Innanzitutto “percepiamo sensibilmente” l’altro. Tuttavia “tutto ciò non serve a
riconoscere o a determinare l’altro soggetto; soltanto a me fa bene o non fa bene che egli
sia qui e che io lo veda e oda”, questa percezione sensibile “lascia per così dire fuori lui
stesso”.
Diverso è il caso in cui la “percezione sensibile” diventa “il mezzo per riconoscere
l’altro”. È questa un’operazione che presuppone qualcosa d’altro dalla semplice
percezione sensibile. Posso pervenire all’altro tramite i sensi come un “mio oggetto”, ma
nello stesso tempo i sensi ci consentono di conoscere, ad esempio tramite la sua voce,
ciò che egli dice, di conoscere il suo “pensiero” e, dunque, il suo “essere psichico”.
Questi mi “conducono dentro al soggetto in quanto suo stato d’animo e sentimento, e
conducono fuori all’oggetto in quanto conoscenza di esso”. Rispetto agli oggetti, precisa
Simmel, “questi due aspetti sono di solito nettamente separati”; invece, per quanto
riguarda l’uomo, sono strettamente intrecciati e “costituiscono… il nostro rapporto con
lui”.
EXCURSUS SULLA SOCIOLOGIA DEI SENSI
II fatto che in generale percepiamo sensibilmente il nostro prossimo si
sviluppa in due direzioni, la cui cooperazione riveste un'importanza sociologica fondamentale. Agendo sul soggetto l'impressione sensibile di una persona
sprigiona in noi sentimenti di piacere e di dispiacere, di un incremento e
abbassamento, di eccitazione e acquietamento, per effetto della sua vista o del
tono della sua voce, della sua semplice presenza sensibile nel medesimo spazio.
Tutto ciò non serve a riconoscere o a determinare l'altro soggetto; soltanto a
me fa bene o non fa bene che egli sia qui e che io lo veda e oda. Questa
reazione del sentimento alla sua immagine sensibile lascia per così dire fuori
lui stesso. Lo sviluppo dell'impressione sensibile si estende nella dimensione
opposta non appena essa diventa il mezzo per riconoscere l'altro: ciò che io
vedo, odo, sento di lui è ora soltanto il ponte per il quale pervengo a lui come
a un mio oggetto. Il suono della voce e il suo significato costituiscono forse
l'esempio più chiaro. Come la voce di un uomo agisce su di noi in senso
immediatamente attrattivo o repulsivo, indipendentemente da ciò che egli
dice; come d'altra parte ciò che egli dice ci aiuta a conoscere non soltanto il
suo pensiero momentaneo, ma il suo essere psichico – così avviene con tutte
le impressioni sensibili: esse conducono dentro al soggetto in quanto suo stato
d'animo e sentimento, e conducono fuori all'oggetto in quanto conoscenza di
esso. Rispetto agli oggetti non umani questi due aspetti sono di solito
nettamente separati. Nella loro presenza sensibile noi sottolineiamo il loro
valore soggettivo - sentiamo il profumo della rosa, l'amabilità di un suono,
l'incanto dei rami che si piegano al vento come una felicità che si esprime
all'interno dell'anima; oppure vogliamo conoscere la rosa o il suono o l'albero
- e allora impieghiamo a tale scopo energie completamente diverse, spesso
distogliendoci consapevolmente da tutto quello. Gli elementi che qui si
scambiano l'uno con l'altro, relativamente privi di connessione, nei confronti
dell'uomo sono per lo più intessuti in un'unità. Le nostre impressioni sensibili
di lui fanno sì che da un lato il loro valore affettivo, dall'altro la loro
utilizzazione per una conoscenza istintiva o cercata divengano il fondamento
della nostra relazione con lui, agendo insieme e praticamente in maniera
inestricabile. Naturalmente l'uno e l'altro aspetto - il timbro della voce e il
contenuto di ciò che si dice, l'apparenza e la sua interpretazione psicologica,
l'elemento attraente o repellente della sua atmosfera e la conclusione istintiva
che ne traiamo sulla sua colorazione psichica e talvolta anche sul suo grado di
cultura - questi due sviluppi dell'espressione sensibile costruiscono, in una
misura e mescolanza molto diversa, il nostro rapporto con lui.
Tra i singoli organi di senso l'occhio è fatto per offrire una prestazione
sociologica assolutamente unica: la connessione e l'azione reciproca tra individui, che consiste nel guardarsi l’un l'altro. Forse questa è la relazione reciproca più immediata e più pura che esista in generale. Dove si tendono altrove fili
sociologici, essi di solito posseggono un contenuto oggettivo, producono una
forma oggettiva. Perfino la parola parlata e udita possiede un significato
oggettivo, che in ogni caso sarebbe ancora trasmissibile in altra maniera.
Invece l'azione reciproca estremamente viva, in cui il guardarsi negli occhi
intesse gli uomini, non si cristallizza in nessuna formazione oggettiva; l’unità
che questo atto pone in essere tra loro rimane risolta immediatamente nel accadere, nella funzione. E questo legame è così forte e fine che viene sorretto
soltanto dalla linea più breve, la linea retta tra gli occhi, e la minima
deviazione da questa, il più leggero guardare di fianco, distrugge del tutto
l'elemento caratteristico di tale legame. Qui non rimane nessuna traccia
oggettiva, come invece avviene, indirettamente o direttamente, in tutti i tipi
di relazioni tra gli uomini, perfino nelle parole scambiate. L'azione reciproca
muore nell'attimo in cui vien meno l'immediatezza della funzione; ma tutti i
rapporti tra gli uomini, il loro comprendersi e il loro respingersi, la loro
intimità e la loro freddezza sarebbero mutati in maniera incalcolabile se non
esistesse il guardarsi negli occhi - che, a differenza dal semplice vedere e
osservare l'altro soggetto, significa una relazione completamente nuova e
incomparabile tra di loro.
La prossimità di questa relazione è sorretta dal fatto singolare che lo
sguardo rivolto all'altro e che lo percepisce è esso stesso espressivo, e ciò
proprio per il modo in cui si guarda all'altro. Nello sguardo che assume in sé
l'altro si manifesta se stesso; con il medesimo atto con cui il soggetto cerca di
conoscere il suo oggetto, egli si offre qui all'oggetto. Non si può prendere con
l'occhio senza dare contemporaneamente: l'occhio svela all'altro l'anima che
cerca di svelarlo. Poiché ciò si attua evidentemente con l'immediato guardarsi
negli occhi, qui si produce la reciprocità più perfetta in tutto l'ambito delle
relazioni umane.
Soltanto in base a ciò è possibile comprendere pienamente perché la
vergogna ci fa guardare in terra, ci fa evitare lo sguardo dell'altro. Certamente
non soltanto perché così ci si risparmia di constatare almeno sensibilmente
che e in qual modo l'altro ci guarda in tale situazione penosa e imbarazzante:
il motivo più profondo è piuttosto che l'abbassarsi del mio sguardo toglie
all'altro qualcosa della possibilità di osservarmi. Lo sguardo nell'occhio dell'altro serve non soltanto a me per conoscere quest'altro, ma anche a lui per
conoscere me; sulla linea che congiunge i due occhi egli reca all'altro soggetto
la propria personalità, il proprio stato d'animo, il proprio impulso. La «politica dello struzzo» presenta sotto questo profilo immediatamente sociologicosensibile una reale conformità allo scopo: chi non guarda l'altro si sottrae
realmente, in certa misura, alla possibilità di essere guardato. L'uomo esiste
per l'altro non già quando quest'altro lo guarda, ma soltanto quando anch'egli
lo guarda.
. .
Ma l'importanza sociologica dell'occhio dipende in primissimo luogo
dal significato espressivo del v o 1 t o, che si offre tra uomo e uomo come il
primo oggetto dello sguardo. Raramente si ha chiaro in quale ambito anche
l'aspetto pratico delle nostre relazioni dipenda dalla conoscenza reciproca non
soltanto nel senso di tutto ciò che è esteriore, o delle intenzioni e dello stato
d'animo momentaneo dell'altro, ma nel senso che ciò che noi conosciamo
consapevolmente o istintivamente del suo essere, dei suoi fondamenti interiori, dell'invariabilità della sua natura colora inevitabilmente la nostra relazione
momentanea e la nostra relazione durevole con lui. Ma il viso è il luogo
geometrico di queste conoscenze, è il simbolo di tutto ciò che l'individuo ha
portato con sé come presupposto della sua vita; in esso è depositato ciò che
del suo passato è disceso nel fondamento della sua vita ed è diventato in lui
un insieme di tratti permanenti. Quando percepiamo il viso dell'uomo in
quanto significato, per quanto esso serva a scopi pratici, interviene nel
rapporto un elemento sovra-pratico: il viso fa sì che l'uomo venga compreso
già al suo apparire, senza aspettare il suo agire. Il viso, considerato come
organo espressivo, ha per così dire un'essenza del tutto teorica: esso non
agisce come la mano, come il piede, come tutto il corpo; esso non sostiene
l'atteggiamento interiore o pratico dell'uomo, ma racconta soltanto di
lui. La particolare specie di «conoscere» - sociologicamente ricca di conseguenze - che l'occhio media è determinata dal fatto che il volto è l'oggetto
essenziale del vedere inter-individuale. Questo conoscere è ancora qualcosa
di diverso dal riconoscere. In qualche misura, certamente assai variabile, al
primo sguardo che rivolgiamo a qualcuno noi sappiamo con chi abbiamo a
che fare. Se per lo più non siamo coscienti di questo fatto e del suo
significato fondamentale, ciò dipende dalla circostanza che noi rivolgiamo
subito la nostra attenzione, al di là di questa base di per sé ovvia, alla
riconoscibilità di tratti particolari, di contenuti singolari i quali determinano
in concreto il nostro atteggiamento pratico verso quell'uomo. Se però si
cerca di penetrare nella coscienza di questo fatto ovvio, si resterà meravigliati di quanto sappiamo di un uomo al primo sguardo che gli rivolgiamo. Non
è nulla di esprimibile con concetti, di scomponibile in qualità particolari;
forse non possiamo affatto dire se egli si presenta come intelligente o stupido amabile o malvagio, pieno di temperamento o sonnacchioso. Tutti questi
elementi, riconoscibili nel senso consueto, sono piuttosto qualità generali
che egli condivide con innumerevoli altri soggetti. Ciò che però quel primo
sguardo rivolto a lui ci fornisce non può assolutamente essere risolto e
monetizzato in termini concettuali e esprimibili - per quanto ciò rimanga
sempre la tonalità di tutte le conoscenze successive - ma è il cogliere in
modo immediato la sua individualità, qual è tradita al nostro sguardo dalla
sua apparenza, specialmente dal suo viso; e a questo scopo è irrilevante, in
linea di principio, che anche qui intervengano molti errori ed elementi
correggibili.
Se dunque il viso offre allo sguardo il simbolismo intuitivamente più
completo dell'interiorità permanente e di tutto ciò che le nostre esperienze
vissute hanno fatto depositare nel fondamento duraturo del nostro essere,
esso cede però contemporaneamente alle mutevoli situazioni del momento.
Nasce qui il fenomeno, del tutto eccezionale nell'ambito di ciò che è umano,
che l'essenza generale, sovra-singolare, dell'individuo si presenta sempre nella
colorazione particolare di uno stato d'animo, di qualcosa che lo riempie, di
un'impulsività momentanea, che ciò che è unitario e stabile e ciò che e
molteplice e fluente nella nostra anima diventano visibili come qualcosa di
assolutamente contemporaneo, per così dire l'uno sempre nella forma dell’altro. Questa è l'estrema antitesi sociologica tra occhio e orecchio: quest’ ultimo
ci offre soltanto la manifestazione dell'uomo confinata nella forma temporale
mentre quello ci offre anche l'aspetto durevole della sua essenza, il precipitato
del suo passato nella forma sostanziale dei suoi tratti, cosicché noi vediamo
dinanzi a noi per così dire la successione della sua vita in una contemporaneità. Infatti lo stato d'animo momentaneo, qual è comprovato naturalmente
anche dal viso, viene da noi ricavato in misura così essenziale dalla parola, che
nell'azione effettiva del senso della vista prevale di gran lunga il carattere di
durata della persona conosciuta per suo tramite.
Perciò lo stato d'animo sociologico del cieco è completamente diverso
da quello del sordo. Per il cieco l'altro soggetto esiste propriamente soltanto
nella successione, nella scena temporale delle sue manifestazioni. La contempo-
raneità irrequieta e inquietante di tutti i tratti essenziali, delle tracce di tutti
passati che appare diffusa nel viso degli uomini, sfugge al cieco e ciò può
essere il motivo dello stato d'animo pacifico e quieto, uniformemente amichevole verso 1’ ambiente, che viene così spesso osservato nei ciechi. Proprio la
pluralità di ciò che il viso p u ò rivelare lo rende spesso enigmatico; in generale
ciò che noi vediamo di un uomo viene interpretato per mezzo di ciò che
udiamo da lui, mentre il contrario è molto più raro. Perciò colui che vede
senza udire e molto più confuso, perplesso, inquieto di colui che ode senza
vedere. In questo fatto deve risiedere un elemento significativo per la sociologia della grande città. Il traffico che vi si svolge, confrontato con quello della
piccola città, mostra una preponderanza smisurata del vedere sull'udire gli
altri; e ciò non soltanto perché gli incontri per strada nella piccola città
riguardano una quota relativamente grande di conoscenti con i quali si
scambia una parola o la cui vista ci riproduce l'intera personalità, non solo
quella visibile, ma soprattutto per effetto dei mezzi di trasporto pubblici.
Prima dello sviluppo degli omnibus, delle ferrovie e delle tranvie nel secolo
XIX gli uomini non erano assolutamente nella situazione di potersi o doversi
guardare tra loro per minuti o per ore senza parlarsi. Il traffico moderno per
quanto riguarda la parte di gran lunga prevalente di tutte le relazioni sensibili
tra uomo e uomo, le affida in misura ancor sempre crescente al semplice senso
de la vista, e in tal modo deve porre i sentimenti sociologici generali su basi
del tutto mutate. La maggiore enigmaticità testé accennata dell'uomo che
viene soltanto visto rispetto a quello che viene udito contribuisce certamente
a causa dello spostamento che abbiamo menzionato, alla problematica del
moderno sentimento della vita, al senso di disorientamento nella vita collettiva, al senso di isolamento e di essere circondati da tutti i lati da porte chiuse.
Una compensazione sociologicamente assai conforme allo scopo a quella
differenza di prestazione dei sensi risiede nella capacità di ricordo molto più
forte per ciò che si è udito rispetto a ciò che si è visto - nonostante il fatto
che ciò che un uomo ha detto sia in quanto tale irrecuperabile, mentre egli
costituisce un oggetto relativamente stabile per l'occhio. Già per questo fatto
è molto più facile ingannare l'orecchio di un uomo che non il suo occhio, ed è
ovvio che da questa struttura dei nostri sensi e dei loro oggetti, nella misura in
cui il prossimo ne offra ad essi, sono sorretti tutti i rapporti umani- se al
nostro orecchio non sfuggissero immediatamente le parole udite che in
compenso esso ritiene nella forma della memoria, se al senso della vista ai cui
contenuti manca questa forza di riproduzione, non si offrisse la permanenza
del volto e del suo significato, la nostra vita inter-individuale si fonderebbe su
una base assolutamente diversa. Sarebbe una speculazione oziosa cercare di
immaginarsi questa diversità; ma l'intuizione della sua possibilità di principio
ci libera dal dogma che l'associazione umana che noi conosciamo sia del tutto
ovvia e per così dire indiscutibile, e che per il suo tipo non vi sarebbero motivi
p a r t i c o 1 a r i. Per quanto riguarda le grandi forme sociali la ricerca storica
ha eliminato questo dogma: noi sappiamo che la nostra costituzione familiare
e la nostra forma di economia, il nostro diritto e il nostro costume sono
risultati di condizioni che altrove furono diverse e produssero anche risultati
diversi; sappiamo che con questi elementi di fatto non siamo sul terreno più
profondo sul quale il dato è anche incondizionatamente necessario, che non
possa più venir compreso come configurazione particolare in base a cause
particolari. Ma in riferimento alle funzioni sociologiche del tutto generali, che
si svolgono tra gli uomini, questa domanda non è ancora stata posta. Le
relazioni primarie e immediate, che poi determinano anche tutte le formazioni
superiori, appaiono così solidali con la natura della società in generale, da far
trascurare il fatto che esse sono solidali soltanto con la natura dell'uomo; esse
richiedono pertanto una spiegazione in base alle condizioni particolari di
questa natura.
L'antitesi testé accennata tra occhio e orecchio nel loro significato
sociologico costituisce chiaramente il prolungamento del duplice ruolo al quale
l'occhio è apparso designato già di per sé. Come ogni senso della realtà si
divide sempre nelle categorie dell'essere e del divenire, così queste dominano
anche ciò che l'uomo vuole e può percepire in generale dell'uomo. Noi
vogliamo sapere: che cos'è quest'uomo nel suo senso, che cos'è la sostanza
durevole del suo essere? e com'è in questo momento, che cosa vuole, che cosa
pensa, che cosa dice? Ciò fissa a grandi linee la divisione del lavoro tra i sensi.
Prescindendo da molte modificazioni, ciò che noi vediamo nell'uomo è ciò che
è durevole in lui; nel suo viso è disegnata, come in una sezione attraverso gli
strati geologici, la storia della sua vita e ciò che sta alla sua base come dote
atemporale della sua natura. Le oscillazioni delle espressioni del viso non si
avvicinano, per molteplicità di differenziazione, a ciò che noi constatiamo
mediante l'orecchio. Ciò che noi udiamo è il suo aspetto momentaneo, è il
fluire del suo essere. Soltanto conoscenze e ragionamenti secondari di ogni
genere ci svelano anche nei suoi tratti lo stato d'animo del momento, e nelle
sue parole ciò che vi è in esso di inalterabile. In tutto il resto della natura,
quale si offre all'impressione immediata dei sentimenti, il durare e il fluire
sono distribuiti in misura molto più unilaterale che nell'uomo. La pietra
durevole e il fiume che scorre sono i simboli polari di questa unilateralità.
Soltanto l'uomo è sempre, già per i nostri sensi, nello stesso tempo qualcosa di
permanente e qualcosa che trascorre; i due aspetti hanno raggiunto in lui
un'altezza in cui l'uno si misura sempre sull'altro e viene a esprimersi
nell'altro. La formazione di questa dualità sta in un'azione reciproca con
quella dell'occhio e dell'orecchio; infatti, anche se nessuno dei due si chiude
completamente alle percezioni di entrambe le categorie, nel complesso essi
sono tuttavia disposti in vista di un'integrazione reciproca, alla constatazione
mediante l'occhio dell'essenza plastica permanente dell'uomo, mediante 1’ orecchio a quella delle sue manifestazioni che compaiono e svaniscono.
Sotto il profilo sociologico l'orecchio si differenzia ulteriormente dall'occhio per la mancanza di quella reciprocità che lo sguardo istituisce tra
occhio e occhio. Per sua essenza l'occhio non può prendere senza contemporaneamente dare, mentre l'orecchio è organo senz'altro egoistico, che prende
soltanto ma non dà; la sua formazione esteriore sembra quasi simbolizzare
questa caratteristica, in quanto esso sembra un'appendice piuttosto passiva
dell'aspetto umano, il più immobile di tutti gli organi del capo. Esso paga
questo egoismo con il fatto di non potersi distogliere o chiudere come
l'occhio, ma, appunto perché prende semplicemente, è anche condannato a
prendere tutto ciò che viene nelle sue vicinanze - circostanza di cui mostreremo altre conseguenze sociologiche. Soltanto insieme alla bocca, al linguaggio, l'orecchio produce l'atto interiormente unitario del prendere e del dare,
ma anche questo nell'alternanza per cui non si può parlare bene quando si
ode, e non si può udire bene quando si parla, mentre l'occhio fonde le due
cose nel miracolo dello «sguardo». D'altra parte all'egoismo formale dell'orecchio si contrappone il suo rapporto peculiare con gli oggetti del possesso
privato. In generale si può «possedere» soltanto ciò che è visibile, mentre ciò
che è soltanto udibile è già passato con il momento della sua presenza e non
garantisce alcuna «proprietà». Costituisce un'eccezione sorprendente il fatto
che nei secoli XVII e XVIII le grandi famiglie aspiravano a possedere pezzi di
musica che erano stati scritti soltanto per esse, e che non potevano essere
pubblicati. Un certo numero di concerti di BACH sono nati su tale commissione di un principe. Faceva parte della distinzione di una casa possedere pezzi
musicali preclusi a chiunque altro. Per il nostro sentimento vi è qualcosa di
perverso in questo, perché l'udire è per sua essenza sovra-individualistico: ciò
che avviene in uno spazio deve appunto essere udito da tutti coloro che vi
sono presenti, e il fatto che un soggetto lo percepisca non lo toglie all'altro. Di
qui deriva anche la particolare accentuazione psichica che un discorso possiede quando è destinato esclusivamente a un'unica persona. Ciò che uno dice
all'altro, potrebbero udirlo sensibilmente innumerevoli individui se soltanto
fossero presenti. Quando il contenuto di qualsiasi cosa si dica esclude esplicitamente questa possibilità formalmente sensibile, ciò conferisce a una comunicazione del genere una colorazione sociologica incomparabile. Non c'è quasi
un segreto che potrebbe venir trasmesso soltanto mediante gli occhi. La
trasmissione mediante l'orecchio, però, implica propriamente una contraddizione. Essa costringe una forma, che in sé e per sé si rivolge sensibilmente a
un numero indeterminato di partecipanti, a servire un contenuto che li
esclude completamente tutti. Questa è la quintessenza caratteristica del
segreto comunicato oralmente, del colloquio a quattr'occhi: esso nega esplicitamente il carattere sensibile del suono parlato, il quale comporta la possibilità
fisica di innumerevoli uditori. In circostanze consuete non è addirittura
possibile che troppi possano avere la medesima impressione visiva, mentre
moltissimi possono avere la medesima impressione uditiva. Si confronti il
pubblico di un museo con quello di un concerto; la determinazione dell'impressione uditiva, che si comunica unitariamente e uniformemente a una
massa umana — una determinazione non soltanto esteriore e quantitativa, ma
profondamente congiunta con la sua essenza più intima — unisce sociologicamente il pubblico di un concerto in un'unità e comunanza di stato d'animo
incomparabilmente più stretta rispetto ai visitatori di un museo. Dove eccezionalmente anche l'occhio assicura a un gran numero di persone tale eguaglianza d'impressione, si presenta anche l'azione sociologica accomunante. Il
fatto che tutti gli uomini possano vedere contemporaneamente il ciclo e il sole
è, ritengo, un elemento essenziale dell'unificazione che ogni religione comporta. Ogni religione si rivolge infatti in qualche modo, per la sua origine o per la
sua configurazione, al cielo o al sole, ha qualche specie di relazione con questo
elemento onnicomprensivo che domina il mondo. Il fatto che un senso così
esclusivo nella pratica della vita come l'occhio, il quale modifica perfino per
ogni soggetto ciò che viene guardato contemporaneamente in virtù della
differenza di prospettiva, abbia poi un contenuto che non è assolutamente
esclusivo, che si offre uniformemente a ciascuna persona - il cielo, il sole, le
stelle - deve da un lato rendere ovvio quel trascendere dalla ristrettezza e
dalla particolarità del soggetto che ogni religione contiene, e dall'altro sorregge e favorisce l'elemento di unificazione dei fedeli, che è parimenti proprio di
ogni religione.
I differenti rapporti dell'occhio e dell'orecchio con i loro oggetti, che
abbiamo posto in luce, fondano sociologicamente rapporti molto diversi tra gli
individui, le cui unioni poggiano sull'uno o sull'altro. Gli operai in un
capannone di fabbrica, gli studenti in un'aula, i soldati di un reparto si
sentono in qualche modo un'unità. E se questa unità sgorga anche da elementi
sovra-sensibili, essa è tuttavia condeterminata nel suo carattere dal fatto che il
senso essenzialmente attivo per essa è l'occhio, che gli individui durante i
processi che li accomunano possono sì vedersi, ma non parlarsi. In questo caso
la coscienza dell'unità avrà un carattere molto più astratto che non quando la
coesistenza costituisce contemporaneamente anche una relazione orale. L'occhio, insieme all'elemento individuale dell'uomo che è investito nel suo
aspetto, rivela anche ciò che è eguale in tutti in misura superiore all'orecchio. Proprio l'orecchio media la pienezza degli stati d'animo divergenti
dell'individuo, il flusso e il culmino momentaneo dei pensieri e degli impulsi,
l'intera polarità della vita soggettiva e oggettiva. Degli uomini che vediamo
soltanto, ci formiamo un concetto generale in maniera infinitamente più facile
che non quando possiamo parlare con ognuno. L'abituale imperfezione del
vedere favorisce questa differenza. Pochissimi uomini sanno dire con sicurezza anche soltanto quale sia il colore degli occhi dei loro amici o sono in grado
di rappresentarsi visibilmente nella fantasia la forma della bocca delle persone
a loro più vicine. Essi non li hanno propriamente visti affatto; in un uomo si
vede evidentemente ciò che egli ha in comune con altri in misura molto
superiore a quanto non si o d a in lui questo elemento generale. La creazione
immediata di formazioni sociali molto astratte, non specifiche, viene favorita
al massimo grado - nei limiti cui agisce la tecnica dei sensi - dalla vicinanza
della vista, in mancanza della vicinanza del discorso. Questa costellazione ha
favorito molto, secondo quanto si è accennato sopra, la nascita del concetto
moderno di «operaio». Questo concetto straordinariamente efficace, che
unifica l'elemento generale di tutti i lavoratori salariati indipendentemente
dall'oggetto del loro lavoro, era inaccessibile ai secoli precedenti le cui unioni
di apprendisti erano spesso molto più strette e intime, perché si fondavano
essenzialmente sui rapporti personali e orali, ma alle quali mancavano il
capannone della fabbrica e l'adunanza di massa. Soltanto qui, dove si vedevano innumerevoli individui senza udirli, si compì per la prima volta quell’ alta
astrazione di ciò che è comune a tutti questi individui e che viene spesso
ostacolata nel suo sviluppo da tutto ciò che è individuale, concreto, variabile,
quale ce lo media l'orecchio.
Rispetto al significato sociologico della vista e dell'udito quello dei sensi
inferiori risulta minore, anche se quello dell'olfatto non sta così indietro come
farebbe falsamente supporre la peculiare ottusità e l'impossibilità di sviluppo
delle sue impressioni. Non c'è alcun dubbio che ogni uomo profuma in
maniera caratteristica lo strato d'aria che lo circonda, e per l'impressione
olfattiva che ne nasce è essenziale che dei due sviluppi della percezione
sensibile - verso il soggetto, come suo piacere o dispiacere, e verso l'oggetto,
come sua conoscenza - egli fa prevalere di gran lunga il primo. L'olfatto non
forma di per sé un oggetto, come fanno la vista e l'udito, ma rimane per così
dire rinchiuso nel soggetto: ciò è simboleggiato nel fatto che per indicare le
sue differenze non esistono espressioni autonome, capaci di designarle in
modo oggettivo. Quando noi diciamo che qualcuno ha un odore acido, ciò
significa soltanto che ha un odore proprio di qualcosa che ha un sapore acido.
In misura del tutto diversa rispetto alle sensazioni degli altri due sensi, quelle
dell'olfatto si sottraggono alla descrizione mediante parole, non sono proiettabili sul piano dell'astrazione. Molto minori sono infatti le resistenze del
pensiero e del volere che incontrano le antipatie e simpatie istintive connesse
a quella sfera olfattiva che circonda l'uomo, e che sicuramente diventano
spesso ricche di conseguenze per il rapporto sociologico di due razze che
vivono sul medesimo territorio. La recezione dei Negri nell'alta società
dell'America settentrionale sembra esclusa già a causa dell'atmosfera corporea
del Negro, e la frequente oscura avversione reciproca tra Ebrei e Germani è
stata riportata alla medesima causa. Il contatto personale tra persone colte e
operai - spesso così vivacemente patrocinato per lo sviluppo sociale dell'epoca presente — quell'avvicinamento tra i due mondi, «dei quali l'uno non sa
come l'altro vive», riconosciuto come ideale etico anche dalle persone colte,
naufraga semplicemente dinanzi all'insuperabilità delle impressioni olfattive.
Certamente molti appartenenti ai ceti superiori, quando ciò è richiesto nell'interesse etico-sociale, sacrificherebbero in misura rilevante le comodità personali, rinuncerebbero a svariati privilegi e godimenti in favore dei diseredati, e
il fatto che ciò ora non accada in misura superiore dipende sicuramente dalla
circostanza che non sono ancora state trovate le forme veramente appropriate.
Ma si preferirebbe mille volte addossarsi tutte queste rinunce e questi sacrifici
al contatto corporeo con il popolo, al quale è attaccato «il rispettabile sudore
del lavoro». La questione sociale non è soltanto una questione etica, ma anche
una questione di naso. Certamente ciò agisce anche in direzione positiva:
nessuna vista della miseria del proletariato, e ancor meno la descrizione più
realistica di essa potrà - prescindendo dai casi più mastodontici - sopraffarci così sensibilmente e immediatamente come 1' a t m o s f e r a che ci investe
quando entriamo in un sottoscala o in una bettola.
Un fatto la cui importanza per la cultura sociale non è stata ancora
abbastanza considerata è che, con il raffinarsi della civiltà, la vera e propria
acutezza di percezione di tutti i sensi decresce chiaramente, mentre aumenta
l'accentuazione del senso del piacere e del dispiacere. Si può ritenere che
l'accresciuta sensibilità in questa direzione porti con sé, nel complesso, molte
più sofferenze e repulsioni che non gioie e attrazioni. L'uomo moderno viene
urtato da innumerevoli impressioni, innumerevoli situazioni gli appaiono
insostenibili ai sensi, mentre esse sono accettate senza alcuna reazione del
genere da modi di sentire più indifferenti e più robusti. La tendenza all’ individualizzazione dell'uomo moderno, la maggiore personalità e libertà di scelta
dei suoi legami devono essere connessi con questo fenomeno. Con il suo tipo
di reazione in parte immediatamente sensuale, in parte estetica, egli non può
più entrare senz'altro in unioni tradizionali, in legami stretti in cui non si tien
conto del suo gusto personale, della sua sensibilità personale. E ciò comporta
inevitabilmente un maggiore isolamento, una limitazione più netta della sfera
personale. Forse questo sviluppo è più rilevante nel senso dell’ olfatto: le
aspirazioni dell'epoca presente all'igiene e alla pulizia non ne sono meno
conseguenza che causa. In generale, con il crescere della cultura 1’ azione a
distanza dei sensi diventa più debole, l'azione da vicino più forte, e noi
diventiamo non soltanto corti di vista, ma in generale corti di sensi; ma a
queste distanze più brevi diventiamo però tanto più sensibili. Il senso dell'olfatto è già un senso predisposto per una maggiore vicinanza rispetto alla vista
e all'udito, e se non possiamo più percepire oggettivamente con esso così come
fanno parecchi popoli primitivi, soggettivamente noi reagiamo con tanta
maggiore violenza alle sue impressioni. La direzione in cui ciò avviene è per
esso quella accennata prima, ma anche questo in misura superiore agli altri
sensi: un uomo col naso particolarmente fine esperisce sicuramente con
questo affinamento molto più cose sgradevoli che non gioie. A rafforzare
quella repulsione isolante, che noi dobbiamo all'affinamento dei sensi, si
aggiunge ancora il fatto seguente. Quando noi annusiamo qualcosa, attiriamo
questa impressione o questo oggetto che emana così profondamente a noi, nel
nostro centro, lo assimiliamo per così dire così strettamente a noi attraverso il
processo vitale del respirare, come non è possibile con nessun altro senso di
fronte a un oggetto — a meno che non lo mangiamo. Il fatto che noi
annusiamo l'atmosfera di qualcuno ne costituisce la percezione più intima, egli
penetra per così dire in forma aerea nel nostro intimo sensibile, ed è ovvio che
con un'accresciuta eccitabilità alle impressioni olfattive ciò deve condurre a
una selezione e a una presa di distanza che costituisce in certa misura uno dei
fondamenti sensibili della riserva sociologica dell'individuo moderno. E significativo che un uomo dall'individualismo così fanaticamente esclusivo come
NIETZSCHE dica molto sovente, dei tipi umani da lui odiati, che «non hanno
buon odore». Se gli altri sensi gettano migliaia di ponti tra gli uomini, se
possono sempre conciliare le repulsioni che provocano con attrazioni, se
l'intreccio dei loro valori affettivi positivi e negativi conferisce alle concrete
relazioni complessive tra gli uomini la loro colorazione, il senso dell'olfatto
può essere designato — in antitesi ad essi — come il senso dissodante: non
soltanto perché esso media in misura relativamente maggiore repulsioni che
attrazioni, non soltanto perché le sue decisioni hanno qualcosa di radicale e di
inappellabile che può venir superato solo con difficoltà dalle decisioni di altre
istanze dei sensi e dello spirito, ma anche perché proprio la coesistenza di
molti soggetti non gli assicura mai qualche attrazione, come può invece
accadere in certe circostanze per gli altri sensi; anzi, in generale, tali offese al
senso dell'olfatto aumenteranno in rapporto quantitativo diretto alla massa in
mezzo a cui ci colpiscono. Già attraverso questa mediazione un affinamento
culturale rinvia, come si è detto, a un isolamento individualizzante, almeno in
paesi più freddi; mentre la possibilità di attuare la coesistenza essenzialmente
all'aperto, e quindi senza quella insopportabilità, ha sicuramente influenzato i
rapporti sociali nei paesi meridionali.
Infine, anche il profumo artificiale ha un ruolo sociologico, in
quanto compie una sintesi caratteristica di teleologia individuale-egoistica e di
teleologia sociale nel campo del senso dell'olfatto. Il profumo fornisce con la
mediazione del naso esattamente la stessa prestazione fornita da altri tipi di
ornamento con la mediazione dell'occhio. Esso aggiunge alla personalità
qualcosa di completamente impersonale, tratto dall'esterno, che tuttavia va
insieme ad essa in maniera tale che sembra emanarne. Esso amplia la sfera
della persona al pari del brillare dell'oro e del diamante; chi si trova nelle
vicinanze vi si immerge ed è così preso, in certa misura, nella sfera della
personalità. Al pari dell'abbigliamento, esso nasconde la personalità con
qualcosa che deve però contemporaneamente agire come irradiamento suo
proprio. In quanto tale esso è un tipico fenomeno di stilizzazione ,una
dissoluzione della personalità in un elemento generale che tuttavia esprime la
personalità nella sua attrattiva in maniera più penetrante e più formata di
quanto non potrebbe fare la sua realtà immediata. Il profumo copre la sfera
personale, la sostituisce con un'atmosfera oggettiva, e attira contemporaneamente l'attenzione su di essa: del profumo che crea quest’atmosfera fittizia si
suppone che risulti piacevole per ogni altro soggetto, che sia un valore sociale.
Al pari dell’ ornamento esso deve p i a c e r e indipendentemente dalla persona,
deve rallegrare soggettivamente il suo ambiente, e questo effetto deve tuttavia
venir accreditato nello stesso tempo al portatore in quanto persona.
(Simmel, G., Sociologia, tr. it., Comunità, 1998, pp.550-559)