Analitici e continentali. La filosofia fa progressi (Michael

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27 luglio 1997
Nel suo recente Analitici e continentali (1997 Milano Cortina) Franca D'Agostini cita una ragionevolissima
osservazione di Bernard Williams sulla stranezza dell'opposizione filosofi analitici-filosofi continentali. Una
tradizione di pensiero viene contrapposta a un'espressione geografica. Ma in che cosa consiste in realtà la
distinzione? Si potrebbe dire che la sua eventuale validità dipende dalla risposta alla domanda: la filosofia è
una branca della letteratura o della scienza? I continentali dovrebbero rispondere che è una branca della
letteratura, gli analitici che è una branca della scienza. Questa è forse la prima differenza che salta all'occhio.
È vero infatti che per alcuni filosofi analitici (negli Usa forse per tutti) la filosofia è contigua alla scienza o ne è
una branca, nel senso in cui la matematica lo è della logica secondo la scuola di filosofia della matematica
fondata da Gottlob Frege. Qui il termine "scienza" va inteso nel senso limitato di "scienza naturale" che fisici e
biologi usano per distinguersi dai non-scienziati, cioè da coloro che non condividono ciò che essi
concepiscono come l'unico approccio razionale. Quine è convinto che sia valida solo quella filosofia che
contribuisce all'avanzamento generale dell'impresa scientifica; i due Churchland vedono la neurofilosofia
come una parente stretta della neurofisiologia, ecc.
Tuttavia, questo atteggiamento diverge nettamente da quello della maggioranza dei filosofi analitici.
Wittgenstein ha sempre insistito, in ogni fase del suo pensiero, sulla assoluta diversità delle ricerche
filosofiche, e dei loro metodi d'indagine, rispetto a quelle scientifiche, e la maggior parte dei filosofi analitici
contemporanei sarebbero d'accordo con lui. Questo vuol dire che vedono la filosofia come una branca della
letteratura?
La domanda se la filosofia sia una branca della letteratura o della scienza può essere confrontata con una
questione identica riguardo alla storia. La risposta, in questo caso, è semplice. La storia non è una branca
della scienza, intesa in senso stretto. Tuttavia non è neppure una branca della letteratura, come la poesia o il
romanzo. Un buon testo di storia è sicuramente un contributo alla letteratura.
Ma i libri di storia vanno valutati anche per le loro qualità non letterarie. Testi privi di meriti letterari possono
costituire dei validi contributi agli studi storici: possono portare alla luce nuovi fatti, proporne spiegazioni
inedite, offrire nuove interpretazioni di interi periodi, anche se sono scritti in modo poco elegante. La storia
non è una branca della scienza naturale. È però, come la scienza naturale, parte integrante della ricerca della
verità. Per questo uno storico può ritenere sensato il lavoro di una vita anche se è lontanissimo dall'essere un
grande storico. Non è così nelle arti. Una vita dedicata alla poesia, alla pittura o alla musica ha senso solo se,
almeno occasionalmente, ci si avvicina alla grandezza.
Altrimenti sorge il sospetto che sarebbe stato meglio spenderla altrimenti. Chi passa la vita a produrre poesie,
quadri o musiche senza infamia né lode potrà ricavarne qualche effimero piacere, ma non avrà arricchito
l'umanità in maniera significativa.
Alle arti manca sia l'aspetto cumulativo che quello cooperativo. Per quanto possa essere influenzato da altri o
influenzare altri, ogni artista agisce come individuo, e i suoi lavori sono individuali. Al contrario, le scienze,
intese in senso lato come parti della ricerca della verità, sono sia cumulative sia cooperative. Esse
progrediscono grazie agli sforzi congiunti di tutti coloro che le praticano. Per questo una vita dedicata a una
scienza (qualunque essa sia) ha senso, qualunque sia il contributo al l'avanzamento della materia, che non
necessariamente deve essere fondamentale. Lo stesso vale per una vita dedicata alla storia. E per una vita
dedicata alla filosofia. La filosofia è, dunque, in senso lato, una scienza, e non un'arte. È una parte della
ricerca della verità.
È facile prendersi gioco di questa affermazione. Quali sarebbero queste grandi verità scoperte dalla filosofia?
Quali le scoperte che tutti i filosofi potrebbero condividere? Si può forse scrivere un testo elementare di
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filosofia composto solo di quelle proposizioni che tutti i filosofi potrebbero sottoscrivere?
Franca D'Agostini riprende da Kevin Mulligan un metodo sicuro per capire a quale dei due campi, analitico o
continentale, appartiene un filosofo. Chiedetegli a che cosa sta lavorando: se risponde con un problema (il
libero arbitrio, il concetto di verità, ecc.) è un filosofo analitico; se risponde con una persona (Hegel, Husserl,
Marx, Freud, ecc.) è un filosofo continentale. Quest'ultima risposta fa somigliare la filosofia alla critica
letteraria e confonde la distinzione tra filosofia e storia della filosofia.
Resta però il fatto che la filosofia è diversa dalle scienze naturali e dalla matematica proprio perché studiare i
lavori del passato è essenziale. Si può innovare la filosofia studiando Aristotele o Kant; difficilmente si
avranno nuove idee in fisica studiando Galileo. Questo perché il lavoro del filosofo, diversamente da quello
del fisico e del matematico, da un lato non è mai definitivo, né può sottrarsi a nuove critiche che l'autore non
aveva immaginato, e dall'altro non può neppure essere assimilato completamente da coloro che lo
studieranno. Nuove interpretazioni riveleranno sempre nuove penetranti intuizioni che prima non erano
state pensate. Questa è la natura dell'argomento: per quanto un filosofo si sforzi di esprimersi in modo
preciso, in maniera da permettere di estrapolare dai suoi testi solo proposizioni specifiche e circoscritte, non
riuscirà mai a raggiungere questo obiettivo. Ma concludere che l'unico compito del filosofo è studiare i testi
del passato significa decidere che la filosofia è morta. Studiare i testi degli alchimisti da un punto di vista
storico è l'unica cosa che si può fare perché l'alchimia è morta.
La filosofia, invece, non è morta. Ed è significativo che essa continui ad essere mantenuta, grazie ai fondi
dello Stato, in quasi tutte le università. È una materia autentica? Se lo è, qual è il suo oggetto specifico? Una
domanda simile può riguardare anche la matematica: di che cosa esattamente si occupa? I risultati della
matematica sono troppo evidenti a chiunque perché se ne possa mettere in discussione il diritto di esistere e
di essere sostenuta finanziariamente dallo Stato. I risultati della filosofia invece sono difficili da definire.
Nella sua storia, molte discipline scientifiche sono sbocciate dalla sua pianta. Prima la fisica e le altre scienze
naturali, un tempo conosciute come "filosofia naturale"; poi la logica matematica, la psicologia sperimentale,
la linguistica e anche la computer science. Ma come mai il ceppo non-scientifico sopravvive e continua a
fiorire? Sopravvive perché il nucleo dei problemi filosofici - cui si aggiungono nuovi problemi posti dalle
scienze (l'interpretazione della meccanica quantistica, per esempio) - resta irrisolto. C'è un interesse
pressante perché quei problemi vengano risolti, ed è naturale che l'interesse per la loro soluzione sia
pressante. Tratteggiare il contrasto tra la filosofia e le scienze alla maniera di Wittgenstein, che sostenne che
le proposizioni filosofiche non esistono, è esagerato. Le proposizioni filosofiche esistono eccome; lo scopo
della filosofia però non è quello di accrescere la nostra conoscenza, ma di intensificare la nostra
comprensione. Noi esseri umani non abbiamo una visione chiara dei concetti che usiamo e dei contenuti delle
proposizioni di cui siamo soddisfatti di aver stabilito la verità.
Siamo come soldati in un campo di battaglia, consapevoli di quanto accade intorno a noi quel tanto che basta
per decidere che cosa fare, ma senza una visione generale di quello che sta succedendo. Noi afferriamo i
concetti di uso comune per quel che ci servono nei contesti quotidiani, includendo tra questi - se siamo degli
scienziati - i laboratori; ma non siamo in grado di apprendere la loro collocazione complessiva nella nostra
concezione della realtà.
La filosofia cerca di metterci in grado di avere una visione chiara e di dominarla: non di sapere di più, ma di
comprendere più profondamente ciò che già sappiamo. Nella misura in cui fa questo è parte nella ricerca
della verità. Senza questa comprensione, noi possiamo scegliere tra l'astensione completa dalla riflessione e il
tuffarci nella perplessità e nell'incertezza: un'incertezza dalla quale desideriamo liberarci. Il filosofo cerca
questa liberazione, per sé e per tutti coloro che può convincere con i suoi argomenti volti a interpretare i
nostri concetti e il linguaggio in cui li esprimiamo.
In termini di risultati incontestabili, la filosofia accumula ben poco. Comunque progredisce. Anche se non con
la stessa intensità delle scienze naturali o della storia è anch'essa in qualche misura cumulativa. I filosofi
cercano le soluzioni dei loro problemi attraversando sentieri tortuosi. Il fatto che, a un certo punto lungo il
sentiero, il filosofo si diriga in una certa direzione è una prova molto modesta che la soluzione definitiva si
troverà proprio da quella parte; ma seguendo il sentiero egli è comunque più vicino alla soluzione. Filosofi
diversi prendono diversi sentieri per risolvere lo stesso problema: il fatto che, a un certo punto, due filosofi
procedano in direzioni divergenti non dimostra però che u
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ulteriore tratto lungo il sentiero non li guiderà verso la stessa soluzione. Per quanto grande possa essere il
loro disaccordo, le loro intuizioni gradualmente contribuiranno alla soluzione dei problemi con i quali si
stanno cimentando: come il cielo si illumina lentamente prima dell'alba, così la comprensione che essi
cercano si propagherà gradualmente molto prima che una formulazione netta e universalmente accettata sia
possibile. La filosofia fa progressi, e i suoi progressi sono una conquista per tutti. poiché fa progressi, e poiché
i suoi progressi sono il frutto di sforzi collettivi, non è diversa da ogni altra ricerca della verità. Una vita
dedicata alla filosofia ha senso anche se contribuisce al progresso filosofico in una misura molto bassa.
Ma allora la filosofia è interpretazione o è analisi? Dipende da che cosa i filosofi si propongono di interpretare
e che cosa vogliono analizzare. Chiunque studi la storia della filosofia non può non sapere che i filosofi di cui
si occupa erano impegnati a risolvere problemi: problemi che ci riguardano tutti come esseri umani e
problemi nati dalle loro stesse riflessioni. Supporre che lo studio della filosofia possa non solo essere assistito
dalla storia della filosofia, ma ridotto ad esso significa presumere che i problemi che i filosofi hanno cercato di
risolvere o non erano affatto problemi - ma meri Scheinprobleme - oppure che per loro natura essi sono
insolubili. In entrambi i casi questo significa dare la filosofia per morta. Anche la sua storia così diventa molto
meno interessante, visto che i filosofi sarebbero impegnati in un compito illusorio e intrinsecamente
inconcludente. Ma il loro lavoro può essere davvero considerato inconcludente? Nessuno che si cimenti con
un problema filosofico può ammetterlo. Anche se sa di essere lontano dalla soluzione, e che anche i suoi
contemporanei lo sono, egli deve credere, se pensa che il suo lavoro abbia un valore, di aver fatto qualche
piccolo passo nella direzione giusta. Non può supporre che la soluzione sia ancora infinitamente lontana;
deve presumere, in linea di principio, di poterci arrivare, e sperare un giorno di farcela. I problemi filosofici
sono molto difficili, ma il lento e controverso progresso della filosofia non ci dà nessuna ragione per supporre
che gli esseri umani, che hanno risolto o si avviano alla soluzione di molti problemi di enorme difficoltà, non
siano capaci alla fine di risolvere anche i problemi con cui si cimentano i filosofi.
L'immagine della filosofia presentata qui non è, di per sé, peculiare della tradizione analitica piuttosto che di
altre scuole. Di fatto si oppone a due moderne - o post-moderne - linee di pensiero: il relativismo e il
decostruzionismo. Il relativista nega che ci sia una cosa come la verità, nel senso di una verità incondizionata.
Non esiste qualcosa di vero incondizionatamente, ma solo in relazione a specifici gruppi di persone in
particolari periodi di tempo. Se non c'è la verità, allora non c'è neppure la ricerca della verità: ci sarà solo una
ricerca su ciò che passa per vero nelle menti di gruppi omogenei di individui. Ma chiunque creda
sinceramente che le cose stiano così impedisce a se stesso di avere qualunque convinzione o credenza,
compresa la credenza secondo cui non ci sono verità assolute. Credere in qualcosa, infatti, significa credere
che quella cosa sia vera.
Un decostruzionista può schivare la questione dell'esistenza della verità assoluta sostenendo che l'oggettività
è un ideale irrealizzabile. Anche se esistesse una verità incondizionata sarebbe inutile aspirare a raggiungerla,
perché nessuno può liberarsi del tutto dai propri condizionamenti culturali e sociali. Questo è vero. Non ne
segue però che, quando ci accingiamo ad affrontare un problema specifico, non possiamo darne una soluzione
indipendente dalla prospettiva particolare da cui partiamo. La stessa natura pubblica della ricerca dovrebbe
compensare gli effetti di quei condizionamenti. Noi non siamo condannati a comunicare solo con chi
appartiene al nostro circolo culturale. Tutti gli esseri umani possono comunicare gli uni con gli altri, ed è per
questo che la traduzione tra le diverse lingue è possibile.
Tra i filosofi post-moderni di questi due tipi e coloro che invece credono che la filosofia sia ancora un campo
vitale per la ricerca della verità, e che questa ricerca non sia vana, non ci può essere uno scambio molto
fruttuoso, e tantomeno cooperazione. Ma tra coloro che si sono formati nella tradizione analitica e coloro che
si sono formati nelle diverse tradizioni che formano il vasto conglomerato della filosofia "continentale" non
dovrebbe sussistere questa barriera di incomprensione. In passato, questa barriera c'è stata.
Ciò che storicamente distingueva la filosofia analitica da altre scuole era la convinzione che lo studio filosofico
del linguaggio fosse l'unica via per la chiarificazione del pensiero. Franca D'Agostini osserva che c'è stata una
"svolta linguistica" anche nella filosofia continentale, soprattutto con Heidegger: ma è stata di un genere ben
diverso. ciò che soprattutto distingueva l'approccio analitico al linguaggio era il fatto di disporre di una
sistematica (anche se embrionale) teoria semantica, l'eredità di Frege. Oggi questa barriera è caduta. Un
gruppo influente di filosofi cresciuti alla scuola analitica, come Gareth Evans e Christopher Peacocke, ha
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abbandonato la filosofia del linguaggio, considerata la base dell'intera filosofia, per una filosofia del pensiero:
un'analisi sistematica del pensiero umano trattata indipendentemente dalla sua espressione linguistica, una
teoria del contenuto che rimpiazza la teoria semantica del linguaggio. Ma l'eredità di Frege non può essere
messa da parte, perché le due teorie possono essere quasi isomorfe. Personalmente non condivido le idee di
questo gruppo, e resto fedele al principio originario della filosofia analitica, ma la loro esistenza rimuove ciò
che ancora restava della barriera intellettuale tra analitici e continentali. La barriera che sopravvive è invece
quella dell'ignoranza dei lavori degli uni rispetto a quelli degli altri. Il libro di Franca D'Agostini è benvenuto
per il suo contributo a superare questa ignoranza.
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