L`esame della scena del crimine nella contesa

Editoriale
Processo penale
L’esame della scena del crimine
nella contesa processuale
di Sergio Lorusso - Ordinario di diritto processuale penale nell’Università di Foggia
L’esame della scena del crimine deve tener conto di esigenze spesso tra loro contrastanti: le strategie investigative dell’accusa, le necessità della difesa, la tensione verso un risultato affidabile in considerazione dell’attitudine delle ‘ investigazioni scientifiche’ a divenire vera e propria prova. Il dato normativo vigente, alquanto carente e talvolta oscuro, incoraggia l’attività di supplenza della giurisprudenza che, lungi dal fornire
soluzioni stabili e chiare, genera situazioni di incertezza e frequenti disparità di trattamento. Si impone, pertanto, una maggiore attenzione da parte dei conditores, tradizionalmente poco interessati alle dinamiche di
tali attività e delle loro implicazioni tecnico-giuridiche, come confermano le timidi prospettive di riforma desumibili dalle iniziative legislative intraprese in questi ultimi anni. Occorrerebbe, viceversa, rapportarsi alle
esperienze di altri ordinamenti e alle iniziative avviate a livello europeo dagli esperti del settore per trarne
preziosi spunti, al fine di risolvere i nodi interpretativi e le difficoltà applicative che l’azione degli investigatori sulla scena del crimine propone ricorrendo a un’opera di normazione di profili scottanti quali quelli dei protocolli da adottare, anche in relazione alle specificità degli strumenti tecnico-scientifici adoperati, della professionalità degli esperti e dei criteri per certificarne le competenze, della catena di custodia dei reperti, del
riconoscimento di garanzie difensive compatibili con l’efficienza della fase investigativa, dell’utilizzabilità in
sede processuale - e comunque a fini decisori - del materiale cognitivo così formato.
La teoria della relatività del sapere
scientifico
È con un’affermazione lapidaria che Albert Einstein
manifesta il suo approccio relativistico alla conoscenza scientifica e più in generale al sapere umano,
che lo ha guidato in scoperte e innovazioni cruciali
per il XX secolo: «Siamo tutti molto ignoranti. Ma
non tutti ignoriamo le stesse cose». Facendo così
trapelare, al contempo, la necessità di condivisione
delle conoscenze e delle competenze, di sinergie tra
gli apporti individuali, che in ambiti come quello
dell’esame della scena del crimine si manifestano
con chiarezza e ineludibile urgenza.
L’approfondimento di tale materia, e in particolare
delle sue implicazioni giuridiche, può essere condotto seguendo tre linee direttrici espressione di altrettanti profili che si intersecano tra loro e che sono
espressione di esigenze diversificate e a volte contrastanti, delle quali è tuttavia necessario tentare una
mediazione - per realizzare una sintesi - affinché il
materiale repertato sulla scena del crimine possa assumere rilievo processuale, in conformità ai principi
ispiratori del codice di rito: a) le esigenze dell’accusa
legate all’accertamento, e quindi all’efficienza delle
investigazioni prima ancora che alla successiva - e
solo eventuale - verifica dibattimentale; b) le istanze
difensive, che devono essere prese in considerazione
anche - e direi innanzitutto - in tale fase, tanto più
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se si considera la naturale ‘proiezione dibattimentale’ che le operazioni compiute sulla scena del crimine assumono; c) l’affidabilità dei risultati, cioè a dire la
necessità che le ‘investigazioni scientifiche’, proprio
in quanto potenzialmente destinate a divenire vera
e propria ‘prova scientifica’, debbano rispondere a
requisiti e protocolli condivisi che certifichino la
credibilità della fonte probatoria e l’attendibilità del
suo risultato. Solo il prodotto di osservazioni scientifiche affidabili, difatti, potrà concorrere (ed essere
liberamente valutabile ex art. 192 c.p.p.), insieme
alle altre prove legittimamente acquisite, alla decisione finale dell’organo giudicante (art. 526, comma
1, c.p.p.), e, ancor prima, alle decisioni di carattere
incidentale o propulsivo in ambito endoprocedimentale, o ancora alla definizione anticipata del
procedimento. Non è invece prescritto, né prospettabile, il contrassegno di ‘prova certa’, di ‘prova perfetta’, che costituirebbe un’incauta riproposizione
del concetto di ‘prova regina’ trasferito dall’ambito
soggettivo proprio della confessione (e della prova
dichiarativa in genere) a quello oggettivo tipico del
sapere tecnico-scientifico.
Si tratta di una materia caratterizzata da un humus
legislativo carente, quasi una scenografia minimalista, nella quale ben poche norme possono essere invocate a costituire un sicuro e stabile punto di riferimento per gli interpreti: in prima battuta gli artt.
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348, comma 1, e 354 c.p.p., e poi gli artt. 359, 359bis e 360 c.p.p., correlati agli artt. 224-bis e 244
c.p.p. e agli artt. 113 e 114 disp. att. c.p.p. l’indubbio
deficit normativo è fonte di una necessitata ‘supplenza’ ad opera della giurisprudenza, di merito come di
legittimità, tesa a colmare vuoti e lacune normative,
non potendo la macchina giudiziaria attendere i
tempi incerti dei conditores poco attenti a fenomeni
portati prepotentemente alla ribalta dall’esperienza
giuridica: the trial must go on, si potrebbe dire, nonostante le colpevoli inerzie e le inaccettabili sottovalutazioni legislative.
Lo scenario rarefatto e poliedrico che si offre allo
studioso, estremamente arduo da ricondurre a sistema e tale da sollecitare interventi normativi immediati e radicali, non deve però ingenerare la sensazione di uno stato dell’arte totalmente negativo,
producendo sfiducia e indulgendo al pessimismo,
poiché non mancano anche segnali positivi e interessanti aperture.
Questioni semantiche sulla scena
del crimine
Prima di procedere all’esame delle criticità normative è tuttavia opportuna una puntualizzazione di carattere semantico: il lessico giuridico, com’è noto,
non di rado dissimula significati occulti. l’art. 354
c.p.p. disciplina il cd. ‘sopralluogo giudiziario’, ma
non utilizza esplicitamente tale denominazione, preferendo nella sua rubrica la locuzione “accertamenti
urgenti sui luoghi, sulle cose e sulle persone”.
l’espressione ‘sopralluogo giudiziario’, del resto, appartiene a un terminologia desueta palesemente ricollegabile a fascinazioni del passato ma ormai inadeguata a descrivere il complesso di atti e di attività
che si snodano intorno alla scena del crimine. Preferibile, allora, ricorrere al concetto di ‘esame della
scena del crimine’, più ampio ed elastico, nel quale è
possibile ricomprendere non soltanto le classiche
operazioni compiute ‘a caldo’, nell’immediatezza
della commissione del fatto, ma anche i successivi, e
tutt’altro che infrequenti, accessi al luogo in cui la
condotta criminosa si è concretizzata, nonché le
molteplici analisi che interessano il materiale cognitivo individuato e repertato sulla scena del crimine.
La locuzione ‘sopralluogo’, risalente al XVII secolo,
copre infatti un’area temporalmente e funzionalmente più ristretta. Il suo primo uso documentato risale al
1626, quando con l’espressione ‘sopraloco’ si indica la
“ispezione di luoghi disposta ed eseguita di persona
dall’autorità giudiziaria” (1): è un termine quindi che
nasce nel gergo forense per indicare una “visita compiuta direttamente sul luogo”. Diviene ‘sopraluo-
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go‘nel 1905 e ‘sopralluogo’ nel 1908. Lemma composto, derivante dalla fusione di ‘sopra’ e ‘luogo’, nella
forma sostantivale comunemente utilizzata trae origine da un’espressione avverbiale cristallizzata: “andare
sopra(l)luogo”. Una locuzione che, per la verità, non
ha mai goduto di grande feeling tra i puristi della lingua italiana, stigmatizzata ripetutamente sia nell’originaria forma avverbiale che in quella susseguente sostantivale. Una parola marchiata come un ‘brutto’
neologismo: adoperata nel significato di “visita in
luogo, accesso” (1812), passa nei repertori ottocenteschi di vocaboli nuovi condannati (1855) e compare
in espressioni stilisticamente poco eleganti come “il
giudice del tribunale andò sopralluogo” (2).
È opinione diffusa che il sopralluogo giudiziario costituisca «il punto di partenza di ogni indagine di
polizia», il primum movens di qualunque investigazione, snodo essenziale per ottenere risultati proficui
grazie all’attività coordinata di polizia giudiziaria,
polizia scientifica, magistratura e medici legali (impegnati ciascuno in compiti specifici che riflettono
le loro competenze) (3), anche se la giurisprudenza
ha cercato di adattarlo in qualche modo alle esigenze via via emerse dalla prassi. Esso si fonda, come
unanimemente riconosciuto, «sull’attenta osservazione e documentazione della situazione ambientale, è la fissazione dello stato dei luoghi», per proseguire «poi con la ricerca e raccolta delle tracce presenti sulla scena di un evento delittuoso» (4).
Più opportuna, allora (e non solo per ragioni semantiche), la proposizione ‘esame della scena del crimine’, incentrata sul termine ‘esame’, del quale si rinviene una traccia isolata risalente al 1306, entrato
nell’uso comune durante il XVII secolo ad indicare
la “ponderata considerazione di una persona, una
cosa, un’idea, una situazione e simili, al fine di conoscerne le qualità, l’importanza, le conseguenze”
(5). Un concetto flessibile e dinamico, che unito all’oggetto specifico su cui ricade l’atto dell’esaminare
- la scena del crimine - è in grado di offrire una sintesi, linguisticamente efficace e giuridicamente più
incisiva, del complesso multiforme di attività che
racchiude.
Note:
(1) M. Cortellazzo-P. Zolli, Il nuovo etimologico. Dizionario etimologico della lingua italiana, II ed., Bologna, 1999, 1560.
(2) M. Cortellazzo-P. Zolli, Il nuovo etimologico, cit., 1560.
(3) Così V. Liviero, Il sopralluogo medico legale, in Aa. Vv., Scienze forensi. Teoria e prassi dell’investigazione scientifica, a cura di
M. Picozzi e A. Intini, Milano, 2009, 45.
(4) V. Liviero, Il sopralluogo medico legale, cit., 45.
(5) M. Cortellazzo-P. Zolli, Il nuovo etimologico, cit., 533.
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Le esigenze investigative dell’accusa
Così precisato il lessico giuridico, è opportuno muovere dal dato normativo vigente per individuarne le
più manifeste criticità.
l’art. 354, comma 1, c.p.p., com’è noto, attribuisce
ad ufficiali ed agenti di polizia giudiziaria il compito
di conservare le tracce e le cose pertinenti al reato e
di preservare da ogni mutazione lo stato dei luoghi e
delle cose fino all’intervento del pubblico ministero.
Un intervento (immediato) pertanto essenzialmente conservativo e di supporto alla successiva presa in
carico del caso giudiziario da parte dell’organo dell’accusa, che tuttavia non si esaurisce nelle attività
che l’immaginario collettivo (plasmato dai media e
dalle fiction in materia) sintetizza nella delimitazione della scena del crimine con il classico nastro bicolore. È la stessa disposizione, al comma 2, a richiedere che in caso di pericolo di alterazione, di dispersione o di modificazione di cose, tracce e luoghi del
reato - id est della scena del crimine - gli ufficiali di
polizia giudiziaria compiano i necessari accertamenti e rilievi sullo stato dei luoghi e delle cose, qualora
il pubblico ministero non possa intervenire tempestivamente ovvero non abbia ancora assunto la direzione delle indagini.
Così delineato il nucleo essenziale dell’art. 354
c.p.p., irrobustito dall’interpolazione relativa a dati,
informazioni, programmi e sistemi informatici operata dalla l. 48/2008 e tesa ad assicurarne la conservazione, a impedirne l’alterazione e l’accesso e a favorirne l’immediata duplicazione, e chiuso dalla
previsione - ampiamente adoperata nella prassi per
assicurare reperti ed elementi probatori di vario genere - del sequestro “se del caso” del corpo del reato
e delle cose a questo pertinenti, occorre precisare
che dette attività rientrano nella più generale previsione di cui all’art. 348 c.p.p. Quest’ultima norma,
nell’enumerare le funzioni di polizia giudiziaria
espletabili anche dopo la comunicazione della notitia criminis all’autorità giudiziaria, richiama tra le altre quella assicurativa delle fonti di prova, che si traduce nella raccolta di “ogni elemento utile alla ricostruzione del fatto e alla indicazione del colpevole”
(art. 348, comma 1, c.p.p.), nella ricerca “delle cose
e delle tracce pertinenti al reato” e nella “conservazione di esse e dello stato dei luoghi” (art. 348, comma 2, lett. a) c.p.p.).
È un siffatto scenario normativo che fa da cornice a
un fenomeno in espansione qual è l’esame della scena del crimine ed è quindi a esso che ci si deve riferire per analizzare adeguatamente le esigenze dell’accusa legate all’accertamento.
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La moderna visione delle investigazioni scientifiche - germogliata in età illuministica, quando massima era la fiducia nel sapere scientifico e tecnologico
e la ‘fede’ nella ragione, ritenuti strumenti idonei a
spiegare e a comprendere ogni evento, fosse esso di
origine naturale o umana - ha consentito a molti di
accarezzare «l’affascinante prospettiva di una scienza contro il crimine» perfetta, in grado di assicurare
una ‘prova scientifica’ che fosse al contempo una
‘prova certa’ dei delitti più efferati (6). Oggi più realisticamente - e più correttamente, sotto il profilo
epistemologico - si può invece affermare che l’atto
dell’investigare rappresenta «un tentativo fallibile e
precario di ridurre l’incertezza, ovvero di passare da
un livello più disordinato e rischioso di incertezza a
un livello più studiato e controllato», in linea con
un metodo rivolto fondamentalmente a svelare l’errore, piuttosto che a scoprire la verità (7).
È indubbio, d’altro canto, che l’applicazione tempestiva delle metodiche convenzionalmente riconducibili al genus ‘investigazioni scientifiche’ risulta
molto spesso decisiva ai fini dell’accertamento del
reato e dell’individuazione del suo autore, specie rispetto a quelle fattispecie delittuose in cui l’elemento indiziario assurge a protagonista indiscusso del
processo a scapito di una prova dichiarativa debole o
assente. Accade per ipotesi di reato che rappresentano un tradizionale patrimonio del diritto penale - i
delitti violenti contro la persona, in primis l’omicidio
- ma anche per fattispecie di ultima generazione,
quali i cd. ‘computer crimes’, inscindibilmente legati
allo strumento informatico per la loro realizzazione,
o per quei reati che si avvalgono occasionalmente di
PC e reti telematiche nel loro iter esecutivo.
Non sempre l’esame della scena del crimine, tuttavia, si impone come atto urgente e indifferibile, anche se indubbiamente un intervento tempestivo che
‘congeli’ lo stato dei luoghi, preservandolo da aggressioni di varia natura, risulta il più delle volte fondamentale per l’efficienza delle investigazioni e quindi,
in prospettiva, per l’affidabilità del risultato probatorio. Ecco sorgere, allora, il problema dell’individuazione dei soggetti abilitati a compiere dette attività e
quello ulteriore, strettamente legato al primo, della
Note:
(6) S. Bozzi-A. Grassi, Il sopralluogo tecnico sulla scena del delitto, in Aa. Vv., Scienze forensi, cit., 27.
(7) Così S. Bozzi-A. Grassi, Il sopralluogo tecnico sulla scena del
delitto, cit., 27, nel richiamare il pensiero di Marcello Pera.
È il metodo della falsificazione di Karl Popper - del quale si veda,
in particolare, Congetture e confutazioni. Lo sviluppo della conoscenza scientifica, ed. it., Bologna, 2009, passim - a prevalere,
insomma, dal punto di vista cognitivo.
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necessità di puntualizzare i poteri loro attribuiti nella
circostanza: quali siano, insomma, i limiti insomma
che tali soggetti incontrano nel loro agire ‘sul luogo’
e ‘nell’immediatezza del fatto’. Le lacune e le ambiguità del codice di rito non agevolano certo risposte
adeguate ed esaurienti a tali interrogativi.
Una prima area d’indubbia rilevanza è quella delimitata dal summenzionato art. 354, comma 2, c.p.p.,
che individua i poteri degli ufficiali di polizia giudiziaria di svolgere rilievi e accertamenti sulla scena
del crimine, quando dal loro differimento potrebbe
derivarne un pregiudizio per la genuinità delle investigazioni (un potere eccezionalmente esteso agli
agenti di polizia giudiziaria dall’art. 113 disp. att.,
“nei casi di particolare necessità e urgenza”). La disposizione fa leva su due categorie, i ‘rilievi’ e gli ‘accertamenti’, la cui distinzione, apparentemente
chiara e acquisita sul piano teorico, è alquanto oscura e difficile da tradurre nella pratica, dalla quale affiora un sottile discrimen non sempre percepibile.
Per ‘rilievo’ si intende generalmente l’attività di osservazione compiuta sulla scena del crimine, neutra
dal punto di vista valutativo ma intrinsecamente irripetibile (8). l’‘accertamento’, viceversa, si traduce
in un’attività di carattere valutativo che può implicare una modificazione del reperto analizzato. Inquadrare una determinata operazione tra i rilievi
piuttosto che tra gli accertamenti è molto importante, anche perché rispetto ai secondi esiste una divaricazione della disciplina tra accertamenti ‘ripetibili’
(art. 359 c.p.p.) e accertamenti ‘non ripetibili’ (art.
360 c.p.p.), cui corrispondono regole ad hoc e correlative garanzie, in primis il contraddittorio, esclusivo
degli accertamenti tecnici non ripetibili quale prezioso presidio delle esigenze difensive e dell’affidabilità dei risultati. Gli accertamenti tecnici ripetibili,
inoltre, sono atti coperti dal segreto investigativo fino alla chiusura delle indagini preliminari.
Anche in questo caso una rapida esplorazione semantica può risultare utile. Con il sostantivo ‘rilievo’
si suole tradizionalmente indicare una “osservazione,
nota, specialmente critica” (1799), o, ancora, un “insieme di osservazioni per delineare, chiarire, rappresentare un fatto” (9) (1891), mentre il sostantivo
‘accertamento’, che tradizionalmente designa l’atto
dell’accertare (Sant’Agostino, XIV secolo), individua altresì “il primo atto dell’istruttoria”, di cui è incaricato il giudice nel codice di procedura penale del
1865 (10). Per un verso, dunque, nel concetto di ‘rilievo’ è insita anche la possibilità di un’azione valutativa; per altro verso l’‘accertamento’ evoca la nozione di atto cognitivo a valenza probatoria.
Già vigente il codice Rocco era stato incisivamente
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osservato che talvolta i «cosiddetti ‘rilievi’ (artt.
222² e 223) mascher(a)no perizie eseguite fuori del
contraddittorio (artt. 2254 e 304-bis)», evidenziando che «la prassi tende a conclusioni lassistiche»
(11), a fronte di alcune pronunce della suprema
Corte e delle statuizioni della Corte costituzionale
(12) che attribuivano natura descrittiva e funzione
meramente propedeutica ai rilievi, contrapponendoli agli accertamenti tecnici implicanti conoscenze
tecnico-scientifiche elevate e fonte di giudizi assimilabili, nella sostanza, all’attività del perito (13).
Occorre chiedersi se tali posizioni, tollerate e tollerabili in un sistema inquisitorio garantito come
quello delineato dal codice abrogato nella sua ultima fase di operatività, siano o no compatibili con un
modello processuale che si ispira ai canoni del processo accusatorio, pur se temperati. La risposta al
quesito non può non tener conto di ‘come’ il modello accusatorio di common law sia stato ‘importato’
nel nostro ordinamento e, soprattutto, di quanti e
quali ‘aggiustamenti’ abbia subito nel corso degli anni, fino ad apparire ‘trasfigurato’ rispetto alle intenzioni originarie. Non si può, in particolare, prescindere dal progressivo e oggettivo potenziamento della fase delle indagini preliminari, oggi non più solo
preparatoria del processo stricto sensu, e dal conseguente riequilibrio attuato a scapito della fase del
giudizio.
Le operazioni compiute ‘a caldo’ - rilievi o accertamenti che siano - non dovrebbero risultare particolarmente delicate né sollecitare un adeguato corredo
di garanzie difensive se davvero fossero e rimanessero del tutto estranee al processo e, quindi, alla decisione di merito. È per questo che gli ordinamenti autenticamente accusatori attribuiscono il più delle
Note:
(8) Cfr. P. Tonini, Procedura penale, 11ª ed., Milano, 2010, 484.
(9) M. Cortellazzo-P. Zolli, Il nuovo etimologico, cit., 1376.
(10) M. Cortellazzo-P. Zolli, Il nuovo etimologico, cit., 46.
(11) F. Cordero, Guida alla procedura penale, Torino, 1986, 349.
Considerazioni sostanzialmente ribadite rispetto al codice 1988:
«i ‘rilievi’(comma 3) investono quanto sia esposto allo sguardo»
(F. Cordero, Codice di procedura penale commentato, 2ª ed., Torino, 1992, 425), ma l’art. 359 c.p.p. include tra le varie ipotesi
anche «autentiche operazioni peritali» e, «se dev’essere un processo nuovo, non basta cambiare i nomi» (ivi, 430-431).
(12) Cfr. Corte cost., sent. 3 dicembre 1969, n. 149, in Giur.
cost., 1969, 2276 s.; Corte cost., sent. 27 dicembre 1973, n.
185, ivi, 1973, 2425 s.
(13) In dottrina, all’indomani dell’entrata in vigore del codice
1988, si veda P. P. Dell’Anno, Accertamento e valutazione nelle
attività di consulenza disposte dal pubblico ministero, in Giust.
pen., 1991, III, c. 241 s.; A. Scella, Brevi osservazioni in tema di
accertamenti tecnici, rilievi e tutela del diritto di difesa, in Cass.
pen., 1990, 278 s.
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volte alle investigazioni una funzione meramente
amministrativa e, comunque, configurano le indagini come fase (essenzialmente) di polizia e pre-giurisdizionale. Lo scenario cambia notevolmente se, invece, una parte consistente del processo - e quindi la
formazione del convincimento giudiziale - si fonda
su atti investigativi, circostanza sempre più ricorrente nel nostro ordinamento specie quando l’elemento
cognitivo di carattere tecnico-scientifico si appare
determinante.
Ecco allora che, in mancanza di un appropriato catalogo legislativo, emerge con forza l’intervento in
funzione di supplenza della giurisprudenza (14), con
tutti i rischi e le discrasie di un siffatto modus operandi;: anche perché il nostro ordinamento - com’è
noto - non obbedisce alla regola del ‘precedente vincolante’ e, anzi, la discrezionalità e la mutevolezza
interpretativa degli organi giudicanti non si arresta,
spesso, neanche di fronte ai dicta delle Sezioni unite
che pure dovrebbero costituire un punto fermo.
La suprema Corte, dopo aver fatto proprio a più riprese il predetto assunto risalente al codice 1930, secondo cui «mentre il rilievo consiste nell’attività di
raccolta di dati pertinenti al reato, l’accertamento
tecnico si estende al loro studio e valutazione critica
secondo canoni tecnico-scientifici» (15), ha affermato - proprio sul terreno delle investigazioni scientifiche - che determinate attività poste in essere dalla polizia giudiziaria costituiscono meri rilievi e non
accertamenti, consentiti ogniqualvolta sussista il
pericolo di alterazione, dispersione o modificazione
della scena del delitto.
Di conseguenza, esse non sono di esclusiva pertinenza del pubblico ministero, il loro espletamento non
impone la previa integrazione del contraddittorio e
persino il mancato rispetto delle peculiari modalità
di documentazione - la verbalizzazione prescritta
dalle stringenti regole dettate dall’art. 357, commi
2, lett. e) e 3 c.p.p., che a sua volta richiama le forme e le modalità imposte dall’art. 373 c.p.p. per la
documentazione degli atti investigativi del pubblico
ministero - viene ‘declassato’ a mera irregolarità.
l’obbligo de quo cui sono assoggettati le operazioni e
gli accertamenti urgenti, afferma la suprema Corte,
«non è previsto a pena di nullità od inutilizzabilità»
(16) e pertanto «per le attività di polizia giudiziaria
è … sufficiente la loro documentazione, anche in un
momento successivo al compimento dell’atto e,
qualora esse rivestano le caratteristiche della irripetibilità, è necessaria la certezza dell’individuazione
dei dati essenziali, quali le fonti di provenienza, le
persone intervenute all’atto e le circostanze di tempo e di luogo della constatazione dei fatti» (17).
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Ma chi valuta, in concreto, la sussistenza dei presupposti che rendono urgenti e indifferibili tali attività?
È la stessa polizia giudiziaria, né sono individuabili
sanzioni espresse nei casi di ‘forzature’ del requisito
dell’improcrastinabilità. La Corte di cassazione, anzi, ritiene anche che la polizia giudiziaria non abbia
nessun obbligo di illustrare nel verbale redatto ai
sensi dell’art. 357 c.p.p. i connotati di eccezionalità
dell’intervento effettuato nei casi di particolare necessità e urgenza ex art. 113 disp. att. c.p.p., «essendo tale eccezionalità evidenziata concretamente
dalla stessa situazione operativa» (18).
E non è tutto. Ciò che andrebbe più correttamente
classificato come ‘accertamento tecnico’ potrà essere tranquillamente incasellato nel concetto di ‘rilievo’ (a differenza del primo, consentito alla polizia
giudiziaria anche quando produce una modificazione irreversibile del reperto): pure in questo caso i
Note:
(14) V., recentemente, Cass., Sez. III, 2 luglio 2009, Cinti, in
C.E.D. Cass., n. 244928, ove si precisa che l’«attività materiale
di lettura, raccolta e conservazione dei dati» non impone il rispetto delle formalità prescritte dagli artt. 359 e 360 c.p.p., «non
richiedendo alcuna discrezionalità o preparazione tecnica» per la
valutazione dei dati medesimi.
(15) Cass., Sez. II, 10 luglio 2009, n. 34149, in C.E.D. Cass., n.
244950.
Negli stessi termini Cass., Sez. I, 31 gennaio 2007, Piras e altri,
in C.E.D. Cass., 237359; Cass., Sez. II, 10 novembre 1992, P.M.
in proc. Arena ed altro, in C.E.D. Cass., 192570; Cass., Sez. I, 9
febbraio 1990, Duraccio, in C.E.D. Cass., n. 183648, secondo cui
«anche nel vigore del nuovo codice di procedura penale la nozione di ‘accertamento’riguarda non la constatazione o la raccolta di dati materiali pertinenti al reato ed alla sua prova, che si
esauriscono nei semplici rilievi, ma il loro studio e la relativa elaborazione critica, necessariamente soggettivi e per lo più su base tecnico-scientifica», distinzione questa «che trova testuale
conferma normativa in ripetute disposizioni del nuovo codice (ad
es., negli artt. 354, 359, 360) che menzionano separatamente i
termini ‘rilievi’e ‘accertamenti’, con implicita assunzione, per ciascuno, del significato specifico precedentemente delineato».
(16) Cass., Sez. I, 6 ottobre 2006, Delussu, in C.E.D. Cass., n.
234884.
(17) Cass., Sez. I, 6 ottobre 2006, Delussu, cit., che ha pertanto
ritenuto «legittimamente contenuta nel fascicolo del pubblico
ministero, e quindi utilizzabile nel rito abbreviato, la documentazione relativa agli accertamenti dattiloscopici effettuati dalla polizia giudiziaria su impronte papillari rinvenute nel luogo e nell’immediatezza dei fatti sul corpo di reato, anche in mancanza della
redazione del verbale dei rilievi».
Dello stesso tenore Cass., Sez. III, 18 febbraio 1998, Corradini,
in C.E.D. Cass., n. 210691, secondo cui «rientrano nel novero
degli atti irripetibili quelli mediante i quali la P.G. prende diretta
cognizione di fatti, situazioni o comportamenti umani dotati di
una qualsivoglia rilevanza penale suscettibili, per loro natura, di
subire modificazioni o di scomparire in tempi più o meno brevi»,
la cui «documentazione, anche se non presenta i requisiti formali del verbale, non è di per sé inutilizzabile, a meno che non difettino i requisiti sostanziali, da individuarsi nella stretta contiguità spazio-temporale tra la constatazione dei fatti e la formazione di detta documentazione».
(18) Cass., Sez. VI, 9 giugno 1999, Trizio, in C.E.D. Cass., n.
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controlli sono alquanto blandi e rimessi alla discrezionalità del giudice di merito o, tutt’al più, ispirati
alla casistica elaborata dalla suprema Corte.
E così la Cassazione, libera da lacci normativi e da
regole interpretative univoche e stringenti, può
tranquillamente affermare che la nozione di accertamento tecnico è estranea al prelievo di materiale
biologico funzionale all’esame del D.N.A., che si
traduce in un’«attività di raccolta o di prelievo dei
dati pertinenti al reato» e implicando, viceversa,
l’accertamento un’attività di studio e di valutazione
critica del campione prelevato (19). Analogo orientamento emerge rispetto ai rilievi fonometrici, considerati «tipici accertamenti ‘a sorpresa’ da inquadrare» tra le attività compiute ai sensi dell’artt. 348
e 354 c.p.p. e non tra gli accertamenti tecnici irripetibili ex artt. 360 c.p.p. (20), e in relazione ai rilievi
dattiloscopici che, si ritiene, pur «risolvendosi in
operazioni urgenti non ripetibili di natura meramente materiale» (21), offrono «piena garanzia di
attendibilità» e possono pertanto «costituire fonte
di prova senza elementi sussidiari di conferma» (22).
La comparazione delle impronte raccolte con quelle
in possesso della polizia giudiziaria costituisce «un
mero accertamento di dati obiettivi», puntualizza la
Corte, e, come tale, «non postula il rispetto delle
formalità prescritte dall’art. 360» c.p.p. (23). Anche
il prelievo del “tampone a freddo”, funzionale allo
stub, è considerato un mero rilievo «prodromico all’effettuazione di accertamenti tecnici», come tale
non implicante l’intervento necessario del difensore, nonostante costituisca un’attività irripetibile,
mentre «il successivo esame spettroscopico sulle
particelle estratte e fissate dal processo di metallizzazione è suscettibile di ripetizione senza pregiudizio
per la sua attendibilità» e, di conseguenza, rappresenta un accertamento che non richiede particolari
precauzioni (24).
l’art. 354 c.p.p., insomma, è diventato un ‘contenitore’ che accoglie un ampio catalogo di attività, riconducibili all’ambito delle investigazioni scientifiche. Con l’effetto, da un lato, di valorizzare l’operato della polizia giudiziaria in questo segmento procedimentale; dall’altro, di consentire la ‘cristallizzazione’ di una serie di atti e operazioni compiuti unilateralmente - e in assenza persino del pubblico ministero - sulla scena del crimine, in quanto classificati sub
specie ‘rilievo’, la cui intrinseca non ripetibilità ne
determina il transito automatico nel fascicolo dibattimentale.
Funzionali alle improcrastinabili esigenze dell’accertamento, le disposizioni richiamate - e l’assetto concettuale che includono, condizionato dall’obsoleta
266
distinzione tra ‘rilievi’ e ‘accertamenti’ - pongono
inoltre dei problemi sotto il profilo delle garanzie difensive (v. infra): da qui l’ineludibile esigenza di corredare dette attività di cautele e di protocolli che ne
garantiscano un regolare svolgimento, e di dotare i
loro esecutori delle necessarie competenze e professionalità (25).
Il raffronto con le esperienze di altri ordinamenti
di common law, che vantano in materia una tradizione ormai consolidata, rafforza la convinzione
dell’importanza dell’uso di protocolli riconosciuti
nell’espletamento dell’esame della scena del crimine, che si pone al contempo quale garanzia di efficienza investigativa - l’utilizzo di appropriate metodiche costituisce infatti un valore aggiunto, un benefit quantitativo e qualitativo nella ricerca, individuazione, repertazione e conservazione delle
Note:
(19) Cass., Sez. I, 13 novembre 2007, Pannone, in C.E.D. Cass.,
n. 239101.
(20) Cass., Sez. I, 7 dicembre 2006, Curcio, in C.E.D. Cass., n.
236561; Cass., Sez. I, 16 aprile 2004, Amato, in C.E.D. Cass., n.
228243.
(21) Cass., Sez. II, 27 ottobre 1998, Bettio, in C.E.D. Cass., n.
213311.
(22) Così Cass., Sez. V, 26 febbraio 2010, Di Serafino, in C.E.D.
Cass., n. 246901; negli stessi termini Cass., Sez. II, 2 aprile
2008, Cidade, in C.E.D. Cass., n. 239781; Cass., Sez. V, 26 maggio 2005, Djordjevic, in C.E.D. Cass., n. 232213.
(23) Cass., Sez. I, 11 giugno 2009, Dedej, in C.E.D. Cass., n.
244295; Cass., Sez. V, 17 marzo 2004, Puce, in C.E.D. Cass., n.
228864.
Analogamente Cass., Sez. I, 11 novembre 1996, Koudri, in
C.E.D. Cass., n. 206423.
V. pure Cass., Sez. IV, 25 giugno 2008, Sparer, in C.E.D. Cass., n.
241022, secondo cui «gli accertamenti dattiloscopici compiuti
dalla polizia giudiziaria, pur potendo costituire fonte di prova nel
giudizio, non hanno carattere né formale, né sostanziale di perizia, ma s’inquadrano nell’attività preliminare d’accertamento e
d’assicurazione delle prove, per l’espletamento della quale non è
necessario venga garantita la presenza e l’intervento del difensore dell’indiziato».
(24) Cass., Sez. I, 28 febbraio 2006, P.G. in proc. Ditto e altro, in
C.E.D. Cass., n. 234266; negli stessi termini Cass., Sez. I, 9
maggio 2002, Maisto e altro, in C.E.D. Cass., n. 221621.
V. inoltre, con riferimento al giudizio abbreviato, Cass., Sez. V, 21
gennaio 2003, P.G. in proc. Bocchetti, in C.E.D. Cass. , n.
226153, secondo cui «il giudice può valutare le risultanze del cd.
esame ‘stub’condotto per la ricerca di residui di sparo sui campioni raccolti dalla polizia giudiziaria senza l’osservanza delle forme prescritte dall’art. 360 cod. proc. pen., posto che il prelievo
non costituisce attività di ‘accertamento’, ed il successivo esame spettroscopico … è suscettibile di ripetizione senza pregiudizio per la sua attendibilità» e rientra, pertanto, tra gli atti «legittimamente acquisiti al fascicolo del pubblico ministero», come
tali «utilizzabili ai fini della decisione» nel rito differenziato.
Per alcune interessanti osservazioni critiche in argomento cfr. F.
Casasole, Le indagini tecnico-scientifiche: un connubio tra scienza e diritto in perdurante attesa di disciplina, in questa Rivista,
2008, 1443 s.
(25) Entrambi punti su cui c’è da registrare un grave ritardo del
nostro ordinamento, e non certo per una cattiva volontà degli
operatori.
Diritto penale e processo 3/2011
Editoriale
Processo penale
tracce del reato - e quale indice di maggiore affidabilità dei risultati.
Si muove in questa direzione anche l’azione dell’European Network of Forensic Science Institute (ENFSI),
l’organizzazione che accorpa i vari istituti forensi del
vecchio Continente e che rappresenta il più autorevole punto di riferimento del settore. Un apposito
gruppo di lavoro - denominato Working Group on
Scene of Crime - si sta infatti dedicando all’elaborazione di un manuale di Good Practices, al fine di armonizzare procedure e protocolli operativi mediante
l’individuazione di elevati standard di qualità per l’esame della scena del crimine, con un’analitica prospettazione delle procedure-tipo da seguire per l’utilizzo di ogni singola metodica e - aspetto decisivo l’individuazione di regole precauzionali da seguire
nell’assicurazione degli elementi di prova, al fine di
ridurre i rischi sempre incombenti di contaminazione dei reperti (26).
Anche il problema della qualificazione degli esperti,
e degli strumenti per certificarne la professionalità,
trova nelle esperienze d’oltremanica riflessioni e soluzioni molto più avanzate e interessanti rispetto al
contesto nazionale, nel quale, per la verità, nonostante l’attenzione degli studiosi e degli operatori
più sensibili, rimane pressoché ignorato dal legislatore, risultando de facto rimesso alla coscienza, all’autoresponsabilità e all’intuito dell’autorità giudiziaria - e, talvolta, persino alla buona sorte - sovrana
nella prassi delle scelte in materia di expert evidence.
È un ulteriore aspetto di cui si sta occupando il citato gruppo di lavoro istituito in seno all’ENFSI, con
lo specifico intento di delineare un sistema di accreditamento europeo (UNI SO EN 17020) delle strutture interessate che garantisca la correttezza delle
operazioni e, di conseguenza, l’efficienza dell’intervento investigativo sulla scena del crimine e l’attendibilità dei relativi risultati.
La necessità di prevedere regole chiare e definite per
selezionare il personale impegnato nello svolgimento di attività di particolare complessità tecnicoscientifica non riguarda soltanto l’area dei rilievi e
degli accertamenti urgenti, ma anche quella più ampia - e contenutisticamente affine - della consulenza
tecnica (fuori dai casi di urgenza) e della perizia.
Quanto sia molto spesso risolutiva la qualificazione
degli ‘esperti’ per l’efficacia dell’accertamento, riverberandosi di conseguenza sull’attendibilità dei risultati, è dato del resto a tutti noto, come alcuni
eclatanti casi giudiziari, raccontati dalle cronache
giudiziarie, confermano (27).
Se, com’è accaduto di recente, i risultati della perizia
disposta sui resti della vittima in un caso di omicidio
Diritto penale e processo 3/2011
e su altri reperti rinvenuti sulla scena del crimine
(28) appaiono così deludenti e approssimativi da costringere il g.i.p. che l’aveva disposta a promuovere
un nuovo incidente probatorio, affidando l’incarico
peritale a un altro esperto (29), ciò significa evidentemente che è essenziale adottare regole precise sul
punto, prevedendo strutture idonee allo scopo con
corrispondenti percorsi formativi e meccanismi di
verifica delle professionalità e, magari, appositi albi
cui attingere gli esperti della scena del crimine.
Note:
(26) Profilo cui guardano con estremo interesse anche i nostri
esperti più qualificati.
Sul punto v., in particolare, G. Lago, Banche dati DNA: raccomandazioni internazionali, studio comparato con la Legge
85/2009, in Giust. pen., 2010, 141 s.
(27) In Germania le indagini su un imprendibile criminale che da
anni agiva indisturbato commettendo furti, rapine ed omicidi in
mezza Europa giungono ad un’improvvisa e inattesa svolta nel
2008, grazie al ritrovamento di numerose tracce biologiche su alcuni reperti significativi. Il profilo del probabile autore - che gli
elementi investigativi fino a quel momento raccolti descrivono
come un uomo giovane, tossicodipendente, dai capelli castani e
con pizzetto - ne risulta sorprendentemente sovvertito, essendo
il materiale biologico rinvenuto riconducibile ad una persona di
sesso femminile. Un ennesimo colpo di scena, però, è destinato a inficiare quella che era sembrata una ‘prova regina’, decisiva per risolvere un caso giudiziario impossibile: i frammenti di
DNA analizzati non appartengono all’ineffabile malvivente, bensì
a una giovane ed ignara operaia dell’azienda produttrice dei tamponi utilizzati dalla polizia scientifica per il prelievo dei reperti, addetta al reparto di inscatolamento dei cotton fioc. Un incredibile
flop per gli investigatori.
(28) Il riferimento è all’omicidio di Elisa Claps, la studentessa
scomparsa a Potenza il 12 settembre 1993, che proprio grazie al
ritrovamento delle spoglie della ragazza nel sottotetto di una
Chiesa della cittadina lucana e all’apporto delle metodiche scientifiche applicate al processo penale si è ridestato da un limbo
quasi ventennale.
(29) L’elenco delle défaillances del perito, contenuto nell’ordinanza di fissazione del nuovo incidente probatorio, è pressoché sterminato: si va dal mancato «accertamento sulle tracce biologiche,
sulle caratteristiche e profilo genetico dei reperti appartenuti al
cadavere» e su alcuni reperti appartenenti all’indagato, «non più
sottoposti ad indagine di profilo genetico ‘per ragioni di economia
analitica’», alla mancanza dell’«indicazione causale e modale per
la quale alcuni reperti ‘non recavano tracce - macchie o altro materiale di cui si potesse supporre la natura biologica’»; dalla mancata «indicazione della quantità di campioni prelevati per ciascun
reperto o comunque la loro posizione rispetto al reperto» alla carenza di «informazioni su possibilità alternative, o meno, di estrazioni di profili DNA su capelli, loro resti e formazioni pilifere di diversa provenienza, e su ogni altro materiale biologico che sia all’apparenza molto degradato»; dalla mancanza di «indicazioni su
alcuni aspetti consequenziali ma di sicuro interesse anche per gli
esiti delle altre perizie … anche a fini comparativi con il DNA della vittima o in caso negativo con il DNA dell’indagato» all’assenza
di «informazioni sul concetto di ‘kit normalmente in uso’, locuzione non definitoria di eventuali altri kit ‘non normalmente in uso’e
sulla quale si innesta l’ulteriore accertamento, anche preliminarmente come metodologia di indagine, se vi fosse la possibilità di
ulteriori, più evoluti ed aggiornati (se esistenti) strumenti di rilevazione di DNA antichi e degradati eventualmente impiegabili per
il caso in esame»; per finire con la mancanza di «un criterio di numerazione assoluto ed oggettivo dei reperti analizzati, sovrapponibile ed aderente alla numerazione dei reperti affidati» (G.i.p.
Trib. Salerno, ord. 8 ottobre 2010, inedita).
267
Editoriale
Processo penale
Il ruolo della difesa sulla scena del crimine
Non meno importante - in un impianto normativo
come il nostro, caratterizzato da una parabola di progressivo (e indisturbato) potenziamento del ruolo e
del peso delle indagini preliminari nell’economia
complessiva del rito penale - è il profilo legato al
ruolo della difesa sulla scena del crimine e alle relative garanzie difensive. Garanzie che si snodano in
una duplice direzione: a) l’eventuale partecipazione
alle attività compiute dalla polizia giudiziaria e dal
pubblico ministero; b) le attività esperibili direttamente dal difensore e dai suoi coadiutori, espressione della strategia investigativa adottata. I rilievi e
gli accertamenti sulla scena del crimine, d’altronde,
sono inevitabilmente collocati nelle battute iniziali
del procedimento, ed è proprio la loro immediatezza
e tempestività a garantirne molto spesso l’efficacia,
anche se talvolta ‘tornare sul luogo del delitto’ può
essere utile e necessario per gli investigatori (dell’accusa come della difesa), magari allo scopo di sviluppare spunti d’indagine inizialmente trascurati o comunque imprevedibili.
Il tema s’interseca con il potenziamento delle investigazioni difensive operato, ormai un decennio orsono, dalla l. 7 dicembre 2000, n. 397, e impone di verificare se il dato normativo, pur irrobustito, sia in
grado di soddisfare le istanze collegate all’esercizio
del diritto di difesa peculiari dell’esame della scena
del crimine. Se è vero che il legislatore con tale novella ha tratteggiato «un difensore mezzo Perry Mason mezzo poliziotto, colui che cerca … e non potrà
riuscire a colmare situazioni reali (e complessi) di inferiorità rispetto al pubblico ministero» (30), altrettanto plausibili e degne della massima attenzione sono le riserve da taluni avanzate sull’opportunità che
la difesa svolga sulla scena del crimine attività investigative volte al reperimento di tracce del reato in
assenza dell’accusa, poiché dette operazioni implicano il pubblico ministero «o una sua lunga mano presenti, non essendo possibile ricerca né tanto meno
apprensione coattiva» per comprensibili ragioni di
tutela dell’integrità dello stato dei luoghi (31).
Il principale referente normativo è rappresentato in
questo caso dall’art. 391-sexies c.p.p., che consente
alla difesa di effettuare l’accesso «per prendere visione dello stato dei luoghi e delle cose ovvero per procedere alla loro descrizione o per eseguire rilievi tecnici» di vario genere. La disposizione, come si desume dal suo tenore letterale, copre un’area più ampia
di quella del sopralluogo in senso stretto, ben potendo l’accesso operato dalla difesa riguardare anche un
luogo diverso dalla scena del crimine.
268
Tale chance difensiva, tuttavia, è limitata dal successivo art. 391-septies c.p.p., qualora si tratti di luogo
privato o comunque non aperto al pubblico e manchi il consenso della persona che ne abbia la disponibilità, imponendosi nella circostanza un provvedimento autorizzativo del giudice che specifichi le
modalità dell’accesso. Il divieto assoluto di accesso
ai luoghi d’abitazione e alle loro pertinenze dettato
dall’art. 391-sexies comma 3 c.p.p., infine, cede il
passo ogniqualvolta «sia necessario accertare le tracce e gli altri effetti materiali del reato». Ed è proprio
quest’ultima previsione ad entrare in gioco nel caso
- non infrequente - in cui la scena del crimine sia così ubicata.
Ma cosa accade nel caso in cui il team difensivo decida di effettuare quello che è nella sostanza un sopralluogo giudiziario, pur se non compiuto necessariamente nell’immediatezza del fatto?
l’art. 391-sexies c.p.p. prevede che la difesa possa
compiere non soltanto attività di carattere meramente ricognitivo, ma anche veri e propri rilievi tecnici, grafici, planimetrici, fotografici o audiovisivi - cioè a dire attività assimilabili a quelle prima
esaminate con riferimento alla polizia giudiziaria e
al pubblico ministero (artt. 354, comma 2, e 359,
comma 1, c.p.p.), prescrivendo delle (non obbligatorie ma) rigorose modalità di documentazione - tra
cui l’indicazione espressa dei rilievi eseguiti, che
fanno parte integrante dell’atto e vanno quindi allegati al verbale - evidentemente finalizzate alla successiva utilizzazione dei risultati di tali operazioni in
chiave probatoria.
Gli orientamenti che emergono sul punto rischiano
però di creare ulteriore confusione in un panorama
normativo già di per sé inadeguato. Non mancano,
infatti, voci critiche sulla ventilata possibilità per il
team difensivo di agire sulla scena del crimine raccogliendo tracce del reato, in assenza del pubblico ministero e a condizioni più vantaggiose degli organi
dell’accusa (32). Proprio muovendo dalle perplessità
Note:
(30) M. Nobili, Giusto processo e indagini difensive: verso una
nuova procedura penale?, in AA. VV., Il Diritto e la differenza.
Scritti in onore di A. Baratta, a cura di R. de Giorgi, Lecce, 2002,
I, 492.
(31) Così, con riferimento all’art. 391-septies c.p.p., F. Cordero,
Procedura penale, 8ª ed., Milano, 2006, 907.
Che si tratti di un’attività di natura particolare, comunque, emerge anche dal disposto dell’art. 334-bis c.p.p.: cfr., sul punto, A.
Confalonieri, La ricostruzione della “scena del delitto” ad opera
del difensore, ovvero nuovi profili del “sopralluogo giudiziario”
della difesa, in questa Rivista, 2007, 815.
(32) F. Bernardi, Maggiori poteri agli avvocati nella legge in materia di indagini difensive, I, Le attività di indagine, in questa Rivista, 2001, 222.
Diritto penale e processo 3/2011
Editoriale
Processo penale
sull’attribuzione alla difesa del potere di compiere
operazioni non meramente descrittive si è pure affermato che il verbale in cui è contenuta l’indicazione dei rilievi eventualmente compiuti potrebbe persino assumere, di fatto, «la struttura di una consulenza tecnica senza che, però, vi figurino quesiti e
conclusioni» (33). In tal modo, però, si rischia di
eludere le prescrizioni imposte anche alla difesa in
caso di ricorso agli esperti dall’art. 233 c.p.p., come
interpolato dalla l. 397/2000.
Il consulente tecnico della difesa, com’è noto, può
accedere alla scena del crimine ed esaminare i reperti individuati al fine di adempiere correttamente all’incarico conferitogli. In questi casi, tuttavia,
viene in gioco la differente disciplina contenuta
nell’art. 233, comma 1-bis e 1-ter, c.p.p., che rimette all’autorità giudiziaria (e, nello specifico, al pubblico ministero prima dell’esercizio dell’azione penale) il potere di autorizzare, su richiesta del difensore, l’esperto ad esaminare le cose sequestrate e ad
intervenire alle ispezioni, nonché ad esaminare
l’oggetto delle ispezioni cui non ha partecipato,
impartendo «le prescrizioni necessarie per la conservazione dello stato originario delle cose e dei
luoghi».
Sotto altro profilo, inoltre, è stato osservato come
sia possibile arrivare fino a una ‘para-perquisizione’
(34) che accerti gli effetti materiali del reato, «con
possibili rischi di scombussolare piste ben altrimenti
praticabili dalla polizia e dal pubblico ministero»
(35). Nel procedere al ‘sopralluogo difensivo’, in
ogni caso, il difensore dovrà tener conto delle Regole di comportamento del penalista nelle investigazioni difensive, elaborate dall’Unione delle Camere Penali
Italiane, che con maggior rigore rispetto al codice
impongono al difensore, al suo sostituto e ai suoi ausiliari, «anche quando non redigono un verbale», di
documentare «nelle forme più opportune lo stato
dei luoghi e delle cose, procurando che nulla sia mutato, alterato o disperso» in occasione dell’accesso ai
luoghi (art. 14, comma 1); nonché dell’omologa disposizione del Codice deontologico forense (art. 52, I,
comma 13) (36).
Venendo al verbale previsto dall’art. 391-sexies
c.p.p., ed ai suoi contenuti, si è evidenziato che alcuni dati «sono meramente oggettivi (data-luogogeneralità), mentre altri - quale la descrizione dei
luoghi - sono sottoposti al filtro critico del verbalizzante» (37). La sua rilevanza, ai fini dell’utilizzabilità dei rilievi effettuati dalla difesa in occasione dell’accesso, è confermata senza esitazioni dalla giurisprudenza di legittimità che considera ineludibile
per l’utilizzo in chiave cognitiva del frutto delle in-
Diritto penale e processo 3/2011
vestigazioni difensive il rispetto delle modalità di
documentazione codificate dal legislatore (38).
Il riferimento ai ‘rilievi’ contenuto nella norma in
esame ripropone gli interrogativi prima prospettati a
proposito dell’attività di polizia giudiziaria: dovrà
trattarsi soltanto di atti a contenuto essenzialmente
descrittivo, frutto di semplice «osservazione esterna,
constatazione, memorizzazione, ricerca e raccolta di
dati materiali» (39), o potranno ricomprendere anche l’analisi e la valutazione critica di tali dati?
l’uso codicistico dell’espressione “rilievi tecnici” indurrebbe a ritenere legittime anche attività non
propriamente neutre sotto il profilo valutativo. E invece la giurisprudenza di merito, in linea con l’approccio dottrinale prevalente (40), ritiene che le investigazioni difensive non possano mai spingersi fino al punto di realizzare attività in grado di alterare
lo stato dei luoghi o di cose, dovendosi viceversa limitare «ad attività sostanzialmente ricognitive o descrittive e, come tali, tendenzialmente ripetibili»,
escludendo così perentoriamente «il prelievo di
campioni» o l’«asportazione di frammenti al fine di
procedere ad esami tecnici» (41).
Tuttavia è lo stesso codice di rito, in un altro frangente, che sembra smentire la categoricità di tale affermazione. l’art. 391-decies c.p.p. - oltre a raccogliere al suo interno, per la verità in maniera un po’ defilata, l’ipotesi degli accertamenti tecnici non ripetibili della difesa speculare a quella di pertinenza delNote:
(33) G. Paolozzi, Indagini difensive, in AA. VV., Codice di procedura penale ipertestuale, a cura di A. Gaito, 3ª ed., Torino, 2008,
I, 2036 s.
(34) F. Cordero, Procedura penale, 8ª ed., cit., 907.
(35) M. Nobili, Giusto processo e indagini difensive, cit., 496.
Esistono invece determinate attività di polizia giudiziaria che caratterizzano l’esame della scena del crimine, ma che non trovano rispondenza nel rinnovato assetto delle investigazioni difensive indotto dalla l. 397/2000.
(36) «Il difensore, anche quando non redige un verbale, deve documentare lo stato dei luoghi e delle cose, procurando che nulla
sia mutato, alterato o disperso».
(37) A. Cristiani, Guida alle indagini difensive nel processo penale. Commento analitico alla legge 7 dicembre 2000, n. 397, Torino, 2001, 117.
(38) Cfr., per tutte, Cass., Sez. I, 5 novembre 2003, Drozdzik, in
Giust. pen., 2004, III, 628.
(39) Per riprendere la formula adottata da A. Confalonieri, La ricostruzione della “scena del delitto” ad opera del difensore, cit.,
811.
(40) Cfr., in particolare, E. Aprile, Prova penale e indagini difensive, in E. Aprile-P. Silvestri, La formazione della prova penale. Dopo le leggi sulle indagini difensive e sul “giusto processo”, Milano, 2002, 92.
(41) In questi termini Trib. Reg. Campania, ord. 3 marzo 2005,
inedita.
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Editoriale
Processo penale
l’accusa (art. 360 c.p.p.) - disciplina difatti la destinazione degli ‘altri’ atti non ripetibili compiuti in
occasione dell’accesso ai luoghi (comma 2), così riconoscendo expressis verbis la possibilità che anche il
team difensivo compia atti non ripetibili diversi dagli accertamenti tecnici e attribuendo al pubblico
ministero la facoltà di assistervi (senza il diritto di
essere previamente avvisato) personalmente o mediante delega alla polizia giudiziaria (comma 3).
Vero è, peraltro, che l’art. 391-sexies c.p.p. non si segnala certo per rigore e precisione, collocandosi in
quella scia di tentennamenti e carenze normative
che denota uno scarso interesse del legislatore per la
materia, traducendosi in assenza di regole chiare sulla conservazione dello stato dei luoghi e che evitino
la dispersione o l’alterazione delle tracce del reato,
di ogni specificazione di ciò che è consentito e di ciò
che è vietato al team difensivo nella sua azione sulla
scena del crimine e, in particolare, dell’indicazione
espressa di quali siano le operazioni e gli accertamenti validamente eseguibili dalla difesa in loco e sui
reperti individuati, così come delle cautele che devono accompagnare l’apprensione e la conservazione dei reperti stessi.
Ne deriva il conferimento di un’ampia discrezionalità agli organi giurisdizionali, chiamati inevitabilmente a colmare dette lacune con l’elaborazione
giurisprudenziale. E non va dimenticato che l’eventuale pregiudizio per la difesa può coinvolgere anche
la persona offesa, che gode delle medesime prerogative della persona sottoposta alle indagini e dell’imputato in punto di investigazioni difensive.
Le esigenze difensive - come detto - emergono poi
anche sotto il profilo della partecipazione all’attività
investigativa di carattere tecnico-scientifico posta
in essere dalla polizia giudiziaria e dal pubblico ministero. Viene qui nuovamente in gioco la consolidata distinzione tra ‘rilievi’ e ‘accertamenti’, evocata dall’art. 354 c.p.p., densa di riverberi anche sull’esercizio del diritto di difesa.
Muovendo dalla ripartizione codicistica tra attività
svolte ad iniziativa della polizia giudiziaria (disciplinate nel titolo IV del libro quinto) e attività delegate dall’organo dell’accusa (come tali riconducibili al titolo V del libro quinto), funzionalmente
diversificate, la suprema Corte ha affermato che
«nessuna forma di assistenza [difensiva] è prevista
per i semplici rilievi tecnici compiuti per delega
del p.m.», dovendo applicarsi nella fattispecie la
disciplina di cui all’art. 370, comma 2, c.p.p. - che
impone l’osservanza degli artt. 364, 365 e 373
c.p.p. - e non potendo viceversa «essere mutuati,
estensivamente, dalla disposizione di cui all’art.
270
356» c.p.p., «gli adempimenti previsti a tutela dei
diritti della difesa» che vengono in gioco quando la
polizia giudiziaria opera motu proprio assicurando
una «tutela, ancorché affievolita», del diritto di difesa (42).
Ci troviamo di fronte, insomma, ad una scala progressiva, scandita da tre regimi differenziati, che
oscillano da un livello minimo ad un livello massimo di copertura delle garanzie difensive. Il medesimo atto, se compiuto di propria iniziativa dalla polizia giudiziaria piuttosto che in luogo e per conto del
pubblico ministero, è assoggettato a ‘regole dedicate’
e, a seconda che sia classificato come ‘rilievo’ o come ‘accertamento’, comporta il riconoscimento parziale (facoltà del difensore di assistere, senza diritto
di essere preventivamente avvisato: art. 356 c.p.p.)
o totale (obbligo di previa instaurazione del contraddittorio: art. 360 c.p.p.) del diritto di difesa.
Una tale ricostruzione concettuale - emergente dal
dato normativo - costituisce fonte di disparità di
trattamento potenzialmente anche enormi rispetto
ad atti contenutisticamente assimilabili e tutti forniti in nuce di un’efficacia probatoria piena, stante la
loro irripetibilità. Di diverso avviso i giudici di legittimità secondo i quali deve essere pacificamente
esclusa la possibilità che tale disciplina differenziata
«concretizzi un’inammissibile ed incomprensibile
difformità di trattamento», in quanto, da un lato,
«la diversità dei regimi si fonda su quella dei momenti acquisitivi nonché sulle differenze funzionali
caratterizzanti ciascun organo preposto al compimento degli atti di indagine», dall’altro, il legislatore ben può «disciplinare con modalità diverse il diritto di difesa in rapporto alle singole fasi, ai singoli
atti ed alle funzioni e qualificazioni dell’organo che
questi debba espletare» (43).
Professionalità degli esperti, catena
di custodia e affidabilità dei risultati
La dialettica tra accusa e difesa, pur se geneticamente imperfetta in questo segmento procedimentale,
deve alla fine tradursi in risultati probatori apprezzabili per l’accertamento giurisdizionale, o quanto meno in input significativi per l’acquisizione delle prove nel corso dell’istruzione dibattimentale, com’è regola in un processo realmente accusatorio.
Il terzo e ultimo profilo che contraddistingue l’esame
della scena del crimine è, pertanto, costituito dall’afNote:
(42) Cass., Sez. I, 9 febbraio 1990, Duraccio, in C.E.D. Cass., n.
183647.
(43) Cass., Sez. I, 9 febbraio 1990, Duraccio, cit.
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Processo penale
fidabilità dei risultati: punto d’arrivo, sintesi, approdo naturale dell’agire di parti, ausiliari ed esperti sul
luogo del delitto. l’errore umano, colpevole o incolpevole che sia, è sempre in agguato e ineludibile, di
conseguenza, è la questione della correttezza dei periti e dei consulenti tecnici, l’esigenza di un’etica condivisa dell’esperto che funga da barriera a possibili
manipolazioni, deformazioni, omissioni e contaminazioni dagli effetti potenzialmente dirompenti (44).
Anche in questo caso affiora l’inerzia consapevole
del legislatore, che non si è preoccupato di dettare
criteri rigorosi per la scelta degli esperti su cui incombe l’onere di introdurre nel processo le conoscenze scientifiche più complesse e avanzate, né tantomeno di organizzare e promuovere la loro formazione e di predisporre appositi albi che ne certifichino le abilità, attestandone la professionalità. Non
può, infatti, bastare l’elaborazione di una pur commendevole etica dell’investigazione - fruibile tutt’al
più sul piano deontologico - a ‘parare i colpi’ e ad evitare le insidie che costantemente si frappongono ad
un uso appropriato della scienza nella contesa penale, precludendo l’accesso sulla scena investigativa di
strumenti pseudo-scientifici e, più in generale, di
quella scienza-spazzatura (bad science) che finisce
non di rado per oscurare e travolgere l’indubbio e positivo contributo all’accertamento del fatto apportato dalla conoscenza scientifica.
Sotto questo profilo uno specifico aspetto, fondamentale per la sua proiezione probatoria e dunque
per l’affidabilità dei risultati delle investigazioni
scientifiche, è rappresentato dalla cd. ‘catena di custodia’, che consiste nella precisazione e documentazione dei vari passaggi e delle attività svolte sui reperti acquisiti durante l’esame della scena del crimine, dal momento della loro materiale apprensione a
quello della celebrazione del processo (45). In presenza di lacune normative manifeste si impone,
quanto meno, l’esigenza di precisare gli step essenziali e irrinunciabili da seguire e da documentare a garanzia del rispetto della catena, che siano idonei ad
attestare la genuinità del risultato probatorio (46).
Pur nella consapevolezza delle peculiarità che contraddistinguono le singole metodiche d’investigazione scientifica, tali da poter richiedere specifiche modalità di conservazione dei reperti e magari di documentazione del relativo passaggio, è possibile tracciare il seguente elenco: a) numerazione progressiva
del caso giudiziario; b) breve descrizione del medesimo; c) individuazione del soggetto che ha proceduto
all’acquisizione del reperto; d) data (giorno, mese,
ora e luogo) di acquisizione del reperto; e) descrizione accurata del reperto (con indicazione, quando
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possibile, di dati identificativi certi: ad es., nel caso
di supporto informatico, marca e numero di serie); f)
soggetto a cui il reperto è stato consegnato dopo il
suo rinvenimento (e così per ogni eventuale passaggio successivo, del quale deve essere certificata la
data e il motivo); g) descrizione degli eventuali esami e/o analisi compiuti sul reperto, del soggetto che
gli ha effettuati, della data in cui sono stati svolti,
della data in cui il reperto è stato ricevuto e di quella in cui è stato restituito; h) sottoscrizione del documento da parte di ogni persona che ha interagito
con il reperto.
In tal modo sarà possibile ‘fissare’ e ricostruire con
precisione l’iter che i reperti provenienti dalla scena
del crimine hanno seguito, a partire dal momento
della loro individuazione, fotografando con rigore
tutti i passaggi della catena di custodia e, quindi, assicurandone e attestandone la regolarità e la veridicità, presupposti di ogni successiva utilizzazione in
chiave probatoria dei risultati probatori conseguiti.
Un’interessante sentenza della suprema Corte ha riconosciuto che «la mancata apposizione dei sigilli alla cosa sequestrata, per la tassatività della nullità,
non determina l’illegittimità del sequestro e non impedisce l’utilizzabilità della prova che dai reperti sia
in seguito acquisita a condizione però» - ed è questo
il dato innovativo - «che sia comunque certa l’identità della cosa sequestrata» e che, «nonostante la
mancanza dei sigilli», possano «escludersi ipotesi di
manomissione o di confusione tra reperti», dovendo
il giudice di merito «porsi il problema della genuinità
del reperto, eventualmente anche d’ufficio» (47).
Si tratta di un’importante apertura giurisprudenziaNote:
(44) Cfr. volendo, il nostro Investigazioni scientifiche, verità processuale ed etica degli esperti, in questa Rivista, 2010, 1349.
(45) Tema nuovo per la nostra dottrina (e solo parzialmente
esplorato dalla pratica giudiziaria), tuttora ignorato dal legislatore,
del quale invece giurisprudenza e studiosi statunitensi hanno cominciato ad interessarsi ormai quarant’anni orsono negli Stati
Uniti.
(46) Cfr., in proposito, con particolare riferimento alla computer
evidence, V. Casini, Sanzionata dalla Cassazione l’omessa catena di custodia, in questa Rivista, 2010, 1079.
(47) Così Cass., Sez. III, 19 gennaio 2010, Pirrotta, in questa Rivista, 2010, 1076 s., rispetto a un caso in cui il perito nominato
dal tribunale aveva rilevato, dandone immediata comunicazione
al giudice, che il materiale consegnatogli «era difforme quantitativamente da quanto verbalizzato» dalla polizia giudiziaria e, peraltro, «non era stato in alcun modo sigillato» essendogli stato
consegnato in scatole di cartone aperte.
La pronuncia supera il precedente e più restrittivo orientamento
della Corte di cassazione - anteriore alla l. 48/2008 - espresso in
Cass., Sez. I, 22 febbraio 2007, Manno e altro, in C.E.D. Cass.,
n. 236291, che ha ritenuto mero errore materiale, non sanzionato dalla legge, la non corrispondenza tra i reperti contenuti in un
plico e quanto indicato nella sua etichettatura.
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Processo penale
le, probabilmente ‘sollecitata’ anche dal peculiare
dato normativo (48) che connota la cd. ‘prova
informatica’ (computer forensics) (49). È stata, presumibilmente, l’interpolazione dell’art. 354 comma 2
c.p.p. suscitata dalla l. 48/2008 a fornire - in un’auspicabile sinergia tra giudici e legislatore - l’input per
un approccio al passo coi tempi, che non coinvolge
solo i rilievi (e gli accertamenti) urgenti sulla scena
del crimine ma anche il sequestro informatico delineato dagli artt. 254-bis e 260 c.p.p. nel testo risultante dalla legge citata (50).
Restano invece inesplorate le possibili conclusioni
dei giudici di legittimità in casi analoghi ma concernenti reperti non informatici, rispetto ai quali non
opera la disciplina de qua, a cominciare dalla cd.
‘prova genetica’ della quale la l. 85/2009 ha completamente omesso di considerare la delicata questione
della catena di custodia (51).
di appartenenza (art. 73-bis), implicitamente perpetuando l’assetto vigente e le ricorrenti, discutibili
prassi, senza affrontare seriamente la delicatissima
questione degli incarichi retribuiti affidati agli
esperti della polizia scientifica, spesso coincidenti
con i soggetti intervenuti sulla scena del crimine in
prima battuta.
La Bozza di un nuovo codice di procedura penale elaborata dalla Commissione Dalia nel 2004 si discosta solo marginalmente dallo stato dell’arte, riproponendo l’attuale art. 348 c.p.p. (art. 385 prog. Dalia),
conglobando nel codice di rito la peculiare disciplina delineata per i reati di competenza del giudice di
pace che consente alla polizia giudiziaria di “richiedere al pubblico ministero l’autorizzazione al compimento di accertamenti tecnici irripetibili” (art. 13
d.lgs. 28 agosto 2000, n. 274) e lasciando inalterata
Proposte e prospettive de iure condendo
Note:
Ma quali sono le vie concretamente percorribili per
un sostanziale ed efficace riassetto di una disciplina
così lacunosa?
Occorre senza dubbio tener conto dello scenario
complessivo, caratterizzato da un trend normativo
ormai quasi ventennale favorevole al potenziamento del ruolo della polizia giudiziaria nella fase investigativa, a discapito del pubblico ministero. Se
guardiamo alle più recenti iniziative legislative in
materia di processo penale emerge infatti una linea
di politica criminale ad hoc incentrata sulla radicale
modifica degli assetti investigativi esistenti: un deciso ridimensionamento del ruolo del pubblico ministero e uno speculare potenziamento dei poteri investigativi della polizia giudiziaria è quanto propone il
cd. ‘disegno di legge Alfano’, presentato dal Governo nel febbraio 2009 (52). In particolare, si ipotizza
l’innesto di un art. 370-bis c.p.p., enfaticamente intitolato “Indagini tecnico-scientifiche”, che tuttavia si
limita a prevedere genericamente il potere del pubblico ministero di “delegare l’esecuzione di indagini
e accertamenti tecnico-scientifici ai servizi di investigazione scientifica istituiti presso i servizi centrali
e territoriali di polizia giudiziaria” (comma 1) e a richiamare le garanzie dell’art. 360 c.p.p. nel caso in
cui tali indagini e accertamenti comportino “modificazioni irreversibili dello stato dei luoghi o delle
cose” (comma 2). Una nuova disposizione d’attuazione, inoltre, si propone di imporre ai componenti
dei servizi di investigazione scientifica nominati
consulenti tecnici o periti ai sensi dell’art. 360 c.p.p.
di versare una quota del compenso percepito - pari
al trenta per cento - al servizio di polizia giudiziaria
(48) Sulla particolare natura ‘immateriale’del dato informatico,
come tale resistente alle classificazioni tradizionali e meritevole
di una disciplina ad hoc, si vedano le considerazioni di P. Tonini,
Documento informatico e giusto processo, in questa Rivista,
2009, 401 s.
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(49) Sui profili tecnici della computer forensics si rinvia a A. Ghirardini-G. Faggioli, Computer forensics, 2ª ed., Milano, 2009,
passim.
Per l’esperienza nordamericana v. F. Cohen, Digital Forensic Evidence Examination, Livermore, 2009, passim
(50) Cfr., in particolare, E. Lorenzetto, Le attività urgenti di investigazione informatica e telematica, in Aa. Vv., Sistema penale e
criminalità informatica, a cura di L. Lupária, Milano, 2009, 135 s.;
A. Monti, La nuova disciplina del sequestro informatico, ivi, 197
s.
(51) Cfr., sul punto, P. Tonini, Informazioni genetiche e processo
penale ad un anno dalla legge, in questa Rivista, 2010, 887 s.;
nonché A. Monti, Catena di custodia e “doppio binario” per campioni e reperti, in AA. VV., Banca dati del DNA e accertamento penale, a cura di L. Marafioti e L. Lupária, Milano, 2010, 101 s., dove si sottolinea, comunque, l’orientamento restrittivo delle corti
inglesi e statunitensi.
(52) Il disegno di legge, attualmente ‘parcheggiato’in Parlamento, propone tra l’altro una modifica dell’art. 348 comma 3 c.p.p.
(«dopo l’intervento del pubblico ministero la polizia giudiziaria
svolge di propria iniziativa tutte le attività di indagine per accertare i reati ovvero richieste da elementi successivamente emersi e assicura nuove fonti di prova, informandone il pubblico ministero, compie gli atti ad essa specificamente delegati a norma
degli articoli 370 e 370-bis ed esegue le direttive del pubblico ministero»), raccordata con la soppressione nell’art. 354 comma 2
c.p.p. dell’inciso «e il pubblico ministero non può intervenire
tempestivamente ovvero non ha ancora assunto la direzione delle indagini».
L’intento del primo innesto, come si afferma a chiare lettere nella Relazione illustrativa, è di consentire agli organi di polizia giudiziaria di «svolgere indagini senza trascurare piani investigativi
anche diversi da quelli del pubblico ministero e di cui lo stesso
organo dell’accusa deve tener conto quando esercita l’azione
penale»; con la riscrittura dell’art. 354 c.p.p., invece, si vuole
«assicurare l’esecuzione immediata dell’atto urgente, in presenza delle esigenze probatorie e del periculum in mora, rappresentato dal rischio di alterazione, dispersione o modificazione delle
cose o delle tracce o luoghi oggetto di indagine», ed in particolare il sequestro del corpo del reato.
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la corrente disciplina degli accertamenti urgenti sul
luogo e nell’immediatezza del fatto, ivi compresa la
distinzione tra accertamenti e rilievi (art. 392 prog.
Dalia) e i relativi obblighi di documentazione (art.
395 prog. Dalia). Anche l’individuazione dei poteri
investigativi attribuiti al pubblico ministero in materia di accertamenti, rilievi e ogni altra operazione
tecnica e delle particolari garanzie per gli accertamenti tecnici non ripetibili non rivela stravolgimenti significativi, ma solo alcune variazioni prevalentemente lessicali (53). Da segnalare, però la delimitazione dell’area degli accertamenti tecnici non
ripetibili, circoscritta expressis verbis agli accertamenti “urgenti” e soggetta a regole stabilite “a pena
di inutilizzabilità” (art. 397 prog. Dalia).
Più netta è la presa di posizione della Bozza di legge
delega predisposta dalla Commissione Riccio nel 2006,
caratterizzata da una direttiva 52 che riconosce il
“potere-dovere della polizia giudiziaria di prendere
notizia e di descrivere i fatti costituenti reato, di assicurare le fonti di prova, anche per mezzo di investigazioni scientifiche”, pur se in un quadro generale
contraddistinto dalla riproposizione della consueta
dinamica dei rapporti tra polizia giudiziaria e pubblico ministero, con l’attribuzione alla prima di poteri
investigativi incisivi sostanzialmente fino al momento in cui l’organo dell’accusa impartisce le proprie direttive (cfr. in particolare le direttive 52.4,
52.9, 54.1 e 57.2). Come si legge nella Relazione di
accompagnamento, l’esplicito riferimento alle investigazioni scientifiche «colma un vuoto rappresentato dalla stessa polizia scientifica in sede di audizione» e costituisce un «riconoscimento di questa specifica attività e della sua autonomia nell’ambito delle prime indagini» (54). l’attività d’investigazione
scientifica esce così dall’anonimato giuridico acquisendo un’autonomia sistematica (55).
La pur sintetica ricognizione delle disposizioni presenti in questo trittico de iure condendo conferma pur nell’eterogeneità delle tecniche normative adoperate e delle ispirazioni ideologiche sottostanti - il
rafforzamento del trend legislativo che tende a potenziare il ruolo della polizia giudiziaria nella fase investigativa, facendo emergere al contempo una moderata sensibilità per il tema delle investigazioni
scientifiche, elevate al rango di species a sé stante,
senza però che siano proposte innovazioni radicali o
guizzi normativi veramente significativi.
Quali sono, allora, le aree d’intervento evidenziabili
nella prospettiva di un’auspicabile riforma?
In primo luogo andrebbe superata l’obsoleta distinzione tra ‘rilievi’ e ‘accertamenti’, fonte come abbiamo visto di forzature interpretative e di disparità di
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trattamento in grado di inficiare non soltanto i diritti della difesa ma anche la stessa genuinità dell’accertamento giurisdizionale. Fondamentale, invece, è
il discrimen tra ‘atti ripetibili’ e ‘atti non ripetibili’,
nonché l’‘urgenza’ e l’‘indifferibilità’ dell’attività da
compiere sulla scena del crimine che, spesso, impedisce di prevedere un appropriato intervento difensivo.
Come porre rimedio a un’empasse a prima vista insormontabile?
Una soluzione certamente ardita e delicata per le
sue implicazioni sarebbe quella di prevedere un organismo terzo, una struttura pubblica indipendente
da accreditare secondo appropriate procedure di certificazione, a disposizione non soltanto dell’accusa e
del giudice, ma anche della difesa, se non per l’intervento in loco quantomeno per le analisi tecnicoscientifiche del materiale repertato sulla scena del
crimine. In tal modo si potrebbero garantire adeguatamente la professionalità, la neutralità e, quindi,
l’affidabilità dei risultati. Occorrerebbe, però, affrontare e risolvere preventivamente problemi di
non poco conto, dall’ambito in cui istituire tale
struttura, alle sue connotazioni e ai soggetti istituzionali chiamati ad esercitare il controllo sul suo
operato.
Altri rimedi prospettati in passato, come la partecipazione obbligatoria del difensore d’ufficio ad ogni
atto investigativo compiuto sulla scena del crimine,
appaiono difficilmente praticabili e di scarsa efficacia pratica. A parte le ben note riserve sull’efficienza dell’attuale meccanismo della difesa d’ufficio, una
siffatta soluzione presuppone l’immediata individuaNote:
(53) I consulenti tecnici sono sostituiti dagli “ausiliari tecnici scelti tra gli appartenenti alla polizia giudiziaria ovvero tra le persone
che svolgono la loro attività professionale presso servizi pubblici”, con la possibilità, quando non si può procedere in tal senso,
“anche per la complessità dell’accertamento”, di chiedere al
giudice l’autorizzazione alla nomina di un perito, della quale deve
essere data comunicazione al difensore dell’indagato, salvo che
non vi ostino ragioni di riservatezza (art. 396 prog. Dalia).
(54) Relazione di accompagnamento alla bozza di legge delega
elaborata dalla Commissione Riccio, 67.
(55) Su altro fonte, invece, la bozza Riccio appare ben più rigorosa e conservatrice, pur se con motivazioni garantiste: «la constatazione dell’importanza del DNA e delle tecniche di identificazione personale con mezzi scientifici», si legge nella Relazione di
accompagnamento a commento delle direttive 52.2 e 52.3,
«consiglia di prevedere la possibilità di utilizzare, solo a fini identificativi, queste nuove tecniche purché siano determinate le sostanza prelevabili coattivamente, sia espressamente garantita la
dignità personale del soggetto e l’inutilizzabilità a fini probatori
dei campioni acquisiti», sottolineando l’ineludibilità di tali condizioni al fine di evitare il proliferare di pratiche deleterie (Relazione di accompagnamento alla bozza di legge delega elaborata dalla Commissione Riccio, cit., 67).
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zione di un indagato, il che non sempre accade proprio in quelle fattispecie delittuose (crimini violenti
in primis) e in quelle tipologie di accertamento (su
base prevalentemente indiziaria) che dalle investigazioni scientifiche traggono maggiore utilità. Diverso sarebbe se anche in Italia, come negli Stati
Uniti, si potesse fruire di un ufficio pubblico della
difesa ad hoc, costituito da professionisti preparati e
adeguatamente retribuiti e di conseguenza ben motivati.
Fondamentale è poi - per le esigenze dell’accertamento come per le necessità della difesa e quindi, in
definitiva, per l’affidabilità dei risultati - l’approvazione e il riconoscimento di protocolli condivisi che
riguardino singole metodiche d’investigazione tecnico-scientifica (56). Se è vero, infatti, che i protocolli operativi - anche quando elaborati a livello europeo - non potranno certo essere elevati al rango di
legge, sia per la loro prevedibile analiticità che per la
naturale modificabilità in ragione della costante
evoluzione della scienza e della tecnica, è altrettanto vero che tali protocolli - oltre all’indiscusso valore di orientamento per gli operatori - potrebbero acquisire rilevanza procedimentale e diventare cogen-
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ti se recepiti da norme regolamentari, mediante un
rinvio a queste ultime in sede codicistica. Se, insomma, non è possibile appesantire il codice di rito
con una normativa di dettaglio, l’approvazione, magari, di decreti ministeriali ad hoc periodicamente
aggiornati potrebbe costituire una soluzione praticabile. Certo sarebbe una novità per la nostra disciplina processuale, ma in qualche modo ‘imposta’ dall’incessante evoluzione tecnico-scientifica e dai suoi
innegabili riflessi sulla contesa giudiziaria.
Da considerare, infine, la questione delle conseguenze in caso di mancato rispetto delle regole, la cui soluzione va calibrata - anche alla luce delle esperienze
maturate nei sistemi di common law - tenuto conto
dell’entità delle singole violazioni e ricorrendo comunque alle consolidate categorie delle nullità di ordine generale (nei casi di lesione del diritto di difesa)
e dell’inutilizzabilità (riferibile al tema del materiale
cognitivo a disposizione del giudice).
Nota:
(56) Dello stesso avviso F. Casasole, Le indagini tecnico-scientifiche, cit., 1446.
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