Rassegna Fattori terapeutici specifici e comuni in psicoanalisi: il self-righting• Specific and nonspecific therapeutic factors in psychoanalysis: self-righting LUCIA PANCHERI*, FRANCO PAPARO** *Dipartimento di Psicologia Dinamica e Clinica, Università di Roma, La Sapienza, **Associato SPI RIASSUNTO. L’idea di una tendenza dell’individuo all’autocura e all’autoguarigione si è affacciata più volte nel pensiero psicoanalitico, a cominciare da Freud, ma è stata messa in ombra dalla concezione opposta, prevalente nell’ultimo Freud, secondo cui esistono delle forze innate che operano contro la guarigione, in ultima analisi riconducibili all’istinto di morte. Eppure, come in medicina diamo per scontato che esista una vis medicatrix naturae, che interviene in tutte le guarigioni, è ipotizzabile anche in psicologia l’esistenza di una tendenza innata dell’individuo al recupero, entro certi limiti, dell’equilibrio psicologico alterato e al raggiungimento del proprio sviluppo ottimale, correggendone le distorsioni, tendenza che, seguendo Lichtenberg, abbiamo denominato con il termine self-righting. Le prove di ciò si troverebbero nell’universalità della spinta verso la guarigione e lo sviluppo del sé, ma anche nel costante riproporsi di fenomeni come la speranza di guarigione, la domanda di cura, l’attaccamento al terapeuta, l’instaurarsi dei transfert di oggetto sé, la spinta a sottoporre a test il terapeuta per confutare le proprie credenze patogene, il verificarsi di enactment finalizzati al cambiamento e l’impulso a curare il proprio analista. Ci sembra che lo scopo di tutti i trattamenti specifici, in psicoanalisi come nelle altre terapie, sia essenzialmente quello di innescare questo potente fattore terapeutico comune, che abbiamo denominato self-righting, utilizzando modalità specifiche di intervento. La psicoanalisi che si riconosce nei nuovi modelli relazionali offre le teorie migliori per comprendere, se non anche per innescare, il cambiamento visto in quest’ottica. PAROLE CHIAVE: self-righting, autocura, autoguarigione, fattori terapeutici comuni, psicoanalisi, nuovi modelli relazionali. SUMMARY. The idea of an innate trend of the individual toward self-cure and self-healing has been suggested repeatedly in psychoanalysis, starting with Freud, but has been overshadowed by the opposite view, prevalent in Freud’s last writings, according to which there exist innate forces acting against healing, that may be traced back to the Death instinct. In medicine we take for granted that there exists a vis medicatrix naturae, which intervenes in all recoveries; similarly, in psychology, we may hypothesise the existence of an innate tendency of the psyche to recover altered psychological equilibrium within certain limits and to achieve an optimal development, a tendency which we have called self-righting (after Lichtenberg). Proof of this could be found in the universality of the drive toward healing and development of the self, but also in the ubiquity of phenomena such as hope of recovery, care demands, attachment to the therapist, the establishment of self-object transferences, the patient’s attempts to test the therapist so as to confute his own pathogenic beliefs, the occurrence of enactments aiming at change, and the patient’s drive to cure his/her own analyst. We believe that the goal of all specific treatments is, in psychoanalysis, as in other types of treatment, to trigger this potent common therapeutic factor which we have called self-righting, by using specific intervention techniques. Psychoanalysis based on new relational models provides the most apt theories to understand, if not trigger, change viewed under this perspective. KEY WORDS: self-righting, self-cure, self-healing, nonspecific therapeutic factors, psychoanalysis, new relational models. •Presentato al XII Congresso Nazionale della Società Psicoanalitica Italiana, Trieste, 13-16 giugno 2002. E-mail: [email protected] Rivista di psichiatria, 2003, 38, 3 105 Pancheri L, et al Fortunately the human psyche, like human bones is strongly inclined towards self-healing. The psychotherapist’s job, like that of the orthopaedic surgeon’s, is to provide the conditions in which self-healing can best take place. Bowlby, 1988 (1) “Fortunatamente la psiche umana, come le ossa, è fortemente incline all’autoguarigione. Il lavoro dello psicoterapeuta, come quello del chirurgo ortopedico, è di fornire quelle condizioni in cui l’autoguarigione possa meglio avvenire” Tutti sappiamo che esiste qualcosa che chiamiamo “vis medicatrix naturae”, cioè una tendenza spontanea a guarire. In genere la riferiamo al corpo e alle malattie somatiche: le ferite cicatrizzano, le malattie acute evolvono verso la guarigione, una funzione temporaneamente ostacolata riprende appena l’impedimento è stato eliminato, il cervello ha la capacità plastica di compensare una lesione utilizzando aree analoghe e così via (in certi animali addirittura alcune parti amputate possono ricrescere). La medicina ha da sempre sfruttato questa tendenza. La biologia conosce qualcosa di analogo nel concetto di “omeostasi” (da ”m’ioj = simile e stßsij = fermata). Il fisiologo C. Bernard è stato il primo nel 1851 a riconoscere una tendenza degli organismi a mantenere costante l’ambiente interno al variare delle condizioni esterne. In seguito Cannon (2) ha introdotto il termine “omeostasi” per riferirsi a questa costanza dinamica interna: l’omeostasi è la “capacità di autoregolazione di un organismo, di mantenere cioè il proprio corpo in un particolare stato di equilibrio fisiologico, nonostante le variazioni dell’ambiente esterno” (3). L’omeostasi è stata riconosciuta a diversi livelli: molecolare (ad esempio i sistemi cellulari enzimatici limitano ad un certo punto la quantità di una reazione chimica), cellulare (un esempio è dato dal fatto che certe cellule smettono di dividersi, se diventano così numerose da non rispettare più il loro programma morfogenetico), dell’organismo (esempi di meccanismi omeostatici a questo livello possono essere le sensazioni di fame e di sete, il meccanismo che regola la pressione arteriosa o quello che regola la temperatura corporea) e anche della popolazione (ad esempio ad un aumento degli animali da preda di una certa specie corrisponde un aumento dei predatori di quella preda) (4). L’embriologo Waddington (5) ha trasposto il concetto di omeostasi nel campo dello sviluppo e dell’evoluzione, coniando il termine “self righting” (autocorrezione), per descrivere una tendenza geneticamente programmata, propria di tutti gli organismi che si svi- luppano, ad organizzarsi secondo vie preferenziali preordinate e a correggere in base a queste le deviazioni del proprio sviluppo, detta anche canalizzazione (canalization). Poiché è l’ambiente che circonda l’embrione che stimola l’attivazione dei geni, essa risulta dal modo in cui i geni interagiscono con l’ambiente. Più recentemente Edelman (6) ha parlato dell’esistenza di valori innati, evoluzionisticamente fondati, codificati nel genoma umano. Questi valori, che possono essere assimilati al concetto di “piano” nell’accezione di Miller, Galanter e Pribram (7), sono in grado di generare sistemi motivazionali innati (8). I piani evoluzionisticamente fondati non sono cancellabili, per cui l’individuo tende a ripristinarli, quando il piano non è realizzabile (8). Esisterebbe cioè una tendenza innata, biologicamente fondata, a raggiungere e a ripristinare quella che potremmo definire normalità secondo una “norma etologica” (normale è ciò che è coerente con i comportamenti di base della propria specie) (9). È pensabile che qualcosa di analogo a quanto stiamo dicendo intervenga anche nelle guarigioni psicologiche e sia stato sfruttato da sempre in tutti i trattamenti psicoterapeutici, anche se ciò viene meno riconosciuto rispetto a quanto avviene in medicina. In particolare la psicoanalisi, lungamente impegnata nella definizione dei suoi fattori terapeutici specifici, per molto tempo nelle sue teorizzazioni della terapia ha trascurato di occuparsi dell’esistenza di una tendenza spontanea alla guarigione e solo recentemente ha cominciato a riflettere su questo tema. In realtà, non mancano delle eccezioni, e cioè degli psicoanalisti che si sono avvicinati all’idea che anche in psicoterapia esista qualcosa che, utilizzando il termine che Lichtenberg (10) mutua da Waddington, potremmo denominare self-righting, intendendo con questo termine sia una tendenza naturale a ristabilire l’equilibrio psicologico alterato che una tendenza al raggiungimento del proprio sviluppo ottimale, correggendone le distorsioni, e ne hanno tenuto conto nelle loro teorizzazioni sulla terapia. Rivista di psichiatria, 2003, 38, 3 106 Fattori terapeutici specifici e comuni in psicoanalisi: il self-righting Noi rintracceremo innanzitutto alcuni di questi autori, recuperando le intuizioni da loro espresse su questo tema, per poi prendere meglio in esame il concetto di self-righting e infine esaminarlo rispetto al problema dei fattori terapeutici specifici e aspecifici in psicoanalisi. Abbiamo rinunziato a tradurre in italiano il termine self-righting, perché non abbiamo trovato un termine unico che rendesse in modo soddisfacente entrambi gli aspetti che vogliamo denotare con quest’espressione. Ad esempio il termine utilizzato dalla Casa Editrice Astrolabio per tradurre l’espressione di Lichtenberg, “ristabilimento autonomo dell’equilibrio”(11), evoca più il primo aspetto che abbiamo indicato, quello relativo all’omeostasi, che non il secondo, quello relativo allo sviluppo, che ci sembra invece più caratterizzante del concetto di self-righting e più interessante ai nostri fini. Ci sembra infatti che, soprattutto con i pazienti attuali, lo scopo della terapia analitica non sia tanto quello di ricostruire un equilibrio perduto, quanto quello di costruire e rendere possibile qualcosa che magari non c’è mai stato e che ha a che vedere con uno sviluppo del sé. Potremmo dire che uno degli scopi di questo lavoro è proprio quello di illustrare l’utilità del termine self-righting in psicoterapia. IL CONCETTO DI SELF-RIGHTING E LA PSICOANALISI Il pessimismo terapeutico di Analisi terminabile e interminabile La psicoanalisi ha trascurato di valorizzare l’idea di una spinta naturale alla guarigione, in quanto è stata a lungo influenzata dalla visione profondamente pessimistica dell’ultimo Freud, quello di Analisi terminabile e interminabile (12), secondo la quale ci sono forze innate che operano contro la guarigione, in ultima analisi riconducibili alla pulsione di morte. In un famoso passo di quest’opera egli afferma: “L’impressione più importante che si ha delle resistenze nel corso del lavoro analitico è quella di una forza che si oppone con ogni mezzo alla guarigione, ancorandosi con determinazione assoluta alla malattia e alla sofferenza” (12). E continua così: “Considerando il quadro d’insieme nel quale convergono le manifestazioni derivanti dall’immanente masochismo di tanta gente, dalla reazione terapeutica negativa, e dal senso di colpa dei nevrotici, non si potrà più continuare a dar credito alla tesi che gli eventi psichici siano dominati esclusivamente dalla spinta al piacere. Questi fenomeni costituiscono prove inequivocabili della presenza, nella vita psichica, di una forza che per le sue mete denominiamo pulsione di aggressione o di distruzione, e che consideriamo derivata dall’originaria pulsione di morte insita nella materia vivente” (12). Eppure in altri passi Freud riconosce l’esistenza di una spinta interna del paziente a guarire e la sua importanza ai fini terapeutici. Ad esempio in Inizio del trattamento (13) afferma: “Il motore primo della terapia è la sofferenza del malato e il desiderio di guarigione che ne deriva” (13). Inoltre nel suo pensiero appaiono molti concetti che potremmo vedere come manifestazioni di una spinta interna verso la guarigione, a cominciare dall’idea che il rimosso cerca continuamente di riemergere (nel lapsus, nel sogno, nel transfert, nel sintomo stesso), idea che è alla base della terapia•. Alcuni di questi concetti sono stati effettivamente riformulati in seguito in una nuova luce da vari autori, che si sono discostati dal modello pulsionale. L’esempio più noto di tali riformulazioni è costituito dal transfert, che Freud ha legato alla coazione a ripetere (17), finendo poi per ricondurlo alla pulsione di morte (16), e che è stato in seguito visto come la più potente manifestazione di una spinta naturale a guarire. Naturalmente anche Freud vedeva la centralità del transfert ai fini della guarigione, ma la sua visione era diversa. Infatti, se Freud aveva colto l’aspetto del transfert come spinta a comunicare contenuti inconsci non ancora pensabili (17), per lui però il transfert rappresentava essenzialmente una tendenza alla ripetizione di clichés pulsionali (18), mentre il fattore terapeutico era costituito dall’analisi del transfert e quindi dall’insight. Qualcosa di analogo a quello che stiamo dicendo potrebbe essere rintracciato nel concetto freudiano di “transfert positivo irreprensibile” (18), costituito dai sentimenti positivi coscienti nei confronti dell’analista, che aiutava il paziente a vincere le resistenze, ma questo aspetto nel pensiero freudiano resta nel complesso marginale rispetto alla visione del transfert come resistenza, la cui analisi era il vero motore del trattamento (19). Quindi, se Freud non manca di rilevare una serie di fenomeni che noi potremmo ascrivere a ciò che abbiamo denominato self-righting, essi non sono però propriamente visti in quest’ottica o, se lo sono, non raggiungono una centralità nel suo pensiero. • Freud ha anche parlato di “pulsioni di autoconservazione”, che avrebbero per scopo l’autoconservazione della persona (14), a cui potremmo riferire quella che egli chiama “pulsione a risanare” (15). Con Al di là del principio del piacere (16), queste vengono in un primo tempo classificate tra le pulsioni di morte (giacché avrebbero lo scopo di far sì che l’organismo si diriga verso la morte seguendo la propria via, tenendo lontane altre vie di ritorno all’inorganico), per poi essere annoverate tra le pulsioni di vita, ma la cosa resta ambigua. Rivista di psichiatria, 2003, 38, 3 107 Pancheri L, et al L’ambiguità del concetto di alleanza terapeutica Potremmo vedere nel concetto di “alleanza terapeutica”, che Freud delinea parlando del transfert positivo irreprensibile (18) e che è stato successivamente sviluppato all’interno della psicologia dell’Io, un modo con cui all’interno del modello classico veniva recuperata la visione del paziente come autentico alleato del processo di guarigione: nell’alleanza terapeutica una parte dell’Io si allea con l’analista per collaborare alla cura, opponendosi a quella parte dell’Io che invece la ostacola. In questo senso Fenichel (20) ha parlato di un “desiderio normale di guarigione”, Greenson (21) di un’“alleanza di lavoro”, che ha una componente razionale e una irrazionale, Stone (22) ha detto che il paziente cerca, oltre alla madre primaria del contatto fisico, anche il genitore che promuove la crescita, la madre secondaria, la madre della separazione che dispensa comprensione, controllo e insegnamenti, nella quale può vedere sé stesso in termini delle sue potenzialità. Nelle discussioni più recenti sull’alleanza terapeutica ricorre il tema del ruolo dei sentimenti di speranza nella terapia, mentre si tende a riconoscere qualcosa di realistico in tale speranza (23). È da notare che l’aspettativa di ricevere un beneficio dal trattamento è stata ritenuta da Frank in un famoso libro (24) il più potente fattore terapeutico aspecifico in psicoterapia. Nel complesso però nel modello psicoanalitico classico, il concetto di alleanza terapeutica resta ambiguo: ad esempio, come osserva Mitchell (25), non è chiaro quanto sia influenzato dal transfert come ripetizione che si trasforma presto in resistenza. Bowlby: la ricerca della base sicura come funzionale all’autoguarigione La matrice epistemologica di Bowlby è l’epistemologia evoluzionista: il sistema dell’attaccamento si sviluppa ad un certo punto della scala filogenetica perché è funzionale alla sopravvivenza. Come osservano Slavin e Kriegman (26), in quest’ottica è difficile accettare l’idea freudiana di una pulsione di morte. Ciò che abbiamo definito self-righting ci sembra presente nella teoria dell’attaccamento nei due sensi che abbiamo indicato. Ad esempio Bowlby (1) postula che il sistema dell’attaccamento sia regolato da un centro di controllo, sito nel SNC (Sistema Nervoso Centrale), che funziona sulla base di un’analogia con un sistema fisiologico organizzato in modo omeostatico, regolando la prossimità con la figura di attaccamento. Il secondo senso del self-righting lo ritroviamo nella concettualizzazione della terapia elaborata da Bowlby, e in particolare nell’idea che il paziente cerca naturalmente nel terapeuta la base sicura, che in passato è mancata, da cui ripartire per costruire nuovi modelli operativi interni più funzionali, che alla fine prevarranno sui vecchi, che sono alla base dei sintomi (1). Il compito del terapeuta è quello di favorire questo processo. Dice Bowlby nella citazione che un po’ provocatoriamente abbiamo premesso al nostro lavoro: “Fortunatamente la psiche umana, come le ossa, è fortemente incline all’autoguarigione. Il lavoro dello psicoterapeuta, come quello del chirurgo ortopedico, è di fornire quelle condizioni in cui l’autoguarigione (self-healing) possa meglio avvenire” (1). L’idea che esista una tendenza all’autoguarigione appare in primo piano e influenza la tecnica dell’analista. Se il paziente tende naturalmente a guarire, forse anche “sa” in qualche modo quello che gli serve. Bowlby afferma: “Mentre alcuni terapeuti tradizionali potrebbero essere descritti come persone che adottano l’atteggiamento “Io lo so; io te lo dico”, la posizione che io sostengo è del tipo “Tu lo sai, dimmelo” (1). Winnicott: la regressione come parte della capacità di autocurarsi L’idea di una tendenza naturale dell’individuo alla guarigione e alla maturazione del sé trapela spesso nelle pagine di Winnicott. Ad esempio in un lavoro del 1954 egli afferma: “L’analista non può compiere nessun lavoro se non possiede una fiducia nella natura umana e nel processo dello sviluppo” (corsivo dell’autore) (27). In un lavoro successivo, ridefinendo la regressione come tendenza a restaurare la dipendenza dall’ambiente, egli afferma: “La tendenza alla regressione da parte di un paziente viene ora considerata come un elemento della sua capacità ad auto-curarsi (self-cure)” (28). E poco dopo, in termini che sembrano anticipare la visione di Kohut, continua: “La regressione rappresenta la speranza dell’individuo psicotico che certi aspetti dell’ambiente che in origine fallirono possano essere rivissuti e che questa volta l’ambiente riesca, invece di fallire, nella sua funzione di favorire la tendenza naturale dell’individuo a svilupparsi e a maturare” (28). Tra gli allievi di Winnicott, l’idea di autocura è ripresa da Mazud Khan. Nel caso clinico denominato “La mano cattiva” (29), egli interpreta in termini di autocura lo sviluppo di una fantasia di tipo perver- Rivista di psichiatria, 2003, 38, 3 108 Fattori terapeutici specifici e comuni in psicoanalisi: il self-righting so, culminata infine in un agito, come un modo di padroneggiare una grave esperienza traumatica passata, anticipando a sua volta posizioni della psicologia del sé. Searles: il paziente come terapeuta del suo analista Come Bowlby, Searles si distingue per una grande libertà di pensiero, forse perché i pazienti particolarmente gravi che trattava lo conducevano a cercare nuove strade. Nel capitolo del suo libro sul controtransfert (30) intitolato Il paziente come terapeuta del suo analista egli afferma: “Questo libro è dedicato all’ipotesi che uno degli impulsi innati più potenti che l’uomo ha nei confronti dei suoi simili, a partire dai primi anni e addirittura dai primi mesi di vita, sia un impulso essenzialmente psicoterapeutico. Quella percentuale minima di esseri umani che si dedicano professionalmente alla pratica della psicoanalisi o della psicoterapia, altro non fanno se non esprimere in modo esplicito la dedizione terapeutica comune a tutti gli esseri umani”(30). Ogni essere umano possiede cioè, a livello inconscio, le qualità di uno psicoterapeuta. Secondo Searles il paziente si ammala nella misura in cui i suoi impulsi psicoterapeutici hanno subito vicissitudini tali da diventare eccessivamente intensi e insoddisfatti al punto da mescolarsi con componenti aggressive e da determinare la rimozione. In termini di transfert, la malattia del paziente esprime il desiderio inconscio di curare il terapeuta. Questa ipotesi è particolarmente importante per i pazienti psicotici, in quanto la psicosi implica il fatto che il paziente non ha potuto acquisire nell’infanzia un Sé individuale saldamente costituito sopratutto perché ha dovuto differire la propria individuazione allo scopo di funzionare come terapeuta per un membro della propria famiglia, in genere la madre. In questi casi l’analisi porta alla luce un inconscio senso di colpa del paziente per non essere riuscito nel tentativo terapeutico di aiutare la madre a diventare una madre compiuta e soddisfacente per lui. Questo tentativo terapeutico consiste nel cercare di fare da madre alla propria madre. La natura di questo sforzo è contemporaneamente altruistica ed egoistica, in quanto egli cura la madre per curare sé stesso. Il paziente può liberarsi del senso di colpa e diventare abbastanza sicuro del proprio valore nella misura in cui riesce a realizzare il suo progetto di cura all’interno della terapia, questa volta nei confronti del terapeuta in quanto madre. Per questo ha bisogno di sentire di esser capace di curare l’analista. Searles dice di avere riscontrato più volte nella sua pratica analitica e nelle supervisioni da lui effettuate il fatto che nelle situazioni di stallo l’analista riceve un supporto dal paziente, senza che nessuno dei due ne sia consapevole. In generale il paziente cerca di contribuire alla crescita e alla maturazione emotiva dell’analista. Ad esempio egli ritiene che molti atteggiamenti dei suoi pazienti che lo avevano messo in difficoltà avessero il fine inconscio di porlo di fronte ai propri punti di vulnerabilità allo scopo di indurlo a superarli. Questo impulso a curare l’altro per curare sé stessi è riconducibile a ciò che abbiamo denominato self-righting. Kohut: il transfert di oggetto sé come speranza di riprendere lo sviluppo interrotto Con Kohut, rispetto al pessimismo terapeutico di Analisi terminabile e interminabile (12), l’ottica cambia profondamente. Ne La cura psicoanalitica (31) Kohut, richiamandosi proprio ad un biologo (32), afferma che: “il normale […] deve essere definito come ciò che funziona in accordo con il suo progetto” (31). Ad esempio, normale è l’ipervalutazione dei bambini da parte dei genitori e quella analoga dell’analizzando da parte dell’analista. Secondo Kohut per tutta la vita il Sé cerca costantemente di completare il suo sviluppo superando gli ostacoli che si sono frapposti. Come anche per Winnicott, le difese e le resistenze sono viste in una nuova luce, come elementi preziosi per proteggere il Sé dalla distruzione e dall’invasione. Esse sono l’unico mezzo che il Sé ha trovato per sopravvivere e preservare se stesso in attesa di riprendere il proprio sviluppo. Dice Kohut: “La motivazione della difesa nell’analisi viene intesa come un’attività svolta al servizio della sopravvivenza psicologica, vale a dire come tentativo, da parte del paziente, di salvare almeno quel settore del suo Sé nucleare, per quanto piccolo e stabilito in modo precario, che egli è stato capace di costruire e conservare nonostante le gravi insufficienze della matrice, promotrice di sviluppo, degli oggetti Sé infantili” (31). E ancora: “Il paziente protegge il Sé difettoso in modo che esso sarà pronto a ricominciare a crescere in futuro, e continuare a evolversi proprio da quello stesso punto in cui il suo sviluppo era stato interrotto” (31). La tendenza naturale a riprendere lo sviluppo interrotto si esprime nel transfert di oggetto Sé: “La spinta alla maturazione, che era stata interrotta e bloccata nell’infanzia, comincerà a riprendere spontaneamente forza quando sarà riattivata nell’analisi sotto forma di tra- Rivista di psichiatria, 2003, 38, 3 109 Pancheri L, et al slazione di oggetto-Sé”(31). Riallacciandosi idealmente ad autori come Balint (33), Winnicott, (28) e Loewald (34), Kohut vede il transfert in una nuova luce, non più solo in chiave ripetitiva, ma in chiave evolutiva. Egli ritiene che il Sé per svilupparsi abbia bisogno di una matrice di oggetti-Sé empatici, che forniscono alcune funzioni indispensabili. L’individuazione di queste funzioni, attraverso la teorizzazione dei transfert di oggettoSé, di rispecchiamento, idealizzante e gemellare (31), è forse la scoperta più geniale di Kohut. I transfert di oggetto-Sé, a cui dopo Kohut ne sono stati aggiunti altri, che hanno a che vedere con i bisogni di antagonismo, efficacia, sicurezza, regolazione affettiva, bisogno di avere un avvocato o un testimone, bisogno di sperimentare il punto di vista dell’altro, ma altri se ne potrebbero aggiungere, sono tentativi di riprendere lo sviluppo interrotto, volti ad ottenere nella relazione le funzioni di oggetto-Sé che in passato sono state carenti da parte degli oggetti-Sé, colmando il deficit che è alla base della vulnerabilità narcisistica e quindi dei sintomi. L’analisi sfrutta la tendenza naturale del Sé a riprendere lo sviluppo interrotto, offrendo nuove opportunità nella relazione analitica. Qui lo sviluppo del sé è promosso dall’atteggiamento empatico dell’analista (gli analisti del Sé post-kohutiani conieranno il termine di responsività empatica). Tolpin: il self-righting come ricerca attiva dell’oggetto-Sé La Tolpin (35) individua una tendenza al self-righting non solo nella tendenza del bambino a correggere il deficit, ma anche nella propensione a creare attivamente nell’ambiente le condizioni perché ciò avvenga. Essa nota come un aspetto essenziale del self-righting sia rappresentato dagli sforzi che il bambino compie per ottenere dall’oggetto-Sé le funzioni di cui ha bisogno, quando queste sono state temporaneamente difettose, finché non ha raggiunto il suo scopo. La forza di questa tendenza si vede dal fatto che in certi casi il comportamento ripetitivo del bambino può apparire come una vera e propria compulsione. Il transfert evolutivo dopo Kohut La concezione dei transfert di oggetto-Sé è divenuta una pietra miliare nella storia della psicoanalisi. Dopo di lui si è imposta l’idea che esistano due dimensioni nel transfert, la dimensione ripetitiva, che ripropone gli schemi del passato e nasce dalle modalità con cui il soggetto organizza il mondo, e la dimensione evolutiva, quella che Kohut aveva definito transfert di ogget- to-Sé, in cui il paziente cerca le esperienze evolutive che gli sono mancate, la quale mira a riprendere lo sviluppo interrotto per completarlo (36). Slavin e Kriegman vedono l’insieme dei due aspetti in chiave evolutiva: “L’esperienza di transfert può essere un processo adattivo composto di due parti: l’applicazione di ciò che è stato appreso a situazioni nuove e una maniera di portare più vividamente ciò che è stato appreso dentro le esperienze attuali e modificare ciò che si è appreso in modo accurato” (26). La concezione evolutiva del sogno: il sogno come selfrighting La psicologia del Sé ha attribuito al sogno le due funzioni che abbiamo riferito al self-righting: la tendenza a reintegrare la coesione del Sé, che interviene negli stati di disorganizzazione psichica, e una funzione evolutiva, consistente nella risoluzione di problemi e nell’emergenza di nuove configurazioni psichiche. Secondo il modello più esaustivo del sogno che la psicologia del Sé ha elaborato, proposto da Fosshage (37), infatti: “[…] la funzione sovraordinata del sogno è lo sviluppo, il mantenimento (regolazione) e, quando necessario, la reintegrazione dei processi, della struttura e dell’organizzazione psichica […] i sogni continuano gli sforzi consci e inconsci della veglia per risolvere i conflitti intrapsichici, attraverso l’utilizzazione di processi difensivi, attraverso una compensazione interna o attraverso una riorganizzazione creativa appena emergente” (37). Come abbiamo mostrato in un precedente lavoro (38) queste idee sono già contenute nel pensiero di Kohut. In particolare i self-state dreams (39) rappresentano un tentativo di controllare un pericolo psicologico suscitando la reazione delle parti sane del Sé. L’enactment come ricerca di un’esperienza finalizzata al cambiamento Una volta che entriamo nell’ottica che esista una tendenza al self-righting è possibile vedere in questa luce oltre al transfert molti fenomeni che si verificano durante la terapia analitica. In particolare potremmo vedere in questo modo gli enactment, cioè quei comportamenti interattivi in cui l’analista si accorge a posteriori di avere vissuto nel rapporto con il paziente delle dinamiche inconscie, e che alcuni autori ritengono essere fenomeni intrinseci al processo analitico (40). Potremmo infatti rintracciare in questo complesso fenomeno uno sforzo inconscio Rivista di psichiatria, 2003, 38, 3 110 Fattori terapeutici specifici e comuni in psicoanalisi: il self-righting del paziente non solo a comunicare qualcosa che forse non poteva essere detto in altro modo, ma anche una tendenza a cercare nell’interazione con l’analista esperienze “correttive” finalizzate al cambiamento (26). Lichtenberg: il self-righting nel processo terapeutico Lichtenberg (10) riprende da Waddington il termine self-righting, per indicare un fattore psicobiologico, inerente allo sviluppo, di cui il bambino dispone per correggere un deficit. In questo processo, una normale acquisizione evolutiva che non è stata raggiunta può essere conseguita oppure diviene possibile un’esperienza normale che era assente. Bambini deprivati, rimessi in condizioni normali, tendono a riprendere uno sviluppo normale. Questa tendenza non si manifesta solo nell’infanzia, ma si può individuare nell’arco di tutta l’esistenza. Ad esempio, una persona deprivata degli episodi di sonno REM che si verificano durante una notte, appena potrà dormire, avrà una reazione compensatoria finché il deficit non è stato recuperato. Secondo Lichtenberg il self-righting si può individuare in ciascuno dei cinque sistemi motivazionali da lui postulati. Ad esempio, l’attivazione dei pattern di attaccamento nel comportamento del bambino al momento della riunione con la madre, nel test della Strange Situation, mostra il self-righting nel sistema dell’attaccamento. Il self-righting gioca un ruolo essenziale nella terapia analitica. Fin da La psicoanalisi e l’osservazione del bambino (41) Lichtenberg aveva proposto di utilizzare l’analogia con i processi di sviluppo del bambino per identificare cosa promuove l’esperienza curativa nella terapia, affermando che il processo essenziale secondo cui avviene la cura “è in continuità con la crescita” (41). Nello sviluppo normale la crescita del bambino è facilitata dagli sforzi degli adulti che lo circondano e che mostrano un atteggiamento empatico nei suoi confronti. E aveva così concluso: “In conclusione, la ‘guarigione’ analitica interviene come risultato di un processo di crescita intrinseco” (41). Il discorso è ripreso nel decimo capitolo di Psychoanalisis and Motivation (10), omesso nella traduzione italiana, in cui Lichtenberg delinea una teoria della cura, dando al self-rigthing un ruolo centrale. Egli afferma che in analisi il progresso è il risultato di due processi: il self-righting, cioè il ritorno al funzionamento normale che avviene, entro certi limiti, quando un ostacolo è stato rimosso, e la riorganizzazione delle rappresentazioni simboliche (insight), che avviene attraverso la scoperta di nuovi significati. In entrambi i casi si tratta dell’attivazione, durante l’analisi, di processi che sono la chiave dello sviluppo normale. Il self-righting è promosso dalla comprensione empatica e dalla responsività dell’analista. Ad esso vengono ricondotti alcuni fattori terapeutici la cui scoperta ha segnato delle tappe fondamentali nella teorizzazione della tecnica psicoanalitica, come la catarsi o la riparazione delle rotture nella relazione analitica, quando l’analizzando si sente empaticamente capito dall’analista, processo che Kohut considerava cruciale nella cura psicoanalitica. Il piano di guarigione inconscio secondo Weiss e Sampson Come è noto, secondo questi autori (42) il paziente viene in terapia con un “piano” inconscio di guarigione. Questo piano consiste nel cercare di disconfermare le credenze patogene, sviluppate sulla base delle esperienze negative del passato, le quali sono alla base della patologia. A questo fine egli sottopone ripetutamente a test il terapeuta nel transfert. Se il terapeuta supera il test (mostrando un atteggiamento pro-plan) il paziente starà meglio, aumenterà il suo insight e in seguito potrà porre altri test, tutti inconsciamente finalizzati alla guarigione. Se il terapeuta fallisce il test, il paziente lo riproporrà più volte per una tendenza innata a disconfermare le credenze patogene. La tendenza a formulare il piano di guarigione e a riproporlo più volte è uno degli aspetti del self-righting. Del resto, riallacciandosi espressamente alla teoria della cura espressa da Lichtenberg (10), Weiss dice di condividere con lui sia l’importanza attribuita all’“impulso imperioso del paziente a vincere i suoi problemi” che l’idea che l’empatia del terapeuta possa contribuire a curare (43). Ghent: il surrender come parte di una tendenza naturale ad essere conosciuti e riconosciuti Richiamandosi a Winnicott (27), E. Ghent (44) afferma che esiste una tendenza universale a trovare qualcosa nell’ambiente circostante che renda possibile l’abbandono del falso Sé. Ci sarebbe cioè una forza verso una nascita del vero Sé o comunque verso una crescita, qualcosa per cui, non esistendo in inglese un termine soddisfacente, egli usa il termine surrender, nel senso di “abbandonarsi”, “lasciarsi andare”. Se la resistenza è il nome dato alle forze che operano contro la crescita e il cambiamento, si può pensare all’abbando- Rivista di psichiatria, 2003, 38, 3 111 Pancheri L, et al narsi (surrender) come a una forza contraria, che ha a che fare con la crescita. Ghent afferma che il surrender potrebbe essere parte di una tendenza a venire conosciuti e riconosciuti, la quale avrebbe le sue radici nella centralità della ricerca dell’oggetto come spinta motivazionale fondamentale degli esseri umani. Anche questa tendenza ci sembra rientrare in ciò che abbiamo denominato self-righting. Infatti Ghent afferma: “Il desiderio di abbandonarsi sembra emergere come un dettaglio particolare in un quadro più inclusivo: la crescita e la restituzione della crescita impedita, la guarigione” (44). Gli autori che abbiamo citato sono alcuni esponenti della psicoanalisi che hanno creduto nell’esistenza di quel fattore terapeutico intrinseco, che abbiamo denominato self-righting e hanno cercato di liberarlo, promuoverlo e sfruttarlo. Naturalmente, altri lo hanno visto, ma poi non ne hanno tenuto conto più di tanto. IL SELF-RIGHTING COME FATTORE TERAPEUTICO COMUNE La rassegna della letteratura psicoanalitica che abbiamo premesso ci fa pensare che ciò che abbiamo denominato self-righting possa manifestarsi, oltre che come spinta verso la guarigione e lo sviluppo ottimale (che si manifesta anche nel sogno), anche in modi indiretti che interessano la terapia, come stimolando la domanda di cura, facilitando l’instaurarsi dell’alleanza terapeutica, innescando la speranza di guarigione, promuovendo il legame di attaccamento con il terapeuta, instaurando i diversi transfert di oggetto-Sé, abbandonandosi nella relazione con l’altro, sottoponendo ripetutamente a test il terapeuta per disconfermare le proprie credenze patogene, favorendo il verificarsi di enactment finalizzati al cambiamento e anche cercando di curare il proprio analista. Naturalmente, si pongono molti interrogativi. Il primo riguarda il fatto se si possa veramente trasporre questo concetto dalla biologia alla psicologia, dove la tendenza al self-righting è meno evidente e il problema appare più complesso. Qui, infatti, la tendenza alla guarigione contrasta con quella che appare una tendenza alla stabilità: noi tendiamo a mantenere i principi organizzatori della nostra mente, anche se disfunzionali, in quanto legati all’identità personale e, in certi casi, in quanto l’abbandono di quei principi, nati da uno sforzo adattivo del Sé per mantenere i legami indispensabili, comporta la paura di restare soli (in analisi siamo continuamente confrontati con la “paura di non ripetere” (45), che si manifesta quando si affaccia il cambiamento). Inoltre non è chiaro cosa si possa intendere per “sviluppo ottimale del Sé”. Se la psicologia dell’età evolutiva è in grado di indicare alcune progressive acquisizioni dello sviluppo normale del sé (ad esempio il raggiungimento della capacità di “mentalizzare” (46) è una di queste), nell’età adulta quando è che un individuo ha raggiunto il proprio sviluppo ottimale? Kohut (39) parlava di un progetto interno che ognuno cerca di perseguire, derivato dall’interazione tra i talenti individuali e le esperienze di relazione con gli altri, ma potremmo chiederci se questo processo si concluda mai. Possiamo dire due cose. Intanto l’autoguarigione ha dei limiti anche in medicina, dove la diamo per scontata, ma dove tanto per cominciare dovremmo distinguere tra malattie acute e croniche. Inoltre, è evidente che il concetto di self-righting in psicoanalisi è dipendente dalla teoria evolutiva che si assume. Ad esempio, in una visione come quella di Kohut, che presuppone un progetto vitale che l’individuo cerca di perseguire lungo tutto il corso della vita, il self-righting appare come uno sforzo continuo per riparare il danno evolutivo, utilizzando i transfert di oggetto-Sé, e realizzare il proprio progetto, avendo come riscontro il senso di realizzazione che l’individuo prova. In una visione come quella di Stolorow et al. (o come la teoria dell’attaccamento), in cui i principi organizzatori dello psichismo si costituiscono in modo adattivo sulla base delle prime interazioni, il self-righting si esprime in una tensione dialettica tra la tendenza omeostatica a ripetere per conservare l’identità, sia pure negativa, condivisa con i genitori e la tendenza a creare nuovi principi organizzatori più funzionali sulla base delle nuove esperienze (così si spiegano paradossi come il chiedere aiuto perché nulla cambi o le angosce di fronte al cambiamento). Altri interrogativi riguardano i limiti del self-righting. Lichtenberg si chiede fino a quale età il recupero di un deficit sia possibile, e per quali deficit, altri (47) hanno distinto tra esperienze mancate e esperienze distorte e molte altre distinzioni si potrebbero fare. Sembra però che il recupero avvenga solo entro certi limiti, anche se ci piacerebbe credere che una certa possibilità di cambiamento resti aperta per tutto il corso della vita. Le domande potrebbero continuare. A noi sembra però importante mettere in evidenza il fatto che credere nell’esistenza di una tendenza innata del paziente ad autocurarsi e a guarire ha degli effetti positivi sulla terapia. In particolare, ciò promuove la speranza, favorendo le aspettative positive di guarigione da parte Rivista di psichiatria, 2003, 38, 3 112 Fattori terapeutici specifici e comuni in psicoanalisi: il self-righting dell’analista e del paziente, facilita l’alleanza terapeutica, e, valorizzando l’apporto del paziente, gli fornisce importanti esperienze di conferma e di efficacia. Ma vorremmo venire ora all’ultimo punto del nostro discorso, esaminando il self-righting rispetto al problema dei fattori terapeutici specifici e aspecifici, o come preferiamo denominare questi ultimi, seguendo Critelli e Neumann (48), fattori comuni. Intendiamo per fattori terapeutici specifici quei fattori che contribuiscono al cambiamento terapeutico e che sono correlati ad un modello terapeutico specifico e alle strategie derivate da tale modello (Grünbaum (49) li denomina costituenti caratteristici di un dato trattamento), mentre intendiamo per fattori comuni quei determinanti terapeutici che sono comuni a molte o a tutte le tecniche di intervento, indipendentemente dal fatto che siano teorizzati come fattori terapeutici specifici da un particolare modello terapeutico. Ad esempio, l’empatia è un fattore comune a tutti i trattamenti, perché tutti in certo modo ne sfruttano l’azione terapeutica, ma per la psicoanalisi di ispirazione post-kohutiana si tratta di un fattore terapeutico specifico. Il self-righting, in quanto fattore terapeutico intrinseco, sfruttato da sempre in tutti i trattamenti psicoterapeutici, appare come un fattore terapeutico comune, forse il più potente che esista. Potremmo chiederci in che rapporto vada visto il self-righting rispetto ad altri fattori terapeutici comuni, relativi al paziente, primo tra tutti la speranza di guarigione, che sono apparsi positivamente correlati al successo della psicoterapia, indipendentemente dal suo indirizzo teorico. Noi riteniamo che si tratti di aspetti diversi della stessa tendenza a guarire. Abbiamo detto che un’analoga tendenza, nota come vis medicatrix naturae, è riconosciuta dalla medicina ed è sfruttata in tutti i trattamenti medici. Possiamo ipotizzare che la tendenza all’autoguarigione che appare in psicoterapia e quella che appare in medicina siano due aspetti di una medesima tendenza più generale che si manifesta in tutte le guarigioni, compreso l’effetto placebo e le guarigioni spontanee. Potremmo interrogarci sui meccanismi psicobiologici attraverso cui l’autoguarigione si manifesta. Qui possono venirci in aiuto le ricerche sull’effetto placebo. Infatti, in questa situazione clinica i meccanismi d’azione dei fattori terapeutici comuni possono essere più facilmente indagati sperimentalmente, soprattutto a livello biologico. Ad esempio, sappiamo che in questi meccanismi sono implicati i sistemi oppioidi e probabilmente anche il sistema dopaminergico e quello cortico-surrenale, ma molto resta ancora da capire (50). Va inoltre ricordato che, se l’effetto placebo sfrutta i meccanismi dell’autoguarigione, in assenza di un trattamento specifico, il placebo è però qualcosa di più rispetto all’autoguarigione, e cioè un intervento terapeutico vero e proprio, per cui i suoi meccanismi d’azione possono in parte differire. Un problema affascinante è quello di cercare di comprendere la natura di questa tendenza più generale all’autoguarigione da noi postulata, che si manifesta come vis medicatrix naturae e come self-righting. Potrebbe trattarsi di una tendenza propria dell’essere vivente, teorizzata nei concetti di omeostasi e di canalizzazione, a ristabilire l’equilibrio alterato (e ad autoregolarsi) e a portare avanti il proprio sviluppo fino al suo compimento, autocorreggendone le distorsioni. Questa tendenza all’autoguarigione, fondamentale ai fini della sopravvivenza, sarebbe stata selezionata attraverso l’evoluzione (sopravvive di più e si riproduce di più chi è in grado di autocurarsi e chi ha raggiunto la pienezza del proprio sviluppo). Per quanto innata, essa potrebbe essere influenzata dalle esperienze vissute in una fase precoce, proprio come la canalizzazione risulta da un’interazione con l’ambiente. Potremmo pensare che soprattutto la tendenza al self-righting possa essere influenzata dalle prime relazioni con le figure di attaccamento (mentre l’influenza dell’ambiente sulla vis medicatrix naturae è certamente minore). Ciò aiuterebbe a spiegare i casi in cui essa appare alterata. Essa appare infatti indebolita o assente in alcune condizioni estreme, che non a caso destano in noi un profondo turbamento, come certi stati psicotici o alcune condizioni mediche che la medicina riesce difficilmente a spiegare, in cui la capacità di recupero dell’organismo sembra perduta o compromessa. FATTORI TERAPEUTICI SPECIFICI E COMUNI IN PSICOANALISI Vogliamo ora chiederci in che rapporto sia il fattore comune che abbiamo denominato self-righting con i fattori terapeutici specifici teorizzati dai vari trattamenti e dalla psicoanalisi in particolare; poi, nell’ambito della psicoanalisi, quali siano le teorie che meglio consentono di innescare e sfruttare questo potente fattore terapeutico intrinseco. Ci sembra che lo scopo di tutti i trattamenti specifici, medici e psicologici, sia in fondo sempre quello di attivare questo fattore terapeutico interno, comune, che mira a ripristinare l’equilibrio alterato e a completare lo sviluppo, utilizzando metodi diversificati, medici e psicologici (esso appare infatti influenzabile attraverso entrambe queste vie). Rivista di psichiatria, 2003, 38, 3 113 Pancheri L, et al Qual è la specificità della terapia analitica in questo processo? Sappiamo che è difficile individuare oggi una specificità della psicoanalisi, e forse ha ragione Bordi (51) quando afferma che questa si può ritrovare sopratutto nella profondità dell’incontro esistenziale, che la psicoanalisi consente, in cui si affrontano insieme i grandi temi dell’esistenza. Ci sembra però di poter dire che la psicoanalisi che si riconosce nei nuovi modelli relazionali offre oggi le teorie migliori almeno per comprendere, se non anche per innescare, il cambiamento terapeutico visto nell’ottica che stiamo proponendo. La considerazione della centralità del self-righting come fattore terapeutico conduce a valorizzare maggiormente alcune teorie elaborate dalla psicoanalisi rispetto ad altre. Se il trattamento mira ad attivare le forze di guarigione interne all’individuo, l’analista si pone come colui che attiva e promuove un processo interno di cambiamento, rimuovendone gli ostacoli. Da questo punto di vista appaiono particolarmente rilevanti teorizzazioni come quella relativa alla base sicura di Bowlby, la teoria dell’oggetto-Sé di Kohut, ma sopratutto tutte le teorizzazioni dell’empatia come fattore che favorisce la crescita e il cambiamento, elaborate a partire da Kohut fino a Lichtenberg (52). In Kohut (53) appare l’idea che l’empatia abbia un effetto benefico nella situazione analitica e nella vita in genere, ma, forse per paura che la psicoanalisi potesse confondersi con qualcosa di poco scientifico, prevale nei suoi scritti la tesi che il cambiamento avvenga attraverso altri meccanismi. Sono stati i suoi successori a sviluppare il concetto di empatia come fattore terapeutico, soprattutto approfondendo l’aspetto dell’empatia come responsività dell’analista. Terman (54) afferma chiaramente che l’elemento curativo centrale non è costituito dalle frustrazioni ottimali, ma dal legame empatico. Bacal (55) concettualizza la funzione terapeutica dell’analista col termine di responsività ottimale, intendendo con questo termine l’esperienza dell’analista che risponde con modalità che facilitano il rafforzamento, la crescita e la vitalità del Sé. Infine, Lichtenberg (10), utilizzando l’analogia dei processi di sviluppo del bambino per capire cosa promuove un’esperienza curativa, afferma che l’empatia è il motore del self-righting nella terapia, come nello sviluppo normale. Conferme empiriche a sostegno di questa visione vengono da ricerche che hanno correlato l’empatia del terapeuta con il successo della psicoterapia e anche di trattamenti medici (50) e sono state portate anche da quegli autori che hanno studiato lo sviluppo come proprietà del sistema di regolazione reciproca madre-bam- bino, come Stern (56, 57) e altri esponenti dell’Infant Research (41, 10, 58, 59). Sul piano biologico l’esperienza di relazioni empatiche è apparsa correlata allo sviluppo cerebrale del bambino (60) e ad una normalizzazione della funzione serotoninergica cerebrale (61). Anche altre teorizzazioni psicoanalitiche recenti, che cercano di individuare i fattori curativi all’interno dell’interazione terapeutica, aiutano a capire cosa può innescare e favorire ciò che abbiamo chiamato selfrigthing. I fattori evidenziati sono in genere fattori comuni a diversi trattamenti, che però la psicoanalisi dei nuovi modelli relazionali oggi teorizza come suoi fattori terapeutici specifici, come la regolazione affettiva o anche l’esperienza di comunicazione autentica, che tende a ripristinare una condizione naturale di partenza che spesso il paziente ha perduto (all’inizio il bambino è spontaneo) (62). Sul piano tecnico le indicazioni per promuovere il self-righting derivano dalle teorizzazioni contenute nelle opere degli autori che abbiamo citato, note a tutti. In quest’ottica il trattamento si individualizza sempre di più, sia nel senso di prendere seriamente in considerazione la modalità di cura che il paziente più o meno consapevolmente propone (in fondo alla base della nascita della psicoanalisi c’è stata la capacità di Breuer di seguire la sua paziente Anna O. nella scoperta del metodo terapeutico che lei genialmente proponeva), sia nel senso di favorire l’emersione, nell’attualità dell’interazione analitica, in cui i due partner sono così profondamente coinvolti, di soluzioni imprevedibili e originali alle impasse che continuamente si propongono (25, 63, 64). Pensiamo al paziente di Kohut che al primo incontro propose all’analista di pagare la terapia solo dopo alcuni mesi (31). Kohut accettò empaticamente, pensando che in seguito avrebbe capito il perché di questa richiesta. Durante la terapia emerse che il paziente aveva avuto bisogno di sperimentare un rapporto in cui l’altro accettava le sue esigenze, senza che fosse sempre lui a doversi conformare ai bisogni dell’altro. Più banalmente pensiamo a una situazione che si propone frequentemente nei primi incontri col paziente, come il rifiuto del paziente ad accettare più sedute alla settimana. Spesso l’opposizione è motivata da ragioni economiche, ma noi sentiamo che non si tratta solo di questo: forse il paziente ha bisogno nella fase iniziale di regolare la distanza dall’analista. Il paziente è il nostro miglior coterapeuta, come affermano tanti autori, da Winnicott, a Bowlby, a Bion. Naturalmente questo non significa fare ingenuamente quello che il paziente esplicitamente chiede. Qui la teorizzazione di Weiss e Sampson (42) può essere importante per capire il test che il paziente ci pone e per Rivista di psichiatria, 2003, 38, 3 114 Fattori terapeutici specifici e comuni in psicoanalisi: il self-righting comportarci in modo da favorire il cambiamento. Sappiamo che a volte, per superare il test che il paziente pone, il terapeuta deve fare il contrario di quel che il paziente chiede. L’elenco delle teorie psicoanalitiche che ci sembrano più utili per innescare e promuovere il self-righting potrebbe continuare, ma vorremmo concludere ricordando i punti principali del nostro discorso: - L’idea di una tendenza dell’individuo all’autocura e all’autoguarigione si è affacciata più volte nel pensiero psicoanalitico, a cominciare da Freud, ma è stata messa in ombra dalla concezione opposta, prevalente nell’ultimo Freud, secondo cui esistono delle forze innate che operano contro la guarigione. - Eppure, come in medicina diamo per scontato che esista una vis medicatrix naturae, che interviene in tutte le guarigioni, è ipotizzabile anche in psicologia l’esistenza di una tendenza innata dell’individuo al recupero, entro certi limiti, dell’equilibrio psicologico alterato e al raggiungimento del proprio sviluppo ottimale, correggendone le distorsioni, tendenza che abbiamo indicato con il termine self-righting e che oggi viene sempre più riconosciuta in psicoanalisi. Le prove di ciò si troverebbero nell’universalità della spinta verso la guarigione e lo sviluppo del sé, ma anche nel costante riproporsi di fenomeni come il transfert e gli altri che abbiamo indicato. - Questa visione secondo noi comporta delle ripercussioni positive sul processo psicoanalitico in quanto promuove la speranza, favorisce l’alleanza terapeutica e, valorizzando l’apporto del paziente, gli fornisce importanti esperienze di conferma. - In quest’ottica il compito dei fattori specifici, in psicoanalisi come nelle altre terapie (comprese quelle mediche) è essenzialmente quello di innescare la capacità di cura e guarigione interna dell’individuo, utilizzando modalità specifiche di intervento. In questo modo viene a crearsi un diverso rapporto tra fattori terapeutici specifici e fattori terapeutici comuni, che in passato venivano contrapposti e ora appaiono lavorare in sinergia, potenziandosi a vicenda. - La psicoanalisi che si riconosce nei nuovi modelli relazionali dispone a nostro avviso delle migliori teorie, rispetto alle altre psicoterapie, per spiegare e anche per favorire il cambiamento terapeutico visto in quest’ottica. Questo implica il fatto di riappropriarsi fino in fondo di teorie come quelle di Bowlby o di Weiss e Sampson, che, pur essendo state formulate da psicoanalisti, sono state, almeno inizialmente, maggiormente valorizzate in altri ambiti, come quello cognitivista, più aperto alle idee nuove e ai risultati della ricerca empirica. RINGRAZIAMENTI Ringraziamo Giuseppe Moccia per le critiche costruttive a questo lavoro. BIBLIOGRAFIA 1. Bowlby J: (1988), Una base sicura. Cortina, Milano, 1989. 2. Cannon WB: Organization for psychological homeostasis. 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