetto di vacuità dell’io, da questo punto di vista, può essere
interpretato come un’espressione di debolezza o mancanza di amor proprio.
È vero: la vita mondana - non solo in Occidente - è completamente incentrata
sull’individualismo e sull’esaltazione dell’io: ma se ci impegniamo ogni giorno per
coltivare ed enfatizzare un atteggiamento altruistico, riusciremo gradualmente a
sottrarci al predominio dell’ego.
L’importante è ricordare che l’esaltazione della personalità e il desiderio di
ottenere la vittoria a tutti i costi sono i due aspetti fondamentali di quello che nel
buddhismo tibetano viene definito come il fattore di afferrarsi alla natura inerente o
illusoria del sé: l’illusione nasce nel momento in cui ci convinciamo che il nostro sé,
che viene definito sulla base dei cinque aggregati indistruttibili, esista in modo
indipendente rispetto a tutti gli altri fenomeni. Da questo punto di vista, possiamo
affermare che la vacuità è davvero la perfetta antitesi della competizione e
dell’individualismo.
Credo comunque che la cosa migliore, per le persone, sia esaminare con
attenzione gli effetti del proprio individualismo, ogni volta che esso si manifesta
concretamente nelle loro vite. E chiedersi: “Questo atteggiamento, in ultima analisi, è
per me fonte di felicità o di sofferenza?”
Se non facciamo costantemente questo tipo di esame, non riusciremo mai a
capire che l’essenza dell’io e di tutti i fenomeni differisce in modo sostanziale dal
loro modo illusorio di apparire: io stesso, in questo momento, potrei cedere a questa
apparenza illusoria e affermare di essere qualcosa di concreto e indipendente che
parla seduto su un letto, che a sua volta esiste come oggetto concreto e indipendente.
Se ci basiamo sulla convinzione che l’io esista in modo indipendente, nessuna delle
nostre azioni andrà a buon fine, e tutto, in un modo o nell’altro, sarà per noi fonte di
sofferenza. Dovremmo sempre esaminare con attenzione il vero modo di esistere di
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tutte le cose: solo chi riesce ad andare al di là di questa apparenza illusoria può
affrancarsi dalla sofferenza interiore che si innesca ogni volta che osserviamo i
fenomeni come esistenti dalla propria parte.
Prendiamo in esame, per fare un esempio, la sconfitta della Nazionale di calcio
italiana alle finali del Campionato europeo del 2012: un evento che è stato trasmesso
e amplificato da tutti i giornali e da tutte le televisioni, e al quale ho casualmente
assistito nel corso di un viaggio. Anche un evento apparentemente così banale, se
analizzato nel dettaglio, è un’occasione davvero formidabile per analizzare la vera
natura delle nostre attività samsariche: ci aiuta a comprendere quanta negatività si
celi nell’esaltazione del sé e quanta tristezza e quanto dolore possano sorgere dalla
competitività e dal desiderio di vincere a tutti i costi.
Cosa succede, alla fine di un campionato? Pensate ai tifosi che hanno fatto
sacrifici e hanno speso tutti i soldi che avevano messo da parte nei mesi precedenti
per andare all’estero a seguire le gare allo stadio: il tutto per assistere alla sconfitta
della propria squadra del cuore, e per arricchire al tempo stesso una minoranza di
persone - quelle che gli hanno venduto i biglietti. Quanta fatica per nulla!
Pensate poi a tutte le persone che, nel frattempo, hanno seguito la partita, allo
stadio o da casa, e hanno accumulato karma negativo, perché in un modo o nell’altro
hanno confermato e rafforzato il proprio senso illusorio del sé: i tifosi della squadra
vincente si sono esaltati e si sono fatti prendere dall’orgoglio, mentre i tifosi della
squadra sconfitta hanno ceduto alla rabbia o alla depressione. L’orgoglio che deriva
da una vittoria e il senso di scoraggiamento causato da una sconfitta sono entrambi
espressioni complementari di questo sé illusorio che si fortifica e si autoalimenta
sempre di più, fino a diventare causa di rinascite sfortunate.
Per non parlare di quelli che non amano il calcio, e si arrabbiano perché i
media danno un eccessivo risalto a questo tipo di eventi.
Lo vede? Da una partita di calcio, escono tutti sconfitti,! [ride]
Possiamo applicare questo ragionamento tutte le altre attività che assorbono
abitualmente il nostro tempo e le nostre energie nel Samsara.
Ancora: il tema della vacuità dell’io, così fortemente enfatizzato dalla
tradizione Mahāyāna, viene percepito da alcuni praticanti occidentali come una
sorta di minaccia, un invito ad annullare se stessi.
Voglio rassicurare queste persone: non c’è assolutamente nulla da temere!
Percepire la vacuità di tutti i fenomeni non equivale in alcun modo alla perdita o
all’annullamento del proprio sé. L’io esiste, questo non dobbiamo metterlo in dubbio!
Prova ne è il fatto che siamo in grado in ogni istante di operare una distinzione tra ciò
che reca beneficio alla nostra persona e ciò che la danneggia: se fossimo sprovvisti di
un io, non saremmo nemmeno in grado di fare un simile distinguo.
Il vero significato della vacuità è questo: l’io esiste, ma in un modo diverso da
come siamo abituati a percepirlo, e da come normalmente ci appare. In altre parole,
esiste come mera imputazione sulla base dei cinque aggregati. Una volta compreso
questo punto, non c’è motivo di avere paura.
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Anche la pratica della moralità è fonte di frequenti preoccupazioni: alcune
persone temono di fare il passo più lungo della gamba e di non riuscire a
mantenere nel tempo i voti o gli impegni presi.
Dobbiamo innanzitutto è possibile prendere diversi tipi di impegni: abbiamo i
voti da laico e quelli da monaco, i voti del Bodhisattva e i voti tantrici.
Ciò premesso, la mia riflessione è questa: nessuno può prevedere con esattezza
quando arriverà il momento della propria morte. Il Lam Rim è molto chiaro a questo
proposito: se osserviamo direttamente la natura impermanente di tutti i fenomeni, ci
renderemo immediatamente conto che la morte è ineluttabile e imprevedibile per
tutti. Per questo motivo, è bene praticare subito il Dharma, senza rimandare a
domani. Morire senza aver avuto occasione di praticare la moralità sarebbe davvero
increscioso: ciò equivarrebbe a garantirsi una rinascita in un reame inferiore di
sofferenza. Potremmo rinascere, ad esempio, in forma animale, e a quel punto non
avremmo più la consapevolezza e la conoscenza che consentono di accumulare
karma positivo; peggio ancora, potremmo rinascere negli inferni o nel reame dei
preta, o spiriti famelici, e la nostra permanenza in quei regni si protrarrebbe per un
tempo davvero interminabile.
Il glorioso maestro indiano Chandrakīrti spiegò che la moralità è la causa non
comune e indispensabile di rinascita nei reami superiori di felicità, in forma umana o
divina: lo stesso vale, a maggior ragione, per chi desideri raggiungere lo stato di
Shravaka, di Pratyekabuddha e di Bodhisattva.
Di più: come affermano le scritture, il mantenimento di una buona moralità è
indispensabile anche per chi, pur non aspirando al sentiero dell’illuminazione,
desidera semplicemente condurre un’esistenza serena nel Samsara. Le dieci azioni
non virtuose sono sempre e comunque dannose; la pratica della moralità, viceversa, è
benefica e indispensabile per tutti gli esseri viventi, anche per quelli che non sono
interessati a prendere alcun voto.
Un’altra caratteristica che accomuna molti praticanti buddhisti, oggi come
ieri, è la tendenza ad esaltare il primato della propria scuola o della propria
tradizione, a discapito di tutte le altre.
Il Lam Rim sottolinea in più punti l’importanza di non parlare male delle altre
forme di spiritualità: questo vale per il buddhista che parla male delle altre scuole
buddhiste e/o delle religioni non buddhiste, per il non buddhista che parla male del
buddhismo, e per qualsiasi altro caso del genere. Chi agisce in tal modo accumula
una grande quantità di karma negativo.
Quali sono, oltre a quelle che abbiamo appena citato, le principali
difficoltà con cui deve confrontarsi un moderno praticante buddhista europeo o
americano?
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Nel corso degli anni, come dicevo, ho avuto modo di osservare da vicino molti
praticanti occidentali: il loro problema principale, devo dirlo, è la facilità con cui si
scoraggiano al sopravvenire delle difficoltà. Mi riferisco in particolare agli ostacoli di
origine interiore, mentale, che sono più frequenti in Occidente - a differenza di
quanto accade nella mia terra d’origine, dove la gente è costretta a fare i conti
soprattutto con problemi economici, o comunque di natura materiale.
Molti occidentali, sentendo parlare di buddhismo, pensano: “Forse è proprio
questo il sentiero che mi consentirà di liberarmi per sempre dalle sofferenze mentali!”
Partendo da questa premessa, iniziano a seguire le lezioni dei maestri, si mettono a
studiare e a praticare il Dharma, e così facendo si illudono di raggiungere in breve
tempo grandi realizzazioni e di lasciare alle spalle tutti i problemi che li avevano
afflitti fino a quel momento. Passa un po’ di tempo, e queste persone si accorgono che
le cose non vanno nella direzione desiderata: le sofferenze ci sono ancora, e le
realizzazioni ottenute non sono così eclatanti. Molti, a quel punto, si scoraggiano,
perdono la fede e smettono di praticare: alcuni, addirittura buttano via i libri di
Dharma e le immagini sacre. Questa cosa, a un tibetano, accade molto di rado.
E sotto quali aspetti, a suo avviso, possiamo ritenerci avvantaggiati
rispetto ai praticanti del passato?
Devo dire che gli occidentali si distinguono per il loro entusiasmo e per il loro
grande impegno nella pratica e nello studio. L’importante, ripeto, è ricordare che
nessuno può ottenere grandi realizzazioni spirituali in breve tempo: non basta fare
qualche sessione giornaliera di meditazione o recitare qualche mantra, per
raggiungere traguardi così elevati. Non funzionava così in passato, e non funziona
così nemmeno oggi.
In conclusione, vorrei chiederle di suggerire ai nostri lettori - in
particolare a quelli che si avvicinano per la prima volta alla scuola tibetana
Gelugpa - una meditazione o una semplice pratica che consenta loro di
sperimentare nella vita di tutti i giorni i possibili benefici di questo percorso.
A questi lettori consiglierei di sperimentare tutti i giorni la cosiddetta pratica
dei cinque poteri.
Il primo potere è quello della proiezione, che ci consente di decidere e
pianificare le pratiche che faremo oggi, domani, tra una settimana, tra un mese, tra un
anno, e così via.
Il secondo potere è quello del seme bianco, che include tutte le pratiche
virtuose che possiamo sperimentare: in particolare le cinque pratiche preliminari che
vengono descritte nel Lam Rim, e in generale ogni azione volta al conseguimento
della nostra illuminazione per il beneficio di tutti gli esseri.
Il Maestro Śāntideva, riferendosi terzo potere, quello dell’abitudine, o
familiarizzazione, insegnò che non c’è niente che non possa diventare facile grazie
all’abitudine e all’esercizio quotidiano e ripetuto nel tempo. E con questo mi
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ricollego a una delle domande precedenti, quella relativa alla difficoltà di sviluppare
una mente compassionevole ed equanime. Prendiamo il caso di una persona che
desideri familiarizzarsi con la pratica della generosità: questa persona magari adesso
non se ne rende conto, ma se continua ad allenarsi con costanza, un giorno sarà in
grado di donare agli altri il proprio stesso corpo e la propria stessa vita; e lo farà con
la stessa facilità con cui oggi potrebbe donare un frutto o un po’ di verdura. Lo stesso
principio vale ovviamente per tutte le altre pratiche virtuose.
Il quarto potere è quello del rifiuto: se ci rendiamo conto che tutti i nostri
problemi e le nostre sofferenze hanno origine dal fattore di avere caro il proprio sé,
da quel momento in poi il nostro principale obiettivo diventerà quello di liberarci con
ogni mezzo possibile da questa oscurazione, che è poi il nostro unico, vero nemico.
Il quinto potere, infine, è quello della preghiera: giunti a sera, possiamo fare il
punto di tutto ciò che abbiamo fatto di positivo nel corso della giornata, e dedicare
agli altri tutti gli sforzi compiuti, rinnovando il desiderio di raggiungere la suprema
illuminazione per il beneficio di tutti gli esseri.
Questa è la pratica che vi suggerisco di fare ogni giorno.
Si ringrazia la Signora Heda Klein per la preziosa attività di traduzione simultanea dal
tibetano all’italiano svolta nel corso dell’intervista.
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