Macroeconomia - Free Lex UNIROMA3

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INTRODUZIONE ALLA MACROECONOMIA
La macroeconomia studia i tratti generali del sistema economico e risponde a domande sul sistema
economico nel suo complesso.
Gli economisti concordano su tre importanti obiettivi macroeconomici, il cui raggiungimento offre l’opportunità
di rendere tutti gli individui più soddisfatti:
1. crescita economica: incremento della produzione di beni e servizi che si verifica nel corso di lunghi
periodi di tempo. Gli economisti controllano la crescita economica misurando il PIL reale, ossia la
quantità totale di beni e servizi prodotta in un paese nel corso di un anno. Quando il PIL cresce più
velocemente della popolazione, il prodotto pro capite aumenta e cosi il tenore di vita medio. In parte,
la crescita è dovuta all’incremento demografico (maggior numero di lavoratori, maggiori quantità
prodotte). Economisti e politici sono molto preoccupati quando la crescita rallenta. Tuttavia la
crescita non apporta benefici a tutti, poiché il tenore di vita aumenta più rapidamente per alcuni
gruppi e per qualcuno può addirittura diminuire. Alcuni ritengono che nel lungo periodo tutti
beneficeranno della crescita economica, altri credono che lo Stato debba tassare i ricchi e fornire
agevolazioni ai poveri. In entrambi i casi, però, la crescita economica, arricchendo il sistema
economico nel suo complesso, è considerata parte importante della soluzione.
2. piena occupazione: la disoccupazione influenza la distribuzione del benessere fra i cittadini. Chi non
trova lavoro subisce una perdita di reddito e la preoccupazione per tali persone costituisce un motivo
per cui un tasso di occupazione costantemente alto (o un tasso di disoccupazione costantemente
basso) rappresenta un importante obiettivo macroeconomico. La disoccupazione esercita
un’influenza su tutti; un alto tasso di disoccupazione indica che il sistema non sta realizzando il suo
pieno potenziale economico. Per tasso di occupazione si intende la percentuale della forza lavoro
che vorrebbe lavorare ma non riesce a trovare lavoro. Esiste sempre qualcuno che cerca lavoro,
anche quando il sistema attraversa una fase positiva. In alcuni anni, però, la disoccupazione è
insolitamente elevata.
o Quando le imprese realizzano una maggior quantità di prodotto, assumono più lavoratori.
Quando producono di meno, tendono a licenziare i dipendenti. Il PIL reale e l’occupazione,
quindi, sono strettamente correlati. Un tasso di occupazione costantemente alto, richiede un
livello di produzione stabilmente elevato, ma la quantità prodotta non è stabile. Le
fluttuazioni periodiche del PIL sono dette cicli economici.
La sottile linea inclinata verso l’alto (fig. 3 pag. 417) indica il trend ascendente di lungo
periodo del PIL reale, definito crescita economica. La linea più spessa rappresenta il ciclo
economico che si realizza intorno al trend.
Quando la quantità prodotta aumenta, si è in fase di espansione.
Quando la quantità prodotta diminuisce, si è in fase di recessione.
I cicli economici del mondo reali non hanno mai aspetto lineare e simmetrico. Una
recessione particolarmente prolungata e grave, è chiamata depressione.
Espansione ≠ crescita: la crescita è la tendenza ascendente di lungo periodo del prodotto,
per un periodo di durata solitamente superiore al decennio. L’espansione si riferisce invece
a un periodo di tempo solitamente più breve, durante il quale la quantità prodotta aumenta di
trimestre in trimestre o di anno in anno.
3. prezzi stabili: la stabilità dei prezzi è un obiettivo macroeconomico perché l’inflazione è costosa per
la società; il potere d’acquisto della valuta diminuisce in modo talmente rapido che le persone non
desiderano più tenerla e questo crollo del sistema monetario costringe la popolazione a sprecare
tempo e risorse barattando, lasciando poco tempo alla produzione di beni servizi. Pertanto il tenore
di vita medio si riduce. Quando giunge il momento di diminuire un tasso di inflazione anche modesto,
lo Stato deve attuare dolorose azioni correttive e l’effetto di tali manovre è quello di ridurre la
produzione e aumentare la disoccupazione. Ma gli economisti ritengono che una lieve inflazione sia
positiva per l’economia, in quanto se non ci fosse si andrebbe in contro a un periodo in cui i prezzi
diminuiscono in modo eccessivo (deflazione), quindi la stabilizzazione dei prezzi richiede anche di
evitare che il tasso di inflazione scenda a livelli troppo bassi che sarebbero pericolosamente
prossimi a valori negativi.
L’approccio macroeconomico si distingue da quello microeconomico per aspetti importanti.
In microeconomia in genere si applica il principio del mercato e l’equilibrio a un mercato alla volta, in
macroeconomia, invece tale principio si applica a tutti i mercati contemporaneamente. Per fare ciò si fa
ricorso all’aggregazione, ossia il processo di combinare elementi diversi in una singola categoria per
considerarli come un unico complesso. Tale processo è strumento fondamentale del ragionamento e svolge
un ruolo chiave sia in micro che in macroeconomia.
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La macroeconomia nasce con la corrente di pensiero keynesiana secondo cui il sistema economico non
funziona bene da solo ma richiede la guida di un governo attivista.
A partire dagli anni ’60 diversi economisti di rilievo iniziarono a sfidare le idee keynesiane ma oggi parte dei
disaccordi originali sono stati risolti ed è emerso un consenso generale moderno che abbraccia sia concetti
keynesiani, sia idee classiche.
Rimangono, però, alcune controversie.
Alcune controversie di politica macroeconomica hanno natura positiva. Sebbene gli economisti e i
responsabili delle politiche economiche spesso concordino sul funzionamento del sistema macroeconomico
in termini generali, essi possono non essere d’accordo su alcuni dettagli.
Tuttavia molti disaccordi che sembrano positivi, hanno spesso origine normativa.
A causa di tali battaglie politiche, spesso si può ritenere che vi sia poco accordo tra gli economisti in merito
al funzionamento del sistema macroeconomico. In realtà i macroeconomisti concordano su molti principi
fondamentali e, anche quando vi è un forte disaccordo, regna un sorprendente accordo sull’approccio da
utilizzare per risolverlo.
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PRODUZIONE, REDDITO E OCCUPAZIONE
PIL (prodotto interno lordo): di una nazione, è il valore complessivo di tutti i beni e i servizi finali prodotti per il
mercato in un dato periodo, all’interno dei confini nazionali.
L’approccio del PIL consiste nel sommare il valore monetario di tutti i beni e servizi, ossia il numero di unità
di moneta a cui è venduto ogni prodotto (in questo modo si può “sommare mele con pere”).
I servizi negli ultimi tempi sono diventati una parte sempre più importante delle produzione totale dei Paesi
progrediti.
Nella misura della produzione non contiamo ogni bene e servizio prodotto nel sistema economico, ma solo
quelli venduti agli utenti finali. Se nel calcolo del PIL aggiungessimo anche il valore di tutti i beni intermedi, li
conteremmo due volte poiché sono già inclusi bel valore del bene finale.
Per contribuire al PIL bisogna produrre qualcosa. Il PIL non include tutti i beni e i servizi finali prodotti in un
sistema economico, ma solo quelli prodotti per il mercato (ossia quelli che si intende vendere). Il PIL misura
la produzione in un dato periodo e include solamente i beni prodotti durante tale periodo. In teoria potremmo
usare un periodo di tempo di qualsiasi durata, ma in pratica viene misurato ogni trimestre e successivamente
viene riferito in termini di tasso annuale per il trimestre in esame.
Il PIL misura il prodotto realizzato all’interno dei confini nazionali, a prescindere dal fatto che siano stati i
cittadini della nazione in esame a produrlo.
Il PIL può essere calcolato in diversi modi. Il più importante è l’approccio della spesa.
Tale approccio suddivide il prodotto in 4 categorie in base al gruppo che lo acquista;
1. beni e servizi di consumo (C) acquistati dalle famiglie
2. beni e servizi per investimenti privati (I) acquistati dalle imprese
3. beni e servizi del settore pubblico (G) acquistati dalle pubbliche amministrazioni
4. esportazioni nette (NX) acquistate dagli stranieri.
Utilizzando tale approccio, per misurare il PIL sommiamo il valore di beni e servizi acquistati da ogni
acquirente finale.
PIL = C + I + G + NX.
Spesa per il consumo: il consumo (C) è la componente principale del PIL. È la parte acquistata dalle famiglie
in qualità di consumatori finali. Qualsiasi cosa acquistata durante l’anno è inclusa nel calcolo del PIL. Alcune
cose che le famiglie acquistano, però, non fanno parte del consumo appartenente al PIL. Sono esclusi i beni
e i titoli finanziari e le case di nuova costruzione (che rientrano nella categoria degli investimenti). Vi sono poi
due cose che vengono calcolate ma non sono effettivamente acquistate dalle famiglie:
1. il valore complessivo di tutti i prodotti alimentari che le famiglie agricole producono e consumano
2. il valore complessivo dell’alloggio fornito dalle case possedute dalle famiglie che le abitano.
Investimenti privati: (I) si tratta di beni capitali che forniranno servizi utili negli anni futuri. Quando sommiamo
il valore di tutti i beni capitali del Paese, otteniamo lo stock di capitale della nazione. Gli investimenti possono
essere definiti come l’incremento dello stock di capitale di una nazione durante l’anno. È costituito da tre
componenti:
1. acquisti di impianti, attrezzature e software da parte delle imprese: i beni intermedi si esauriscono
con la produzione dell’anno in corso, mentre l’impianto e l’attrezzatura di un’impresa dovrebbero
durare molti anni. Solo una piccola parte di essi si esaurisce per realizzare il prodotto dell’anno in
corso, e pertanto vengono considerati beni finali, e le imprese che li acquistano sono gli acquirenti
finali di tali beni.
2. costruzione di edifici a uso residenziale: la maggior parte delle abitazioni nuove sono acquistate
dalle famiglie, tuttavia rientrano nella categoria degli investimenti perché l’edilizia abitativa
costituisce una parte importante dello stock di capitale di una nazione. Inoltre una casa continuerà
anche in futuro a fornire il suo servizio di alloggio.
3. variazioni delle scorte: le scorte sono beni prodotti ma non ancora venduti. Nella misura del PIL si
considerano le variazioni delle scorte dell’impresa come parte della spesa per l’investimento. Infatti,
quando i beni vengono prodotti ma non venduti nel corso dell’anno, finiscono nei magazzini. Se non
contassimo le variazioni delle scorte, perderemmo una parte importante della produzione del periodo
in esame. La variazione delle scorte viene inclusa anche se ha segno negativo. I beni invenduti
fanno parte dello stock di capitale di una nazione e forniranno beni e servizi in futuro. Un aumento
delle scorte corrisponde alla formazione di capitale, una diminuzione delle scorte rappresenta una
diminuzione di capitale. Quando la crescita del sistema economico inizia a rallentare le imprese non
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sono in grado di vendere tutti i beni che hanno prodotto e che hanno programmato di vendere,
quindi la produzione invenduta viene aggiunta alle scorte. Durante le espansioni può accadere
l’opposto.
La spesa per investimenti privati corrisponde in maniera solo approssimativa all’incremento dello stock di
capitale della nazione. Innanzitutto, infatti, essa non include:
1. l’investimento pubblico: una parte importante dello stock di capitale è posseduto e gestito non dalle
imprese ma dalla pubblica amministrazione
2. i beni di consumo durevoli: beni come mobili, automobili, lavatrici ecc, possono essere considerati
beni capitali perché continueranno a fornire servizi per molti anni.
3. il capitale umano: le abilità possedute dagli abitanti di una nazione continueranno a fornire servizi
preziosi anche in futuro.
Inoltre la misura dell’investimento privato, ignora l’ammortamento, ossia l’usura del capitale verificatasi
durante l’anno. Bisognerebbe calcolare l’investimento netto, ossia la differenza fra investimento e
ammortamento.
La spesa pubblica: (G) spesa effettuata dalle pubblica amministrazioni locali e centrali per acquistare beni e
servizi. In macroeconomia non vi è grande differenza se gli acquisti sono effettuati da enti governativi locali o
statali. Tali acquisti includono beni e servizi di cui lo Stato è considerato l’acquirente finale. È importante la
distinzione fra spesa pubblica e trasferimenti pubblici (qualsiasi pagamento che non rappresenti un
compenso per la fornitura di beni e servizi). I trasferimenti rappresentano denaro proveniente da un gruppo
di cittadini (contribuenti) e ridistribuito a un altro (poveri, disoccupati ecc.). Sebbene siano inclusi nei bilanci
pubblici sotto la voce “spese” non possono considerarsi spesa per l’acquisto di beni e servizi prodotti
nell’anno in corso, e quindi non sono inclusi nella spesa pubblica né nel PIL.
Esportazioni nette: i cittadini di una nazione acquistano molti beni e servizi prodotti al di fuori della propria
nazione. Quando sommiamo gli acquisti finali delle famiglie, imprese ecc. sovrastimiamo la produzione di
una nazione perché includiamo beni e servizi prodotti all’estero che non fanno parte della produzione
nazionale. Per correggere tale errore sottraiamo tutte le importazioni effettuate dalla nazione. Per ottenere
una misura accurata del PIL dobbiamo aggiungere la quota della produzione nazionale acquistata dagli
stranieri (esportazioni totali) e sottrarre la quota dei beni prodotti all’estero e acquistati dai cittadini della
nazione in esame (importazioni totali). Compiamo tali operazioni aggiungendo le esportazioni nette (NX),
ossia le esportazioni totali meno le importazioni totali.
Esistono altri metodi per misurare il PIL.
Ogni metodo di misurazione del PIL è soggetto a errori di misurazione; calcolando il prodotto totale in modi
diversi e poi tentando di risolvere le incoerenze, si ottiene una misura più accurata di quanto non sarebbe
possibile con un unico metodo. Inoltre misurando la produzione totale in modi diversi apprendiamo aspetti
diversi della struttura di un sistema economico.
• Approccio del valore aggiunto: si può misurare il PIL sommando il contributo di ogni impresa alla
produzione, mano a mano che esso viene prodotto. Il contributo di una impresa alla produzione è
detto valore aggiunto, ossia il ricavo ottenuto dalla vendita del suo prodotto meno l costo sostenuto
per l’acquisto di tutti i beni intermedi. In questo approccio il PIL corrisponde alla somma dei valori
aggiunti di tutto le imprese del sistema economico.
• Approccio dei pagamenti ai fattori produttivi: oltre ai beni intermedi i proprietari delle imprese devono
pagare le risorse utilizzate durante l’anno. I pagamenti effettuati ai proprietari delle risorse sono detti
pagamenti ai fattori produttivi. I proprietari del capitale ricevono pagamenti di interessi. I proprietari
della terra e delle risorse naturali ricevono una rendita. Coloro che forniscono lavoro ricevono salari
e stipendi. Vi è poi una risorsa aggiuntiva, la capacità imprenditoriale; gli imprenditori sono coloro
che individuano le necessità della società, mobilizzano e coordinano le altre risorse perché la
produzione abbia luogo e scommettono sul successo dell’impresa. Le persone che forniscono tale
capacità, ricevono il profitto. Ogni dato anno, il valore aggiunto di una impresa è pari ai pagamenti
complessivi effettuati dall’impresa ai fattori produttivi. Il PIL deve essere pari ai pagamenti
complessivi ai fattori produttivi effettuati da tutte le imprese di un sistema economico. Il PIL può
essere misurato sommando tutti i redditi guadagnati da tutte le famiglie del sistema economico. Il
prodotto totale del sistema economico è pari al reddito totale guadagnato nel sistema economico. Se
il prodotto cresce, il reddito aumenta della stessa quantità; se il prodotto diminuisce il reddito deve
diminuire della stessa quantità.
Poiché il PIL è misurato in termini monetari, abbiamo un serio problema quando vogliamo considerarne le
variazioni nel tempo, poiché il valore stesso della moneta varia. Mentre i prezzi sono aumentati negli anni, il
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valore della moneta ha continuato a diminuire. Occorre correggere i risultati in seguito alle variazione del
valore della moneta.
Variabile nominale:variabile misurata nel corso del tempo senza adeguamenti per le variazioni del valore
della moneta.
Variabile reale: variabile adeguata per compensare le variazioni della moneta.
Gli economisti considerano quasi esclusivamente variabili reali. (8° principio fondamentale dell’economia).
Oggi i rapporti ufficiali sul PIL sono utilizzati per guidare l’economia sia nel breve che nel lungo periodo. Nel
breve periodo, le variazioni improvvise del PIL reale possono avvertirci del profilarsi di una recessione o di
una espansione eccessivamente rapida che potrebbe surriscaldare il sistema economico.
Il PIL è utilizzato anche per misurare il tasso di crescita del prodotto del sistema economico nel lungo
termine. Si definisce, infatti, il tenore di vita medio in termini di prodotto pro capite, ossia il PIL diviso la
popolazione. Affinché il PIL pro capite aumenti, il PIL reale deve crescere più rapidamente della
popolazione.
La crescita del PIL reale è importante anche per assicurare che il sistema economico crei sufficienti posti di
lavoro nuovi per una popolazione che sta crescendo in termini sia numerici che di produttività.
Per impedire l’aumento del tasso di disoccupazione è necessario un tasso di crescita annuo medio pari a
circa il 3,3%.
La misurazione del PIL tuttavia presenta alcuni problemi:
• Cambiamenti qualitativi: gli uffici statistici hanno un budget limitato e pur considerando, a volte,
l’impatto dei cambiamenti qualitativi di alcuni beni e servizi, non dispongono di risorse sufficienti per
valutare i cambiamenti qualitativi di milioni di beni e servizi diversi. Fra questi rientrano molti beni di
consumo, servizi medici e servizi di vendita al dettaglio. Il PIL, quindi, probabilmente sottostima la
crescita effettiva che avviene da un anno all’altro.
• Economia sommersa: parte della produzione è nascosta alle autorità governative, perché illegale o
perché chi la svolge evade le tasse. La produzione che ha luogo in tali mercati è detta economia
sommersa e non può essere calcolata in modo preciso.
• Produzione non destinata al mercato: eccetto poche eccezioni, il PIL non include i beni e servizi
prodotti ma non venduti in un mercato. Ogni volta che una transazione non destinata al mercato
diventa una transazione destinata al mercato il PIL aumenterà anche se la produzione totale rimarrà
invariata.
Le variazioni del PIL reale nel breve periodo riflettono in maniera piuttosto accurata lo stato del sistema
economico. Una variazione significativa del PIL reale indica quasi sempre una variazione effettiva della
produzione e non un problema di misurazione.
Alcuni esempi di disoccupazione non dipendono quasi per niente dalle condizioni macroeconomiche. La
disoccupazione può avere molteplici cause:
• Disoccupazione frizionale: interessa le persone che stanno cambiando impiego o stanno entrando
nel mercato del lavoro per la prima volta o dopo una lunga assenza. Tale disoccupazione essendo,
per definizione, di breve periodo, non provoca grossi disagi, anzi presenta persino effetti benefici;
spendendo tempo nella ricerca di un impiego le persone trovano lavori più adatti a loro e in cui
saranno più produttive. I lavoratori guadagnano salari più elevati, le imprese hanno dipendenti più
produttivi e la società dispone di una maggior quantità di beni e servizi.
• Disoccupazione stagionale: correlata a variazioni meteorologiche, flussi turistici o altri fattori
stagionali. Può essere considerata benefica in quanto interessa il breve periodo e i lavoratori sono
generalmente compensati in anticipo per la futura disoccupazione. Tuttavia si complica
l’interpretazione dei dati relativi alla disoccupazione. Per evitare fraintendimenti i dati ufficiali
riportano il tasso di disoccupazione corretto delle variazioni stagionali.
• Disoccupazione strutturale: vi sono posti di lavoro disponibili e lavoratori contenti di occuparli, ma
non vi è corrispondenza fra chi cerca lavoro e chi lo offre. Tale disoccupazione deriva da un
cambiamento strutturale del sistema economico, che avviene quando industrie vecchie sono
sostituite da nuove industrie che richiedono abilità differenti e sono situate in altre zone del Paese.
Interessa il lungo periodo e può durare parecchi anni.
Questo tipo di disoccupazione non può essere completamente eliminata.
Una certa quantità di disoccupazione dovuta a cause microeconomiche è segno di un sistema economico
dinamico, che consente ai lavoratori di scegliere per sé i migliori posti possibili e permette di usufruire dei
beni e servizi stagionali ecc. Tuttavia le politiche pubbliche possono essere in grado di modificare tali tassi di
disoccupazione con modifiche specifiche nelle politiche del lavoro o della regolamentazione, anziché da
modifiche dalla politica macroeconomica.
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Il quarto tipo di disoccupazione ha causa totalmente macroeconomica:
• Disoccupazione ciclica: quando un sistema economico entra in una fase di recessione e il prodotto
totale diminuisce, il tasso di disoccupazione aumenta. Molti lavoratori perdono il posto ed hanno
difficoltà a trovarne un altro, e i tempi di ricerca aumentano. Tale tipo di disoccupazione è
determinato dal ciclo economico. Si raggiunge la piena occupazione, quando la disoccupazione
ciclica è ridotta a zero.
La disoccupazione comporta costi:
- economici: il principale è costituito dal costo opportunità del prodotto perduto, ed è sostenuto dalla
società. Spesso i disoccupati ricevono assistenza dallo stato in modo che i costi sono ripartiti fra tutti
i cittadini. Durante i periodi di disoccupazione ciclica la nazione realizza una minore quantità di
prodotto e quindi uno o più gruppi della società devono consumarne quantità minori. Fig. 4 pag. 453
la linea grigia indica l’evoluzione del PIL nel tempo, quella blu l’andamento del prodotto potenziale. Il
prodotto effettivo può essere superiore al prodotto potenziale (e quindi il tasso di disoccupazione è
inferiore a quello di piena occupazione). Altre volte il PIL reale è inferiore (il tasso di occupazione si
alza al di sopra di quello di piena occupazione).
- non economici: può produrre seri effetti psicologici e fisici. Un aumento della disoccupazione
incrementa il numero di morti per attacco cardiaco, di suicidi e di ingressi in carceri e ospedali
psichiatrici. Inoltre la disoccupazione ritarda il raggiungimento di importanti obiettivi sociali. Il suo
peso, poi, non è suddiviso equamente fra gruppi diversi della popolazione, ma tende a gravare
maggiormente sulle minoranze.
Disoccupato è colui che è disponibile e può lavorare, ma non ha un impiego.
Il tasso di disoccupazione ufficiale è definito come la percentuale di disoccupati della forza lavoro.
Tasso = disoccupati/forza lavoro = disoccupati/(disoccupati + occupati).
La misurazione del tasso di disoccupazione ufficiale presenta dei problemi.
Chiunque lavori per almeno un’ora a settimana dietro pagamento, è considerato occupato. Fra questi
rientrano molte persone che vorrebbero un lavoro a tempo pieno ma che durante la settimana in esame
hanno svolto un lavoro part-time.
Alcuni economisti propongono di considerare tali persone parzialmente occupate e parzialmente
disoccupate.
Altro problema è quello dei lavoratori scoraggiati, ossia coloro che vorrebbero lavorare ma che, ritenendo di
avere poche possibilità di trovare un impiego, hanno smesso di cercare lavoro. Sono considerati come “non
facenti parte della forza lavoro”. Alcuni sostengono che dovrebbero essere inclusi fra i disoccupati. Altri no.
Altro problema è quello del lavoro irregolare. La presenza di una elevata quota della popolazione che pratica
forme di lavoro irregolari, rende la stima del tasso di disoccupazione inevitabilmente eccessiva.
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IL SISTEMA MONETARIO, I PREZZI E L’INFLAZIONE
Quasi tutte le nazioni dispongono di un sistema monetario che fornisce un aiuto nell’organizzare e
semplificare le transazioni economiche.
Un sistema monetario determina due tipi di standardizzazione:
1. unità di conto: stabilisce un’unità comune per misurare il valore delle cose, consentendo di
confrontare i costi di beni e servizi diversi, e di comunicare tali costi quando effettuiamo gli scambi.
2. mezzi di pagamento: ciò che possiamo utilizzare per pagare quando acquistiamo beni e servizi.
Queste due funzioni sono strettamente correlate e riguardano la prima il modo in cui consideriamo e
registriamo le transazioni, la seconda il metodo concreto di pagamento.
Il mezzo di pagamento può essere diverso dall’unità di conto (Es. in alcuni Paesi dove i prezzi in valuta
locale subiscono rapide variazioni, l’unità utilizzata è il dollaro statunitense mentre il mezzo di pagamento
rimane la valuta locale).
Dollaro: fino al 1790 ogni colonia americana aveva la propria valuta chiamata “pound” avente un potere
d’acquisto diverso in ogni singola colonia. Nel 1790 fu creata una nuova unità di conto, il “dollaro”. Si
cominciò a determinare i prezzi in dollari e a tenere i conti in dollari finché il dollaro venne preso
come unità di conto standard. Il mezzo di pagamento principale, però, era la carta moneta emessa
dalle banche private. Durante la guerra civile il governo emise la prima carta moneta federale che
svolse la funzione sia di unità di conto che di mezzo di pagamento fino al 1879. Nel 1913 venne
infine creata una nuova istituzione, il Federal Riserve System, che assunse la carica di autorità
monetaria nazionale statunitense. Ad essa venne affidato il compito di creare e regolare l’offerta di
moneta della nazione, compito che svolge tuttora.
La carta moneta è frutto di uno sviluppo recente nella storia dei mezzi di pagamento. Il più antico mezzo di
pagamento erano i metalli preziosi ed altre merci di valore chiamate moneta merce.
In tempi recenti la moneta merce lasciò il posto alla carta moneta. All’inizio si trattava di un certificato
rappresentante una determinata quantità di oro o argento tenuta da una banca. In ogni momento il detentore
di un certificato poteva andare in banca e scambiarlo con la quantità di oro o argento indicata.
Oggi la carta moneta non è più garantita dall’oro o altre merci fisiche. Su ogni banconota c’è scritto “Pagabile
a vista dal portatore”. Questo tipo di moneta è chiamato moneta a corso forzoso o moneta fiat (fiat = sia
fatto). Tale moneta funge da mezzo di pagamento per decreto del governo.
Molte misure del livello dei prezzi sono riportate sotto forma di indice ossia una serie di numeri, ciascuno
rappresentante un periodo diverso. I numeri indice hanno un significato solo relativo: confrontandoli
possiamo vedere rapidamente quale dei due è superiore e in quale percentuale.
Num. Indice = (valore misura nel periodo in esame/ valore misura nel periodo base) x 100.
Nel periodo base un indice sarà sempre pari a 100.
La misura dei prezzi più utilizzata è l’indice dei prezzi al consumo (CPI), designato a seguire l’andamento dei
prezzi pagati dal consumatore tipico.
Bisogna risolvere, però, due problemi:
1. decidere quali beni e servizi includere nella media. il CPI segue l’andamento dei prezzi al consumo,
non prendendo in considerazione beni e servizi non acquistati direttamente dai consumatori (non
include beni e servizi acquistati dalle imprese, pubbliche amministrazioni e dagli stranieri, mentre
include i beni di consumo che fanno parte del PIL o che non fanno parte del PIL ma che rientrano
nel bilancio della famiglia tipica.
2. combinare tutti i prezzi diversi in un livello medio dei prezzi. Una misura corretta deve tener conto
del fatto che ad alcuni beni destiniamo solo una modesta parte del nostro reddito, mentre per altri
spendiamo molto di più. L’approccio del CPI consiste nel seguire l’andamento del costo del paniere,
cioè l’insieme dei beni e servizi che il tipico consumatore medio ha acquistato in un periodo base.
Tasso di inflazione: misura la velocità con cui varia il livello dei prezzi, esprimendola in valori percentuali.
Quando il livello dei prezzi aumenta il tasso d’inflazione è positivo, quando diminuisce è negativo e si parla di
deflazione. Per ogni anno il tasso d’inflazione è calcolato in termini di variazione percentuale del CPI nel
periodo che intercorre dal dicembre dell’anno precedente al dicembre dell’anno in questione.
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Il CPI ha tre utilizzi principali:
1. valutare i risultati di politica economica: uno dei più importanti obiettivi macroeconomici che una
nazione si pone, è la stabilità dei prezzi. La misura utilizzata per valutare il raggiungimento di tale
obiettivo, è il CPI.
2. indicizzare i pagamenti: un pagamento è indicizzato quando aumenta e diminuisce
proporzionalmente a un indice dei prezzi. Compensa la perdita del potere d’acquisto corrispondente
all’incremento del livello dei prezzi, aumentando il pagamento nominale quanto basta perché
mantenga invariato il suo potere d’acquisto.
3. convertire i valori nominali in valori reali: per confrontare i valori economici di periodi diversi,
dobbiamo convertire le variabili nominali in variabili reali, usando il CPI.
Per misurare la variazione del potere d’acquisto alla variazione del salario nominale, dobbiamo concentrarci
sul salario reale, ossia il potere d’acquisto del salario. Dobbiamo considerare la quantità di moneta
guadagnata in rapporto al livello dei prezzi.
Salario reale = (salario nominale di un anno/CPI di quell’anno) x 100.
Vi è però un’eccezione: per calcolare il PIL si usa una procedura diversa.
Per convertire il PIL nominale in PIL reale, si usa il deflatore del PIL.
Il deflatore del PIL tiene conto anche dei prezzi dei beni e servizi acquistati da pubbliche amministrazioni,
beni di investimento acquistati dalle imprese e delle esportazioni. Non include i beni usati e le importazioni.
L’inflazione impone dei pesanti costi alla società e a ciascun individuo.
È opinione diffusa che l’inflazione eroda il potere d’acquisto medio del reddito di un sistema economico.
Tuttavia in ogni transazione di mercato vi sono due parti. Quando il prezzo di un bene aumenta gli acquirenti
devono pagare una somma maggiore, ma i venditori ottengono un ricavo maggiore. L’inflazione può quindi
ridistribuire il potere d’acquisto tra la popolazione, ma non può variarne il potere d’acquisto medio.
Il reddito reale a volte si riduce veramente ma per altri motivi. L’inflazione non provoca tale riduzione, ma è il
meccanismo che la fa emergere.
Essendo il reddito reale pari a
(reddito nominale/indice dei prezzi) x 100
esso può diminuire per una riduzione del numeratore o un aumento del denominatore.
L’inflazione tuttavia impone dei costi alla società.
In alcuni casi lo spostamento del potere d’acquisto danneggia i bisognosi e favorisce i benestanti. Un
aumento del livello dei prezzi riduce il potere d’acquisto di ogni pagamento specificato in termini nominali.
Ma l’effetto può anche prodursi nella direzione opposta. L’inflazione può sottrarre potere d’acquisto a coloro
che attendono di ricevere pagamenti futuri specificati in termini monetari, ridistribuendolo a favore di coloro
che sono tenuti a effettuare tali pagamenti.
Se l’inflazione fosse prevista da entrambe le parti, il reddito non sarebbe ridistribuito.
In ogni dato periodo la variazione percentuale del valore reale corrisponde approssimativamente alla
variazione percentuale del relativo valore nominale meno il tasso d’inflazione.
%∆reale = %∆nominale – tasso d’inflazione.
Se l’inflazione è prevista correttamente ed entrambe le parti ne tengono conto, non ridistribuirà il potere
d’acquisto.
La stessa conclusione vale per i contratti fra debitori e creditori. A ogni prestito corrispondono due tassi
d’interesse:
- tasso d’interesse nominale: incremento percentuale della quantità di moneta del creditore
- tasso d’interesse reale: aumento percentuale del potere d’acquisto del creditore.
Creditori e debitori dovrebbero prendere in considerazione il tasso reale.
Se non vi fosse inflazione, questi due tassi coinciderebbero sempre.
Tasso di interesse reale = tasso d’interesse nominale – tasso d’inflazione.
Quando le previsioni sull’inflazione sono inesatte il potere d’acquisto è ridistribuito tra coloro che sono tenuti
a effettuare dei pagamenti futuri e coloro che attendono di essere pagati. Un tasso d’inflazione più alto del
previsto danneggia coloro che attendono di essere pagati e avvantaggia i paganti; un tasso d’inflazione più
basso del previsto danneggia i paganti e avvantaggia coloro che attendono di essere pagati.
Per vincere l’inflazione siamo costretti a consumare tempo e altre risorse che avremmo potuto utilizzare per
svolgere attività produttive. Quindi l’inflazione impone un costo opportunità alla società.
Esistono diverse cause per cui il CPI può essere distorto verso l’alto:
- distorsione da sostituzione: il CPI ignorava completamente la tendenza delle persone a sostituire
beni diventati relativamente più cari con beni diventati relativamente più economici. Il CPI utilizzava
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quantità fisse per determinare l’importanza relativa di ogni bene, ipotizzando che le famiglie
continuassero ad acquistare ogni bene e servizio nelle stesse quantità che risultavano dall’indagine
familiare più recente (e le indagini si svolgevano ogni 10 anni). Il problema è stato risolto in due
modi:
a) dal 2002 si è cominciato a svolgere indagini familiari ogni 2 anni anziché 10.
b) dal 1999 il CPI non ipotizza che il consumatore tipico continui ad acquistare la stessa
quantità di ogni bene registrata nell’ultima indagine sul paniere. Ora si assume che quando il
prezzo relativo di un bene aumenta del 10% i consumatori ne acquistano il 10% in meno.
Nonostante il BLS abbia parzialmente risolto il problema, il CPI soffre ancora della distorsione da
sostituzione. Ossia generalmente, ai fini del calcolo del CPI, le categorie dei beni i cui prezzi
crescono più rapidamente hanno un peso eccessivo, mentre le categorie dei beni i cui prezzi
crescono più lentamente hanno troppo poco peso.
nuove tecnologie: i beni che sfruttano le nuove tecnologie hanno prezzi che diminuiscono
rapidamente dopo l’immissione nel mercato. Il CPI non considera molti prodotti nuovi il cui prezzo
generalmente diminuisce al momento dell’immissione nel mercato.
cambiamenti qualitativi: molti prodotti migliorano nel tempo. Il CPI continua ad imputare all’inflazione
molti casi di aumento del prezzo dovuti a miglioramenti qualitativi. In questo modo porta a una
sovrastima del tasso d’inflazione.
Negli USA più di 50 milioni di individui tra beneficiari della previdenza sociale ed altri pensionati, ricevono i
pagamenti indicizzati al CPI.
Tuttavia, poiché le variazioni del CPI sovrastimano l’inflazione, questi pagamenti sono sovraindicizzati
(l’indennità nominale aumenta di una percentuale maggiore rispetto a quanto non aumenterebbe un indice
dei prezzi misurato in modo più preciso).
Il BLS ha cercato di risolvere il problema costruendo una versione non ufficiale del CPI (CPI-U-RS, ossia CPI
per tutti i consumatori urbani – serie di ricerca), risalendo sino al 1978.
Tuttavia il BLS non altera mai i dati precedentemente pubblicati per adeguarli ai progressi metodologici
successivi, pertanto l’andamento ufficiale del salario reale rimane impreciso.
Il CPI è considerato come una misura del costo della vita, tuttavia esso fornisce una misura ancora più
imprecisa in quanto il modo in cui considera i beni nuovi, rappresenta un problema.
Non viene mai considerato l’incremento del benessere economico reso possibile dall’introduzione del bene e
dalla sua continua disponibilità. Il CPI tiene conto degli aumenti dei beni successivamente alla loro
introduzione nel paniere, ma ignora l’impatto che la loro immissione nel mercato produce sul tenore di vita
della società. I beni nuovi innalzano il tenore di vita che possiamo raggiungere con qualsiasi dato costo
monetario, ossia riducono il costo monetario di ottenere qualsiasi dato tenore di vita.
Il CPI ha un altro scopo: misura le tendenze inflazionistiche del sistema economico.
Per questo scopo è irrilevante che si interpreti il CPI come indice del costo della vita, in quanto l’obiettivo
politico consiste nell’evitare i costi elevati imposti alla società dalle variazioni troppo rapide del livello dei
prezzi.
Supponiamo che il tasso di inflazione basato sul CPI si impenni improvvisamente. A causa degli errori di
misurazione il tasso di inflazione ufficiale costituirà una sovrastima dell’effettivo aumento dei prezzi ma è
improbabile che tale aumento sia dovuto esclusivamente a errori di misurazione. Lo stesso vale per una
diminuzione dei prezzi.
Nei periodi di inflazione elevata l’utilizzo di un CPI imperfetto è preferibile alla scelta di ignorare
completamente l’inflazione.
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CRESCITA ECONOMICA E INNALZAMENTO DEL TENORE DI VITA
Il raggiungimento di un tasso di crescita più elevato nel lungo periodo richiede in genere un sacrificio nel
breve periodo.
Quando il prodotto cresce più rapidamente della popolazione, il PIL pro capite (o tenore di vita medio)
aumenta, e viceversa.
La crescita economica è particolarmente importante nei Paesi con dei livelli di reddito molto inferiori a quelli
di Europa, Giappone e USA. Il tenore di vita medio di alcune nazioni del terzo mondo è talmente basso che
molte famiglie riescono a malapena a procurarsi l’indispensabile per vivere, e molte altre muoiono di malattie
o di fame.
La crescita è un obiettivo di primaria importanza anche per le nazioni ricche.
Le risorse sono scarse e non possiamo produrre beni e servizi sufficienti per soddisfare
contemporaneamente tutti i nostri desideri. Quando il PIL pro capite aumenta è possibile che tutti godano di
un maggior benessere materiale, senza che qualcuno ne subisca una diminuzione.
Inoltre alcuni importanti obiettivi sociali possono essere raggiunti chiedendo ai benestanti di sacrificare parte
dell’incremento del loro benessere materiale senza la necessità di subirne una riduzione.
Quando il prodotto pro capite non cresce più bisogna combattere per accaparrarsi i pochi vantaggi materiali
disponibili.
Il PIL reale dipende da:
- quantità di prodotto che il lavoratore medio può realizzare in un’ora
- numero delle ore che il lavoratore medio trascorre sul lavoro
- quota della popolazione che lavora
- dimensioni della popolazione.
A parità di altre condizioni il PIL reale crescere all’aumentare di ciascuna di esse.
La quantità di prodotto che il lavoratore medio realizza in un’ora è definita produttività del lavoro ed è
misurata come il rapporto tra il PIL reale realizzato dal sistema economico in un dato periodo di tempo e il
numero complessivo delle ore lavorative svolte da tutti i lavori durante tale periodo.
Produttività = prodotto orario = prodotto totale/ore di lavoro complessive.
Le ore di lavoro svolte dal lavoratore medio possono essere calcolate dividendo il numero complessivo delle
ore lavorative di un dato periodo per l’occupazione totale, ossia il numero delle persone che hanno lavorato
in tale periodo.
Media delle ore lavorative = ore totali/occupazione totale.
La quota della popolazione che lavora è definita rapporto occupazione/popolazione (EPR).
EPR = occupazione totale/popolazione.
Prodotto totale = produttività x media delle ore lavorative x EPR x popolazione.
Il tasso di crescita del prodotto totale in un dato periodo di tempo è pari a:
%∆prodotto totale = %∆produttività + %∆media delle ore lavorative + %∆ EPR + %∆ popolazione.
La crescita del PIL reale non garantisce un miglioramento del tenore di vita, ciò che influisce sul tenore di
vita è il PIL reale pro capite.
Prodotto pro capite = produttività x media delle ore lavorative x EPR.
%∆ prodotto pro capite = %∆ produttività + %∆media delle ore lavorative + %∆EPR.
Quindi, l’unico modo per innalzare il tenore di vita medio consiste nell’incrementare produttività, media delle
ore lavorative oppure il rapporto occupazione/popolazione.
Per spiegare la crescita del prodotto pro capite e l’innalzamento del tenore di vita di alcune nazioni
sviluppate, gli economisti considerano due fattori:
1. crescita del rapporto occupazione/popolazione (EPR): nel lungo periodo tale rapporto aumenta solo
quando l’occupazione totale cresce a un tasso più rapido della popolazione. Per un dato tasso
demografico maggiore è la crescita dell’occupazione totale, e maggiore è l’aumento di EPR. La fig. 1
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pag. 505 mostra la curva di offerta e di domanda di lavoro. L’equilibrio iniziale si trova nel punto A.
un incremento dell’offerta del lavoro si concretizza nello spostamento verso destra della curva di
offerta di lavoro. Il salario scende (forza lavoro più economica), e le imprese assumono più lavoratori
spostandosi dal punto A al punto B. L’occupazione totale cresce. Ma la crescita dell’occupazione
può anche determinare un aumento della domanda di lavoro, che graficamente si traduce con uno
spostamento verso destra della curva di domanda di lavoro. L’occupazione cresce e i salari
aumentano. Quando l’offerta aumenta. Il tasso salariale diminuisce, quando la domanda aumenta il
tasso salariale aumenta. Una serie di politiche economiche sono volte ad accelerare l’aumento
dell’occupazione, modificando l’offerta di lavoro. Alcuni esempi sono:
a. diminuzione delle aliquote d’imposta sul reddito: una riduzione delle imposte è vista come un
incremento salariale, pertanto porta a cercare lavoro. Cosi si incoraggia l’occupazione.
b. Modificare i programmi dei trasferimenti pubblici: alcuni economisti sostengono che l’attuale
struttura di molti programmi governativi, crei disincentivi al lavoro. Ad esempio le famiglie
che ricevono sussidi previdenziali subirebbero forti riduzioni dei propri benefici, lavorando.
Entrambe queste politiche possono provocare uno spostamento verso destra della curva di offerta di
lavoro del sistema economico, superiore a quello che si verificherebbe altrimenti, con conseguente
possibilità di incremento del rapporto EPR e quindi del prodotto pro capite. Le politiche economiche
che contribuiscono a incrementare le abilità della forza lavoro o che finanziano l’occupazione in
maniera più diretta possono provocare uno spostamento verso destra della curva di domanda di
lavoro del sistema economico superiore a quello che si verificherebbe altrimenti, con conseguente
possibilità di incremento del rapporto occupazione/popolazione e pertanto anche del prodotto pro
capite.
2. crescita della produttività: negli ultimi decenni può essere considerata la causa principale
dell’innalzamento del tenore di vita medio. Un fattore fondamentale è costituito dallo stock di capitale
di una nazione. Un aumento del capitale per lavoratore (rapporto quantità totale di capitale e numero
complessivo di lavoratori) comporta un aumento della produttività, ma esso aumenta solo se lo stock
di capitale complessivo di una nazione cresce più velocemente della forza lavoro. La velocità di
crescita dello stock di capitale è determinata dal tasso di spesa per investimenti programmata del
sistema economico. Il capitale è una variabile di stock, la spesa per l’investimento è una variabile di
flusso.
Variabile di stock: misura una quantità in un determinato momento.
Variabile di flusso: misura un processo che si svolge nel corso del tempo.
La relazione fra capitale e investimento implica un altro flusso: l’ammortamento. In ogni periodo
parte dello stock di capitale si esaurisce e quindi lo stock complessivo si riduce nel tempo. Finché
l’investimento è superiore all’ammortamento, lo stock di capitale aumenta. Per ogni tasso di
ammortamento maggiore è il flusso della spesa per l’investimento più rapido sarà l’aumento dello
stock di capitale. Per questo motivo quando gli economisti pensano di aumentare la produttività
basandosi sullo stock di capitale si concentrano sull’aumento del tasso di spesa per l’investimento.
Per capire come si determini la spesa per l’investimento dobbiamo fare riferimento al mercato dei fondi
mutuabili, mercato in cui le imprese ottengono i fondi per l’investimento.
Gran parte di tali fondi provengono dai risparmi delle famiglie.
Lo stato agisce da mutuarlo quando ha un disavanzo di bilancio, ossia quando il gettito fiscale non è
sufficiente a pagare la spesa totale. Se lo Stato non può saldare i conti con le entrate tributarie, deve
ottenere fondi altrove. Per legge deve prendere in prestito denaro emettendo delle obbligazioni.
Coloro che forniscono fondi ricevono un compenso che deve essere pagato da coloro che domandano i
fondi. Quando i fondi vengono trasferiti dai prestatori ai debitori tramite le banche o il mercato
obbligazionario, i fondi vengono concessi in prestito e il compenso è chiamato interesse. Quando i fondi
vengono trasferiti tramite il mercato azionario, i prestatori diventano comproprietari dell’impresa e il loro
compenso è chiamato dividendo.
Un aumento del tasso d’interesse incrementa la quantità di fondi offerti cosi come una riduzione del tasso di
interesse dovrebbe diminuirla. Questa relazione è illustrata dalla curva di offerta di fondi.
Ovviamente il risparmio può essere influenzato anche da altri fattori oltre che dal tasso d’interesse, ma nel
tracciare la curva di offerta queste variabili sono mantenute costanti.
Anche l’investimento dipende dal tasso d’interesse perché le imprese acquistano impianti e attrezzature
quando il relativo beneficio previsto supera i costi. All’aumentare del tasso di interesse e quindi dei costi
dell’investimento, il numero dei progetti attraenti diminuirà e la spesa per gli investimenti si ridurrà. Tale
relazione è rappresentata dalla curva di domanda di fondi da parte delle imprese discendente.
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La domanda di fondi da parte dello Stato non è molto influenzata dal tasso d’interesse in quanto sembra che
lo Stato sia dispensato dalle considerazione costi-benefici che tormentalo le decisioni delle imprese.
Pertanto il prestito pubblico può essere considerato indipendente dal tasso d’interesse; il disavanzo del
settore pubblico rimane costante.
La curva di domanda totale di fondi si trova sommando orizzontalmente la curva di domanda delle imprese
con la curva di domanda dello Stato.
Il prezzo dei fondi aumenterà o diminuirà finché la quantità di fondi mutuabili offerta dalle famiglie non
eguagli la quantità domandata dalle imprese e dallo Stato.
Un governo che voglia stimolare la spesa per investimenti può indirizzare i propri sforzi verso tre obiettivi:
1. imprese: ipotizziamo che non vi sia un disavanzo di bilancio e quindi non vi sia domanda di fondi da
parte dello Stato. L’equilibrio iniziale del mercato si trova in un punto A. Supponiamo ora che lo Stato
intervenga per rendere l’investimento più vantaggioso, la curva di investimento si sposterebbe verso
destra, il tasso d’interesse salirebbe e all’aumentare del tasso d’interesse parte dell’originario
incremento dell’investimento programmato viene eliminato. Lo Stato potrebbe contribuire riducendo
l’imposta sui profitti aziendali permettendo alle imprese di tenere una parte maggiore dei profitti
realizzati con i progetti di investimento. Un altro metodo (ancora più diretto) è rappresentato dal
credito d’imposta per investimenti che sovvenziona l’investimento delle imprese in impianti e
attrezzature nuove. Lo stesso ragionamento vale per le politiche opposte: un aumento dell’imposta
sui profitti aziendali o l’eliminazione di un credito d’imposta per investimenti, sposterebbe la curva di
investimento verso sinistra rallentando il tasso di crescita dell’investimento, l’incremento dello stock
di capitale e l’innalzamento del tenore di vita.
2. famiglie: un incremento della spesa per gli investimenti può prendere le mosse dal settore delle
famiglie grazie ad un aumento del desiderio di risparmiare. In questo caso la curva di offerta di fondi
si sposta verso destra. L’incremento dei risparmi fa diminuire il tasso d’interesse che a sua volta
provoca un incremento degli investimenti. Un’idea per raggiungere tale obiettivo è la politica di
ridurre l’imposta sui capital gain, ossia il profitto che si realizza vendendo un’attività a un prezzo
superiore a quello a cui la si è acquistata. Se tale aliquota diminuisse possedere attività sarebbe più
redditizio e si potrebbe decidere di ridurre la propria spesa attuale per poterne acquistare di più. Tali
riduzioni (ve ne fu una nel 2003 in America) sono molto dibattute per questioni di equità: poiché i
capital gain del sistema economico sono guadagnati per la gran parte delle famiglie a reddito più
elevato, questo tipo di riduzione fiscale avvantaggia tali famiglie. Un’altra politica è quella che
prevede la riduzione dell’imposta sui consumi che tassa il reddito speso dalle famiglie. Tale sistema
incrementerebbe il compenso per il risparmio perché risparmiando guadagneremmo un interessa
aggiuntivo sulla parte che altrimenti dovremmo versare allo Stato con una imposta sul reddito.
Ultima proposta è la ristrutturazione del sistema di previdenza sociale nazionale in quanto le
persone sarebbero più incentivate a risparmiare per la propria pensione.
3. bilancio pubblico: supponiamo che lo Stato abbia un disavanzo di bilancio di 750 miliardi di euro pari
alla distanza EA e la domanda totale di fondi è pari alla somma degli investimenti e del disavanzo
del bilancio pubblico, indicata dalla curva “spesa per investimenti + disavanzo”. La curva di domanda
di fondi interseca la curva di offerta di fondi nel punto A. Se il governo eliminasse il disavanzo di
bilancio la domanda di fondi consisterebbe solo nella spesa per investimenti, il nuovo equilibrio si
troverebbe al punto B, con un tasso d’interesse minore un minori investimenti. Pareggiando il
bilancio il governo non ha più bisogno di ottenere prestiti nel mercato dei fondi mutuabili e ne
conseguirebbe un afflusso di fondi al settore delle imprese.
La riduzione del disavanzo non promuove necessariamente la crescita, che dipende dal modo in cui si
modifica il bilancio. A secondo del metodo utilizzato l’impatto sulla crescita varia in maniera notevole. Il
capitale pubblico sostiene l’attività economica privata anche in molti altri modi. Gli investimenti pubblici in
capitale addizionale e nella manutenzione del capitale esistente apportano un contributo notevole alla
crescita economica. Una riduzione della spesa pubblica abbassa il tasso d’interesse e incrementa
l’investimento privato. Tuttavia se tale riduzione ricade in gran parte sugli investimenti pubblici, l’effetto
negativo di un minor investimento pubblico comprometterà parte dell’impatto positivo di un maggior
investimento privato. La riduzione del disavanzo modificherà la composizione del capitale e l’effetto sulla
crescita non sarà necessariamente positivo.
Il capitale umano è fondamentale per la crescita economica quanto il capitale fisico. Il capitale fisico, infatti,
non apporterebbe alcun contributo se i lavoratori non sanno come utilizzarli. Un aumento del capitale umano
sortisce lo stesso effetto di un aumento del capitale fisico.
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Gli investimenti in capitale umano vengono effettuati da imprese, Stato e famiglie. Per aumentare il tasso
d’investimento in capitale umano alcune politiche valide per il capitale fisico, valgono anche per il capitale
umano. Il capitale umano non può essere separato dalla persona che lo possiede. Le riduzioni dell’imposta
sul reddito possono incrementare anche la redditività del capitale umano delle famiglie, e aumentare il tasso
del loro investimento in abilità e qualifiche professionali.
Un’altra fonte importante della crescita è il progresso tecnologico.
Le nuove tecnologie influenzano il sistema economico in maniera analoga agli incrementi del capitale per
lavoratore, aumentando cioè la produttività. In alcuni casi le nuove tecnologie richiedono l’acquisizione di
capitale fisico e umano prima di poter essere sfruttate.
In altri casi si può sfruttare una nuova tecnologia senza alcuna attrezzatura o addestramento aggiuntivi. Più
rapido è il progresso tecnologico, più si accelerano la crescita della produttività e l’innalzamento del tenore di
vita.
Il tasso del progresso tecnologico di un sistema economico dipende in gran parte dalla spesa totale che le
imprese destinano alla ricerca e allo sviluppo; le politiche che incrementano tale spesa aumenteranno la
velocità del progresso tecnologico.
Lo Stato per incrementare la spesa in ricerca e sviluppo può potenziare il proprio sostegno alla ricerca e allo
sviluppo svolgendo un maggior numero di progetti di ricerca nei propri laboratori oppure incrementando i
finanziamenti alle università e gli incentivi fiscali ai laboratori di ricerca privati.
Lo Stato, inoltre, può potenziare la protezione da brevetto aumentando i compensi per i creatori di nuove
tecnologie tramite la concessione di diritti esclusivi di utilizzo o di vendita. Poiché la protezione da brevetto
aumenta i guadagni che gli inventori prevedono di realizzare con le loro creazioni, essa li incoraggia a
spendere in ricerca e sviluppo. Espandendo la protezione da brevetto, oppure prolungandola, lo Stato
potrebbe incrementare i profitti previsti dall’utilizzo delle nuove tecnologie. Il che aumenterebbe la spesa
totale in ricerca e sviluppo, accelerando il progresso tecnologico. La spesa per la ricerca e lo sviluppo è per
molti aspetti simile agli altri tipi di spesa per l’investimento: i fondi sono tratti dal mercato dei fondi mutuabili e
i programmi di ricerca e sviluppo comportano l’acquisto di fattori produttivi nel presente nell’incerta
prospettiva di profitti futuri. Qualsiasi politica che stimoli la spesa per l’investimento incrementerà in genere
anche la spesa in ricerca e sviluppo.
Alcune politiche volte a incrementare la crescita economica attraverso un canale possono
contemporaneamente contrastare la crescita attraverso un altro canale. Il fatto che un’unica politica possa
sortire due effetti opposti sul sistema economico ci aiuta a capire perché la politica macroeconomica dia
spesso origine a controversie.
Le politiche che incrementano il tasso di crescita economica di una nazione comportano dei trade – off. Per
scegliere la velocità di crescita del sistema economico, bisogna prendere in considerazione i costi della
crescita, cosi come i benefici ad essa relativi.
L’attuazione di alcune riduzioni fiscali costringerebbe il governo a scegliere fra tre alternative:
- aumentare altre imposte per riguadagnare il ricavo perso: il carico ricade su coloro che pagano l’altra
imposta
- ridurre la spesa pubblica: il carico sarà imposto agli attuali beneficiari dei programmi di spesa
- consentire un aumento del disavanzo di bilancio: se una riduzione fiscale porta a un aumento del
disavanzo, l’aumento della richiesta di prestiti da parte dello Stata incrementerà la quantità totale di
debito pubblico (debito nazionale) e le generazioni future dovranno effettuare pagamenti di interessi
più consistenti, sotto forma di tasse più elevate. L’aumento del disavanzo, inoltre, fa salire il tasso
d’interesse e questo aumento ridurrà l’investimento in capitale fisico e umano, riducendo la crescita
economica.
Pertanto, sebbene delle riduzioni fiscali opportunamente dirette possano accelerare la crescita economica,
esse spesso costringono a ridistribuire il carico fiscale o a effettuare dei tagli nei programmi di spesa.
Ogni politica volta all’aumento della crescita che si basi sull’incremento dell’investimento, richiede il sacrificio
della spesa per il consumo attuale.
Siamo di fronte a un trade-off: maggiori quantità di beni capitali produciamo ogni dato anno, minori quantità
di beni di consumo possiamo acquistare quel dato anno. Tale trade-off può essere compreso con la PPF.
Il tenore di vita aumenta anche se aumenta il tasso di occupazione, in quanto sarà prodotta una maggiore
quantità da dividere tra la stessa popolazione. Tuttavia vi sarebbe un costo da sostenere, la riduzione del
tempo speso in attività non di mercato. Anche in questo caso ci troviamo, quindi, davanti un trade-off.
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La crescita economica non è l’unico obiettivo sociale ed alcune politiche che accelerano la crescita
impongono il sacrificio di altri obiettivi ugualmente desiderabili (e viceversa).
LE FLUTTUAZIONI ECONOMICHE
Il prodotto potenziale aumenta ogni anno, mentre quello effettivo non sempre cresce o non sempre cresce al
tasso del prodotto potenziale.
Quasi tutti i paesi industrializzati subiscono delle fluttuazioni economiche. Il PIL effettivo oscilla intorno al suo
potenziale. Durante le contrazioni diminuisce, durante le espansioni aumenta.
Nelle ultime fasi di un’espansione accade spesso che il prodotto superi il livello potenziale (boom).
Durante le espansioni l’occupazione cresce rapidamente, durante le recessioni diminuisce. L’occupazione e
il prodotto seguono un andamento molto simile, ma la relazione tra le due variabili è causale. In un ciclo
economico le variazioni del prodotto inducono le imprese a modificare il livello di occupazione.
Espansioni e recessioni possono essere molto brevi.
Keynes espose due teorie:
1. una della cause dei boom e delle recessioni è rappresentata dalle oscillazioni della spesa del settore
privato
2. per fare in modo che il prodotto rimanga prossimo al suo livello potenziale, lo Stato deve
neutralizzare le variazioni della spesa del settore privato correggendo la propria spesa oppure il
sistema fiscale.
La seconda teoria da sempre è stata molto dibattuta, mentre la prima è oggi accettata.
Keynes mostrò come gli shock che colpiscono inizialmente la spesa di un settore del sistema economico
influenzino poi rapidamente anche la spesa di altri settori, provocando variazioni del prodotto e
dell’occupazione totali. Quando la spesa totale del sistema diminuisce improvvisamente, alcune imprese si
ritrovano a produrre più di quanto non riescano a vendere, e reagiscono riducendo la produzione e
licenziando i dipendenti. I lavoratori licenziati vedranno diminuire il proprio reddito e spenderanno di meno, il
che porterà altre imprese a ridurre la propria produzione, licenziare dipendenti e cosi via. Il sistema
economico si contrae e si può generare una recessione.
Quando la spesa totale aumenta improvvisamente alcune imprese produrranno di più e assumeranno nuovi
lavoratori. Tali lavoratori spenderanno parte del loro reddito aggiuntivo in beni di consumo prodotti da altre
imprese che cominceranno a espandere la propria produzione, assumere dipendenti e cosi via. Ne
consegue un’espansione economica che può diventare un boom.
La spesa può essere suddivisa in quattro ampi aggregati:
1. spesa per il consumo (C)
2. spesa per gli investimenti (IP)
3. spesa pubblica (G)
4. esportazioni nette (NX).
La spesa che le famiglie destinano ai beni di consumo ammonta circa a due terzi della spesa totale del
sistema economico.
Di tutte le variabili che potrebbero influenzare la spesa per il consumo, la più importante è il reddito
disponibile ossia il reddito del settore delle famiglie al netto delle imposte.
reddito disponibile = reddito totale – imposte nette.
Le imposte nette sono la differenza fra le imposte che lo Stato riscuote e i trasferimenti che paga.
imposte nette = gettito fiscale – trasferimenti pubblici.
I trasferimenti pubblici sono flussi di monta trasferiti da un gruppo di famiglie a un altro.
Il consumo e il reddito disponibile sono legati da una relazione diretta: un aumento del reddito disponibile
aggregato provoca un aumento della spesa per il consumo aggregata. Tale relazione è quasi perfettamente
lineare, ossia i punti delineano all’incirca una linea retta. Tale retta ha due caratteristiche principali:
1. un’intercetta verticale che indica l’ammontare della spesa per il consumo del sistema economico in
corrispondenza di un reddito disponibile nullo. L’intercetta prende il nome di consumo autonomo e
rappresenta l’impatto combinato esercitato sulla spesa per il consumo da tutte le variabili eccetto il
reddito disponibile.
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2. la pendenza, ossia il rapporto tra la variazione lungo l’asse verticale e la variazione lungo l’asse
orizzontale mentre passiamo da un punto all’altro della linea.
pendenza = ∆consumo/∆reddito disponibile.
La pendenza prende il nome di propensione marginale al consumo, che è
- pendenza della funzione di consumo
- rapporto tra le variazioni del consumo e del reddito disponibile
- ammontare di cui aumenta la spesa per il consumo quando il reddito disponibile cresce di un euro
MPC dovrebbe essere maggiore di zero ma minore di uno. 0<MPC>1.
L’equazione della funzione è
C = a + b x (reddito disponibile)
a = intercetta verticale della funzione di consumo
b = pendenza della funzione di consumo.
La variazione della spesa per il consumo, conseguente alla variazione del reddito disponibile, è
rappresentata da uno spostamento lungo la funzione di consumo. Tuttavia la spesa per il consumo è
influenzata anche da altri fattori:
- una riduzione del tasso d’interesse provoca un aumento della spesa per il consumo e fa spostare
verso l’alto la funzione di consumo (e viceversa)
- un aumento della ricchezza (valore totale delle attività di una famiglia – le passività totali) delle
famiglie fa spostare verso l’alto la funzione di consumo (e viceversa).
- una variazione delle aspettative per il futuro fa spostare la funzione di consumo.
Dopo lo spostamento, la pendenza rimane uguale. Quando uno di tali fattori provoca uno spostamento della
funzione, si modifica il consumo autonomo.
Esistono altri tipi di spesa:
• spesa per investimenti: è la spesa delle imprese per impianti e attrezzature e la costruzione di case
nuove. L’investimento in scorte è considerato non programmato e indesiderato, quindi è escluso
dalla definizione. Tale spesa è influenzata da alcune variabili.
• spesa pubblica: tutti i beni e servizi che le amministrazioni pubbliche acquistano in un dato anno. Vi
è una relazione piuttosto debole fra spesa pubblica e altre variabili, essa ha un valore fisso.
• esportazioni nette: sono incluse nella misura della spesa totale della nazione. Le esportazioni per
essere “nette” devono essere considerate al netto delle importazioni (esportazioni nette =
esportazioni totali – importazioni totali). Le esportazioni possono variare per diverse ragioni:
o cambiamenti dei gusti
o variazioni del prezzo della valuta estera
La spesa totale di una nazione è la somma della spesa effettuata dalle famiglie, imprese, Stato e settore
estero in beni e servizi finali prodotti dalla nazione in esame
spesa totale = C + Ip + G + NX.
Un incremento della spesa totale porta le imprese di tutto il sistema economico a innalzare il proprio livello di
produzione e viceversa.
Quando la spesa totale è inferiore al PIL le imprese tenderanno a ridurre la produzione e il PIL diminuirà;
quando la spesa totale è superiore al PIL le imprese tenderanno ad espandere la produzione è il PIL
aumenterà; quando la spesa totale è pari al PIL le imprese continueranno a produrre allo stesso ritmo e il
PIL rimarrà invariato.
L’equilibrio è una situazione che tende a rimanere invariata a meno che le condizioni che ne stanno alla
base non cambino.
ST > PIL → PIL ↑
ST < PIL → PIL ↓
ST = PIL → no ∆PIL.
Il PIL di equilibrio sarà pari al PIL potenziale solo nel caso in cui la spesa sia tale che le imprese vendano
tutto il prodotto che realizzerebbero impiegando completamente le risorse del sistema economico. Ma tale
possibilità dipende dal comportamento delle categorie che effettuano la spesa.
Si possono realizzare degli shock di spesa ossia improvvise variazioni di una o più componenti della spesa
totale.
Supponiamo che le imprese decidano di aumentare la spesa per gli investimenti annua. Il prodotto delle
imprese che producono beni di investimento incrementerà e, pertanto, s’incrementeranno anche i salari,
rendite, interessi ecc. Il comportamento degli individui dipende da due fattori:
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1. cosa accade alle imposte che devono pagare
2. il livello della propensione marginale al consumo.
Supponiamo che le imposte non varino e che MPC sia pari a 0,6, la spesa per il consumo aumenterà del
60% dei 100 miliardi di euro di reddito aggiuntivo delle famiglie, cioè di 0,6 x 100 miliardi di euro = 60 miliardi
di euro. Le famiglie, quindi, risparmieranno i 40 miliardi rimanenti. Le imprese produrranno e venderanno del
prodotto aggiuntivo per 60 miliardi di euro. Pertanto si innescherà una reazione a catena portando a un
susseguirsi di incrementi di spesa e di reddito. Ogni incremento di spesa comporta un incremento del
prodotto e, quando il sistema economico avrà raggiunto il suo equilibrio, la spesa e il prodotto saranno
incrementati.
Il moltiplicatore di spesa è il numero per cui bisogna moltiplicare una variazione di spesa per ottenere la
variazione del PIL di equilibrio. Il valore del moltiplicatore di spesa dipende dal valore assunto da MPC nel
sistema economico.
In corrispondenza di ogni MPC, la formula per ottenere il moltiplicatore è
1/(1 – MPC).
Pertanto
∆PIL = [1/(1 – MPC)] x ∆Ip.
Il moltiplicatore può operare anche nella direzione opposta: le diminuzione della spesa per investimenti
provocano una riduzione del PIL secondo un multiplo della variazione di spesa.
Variazione dell’investimento, spesa pubblica, del consumo autonomo o delle esportazioni nette scatenano
l’effetto del moltiplicatore.
∆PIL = [1/(1 – MPC)] x ∆Ip
∆PIL = [1/(1 – MPC)] x ∆G
∆PIL = [1/(1 – MPC)] x ∆a
∆PIL = [1/(1 – MPC)] x ∆NX.
Un altro fattore che può far variare la spesa totale sono le imposte nette. Supponiamo che il governo
diminuisca il gettito fiscale o incrementi i trasferimenti pubblici. Ciascuna di tali modifiche aumenterà il
reddito disponibile e le famiglie spenderanno di più, portando le imprese a espandere la produzione e cosi
via. Quindi, una riduzione delle imposte nette incrementa il prodotto di un sistema economico secondo un
multiplo della riduzione originaria delle imposte. Il moltiplicatore di una riduzione fiscale risulta essere
inferiore al moltiplicatore delle variazioni di spesa.
I boom e le recessioni non hanno durata eterna. Alla fine il sistema economico ritorna al prodotto di piena
occupazione. Spesso un cambiamento della politica macroeconomica contribuisce al processo di
aggiustamento velocizzando il ritorno alla piena occupazione. In altri casi un errore politico ostacola questo
processo.
Nel mondo reale vi sono molti fattori che interferiscono con il moltiplicatore e ne riducono le dimensioni. Tali
forze sono gli stabilizzatori automatici perché, in presenza di un moltiplicatore modesto, gli shock di spesa
provocheranno una variazione del PIL molto inferiore. Essi sono:
• imposte: alcuni tipi di imposte aumentano con il reddito, di conseguenza l’incremento del reddito
disponibile sarà progressivamente inferiore all’incremento del reddito totale. Anche la spesa per il
consumo, quindi, aumenterà in misura minore.
• trasferimenti pubblici: alcuni trasferimenti pubblici diminuiscono all’aumentare del reddito. Di
conseguenza un incremento del reddito porterà ad un aumento inferiore del reddito disponibile. Il
consumo crescerà in misura inferiore in ogni fase del processo del moltiplicatore.
• tassi di interesse: gli aumenti del reddito portano spesso ad un innalzamento dei tassi d’interesse.
La spesa per gli investimenti, può ridursi nonostante il prodotto cresca e quindi ci sarà un aumento
progressivamente inferiore alla spesa totale in ogni fase del processo del moltiplicatore.
• importazioni: parte della spesa aggiuntiva è destinata a beni e servizi importati dall’estero. Ne
risulteranno incrementati i ricavi delle imprese estere e i redditi dei lavoratori stranieri, senza alcun
contributo all’aumento dei salari dei lavoratori della nazione in esame. In ogni fase del processo del
moltiplicatore, l’incremento del prodotto e della spesa sarà progressivamente inferiore.
• comportamenti lungimiranti: se i consumatori ritengono che boom e recessioni saranno temporanei,
è possibile che la loro spesa per il consumo sia meno sensibile alle variazioni di reddito.
Ognuno di tali stabilizzatori riduce le dimensioni del moltiplicatore.
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Un altro stabilizzatore è lo scorrere del tempo, infatti l’impatto degli shock di spesa sul sistema economico è
temporaneo, dopo pochi mesi s’innescano meccanismi correttivi e il sistema economico torna alla piena
occupazione. Nel lungo periodo, quindi, i moltiplicatori hanno un valore nullo.
Le modifiche del bilancio pubblico volte a influenzare il sistema macroeconomico, sono chiamate politiche
fiscali; quando sono dirette a neutralizzare le fluttuazioni economiche, si parla di politica fiscale anticiclica.
Supponiamo che il sistema economico sia colpito da uno shock di spesa negativo (una diminuzione della
spesa per investimenti pari a 100 miliardi di euro) e che il moltiplicatore sia pari a 1,5. Il governo, per
neutralizzare tale shock, potrebbe aumentare di 100 miliardi la propria spesa in beni o servizi, oppure
potrebbe diminuire le imposte nette. Poiché il moltiplicatore delle variazioni delle imposte nette è inferiore al
moltiplicatore di spesa, la riduzione fiscale dovrebbe essere superiore a 100 miliardi di euro.
Occorrono parecchi mesi perché venga attuata una modifica del sistema fiscale. Vi è il rischio che alcuni
impedimenti rimandino l’effetto della modifica oltre il tempo utile. Variazioni dei trasferimenti pubblici e della
spesa pubblica, subirebbero ritardi analoghi. In questo modo le modifiche si rivelerebbero forze
destabilizzanti del sistema economico, accelerando la tendenza quando bisognerebbe rallentarla e
viceversa.
Per essere effettivamente anticicliche, la manovre di politica fiscale devono essere temporanee. Tuttavia
l’inversione delle modifiche alla spesa pubblica, ai trasferimenti pubblici ecc possono essere difficili per
ragioni politiche. I programmi di spesa tendono a diventare permanenti o perlomeno difficilmente eliminabili.
Anche se il governo statunitense tentassi di stabilizzare il sistema economico per mezzo della politica
fiscale, non sarebbe molto efficace perché la Fed non lo permetterebbe. Essa persegue l’obiettivo di
mantenere il sistema economico il più vicino possibile al prodotto potenziale, e i suoi funzionari considerano
ogni variazione di politica fiscale solo un altro shock di spesa che potrebbe scatenare un boom o una
recessione da neutralizzare al più presto.
Esiste un altro tipo di variazione che può influire sul PIL: una variazione delle imposte.
La formula del moltiplicatore si differenzia leggermente. Supponiamo che le imposte versate dalle famiglie
(T) diminuiscano di 100 miliardi di euro. L’impatto immediato è un incremento del reddito disponibile delle
famiglie, pari a 100 miliardi di euro. Ma la spesa per il consumo aumenterebbe di una somma inferiore a 100
miliardi di euro. L’incremento iniziale della spesa dipende da MPC. Questa è la prima variazione di spesa
che ha luogo. Le fasi successive rimangono invariate. Il moltiplicatore di imposta deve avere un valore
numerico inferiore di una unità rispetto al moltiplicatore di spesa. È sempre un numero negativo.
Moltiplicatore d’imposta = - (moltiplicatore di spesa – 1).
La formula generale, pertanto, è:
-MPC/(1 – MPC).
Per ogni modifica delle imposte possiamo utilizzare tale formula per ottenere la variazione del PIL
∆PIL = [- MPC/(1 – MPC)] x ∆T.
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IL SISTEMA BANCARIO, LA BANCA CENTRALE E LA POLITICA MONETARIA
La moneta è il mezzo di pagamento di un sistema economico.
La quantità di moneta in circolazione può influenzare il sistema macroeconomico e per questo i governi
vogliono conoscerne l’entità.
Consideriamo la moneta come la base monetaria di cui dispone il settore privato, ossia le banconote e
monete metalliche.
La restante componente dell’offerta di moneta è costituita dai depositi in conto corrente, soprattutto depositi
a vista, ossia conti correnti posseduti dalle famiglie e imprese presso le banche commerciali (“a vista” perché
quando s’intesta un assegno a qualcuno, egli può andare in banca e a vista essere pagato).
Vi sono poi gli altri depositi tradibili ossia diversi tipi di conti correnti che funzionano in maniera simile ai
depositi a vista ma pongono limiti al ritiro immediato di fondi. Pertanto:
offerta di moneta: base monetaria privata + travellers’ cheque + depositi a vista + altri depositi traibili.
Le banche sono esempi di intermediari finanziari, ossia imprese specializzate nell’accettare fondi dalle
famiglie e dalle imprese i cui ricavi superano le spese, e incanalare tali fondi alle famiglie, imprese o
amministrazioni pubbliche le cui spese superano le entrate. Rendono il sistema economico molto più
efficiente di quanto non sarebbe altrimenti possibile.
Un intermediario riunisce in fondi in un gran numero di pacchetti appositamente preparati per i clienti, da
concedere in prestito. Cosi può ridurre il rischio corso dai risparmiatori suddividendo corso dai risparmiatori
suddividendo i prestiti tra diversi debitori. Se uno di essi non riesce a rimborsare il prestito, le conseguenze
che ricadranno su intermediario e depositanti saranno lievi perché l’intermediario può prevedere l’andamento
dell’afflusso e del deflusso di fondi. Ogni dato giorno è possibile che dei fondi vengano ritirati e degli altri
depositati ma la somma complessiva disponibile tende a rimanere costante. Inoltre gli intermediari tengono a
disposizione un certo livello di fondi (le riserve) per i periodi in cui vengano ritirate somme straordinariamente
elevate.
Gli intermediari devono guadagnare un profitto che ottengono fissando sui fondi concessi in prestito un tasso
d’interesse superiore a quello pagato dai depositanti.
Una banca commerciale è una società privata, posseduta da azionisti, che fornisce servizi al pubblico. Il
servizio più importante consiste nel fornire i conti correnti, che consentono ai clienti della banca di effettuare i
propri pagamenti senza detenere grandi quantità di contante. Il profitto di una banca proviene dalla
concessione di prestiti: più depositi una banca concede, maggiore sarà il suo profitto.
Le riserve sono i fondi che la banca non ha concesso in prestito ma tiene in una forma che sia prontamente
disponibile ai suoi depositanti. Le riserve si trovano in due sedi:
- il caveau
- la Banca Centrale
in entrambi i casi non fruttano interesse. Sono detenute per due ragioni:
1. è possibile che alcuni clienti vogliano prelevare più contante di quanto ne sia stato depositato
2. le banche sono obbligate, per legge, a detenere le riserve obbligatorie.
Maggiori quantità di fondi i clienti possiedono nei conti correnti, maggiore è l’ammontare delle riserve
obbligatorie. Il coefficiente di riserva obbligatoria indica alle banche la percentuale dei propri conti correnti da
tenere come riserva obbligatoria.
RR = RRR x DD
(RR: riserve obbligatorie, DD: depositi a vista).
La Banca Centrale è la principale autorità monetaria di una nazione. È responsabile della politica monetaria
di un paese, ossia si occupa dell’offerta di moneta, per influenzare il sistema economico.
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Per incrementare o ridurre l’offerta di moneta essa acquista o vendo obbligazioni di Stato nel mercato
aperto, ossia effettua operazioni di mercato aperto.
Aumento dell’offerta di moneta: ipotizziamo che
- la Fed acquisti un’obbligazione di Stato dalla Acme del valore di 1000$
- la Acme abbia un conto corrente presso la First Bank (unica banca della città)
- RRR sia pari a 0,1.
La Acme depositerà l’assegno nel proprio conto corrente presso la First, che a sua volta invierà l’assegno
alla Banca Centrale che accrediterà 100$ nel suo conto riserve. Ora le riserve della First sono aumentate di
$1000 e la banca può cosi far aumentare i propri depositi a vista totali creando dei nuovi prestiti. Ipotizziamo
che un uomo d’affari ottenga un prestito dalla banca, la First non farà altro che accreditargli l’ammontare del
prestito. Anche quando l’uomo d’affari spenderà il denaro, la banca non perderà riserve perché, essendo la
First l’unica banca della città, egli non farà che trasferire il suo denaro a terzi che, a loro volta, lo
depositeranno presso la First. Pertanto l’acquisto di mercato aperto di 1000$ effettuato dalla Banca Centrale,
incrementa l’offerta di moneta di 10.000$.
Se, invece, la città dispone di molte banche l’incremento complessivo dei depositi a vista rimarrà identico
perché la Banca Centrale ha immesso nuove riserve nel sistema bancario. Sebbene la Banca Centrale
possa trasferire riserve da una banca all’altra, la quantità totale non subirà variazioni. La First Bank
concederà meno prestiti e creerà meno depositi a vista nuovi quando vi sono altre banche in città, ma
proprio queste altre banche concederanno prestiti al posto della First National. La quantità totale di nuove
riserve rimane inalterato. Per qualsiasi immissione di riserve i depositi a vista aumenteranno secondo un
multiplo di 10.
∆DD = 10 x immissione di riserve.
Il moltiplicatore dei depositi a vista è il numero per cui bisogna moltiplicare l’immissione di riserve per
ottenere la variazione totale dei depositi a vista.
L’entità del moltiplicatore dipende dal valore del coefficiente di riserva obbligatoria fissato dalla Banca
Centrale. Per ogni dato coefficiente di riserva obbligatoria , la formula per ottenere il moltiplicatore dei
depositi a vista è 1/RRR.
∆DD = (1/RRR) x ∆riserve
∆offerta di moneta = (1/PPP) x ∆riserve.
Riduzione dell’offerta di moneta: la Banca Centrale può ridurre l’offerta di moneta vendendo obbligazioni di
Stato, ossia effettuando vendite di mercato aperto. La Banca Centrale dispone di migliaia di miliardi di dollari
in obbligazioni di Stato. In media la Banca Centrale tende a incrementare l’offerta di moneta ogni anno,
quindi effettua più acquisti che vendite di mercato aperto.
Supponiamo che la Fed venga un’obbligazione di Stato di 1000$ alla Acme che paga l’obbligazione con un
assegno. La First sottrarrà 1000$ dal conto corrente della Acme. Le riserva della banca sono diminuite di
1000$. Con RRR = 0.1 i suoi depositi a vista devono diminuire di 10.000$ ma dopo la detrazione
diminuiscono effettivamente solo di 1000$. La First deve quindi ridurre i propri depositi a vista di altri 9000$.
Pertanto dovrà chiedere il rimborso di un prestito di quel valore. Tuttavia i prestiti bancari hanno una
scadenza specifica e la banca non può chiederne il pagamento anticipato. Gran parte delle banche, però,
hanno un gran numero di prestiti insoluti. A una banca che debba ridurre i propri depositi a vista basterà
ridurre la quota dei propri prestiti diminuendo la quantità totale di prestiti insoluti.
Se le First fosse una delle tante banche della città, saprà che riducendo il proprio volume di prestiti, alcuni
dei prestiti rimborsati corrisponderanno a un trasferimento di riserve dalla altre banche ad essa. Le riserve
della First non diminuiranno. La riduzione totale dei depositi a vista rimarrà invariata in quanto la Banca
Centrale, tramite le proprie vendite di mercato aperto ha prelevato dal sistema bancario riserve per un valore
di 1000$. Ogni dollaro di tali riserve proviene da una data banca dove sosteneva depositi a vista per 10$.
Quando la Banca Centrale preleva 1000$ di riserve dal sistema bancario con una vendita di mercato aperto,
i conti correnti totali diminuiranno di 10.000$.
∆DD = (1/RRR) x ∆riserve.
Nella realtà però il moltiplicatore è generalmente inferiore di quanto suggerito dalla formula, per due ragioni:
1. abbiamo ipotizzato che al variare di offerta di moneta il pubblico non modifichi le proprie disponibilità
liquide. Tuttavia quando l’offerta di moneta aumenta il pubblico generalmente vuole possedere parte
di tale incremento sotto forma di depositi e parte in contanti. Di conseguenza, un acquisto di mercato
aperto di, ad esempio, 1000$ immetterà nel sistema bancario nuove riserve per un valore inferiore a
1000$ e creerà meno di 10.000$ in nuovi depositi a vista. Il moltiplicatore dei depositi sarà quindi
inferiore.
2. abbiamo ipotizzato che le banche abbiano sempre esaurito la propria capacità di concedere prestiti
e quindi posseggano la quantità minima di riserve obbligatorie e creino la quantità massima di nuovi
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depositi a vista. Nella realtà è possibile che le banche vogliano possedere delle eccedenze di
riserve, ossia una riserva superiore a quella minima richiesta dalla legge. Le banche finiscono per
avere delle eccedenze di fondi quando prestano una quantità di fondi inferiore al massimo
consentito dalla legge, creando quindi nuovi depositi a vista in una quantità inferiore a quella
massima. L’offerta di moneta crescerà in misura minore.
Esistono altri strumenti per incrementare o ridurre l’offerta di moneta:
• modifica del coefficiente di riserva obbligatoria: la Banca Centrale può abbassare il coefficiente di
riserva obbligatoria. Ogni banca vedrebbe che le proprie riserve possono sostenere un numero di
depositi a vista superiore ed incrementerebbe la concessione di prestiti creandone di nuovi. L’offerta
di moneta, quindi, aumenterebbe. Lo stesso vale per il processo opposto.
• modifica del tasso di sconto: le banche possono rendere denaro in prestito dalla Banca Centrale che
fissa un tasso d’interesse particolare sui prestiti che concede alle banche. Una riduzione di tale
interesse potrebbe incoraggiare le banche a prendere denaro in prestito, e cosi aumenterebbe
l’offerta di moneta. Lo stesso vale per il processo opposto.
Questi strumenti, però, non vengono utilizzati di frequente, ma le modifiche del tasso di sconto sono
comunque più frequenti. Tali procedure, infatti, possono produrre effetti imprevedibili. Un minimo errore di
previsione sulle reazioni delle banche potrebbe tradursi in una variazione enorme dell’offerta di moneta.
Le operazioni di mercato aperto possono essere sintonizzate a ogni livello desiderato e, inoltre, sono
protette da segretezza: nessuno conosce esattamente le decisioni prese dalla Banca Centrale che, pertanto,
può spesso modificare le sue politiche senza destabilizzare i mercati finanziari.
Per domanda di moneta s’intende la quantità di moneta che le persone vorrebbero avere, dati i vincoli cui
sono soggette.
La quantità totale di ricchezza che possediamo è limitata e, se vogliamo detenerne di più sotto forma di
denaro, dobbiamo possederne di meno sotto altre forme. Questa decisione è determinata dal vincolo di
ricchezza. Pertanto la domanda di moneta di un individuo è la quantità di ricchezza che l’individuo scegli di
possedere sotto forma di moneta, piuttosto che di altre attività.
La moneta è un mezzo di pagamento che frutta un interesse modestissimo, se non nullo. Possedendo
moneta sosteniamo un costo opportunità consistente nell’interesse o altra forma di compenso che potremmo
guadagnare se possedessimo la nostra ricchezza sotto un’altra forma.
Un’obbligazione è una promessa di pagamento che una società o un ente pubblico emettono quando
prendono in prestito denaro; con l’obbligazione promettono di rimborsare il prestito in una data futura. La
somma rimborsata è superiore e la differenza costituisce l’interesse.
Maggiori quantità di moneta possediamo, meno frequentemente dovremo scomodarci per convertire le
nostre obbligazioni e meno interessi guadagneremo.
Maggiore è il tasso d’interesse, minore è la quantità di moneta che un individuo vorrà possedere.
Le imprese sono soggette agli stessi tipi di vincoli degli individui.
Nell’intero sistema economico vi è una quantità limitata di ricchezza che può essere posseduta sotto forma
di moneta o obbligazioni. La domanda di moneta del sistema economico è legata al tasso d’interesse. Un
aumento del tasso di interesse ridurrà la quantità di moneta domandata (nell’intero sistema economico) e
una diminuzione del tasso di interesse la incrementerà.
La curva di domanda di moneta indica la quantità di moneta indica la quantità totale di moneta domandata
nel sistema economico in corrispondenza di ogni dato tasso di interesse. Tale curva è inclinata verso il
basso.
La quantità di moneta offerta in corrispondenza di ogni dato tasso d’interesse. L’offerta di moneta è
determinata dalla Banca Centrale ed è una somma fissa che prescinde dalle variazioni del tasso d’interesse.
Una volta che la Banca Centrale determina l’offerta di moneta, questa rimane costante finché la Banca
Centrale stessa non la modifica.
Se la BC, per qualche ragione, deve modificare l’offerta di moneta, occorre tracciare una nuova linea
verticale. L’acquisto di obbligazioni nel mercato aperto immette riserve nel sistema bancario e provoca uno
spostamento della curva di offerta di moneta verso destra secondo un multiplo dell’apporto di riserve. Le
vendite di mercato aperto producono l’effetto opposto: prelevano riserve dal sistema e provocano uno
spostamento della curva di offerta di moneta verso sinistra secondo un multiplo del prelievo di riserve.
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Per trovare il tasso d’interesse di equilibrio, ossia il tasso al quale la quantità di moneta domandata e offerta
si eguagliano, occorre trovare l’intersezione delle due curve.
Nel punto di equilibrio le persone sono soddisfatte di possedere la quantità di moneta che posseggono.
Supponiamo che il tasso d’interesse non sia al suo valore di equilibrio, si avrà:
- eccesso di offerta di moneta: la quantità di moneta offerta eccedente la quantità domandata
in corrispondenza di un determinato tasso d’interesse
- eccesso di domanda di obbligazioni: la quantità di obbligazioni domandata eccedente la
quantità offerta in corrispondenza di un determinato tasso d’interesse.
quando vi è un eccesso di offerta di moneta nel sistema economico, vi è anche un eccesso di domanda delle
obbligazioni. In questo caso il pubblico vorrebbe convertire la moneta indesiderata in obbligazioni, il cui
prezzo, pertanto, salirà. Quindi quando il tasso d’interesse è superiore al valore di equilibrio il prezzo delle
obbligazioni salirà.
Il tasso d’interesse che si guadagna dalle obbligazioni, dipende dal prezzo dell’obbligazione: maggiore è il
prezzo, minore è il tasso d’interesse.
Quando il prezzo di una obbligazione aumenta, il tasso d’interesse diminuisce e viceversa.
Esistono due mercati obbligazionari:
- primario: vengono acquistate e vendute obbligazioni appena emesse
- secondario: vengono acquistate e vendute obbligazioni precedentemente emesse.
Quando i prezzi salgono nel mercato secondario, salgono anche in quello primario poiché le obbligazioni
appena emesse e quelle precedentemente emesse sono perfette sostitute le une delle altre.
Un aumento del prezzo delle obbligazioni comporta una diminuzione del tasso d’interesse. Finché l’eccesso
di domanda di obbligazioni e l’eccesso di offerta di moneta persistono, il pubblico vorrà ancora acquistare
obbligazioni e il tasso d’interesse continuerà a scendere. Man mano che il tasso d’interesse scende, però, la
domanda di moneta sale finché gli eccessi non spariscono. Lo stesso vale per il processo opposto.
Se la BC vuole abbassare il tasso d’interesse, deve cambiare il tasso di interesse di equilibrio del mercato
monetario. Per abbassarlo BC aumenta l’offerta di moneta tramite l’acquisto di obbligazioni nel mercato
aperto, con conseguente abbassamento del tasso d’interesse fino al valore di equilibrio.
La BC può anche aumentare il tasso d’interesse tramite la vendita di obbligazioni nel mercato aperto.
Una riduzione del tasso d’interesse farà incrementare diversi tipi di spesa.
Una diminuzione del tasso d’interesse stimola la spesa delle imprese in impianti e attrezzature. Il tasso
d’interesse, infatti, è uno dei costi principali di ogni progetto d’investimento, rappresenta il costo opportunità
dei fondi spesi in impianti e attrezzature. Con un tasso d’interesse minore verrà avviato un numero maggiore
di progetti.
Le variazioni del tasso d’interesse influenzano anche la spesa in case o appartamenti nuovi costruiti dagli
operatori immobiliari. Il contratto di prestito per l’edilizia abitativa è detto ipoteca e i tassi d’interesse ipotecari
hanno andamento analogo a quello degli altri tassi d’interesse.
Il tasso d’interesse influisce anche sulla spesa per il consumo relativa ai beni durevoli, che di solito durano
parecchi anni. Le famiglie spesso ottengono prestiti per acquistare i beni di consumo durevoli, e il
corrispondente tasso d’interesse tende a seguire l’andamento degli altri tassi di interesse del sistema
economico.
Quando il tasso di interesse diminuisce la spesa per il consumo aumenta in corrispondenza di ogni livello di
reddito disponibile. È la funzione di consumo a spostarsi, non c’è uno spostamento lungo di essa.
Quando la BC controlla o manovra l’offerta di moneta, conduce una politica monetaria.
Acquisti di mercato aperto → Offerta di moneta (↑) → tasso d’interesse (↓) → a e Ip (↑) →PIL reale (↑).
Vendite di mercato aperto → Offerta di moneta (↓) → tasso d’interesse (↑) → e e Ip (↓) → PIL reale (↓).
Uno spostamento della curva di domanda di moneta può avere diverse cause:
- il pubblico inizia a temere per la sicurezza dei pagamenti effettuati con carte di credito ecc.
- le nuove tecnologie creano nuovi sostituti del denaro modificando le preferenze
- le previsioni del tasso d’interesse futuro.
I prezzi delle obbligazioni e i tassi d’interesse sono legati da una relazione inversa: se si prevede un
aumento del tasso d’interesse, i prezzi delle obbligazioni diminuiscono. Infatti, se si prevede un aumento del
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tasso d’interesse nel futuro, le obbligazioni vorranno essere convertite in moneta ora, aumentando la
domanda di moneta. Se tale previsione è diffusa si verifica un incremento della domanda di moneta
nell’intero sistema economico.
La curva di domanda di moneta, in questo caso, si sposta perché la gente vorrà avere una maggior quantità
di moneta per ogni tasso d’interesse corrente. La curva di domanda di moneta, in previsione di un aumento
del tasso d’interesse, si sposta verso destra creando un eccesso di domanda di moneta e un eccesso di
offerta delle obbligazioni, il cui prezzo scenderà e il tasso d’interesse diminuirà.
Quando si diffondono informazioni che portano a ritenere che il tasso d’interesse aumenterà e i prezzi delle
obbligazioni diminuiranno nel prossimo futuro, il risultato è un aumento immediato del tasso d’interesse e
una diminuzione dei prezzi delle obbligazioni. Tale principio opera anche se le informazioni sono false.
Le variazioni dei tassi d’interesse dovuti a previsioni, possono avere conseguenze importanti: si possono
guadagnare o perdere enormi quantità di denaro a seconda delle previsioni.
Si hanno conseguenze anche sul sistema economico nel suo complesso. Infatti quando una previsione
diventa una “profezia” destinata ad avverarsi, essa modifica i tassi d’interesse correnti e ne verranno
influenzati spesa e prodotto. La BC può neutralizzare tali modifiche ma, il fatto che il pubblico cambi in
continuazione le aspettative, rende difficile il compito della BC.
Federal Reserve System (Fed): ogni nazione controlla il proprio sistema bancario tramite una Banca
Centrale. La Fed, nata nel 1913, è la BC degli USA. Gli USA sono suddivisi in 12 regioni, ognuna servita
dalla propria Fed. Essa ha uno status particolare all’interno dell’amministrazione pubblica, infatti non fa parte
della pubblica amministrazione ma è una società i cui azionisti sono le banche private che essa regola. È
stata istituita dal Congresso che, quindi, potrebbe eliminarla. Sia il Presidente degli USA che il Congresso
esercitano una certa influenza sulla Fed nominando i funzionari principali. L’obiettivo della Fed è quello di
servire l’interesse pubblico generale.
All’apice si trova il Consiglio dei Governatori, 7 membri nominati dal Presidente e confermati dal Senato.
Il Presidente del Consiglio dei Governatori è la persona più potente ed ha un mandato di 4 anni che non
deve essere concomitante al mandato di 4 anni della presidenza degli USA.
Ognuna delle 12 Fed è supervisionata da 9 direttori, 3 nominati dal Consiglio e gli altri 6 dalle banche
commerciali private.
I direttori scelgono un proprio presidente che gestisca le operazioni quotidiane delle banca.
Federal Open Market Commitee (FOMC): è composto da tutti i sette governatori della Fed assieme a 5 dei
12 presidenti delle banche regionali. Tale comitato si riunisce 8 volte l’anno per discutere l’andamento
corrente di inflazione e disoccupazione. Il FOMC determina il corso generale dell’offerta di moneta di una
nazione. Le delibere del comitato sono riservate. I resoconti delle riunioni sono pubblicati dopo almeno un
mese e nemmeno il Presidente degli Stati Uniti conosce i dettagli che stanno dietro le decisioni.
Funzioni della Fed:
• supervisione e regolamentazione delle banche: determina e fa applicare le disposizioni relative alle
riserve obbligatorie che tutte le anche devono rispettare. La Fed fissa gli standard per l’istituzione di
nuove banche, determina i tipi di prestiti e investimenti che le banche possono fare e controlla da
vicino le loro attività finanziarie
• banca delle banche: le banche commerciali si servono della Fed in maniera analoga a come i
normali cittadini
• emissione di carta moneta: una volta stampata la moneta viene spedita alla Fed che la mette in
circolazione
• compensazione di assegni: quando si emette un assegno i fondi sono trasferiti da un conto bancario
a un altro con un processo chiamato compensazione di assegni. In alcuni casi tale servizio è fornito
da stanze di compensazione private, in molti casi è fornito dalla Fed, che non fa altro che trasferire
fondi dal conto riserve di una banca a quello di un’altra banca
• controllare l’offerta di moneta: è responsabile del controllo dell’offerta di moneta, azione che svolge
in modo indipendente del potere politico.
L’obiettivo perseguito dalla Fed negli ultimi 15 anni consiste nel mantenere il PIL statunitense il più vicino
possibile al suo livello potenziale, prevedendo le oscillazioni di breve periodo. Quando il sistema economico
sembra essere in procinto di espandersi oltre il livello potenziale, la Fed si serve della politica monetaria per
ridurre la spesa totale e tenere sotto controllo il sistema, e viceversa.
La Fed si preoccupa di mantenere stabile il sistema economico perché le deviazioni sono molto costose.
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Per mantenere costante il PIL reale la Fed deve neutralizzare la variazione del tasso d’interesse e lo fa
incrementando o riducendo l’offerta di moneta.
Per stabilizzare il PIL reale la Fed deve stabilizzare anche il tasso d’interesse.
Quando non vi sono shock di spesa significativi la Fed può concentrare i propri sforzi sul mantenimento
dell’obiettivo del tasso di interesse. Mantenere costante il tasso d’interesse in periodi del genere, è
abbastanza semplice: quando aumenta la Fed sa che la curva di domanda di moneta si è spostata verso
destra, quando diminuisce la Fed sa che la curva di domanda di moneta si è spostata verso sinistra.
Per stabilizzare il tasso d’interesse la Fed procede per tentativi studiati. Effettuando operazioni di mercato
aperto ogni giorno, è in grado di sfruttare un continuo feedback per mantenere il tasso d’interesse
relativamente costante.
Gli spostamenti della curva della spesa totale, provocano variazioni del PIL reale.
Supponiamo che il sistema economico sia colpito da uno shock di spesa positivo, se la Fed non intervenisse
il sistema economico si avvierebbe verso un boom e il PIL reale aumenterebbe ancora. La Fed dovrà alzare
il proprio obiettivo di tasso d’interesse per diminuire la spesa sensibile all’interesse della stessa misura di cui
è aumentata la spesa a causa dello shock. La Fed può raggiungere il nuovo, più alto, target di tasso
d’interesse diminuendo l’offera di moneta.
Se invece il sistema economico venisse colpito da uno shock di spesa negativo la Fed seguirebbe la politica
opposta: abbasserebbe il proprio obiettivo di tasso d’interesse e incrementerebbe l’offerta di moneta per
poterlo raggiungere.
La politica di stabilizzazione del PIL reale perseguita dalla Fed comporta un prezzo: le oscillazioni del tasso
d’interesse, che sono in qualche modo costose perché rendono più difficile la pianificazione da parte delle
famiglie e delle imprese a aumentano i rischi per i detentori di titoli obbligazionari. Possono inoltre causare
problemi ai settori del sistema economico sensibili all’interesse, soprattutto l’edilizia abitativa e l’industria
automobilistica. Anche le oscillazioni del PIL reale comportano un costo e la Fed ritiene opportuno
aggiustare i propri tassi d’interesse in maniera energica per stabilizzare il PIL.
Banca Centrale Europea (BCE): può essere definita come la Banca Centrale dell’Unione Monetaria
Europea. È al vertice dell’euro-sistema e del Sistema Europeo delle Banche Centrali.
Per far parte dell’Unione Monetaria Europea, i membri devono soddisfare alcuni requisiti quali il
raggiungimento di un livello di inflazione moderato e stabile, la stabilità del tasso di cambio con l’euro e la
convergenza dei tassi d’interesse a lungo termine ai livelli dei Paesi già membri dell’unione.
La BCE è caratterizzata da 3 organi di governo:
• Consiglio Direttivo: comprende i 12 governatori delle BCN e i 6 membri del Comitato Esecutivo. È
responsabile per la formulazione della politica monetaria.
• Comitato Esecutivo: composto da presidente, vicepresidente e 4 membri nominati di comune
accordo dai governatori delle 12 nazione aderenti all’UME, dopo aver consultato il Parlamento
Europeo. È responsabile dell’attuazione della politica monetaria formulata dal Consiglio Direttivo.
• Consiglio Generale: composto da Presidente e Vicepresidente della BCE e dai governatori delle
BCN e SEBC. Svolge una funzione consultiva e di raccolta delle informazioni statistiche
L’indipendenza della BCE è garantita eliminando la possibilità per terze parti di dare istruzioni alle BCE e ai
suoi organi decisionali di sospendere o annullare le decisioni della BCN.
La BCE ha compiti simili a quelli della Fed per quanto riguarda il ruolo di “banca delle banche”, emissione di
carta moneta e controllo dell’offerta di moneta. L’azione di supervisione e regolamentazione delle banche di
ciascun Paese membro dell’UME è di competenza rispettiva della BCN, che comunque è strettamente
integrata con la BCE.
L’obiettivo primario è il mantenimento della stabilità del livello dei prezzi. Secondariamente la banca è
impegnata a sostenere la politiche economiche generali dell’UE e a promuovere e regolare il funzionamento
del sistema dei pagamenti. La strategia di politica monetaria seguita dalla BCE poggia su due pilastri:
1. valutazione sull’andamento dei prezzi
2. costante monitoraggio dell’andamento dell’aggregato monetario M3.
Tale strategia viene tradotta nella pratica quotidiana utilizzando una serie di strumenti in grado di influenzare
i tassi d’interesse e le condizioni di liquidità del mercato monetario e del sistema bancario.
La BCE opera a partire dal 1999. La gestione della politica monetaria è stata caratterizzata da un
orientamento espansivo nel corso di quel anno, cui ha fatto seguito una graduale restrizione attuata nel
corso del 2000. La BCE ha motivato le proprie decisioni riguardanti i tassi d’interesse facendo riferimento
alle diverse prospettive che si sono andate manifestando nel corso di questi due anni.
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In seguito al rallentamento ciclico, ha attuato una riduzione dei tassi e, successivamente, in concomitanza
con una ripresa della crescita, ha fatto riferimento a rischi crescenti di aumenti del livello dei prezzi per
aumentare i tassi a partire dal novembre del 1999. La tendenza si è invertita a causa del rallentamento della
crescita. La BCE ha adottato una politica simile a quella della Fed ma meno aggressiva. Da allora i tassi
d’interesse sono stati mantenuti molto bassi.
I critici della BCE le rimproverano questa timidezza nel ridurre i tassi di interesse nella fase di rallentamento
ciclico dell’economia europea.
LA DOMANDA AGGREGATA E L’OFFERTA AGGREGATA
La relazione tra livello dei prezzi e prodotto, è una relazione biunivoca: da un lato le variazioni del livello dei
prezzi provocano variazioni del PIL reale, secondo una relazione illustrata dalla curva di domanda
aggregata; dall’altro, le variazioni del PIL reale provocano variazioni del livello dei prezzi, secondo una
relazione illustrata dalla curva di offerta aggregata.
Il primo effetto prodotto da una variazione del livello dei prezzi, colpisce il mercato monetario. Quando il
livello dei prezzi aumenta, la curva di domanda si sposta verso destra. Infatti, se il livello dei prezzi aumenta
e la spesa media diventa più costosa, avremo bisogno di possedere una parte maggiore della nostra
ricchezza sotto forma di moneta solo per raggiungere lo stesso livello di comodità. Quindi, per ogni dato
tasso d’interesse, la domanda di moneta aumenterà e la curva di domanda di moneta si sposterà verso
destra.
Un aumento del tasso d’interesse riduce la spesa sensibile all’interesse. Una riduzione della spesa provoca
una diminuzione del PIL di equilibrio.
Otteniamo che un aumento del livello dei prezzi porta a un aumento del tasso d’interesse e a una
diminuzione della spesa sensibile all’interesse; il PIL di equilibrio diminuisce secondo un multiplo della
riduzione di tale spesa.
Quando il livello dei prezzi di un paese aumenta, i beni di questo Paese diventano più costosi per gli
stranieri, quindi le sue esportazioni diminuiscono.
I beni stranieri diventano relativamente più economici, con conseguente aumento delle importazioni del
Paese in esame.
Entrambi questi fenomeni contribuiscono a ridurre le esportazioni nette.
A ogni diverso livello dei prezzi corrisponde un differente PIL di equilibrio.
La curva di domanda aggregata indica il PIL reale di equilibrio per ogni dato livello dei prezzi.
L’aumento del livello dei prezzi fa crescere la domanda di moneta, alza il tasso d’interesse, riduce il
consumo autonomo e la spera per l’investimento scatenando l’effetto del moltiplicatore per ridurre il PIL di
equilibrio. Contemporaneamente fa salire il prezzo dei beni statunitensi, fa diminuire le esportazioni e
aumentare le importazioni. Lo stesso vale per il processo inverso.
Quando il sistema economico si sposta lungo la curva AD, ipotizziamo che il livello dei prezzi vari mentre gli
altri elementi rimangono costanti. Se uno di questi varia, sarà l’intera curva AD a spostarsi.
Il PIL di equilibrio varierò in seguito alla modifica di:
• spesa pubblica
• imposte
• spesa per il consumo autonomo
• spesa per l’investimento
• curva di offerta di moneta
• curva di domanda di moneta.
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Gli shock di spesa influenzano il sistema economico modificando inizialmente la spesa totale e in seguito il
prodotto, secondo un multiplo della variazione originale della spesa.
Uno shock di spesa positivo genera un aumento del PIL di equilibrio per ogni dato livello dei prezzi; esso
sposta quindi la curva AD verso destra.
La curva AD si sposta verso destra quando, spesa pubblica, spesa per l’investimento, spesa per il consumo
autonomo o le esportazioni nette aumentano, o quando le imposte diminuiscono.
La curva AD si sposta verso sinistra quando la spesa pubblica, spesa per l’investimento, spesa per il
consumo autonomo o le esportazioni nette diminuiscono, o quando le imposte aumentano.
Anche le variazioni che hanno luogo nel mercato monetario sposteranno la curva di domanda aggregata. Un
incremento dell’offerta di moneta sposta la curva AD verso destra, mentre una riduzione dell’offerta di
moneta sposta la curva AD verso sinistra.
Pur sapendo su quale curva operi il sistema economico, non conosciamo il livello del PIL potenziale finché
non sappiamo su quale punto di tale curva ci troviamo. Tale posizione dipende, a sua volta, dal valore del
livello dei prezzi.
Le variazioni del PIL influenzano il livello dei prezzi, e tale relazione è espressa dalla curva di offerta
aggregata. Gli effetti delle variazioni del prodotto coinvolgono una quantità di elementi.
Il livello dei prezzi di un sistema economico dipende dalla politica di determinazione dei prezzi adottata da
milioni di singole imprese.
Spesso tutte le imprese sono coinvolte dallo stesso evento macroeconomico che provoca un aumento o una
diminuzione dei prezzi di tutto il sistema economico. Una tale variazione del livello dei prezzi è oggetto di
analisi macroeconomica.
Un’impresa fissa il prezzo dei suoi prodotti secondo un margine, mark-up, calcolato percentualmente su suo
costo unitario. Il mark-up dipende dal grado di concorrenza del mercato:
- se ci sono molte imprese simili, il mark-up è modesto
- se c’è una basso grado di concorrenza il mark-up è più elevato.
Dato che la struttura concorrenziale cambia molto lentamente, il mark-up medio dovrebbe rimanere costante
di anno in anno. Un mark-up stabile non comporta un livello dei prezzi stabile, poiché i costi unitari delle
imprese possono cambiare.
Nel breve periodo il livello dei prezzi sale quando si verifica un incremento dei costi unitari di tutto il sistema,
mentre scende quando si verifica una diminuzione di tali costi.
Le variazioni del PIL influenzano i costi perché:
• possono essere necessarie maggiori quantità di input per realizzare un’unità di prodotto. Man mano
che il prodotto aumenta le imprese assumono nuovi lavoratori, non addestrati, che potrebbero
essere meno produttivi. Inoltre le imprese utilizzano capitale e terra meno adatti al loro settore. Sono
necessarie, quindi, maggiori quantità di terra, lavoro e capitale per produrre un’unità del bene. Il
costo unitario, quindi, aumenterà.
• I prezzi degli input diversi dal lavoro aumentano e le imprese dovranno pagare un prezzo più elevato
per averli. Questo vale soprattutto per la terra e le risorse naturali, che nel breve periodo potrebbero
essere disponibili solo in quantità limitate. Un incremento della produzione farebbe crescere la
domanda di tali input aumentandone il prezzo. Aumenterebbero cosi i costi medi.
• Il tasso salariale nominale aumenta. Una produzione maggiore richiede un livello più elevato di
occupazione. Quando le imprese sono in concorrenza per assumere i pochi lavoratori disponibili,
devono offrire dei tassi salariali più elevati. Aumenterebbero quindi o costi unitari.
Gli stessi procedimenti operano anche nel senso opposto.
I primi due punti operano nel breve periodo, mentre la variazione del tasso salariale opera nel lungo periodo
perché:
• Molte imprese sono legate da contratti sindacali che specificano il salario fino a 3 anni. Sia che il
prodotto aumenti, sia che diminuisca, le imprese continueranno ad attendersi al contratto.
• I salari di molte società sono fissati da una burocrazia lenta e macchinosa.
• Le modifiche salariali in entrambe le direzioni possono comportare costi notevoli per le imprese.
• Le imprese possono trarre vantaggio dalla diffusione della reputazione di pagare salari stabili.
Pertanto, ipotizziamo che le variazioni del prodotto non sortiscano effetti sul tasso salariale nel breve
periodo.
Nel breve periodo, invece, la crescita del PIL reale, provocando un aumento dei costi unitari alzerà anche il
livello dei prezzi, e viceversa.
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La curva di offerta aggregata indica il livello dei prezzi corrispondente ai costi unitari delle imprese e al loro
mark-up percentuale per ogni dato livello di prodotto nel breve periodo. Tale curva è ascendente e presenta
sull’asse verticale la variabile di prezzo, su quello orizzontale la variabile di quantità.
Quando una variazione del prodotto modifica il livello dei prezzi, ci muoviamo lungo la curva AS. L’aumento
del prodotto alza i prezzi delle materie prime e aumenta il fabbisogno di input per unità di prodotto in molte
imprese. Queste variazioni incrementano i costi unitari. Fintanto che il mark-up rimane costante, l’aumento
dei costi per unità porterà le imprese ad alzare i prezzi e il livello dei prezzi salirà. Lo stesso processo opera
in senso inverso.
Nel mondo reale i costi unitari a volte cambiano per ragioni diverse, e in questi casi è l’intera curva AS a
spostarsi. Le cause, possono essere:
• Le variazioni dei prezzi del petrolio: il petrolio è scambiato in un mercato internazionale dove i prezzi
possono oscillare anche quando il prodotto di una nazione è stabile.
• Le variazioni meteorologiche favorevoli incrementano la produzione agricola per ogni data quantità
di terra, lavoro, capitale e altri input utilizzati con conseguente diminuzione dei costi unitari e dei
prezzi. I prodotti agricoli sono input importanti nella produzione di molti beni. Delle buone condizioni
meteorologiche fanno quindi scendere i prezzi degli input di molte altre imprese.
• Le nuove tecnologie possono ridurre i costi unitari sostenuti dalle imprese per realizzare ogni dato
livello di prodotto.
• Il salario nominale, incrementandosi, incrementerebbe il costo unitario delle imprese per qualsiasi
livello di produzione, quindi sposterebbe la curva AD verso l’alto.
L’equilibrio macroeconomico di breve periodo si trova in corrispondenza dell’intersezione delle due curve,
infatti
- nell’equilibrio il sistema economico deve trovarsi in qualche punto della curva AD
- l’equilibrio di breve periodo comporta che il sistema economico operi sulla propria curva AS.
Se non si verificano queste condizioni il livello dei prezzi e quello del prodotto si modificheranno. Solo
quando il sistema economico si trova al punto E avremo raggiunto un valore sostenibile di PIL reale e di
livello dei prezzi.
L’equilibrio cambia quando la curva AD, AS o entrambe, si spostano.
- shock di domanda: evento che provochi lo spostamento della curva AD
- shock di offerta: evento che provochi lo spostamento della curva AS.
Un incremento della spesa pubblica sposta la curva AD verso destra. Supponiamo che la spesa aumenti di
2000miliardi di dollari ed MPC sia pari a 0,6, il prodotto si incrementerebbe di 5000miliardi di dollari (il
moltiplicatore è 1/(1 – 0,6) ). Supponiamo che il livello dei prezzi rimanga costante, ci sposteremmo ad un
punto J che si trova al di sotto della curva AS. Le imprese presto alzerebbero i prezzi provocando uno
spostamento verso sinistra della curva AD. Il livello dei prezzi continuerebbe a salire e il prodotto a diminuire
fino al raggiungimento del punto H. Nella realtà il prodotto e il livello dei prezzi tendono ad aumentare
insieme, quindi si passerebbe direttamente al punto H.
Il processo opera anche nel verso opposto.
Un incremento dell’offerta di moneta riduce il tasso d’interesse e stimola la spesa sensibile all’interesse e la
spesa per l’investimento; il PIL crescerà e la curva AD si sposterà verso destra. Il livello dei prezzi, quindi,
sale ridimensionando l’incremento del PIL.
Quindi, uno shock di domanda positivo (che sposta AD verso destra) incrementa sia il PIL reale sia il livello
dei prezzi nel breve periodo; uno shock di domanda negativo (che sposta AD verso sinistra) riduce sia il PIL
reale sia il livello dei prezzi nel breve periodo.
Nel breve periodo, però, consideriamo il tasso salariale come dato. Nel lungo periodo il tasso salariale può
cambiare: quando il prodotto è superiore al livello di piena occupazione, sale spostando la curva AS verso
l’alto; quando il prodotto è inferiore al livello di piena occupazione, il tasso salariale scende spostando la
curva AS verso il basso.
Se uno shock di domanda allontana il sistema economico dalla piena occupazione, grazie al meccanismo di
auto-correzione, le variazioni del tasso salariale e del livello dei prezzi porteranno il sistema economico a
riportare il prodotto al livello di piena occupazione, nel lungo periodo. Quando il prodotto supera il livello di
piena occupazione, i salari aumentano facendo salire il livello dei prezzi e diminuire il PIL finché il sistema
non ritorna alla piena occupazione; quando il prodotto è inferiore al livello di piena occupazione, i salari
diminuiscono facendo scendere il livello dei prezzi ed aumentare il PIL finché il sistema non ritorna alla piena
occupazione.
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La curva di offerta aggregata di lungo periodo riassume tutte le possibili combinazioni di prodotto e livello dei
prezzi cui potrebbe giungere il sistema economico nel lungo periodo; è una retta verticale perché nel lungo
periodo il PIL rimane costante al livello di piena occupazione, a prescindere dalla posizione della curva AD.
Uno shock di domanda positivo sposta la curva AD verso destra in corrispondenza di un maggiore livello dei
prezzi, ma dello stesso livello di prodotto; uno shock di domanda negativo sposterebbe la curva AD verso
sinistra portando il sistema economico in corrispondenza di un minore livello dei prezzi ma dello stesso
livello di prodotto.
Nel lungo periodo la politica fiscale e quella monetaria non hanno alcuna influenza sul livello di prodotto o sul
tasso di occupazione. Nel lungo periodo queste politiche spostano la curva AD lungo la curva AS verticale,
modificando il livello dei prezzi ma senza alterare il PIL reale. Possono essere necessari diversi anni prima
che il sistema economico torni alla piena occupazione dopo uno shock di domanda. Per questo i governi
sono restii ad affidarsi unicamente al meccanismo di auto-correzione
Questa analisi, però, non è completa, infatti:
• abbiamo ipotizzato che i prezzi siano totalmente flessibili ossia che possano cambiare liberamente in
brevi periodi di tempo. In realtà alcuni prezzi hanno bisogno di molto tempo per aggiustarsi.
• abbiamo ipotizzato che i salari non siano assolutamente flessibile nel breve periodo. In alcune
industrie, tuttavia, i salari hanno una risposta rapida.
• il processo di ripresa da uno shock comporta più che l’aggiustamento di prezzi e salari. Durante una
recessione molti lavoratori perdono il posto contemporaneamente e deve trascorrere tempo prima
che trovino un nuovo lavoro. Con il passare del tempo coloro che hanno perso il posto ne trovano un
altro e il sistema tende a riprendersi.
Gli shock di offerta sono fonti importanti di oscillazioni economiche.
Nel breve periodo, uno shock di offerta negativo (che produce un effetto negativo sul prodotto) sposta la
curva AS verso l’alto riducendo il prodotto e alzando il livello dei prezzi.
Dopo uno shock di offerta negativo il prodotto diminuisce mentre il livello dei prezzi aumenta. Gli economisti
hanno coniato il termine stagflazione per indicare un sistema economico stagnante che subisce inflazione.
Uno shock di offerta positivo sposta la curva AS verso il basso, aumentando il prodotto e riducendo il livello
dei prezzi.
Alcuni shock di offerta sono solo temporanei e causano uno spostamento solo temporaneo della curva AS.
In altri casi, invece, possono durare per lunghi periodi. In questi casi esiste un meccanismo di auto –
correzione: quando il prodotto è inferiore al livello di piena occupazione, nel lungo periodo i lavoratori
entrano in concorrenza per cercare i pochi posti di lavoro disponibili ed il tasso salariale diminuisce
provocando uno spostamento della curva AS verso il basso. Il tasso salariale continuerà a scendere finché il
sistema economico non torna alla piena occupazione.
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IL VANTAGGIO COMPARATO E IL COMMERCIO INTERNAZIONALE
Nei decenni successivi alla Seconda Guerra mondiale si è sviluppato un movimento internazionale diretto
alla politica del libero scambio, ossia il passaggio non ostacolato di beni e servizi attraverso i confini
nazionali. Un risultato è stato la creazione del WTO il cui obiettivo è quello di facilitare la risoluzione delle
dispute commerciali tra gli Stati membri e nel ridurre gli ostacoli al libero scambio in tutto il mondo. In una
certa misura tali finalità sono state raggiunte, ma sono state anche erette molte altre barriere.
A molti piace l’idea di essere autosufficienti. Tuttavia l’autosufficienza ha dei difetti che spiegano perché la
maggior parte delle persone scelgano di non essere autosufficienti, ma di specializzarsi e di commerciare
vicendevolmente.
L’eliminazione dello scambio fra gli Stati comporterebbe molti sacrifici; a causa della mancanza degli input
necessari, ad esempio, uno Stato dovrebbe fare a bene di alcuni beni. Non avrebbe quindi senso impuntarsi
sull’autosufficienza economica di ognuno.
I membri del WTO hanno portato il ragionamento sino alla conclusione estrema: la specializzazione e lo
scambio a livello nazionale possono innalzare il tenore di vita mondiale tramite il libero scambio a livello
internazionale. Tale scambio comporta il movimento di beni e servizi attraverso i confini nazionali.
- importazioni: beni e servizi prodotti all’estero e consumati internamente
- esportazioni: beni e servizi prodotti internamente e venduti all’estero.
L’obiettivo di lungo termine del WTO consiste nel rimuovere tutte le barriere alle esportazioni e alle
importazioni per incoraggiare lo sviluppo internazionale della specializzazione e dello scambio.
Un paese gode di un vantaggio assoluto nella produzione di un bene, quando può produrlo utilizzando meno
risorse di un altro paese.
Secondo la teoria dei primi economisti, i cittadini di ogni nazione potevano migliorare il proprio benessere
economico specializzandosi nella produzione dei beni in cui godevano di un vantaggio assoluto ed esportarli
negli altri paesi, importando i beni dai paesi che avevano un vantaggio assoluto nella produzione di quei
beni.
Nel 1817 David Ricardo confutò tale teoria introducendo il concetto di vantaggio comparato. Una nazione
gode di tale vantaggio quando può produrre un bene sostenendo un minor costo opportunità rispetto a un
altro Paese.
Uno scambio reciprocamente vantaggioso tra due paesi è possibile ogniqualvolta uno di essi è relativamente
migliore nella produzione di un ben rispetto all’altro, dove essere relativamente migliore significa essere in
grado di produrre il bene con un minor costo opportunità.
Ipotizziamo un mondo con solo due nazioni (Cina e USA) che producono solo due beni (abiti e computer).
Ipotizziamo che ogni paese disponga di una sola risorsa (il lavoro) e che occorra un numero costante di ore
per produrre un computer o un abito.
Lavoro necessario per produrre
Cina
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USA
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Abiti
Computer
125 ore
625 ore
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50 ore
100 ore
Supponiamo che la Cina debba produrre un computer aggiuntivo. Dovrebbe sottrarre 625 ore di lavoro
all’industria degli abiti, il che comporterebbe una riduzione della produzione di abiti. L’utilizzo di 625 ore per
la produzione di un computer comporterebbe la produzione di 625/125 = 5 abiti in meno.
Negli USA la produzione di un computer aggiuntivo richiede di sottrarre 100 ore di lavoro alla produzione
degli abiti, quindi vengono sacrificati 2 abiti.
Gli USA godono di un vantaggio comparato nella produzione di computer.
Ogni Paese può trarre vantaggio dal commercio con altri paesi. Se i Paesi si specializzano secondo il
vantaggio comparato, ne risulta un uso più efficiente delle risorse date; utilizzando le stesse risorse è
possibile aumentare la produzione mondiale di almeno un bene, senza diminuire la produzione di ciascun
altro bene.
Se ciascun paese scambiasse alcune unità del bene in cui ha il vantaggio comparato con unità dell’altro
bene, entrambi i Paesi potrebbero consumare unità maggiori di entrambi i beni.
Fintanto che i costi opportunità differiscono, la specializzazione e lo scambio possono portare vantaggi a
tutte le parti coinvolte. La validità di questo principio rimane inalterata anche se una parte ha un vantaggio o
uno svantaggio assoluto in tutto.
Ragione di scambio: rapporto al quale un Paese può scambiare i beni prodotti internamente con quelli
prodotti all’estero.
Le ragioni di scambio determinano come i benefici del commercio internazionale vengono distribuiti fra i
Paesi. I vantaggi che il commercio internazionale apporta al mondo nel suo complesso sono dovuti
all’aumento della produzione grazie alla specializzazione delle nazioni secondo il rispettivo vantaggio
comparato. Le modalità secondo cui tali vantaggi sono distribuiti tra i diversi Paesi dipende dalle ragioni di
scambio.
All’interno della struttura della WTO, i funzionari del governo hanno il compito di creare le condizioni adatte
al libero scambio, ma non di decidere chi abbia un vantaggio comparato in che cosa, o quali beni e servizi
dovrebbero essere prodotti in quali Paesi: sono i singoli consumatori e le singole imprese che decidono di
acquistare beni e servizi e sono quindi loro a stabilire, tramite le loro azioni congiunte, dove vengano prodotti
i beni e chi commerci con chi.
Se trasformiamo le ore di lavoro dell’esempio precedente, nei rispettivi costi del lavoro, otteniamo che:
Cina
Stati Uniti
Ore di lavoro Tasso salariale
Costo per u Ore di lavoro
Tasso salariale Costo per u
abiti
125 ore
16 CNY all’ora 2000 CNY
50 ore
$10 all’ora
$500
computer
625 ore
16 CNY all’ora 10000 CNY
100 ore
$10 all’ora
$1000
Possiamo utilizzare il costo unitario di ciascuno dei due beni per determinare il costo opportunità.
In assenza di commercio internazionale, il prezzo di un bene all’interno di un Paese rifletterà il costo delle
risorse necessarie per produrre un’unità aggiuntiva.
Supponiamo ora di consentire l’apertura delle barriere tra i due Paesi. Per acquistare i beni dei produttori
cinesi, gli americani devono pagare con la valuta cinese, che acquistano nel mercato valutario al tasso di
cambio corrente, ossia il tasso al quale una valuta può essere scambiata con un’altra.
Se il prezzo di un abito in Cina ammonta a 2000 CNY, con un tasso di cambio di 8 CNY per dollaro, servono
250$ per avere 2000 CNY. Quindi l’americano paga l’abito 250$, ossia meno di un abito statunitense.
Pertanto gli americani preferiranno acquistare abiti cinesi.
Un computer statunitense al prezzo di $1000 è più economico di un computer cinese al prezzo di $1250,
pertanto gli americani preferiranno acquistare i computer prodotti negli Stati Uniti.
Per un acquirente cinese, gli abiti cinesi sono più economici mentre i computer cinesi sono più costosi,
quindi un cinese preferirà acquistare i computer prodotti negli Stati Uniti e gli abiti cinesi.
Quando i consumatori sono liberi di acquistare ai prezzi inferiori, acquisteranno spontaneamente il bene
prodotto nel Paese che gode di un vantaggio comparato nella sua produzione; le industrie di questo Paese
risponderanno producendo quantità maggiori di tale bene e minori degli altri beni, in questo modo i Paesi
tendono spontaneamente a specializzarsi nella produzione di quei beni in cui godono di un vantaggio
comparato.
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Nonostante i costi opportunità divergenti, a volte non ha senso che due paesi commercino tra loro, oppure
potrebbe essere logico commerciare ma non specializzarsi completamente:
• Se i costi del trasporto o delle transazioni attraverso i confini nazionali sono elevati, è possibile che
lo scambio venga ridotto e che diventi anche incredibilmente costoso. Tali beni non vengono
generalmente commerciati a livello internazionale. Questi costi contribuiscono a spiegare perché le
nazioni continuino a produrre dei beni in cui non godono di un vantaggio comparato e perché nel
mondo non si raggiunga una specializzazione completa. Un ultimo costo deriva dalla necessità di
cambiare la valuta nazionale con quella straniera. Si corre il rischio che il tasso di cambio possa
variare. I paesi possono fare in modo di ridurre i costi del commercio internazionale. È
principalmente per raggiungere tali obiettivo che è stata creata la moneta unica (euro).
• A volte paesi di grandissime dimensioni commerciano con paesi molto piccoli. Se il paese piccolo si
specializzasse completamente, il suo prodotto sarebbe insufficiente a soddisfare completamente la
domanda di quello più grande. Questo, invece, continuerebbe a produrre entrambi i tipi di beni e si
specializzerebbe solo nel senso che produrrebbe maggiori quantità del bene in cui ha un vantaggio
comparato rispetto alla situazione in cui il commercio internazionale fosse interdetto.
• Il costo opportunità di un bene aumenta con l’aumentare della sua produzione. Si potrebbe
raggiungere un punto in cui i costi opportunità assumano uguale valore in entrambi i Paesi,
rendendo impossibile lo scambio con reciproco vantaggio.
• I governi possono istituire delle barriere al commercio. In alcuni casi esse incrementano i costi dello
scambio, in altri lo rendono impossibile.
Un Paese che dispone di quantità relativamente elevate di una data risorsa, avrà un vantaggio comparato
nella produzione dei beni che necessitano primariamente di tale risorsa.
A volte tali vantaggi sono dati anche da altre risorse.
Vi sono, ad esempio, alcuni Paesi ricchi di capitale fisico e umano. In altri, invece vi è abbondanza di
manodopera non specializzata. Tali paesi hanno un vantaggio comparato nella produzione dei beni che
necessitano di quantità elevate di tali risorse.
I paesi sviluppano spesso dei notevoli vantaggi comparati nella produzione di beni che hanno già prodotto in
passato, a prescindere dal motivo originario per cui hanno avviato tali produzioni.
Nonostante i benefici apportati alla nazione nel suo complesso, è possibile che alcuni gruppi all’interno del
Paese subiscano delle perdite a causa del libero scambio, nonostante altri ottengano dei vantaggi molto più
consistenti. Anziché trovare dei modi per compensare le perdite dei gruppi svantaggiati, spesso si consente
a tali gruppi di bloccare le politiche del libero scambio.
Quando l’apertura delle frontiere al commercio comporta l’aumento delle esportazioni di un bene, i produttori
di tale bene sono avvantaggiati mentre i consumatori svantaggiati.
Quando l’apertura delle frontiere al commercio comporta un aumento delle importazioni di un bene, i
produttori di tale bene sono svantaggiati, mentre i consumatori avvantaggiati.
I produttori di una data industria risulterebbero danneggiati dalle importazioni a basso costo pertanto tale
gruppo esercita un’influenza notevole sulle politiche commerciali. Un singolo produttore potrebbe perdere
milioni di dollari a causa della concorrenza con le importazioni a basso costo, e i dipendenti correrebbero
altissimi rischi di licenziamento. Pertanto queste categorie sono fortemente incentivate ad esercitare
pressioni che ostacolino il libero scambio.
Nei paesi esportatori si verifica la situazione opposta: le persone che operano nel settore dell’esportazione
sarebbero avvantaggiate, mentre i consumatori verrebbero danneggiati dai prezzi più elevati.
La distribuzione dei vantaggi e delle perdite porta a una tendenza politica sfavorevole al libero scambio.
Coloro che traggono dei benefici dal commercio internazionale di un dato prodotto sono scarsamente
incentivati a esercitare delle pressioni per ottenerlo oppure hanno un potere limitato di influenzare le scelte
politiche rilevanti.
Un gruppo d’interesse danneggiato dal commercio internazionale, invece, ha un forte incentivo per
esercitare delle pressioni ed ha anche la capacità effettiva di influenzare la politica commerciale.
Esistono tre “antidoti” a questa tendenza:
1. Accordi multilaterali: due o più Paesi concordano di commerciare liberamente in molti beni
contemporaneamente. I produttori minacciati dalle importazioni eserciteranno delle pressioni contro
tali accordi in ogni paese. Ma i produttori dei beni che potrebbero essere esportati eserciteranno
delle pressioni altrettanto forti a sostegno dell’accordo. Se l’accordo di basa su una posizione
assolutistica le pressioni controbilanciano e il governo può resistere alla lobby contro il libero
scambio.
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2. WTO: fissando gli standard di accettabilità delle limitazioni al commercio e deliberando in alcuni casi
specifici, detiene un potere sufficiente a influenzare le politiche commerciali delle nazioni. La sua
influenza è però limitata dalla mancanza di un potere esecutivo.
3. Industrie nel ruolo di consumatori: le imprese sono consumatori di input e pertanto beneficiano delle
importazioni a basso costo. Se la spesa per il bene in questione rappresenta una parte importante
dei costi di tali imprese, esse sono incentivate a esercitare delle pressioni a favore del libero
scambio. Le pressioni esercitate dai consumatori industriali possono effettivamente influenzare la
politica economica del paese.
Quando i governi decidono di assecondare gli oppositori del libero scambio, utilizzano due strumenti:
- tariffe doganali: imposta sui beni importati. Può essere costituita da una data somma in
termini monetari per unità fisica o da una percentuale del valore del bene. Esse riducono il
volume dello scambio e alzano i prezzi interni dei beni importati. Nel paese che impone la
tariffa i produttori risultano avvantaggiati e i consumatori svantaggiati. Il mondo risulta
svantaggiato poiché si riduce il volume dello scambio e quindi anche il guadagno derivante
dallo scambio.
- contingenti d’importazione: decreto governativo che limita le importazioni di un bene a una
quantità fisica massima specificata. In genere è determinato da un livello inferiore rispetto a
quello che si raggiungerebbe in condizioni di libero scambio. I contingenti d’importazione
producono effetti simili alle tariffe doganali riducendo la quantità delle importazioni e alzando
i prezzi interni. Sebbene entrambe le misure aiutino i produttori interni, esse riducono i
benefici dello scambio per la nazione nel suo complesso. Le tariffe doganali presentano un
aspetto positivo: aumentano le entrate statali.
I gruppi che subiscono delle perdite dal commercio con altre nazioni, hanno elaborato una serie di
argomentazioni contro il libero scambio, che prende il nome di protezionismo. Hanno elaborato una serie di
pregiudizi:
1. Un Paese caratterizzato da salari elevati non può commerciare con uno caratterizzato da salari
bassi perché dovrebbe vendere tutto sotto costo e perdere tutte le proprie industrie, oppure i suoi
lavoratori dovrebbero accettare gli stessi salari bassi e lo stesso basso tenore di vita dell’altro
Paese.
Tale argomentazione è però errata per due motivi:
• Tale differenza è dovuta alla maggior produttività del lavoratore. Se in un’ora un americano
realizza una quantità di prodotto 25 volte superiore a un cinese, anche se i salari statunitensi
fossero 20 volte superiori il costo per unità prodotta sarebbe ancora inferiore negli USA
• Supponiamo che la produttività sia la stessa. In Cina con dei salari inferiori si potrebbe
produrre qualsiasi cosa con costi inferiori rispetto agli USA. Entrambi i paesi
guadagnerebbero ancora se la Cina si specializzasse nei prodotti in cui avesse un vantaggio
di costo relativamente consistente. Nonostante il vantaggio assoluto della Cina in tutto, gli
USA avrebbero ancora un vantaggio comparato su alcuni prodotti.
2. Un Paese a bassa produttività non può permettersi di commerciare con uno ad alta produttività
perché verrebbe completamente sconfitto dal secondo e perderebbe tutte le industri.
Qui si suppone che sia il paese più povero a risultare svantaggiato. Supponiamo che il paese a
produttività elevata possa produrre tutto a un costo unitario inferiore. Il paese a bassa produttività
avrebbe ancora un vantaggio comparato in alcuni beni e risulterebbe avvantaggiato se producesse
quei beni e li commerciasse con il paese a produttività elevata.
3. In tempi recenti, i lavoratori americani non specializzati sono risultati svantaggiati dalla continua
espansione del commercio tra gli Stati Uniti e le altre nazioni.
I laureati dispongono di un potere d’acquisto maggiore derivante dai propri alti salari, mentre i
diplomati hanno perso potere d’acquisto. Se l’apertura delle frontiere ha danneggiato i lavoratori
statunitensi scarsamente specializzati, lo avrà fatto abbassando i prezzi dei prodotti che impiegano
grandi quantità di tali lavoratori, pertanto gli economisti hanno concluso che il commercio con
l’estero ne è responsabile in piccola parte.
Esistono anche delle argomentazioni basate su una più profonda comprensione del funzionamento dei
mercati:
- politica commerciale strategica: una nazione può guadagnare aiutando certe industrie
“strategiche” che apportano benefici alla società nel suo complesso ma che potrebbero non
prosperare in condizioni di libero scambio. Tale politica è estremamente efficace nei casi in
cui un mercato sia dominato da poche grandi imprese, perché le forze della concorrenza
non entrerebbero in azione. Ogni impresa potrebbe realizzare profitti elevati con vantaggio
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di tutta la nazione poiché il governo sarà in grado di ottenere parte del profitto per mezza
della tassa sui profitti aziendali.
- Argomentazione delle industrie nascenti: una nuova industria in cui un paese ha un
vantaggio comparato potrebbe necessitare della protezione dalla concorrenza estera per
poter prosperare. I mercati devono allocare le loro risorse a favore di questi beni. Si tratta,
ad esempio, dei mercati finanziari. Tuttavia in molti paesi tali mercati non funzionano bene,
pertanto interviene il governo ad assistere le “industrie nascenti”.
Gli oppositori di tali idee, presentano dei problemi:
- ci sono dei gruppi che eserciteranno delle pressioni per ottenere l’assistenza a prescindere
dai benefici del pubblico generale
- quando un paese fornisce assistenza ad un’industria le altre nazioni potrebbero rispondere
imponendo tariffe doganali o contingenti d’importazione, e ne risulterebbe una riduzione del
commercio internazionale e un generale abbassamento del tenore di vita.
- Il governo dovrebbe possedere le informazioni necessarie a stabilire quali industrie siano
veramente strategiche.
Si hanno più probabilità che la produzione rifletta il principio del vantaggio comparato quando le imprese
possono ottenere fondi per progetti d’investimento e possono entrare liberamente in industrie redditizie; il
libero scambio senza l’intervento del governo opera quindi al meglio quando i mercati funzionano bene.
LA NUOVA EUROPA
Con l’inizio del 21esimo secolo l’Europa ha dato avvio a una vera e propria trasformazione epocale.
L’unione monetaria rappresenta senza dubbio un aspetto di straordinaria importanza, tuttavia costituisce
solo uno dei tanti passaggi importanti che stanno portando i paesi europei a una integrazione economica e
politica sempre maggiore.
L’idea di una Europa unita nasce subito dopo la seconda guerra mondiale dalla visione di alcuni grandi
statisti.
Nel 1951, con la firma del Trattato di Parigi, viene costituita (tra Belgio, Germania, Francia, Italia,
Lussemburgo e Paesi Bassi) la comunità europea del Carbone e dell’acciaio (CECA), con l’obiettivo di
eliminare le barriere tariffarie e incoraggiare la cooperazione europea nel settore carbo-siderurgico.
Nel 1957, con la firma del Trattato di Roma, viene costituita la comunità europea per l’energia atomica
(EURATOM) e la comunità economica europea (CEE). Quest’ultima ha lo scopo di creare un’area di libera
circolazione di merci e capitali al cui interno vi sia una certa armonizzazione delle politiche economiche con
il fine ultimo di promuovere uno sviluppo equilibrato di diverse regioni europee.
La CEE si trasforma in seguito in UE. Essa mira a:
- affermare l’identità europea sulla scena internazionale
- stabilire un politica estera comune
- interviene nella gestione delle crisi internazionali e aiuti umanitari comuni ad altri Paesi
- promuove un’armonizzazione di tipo istituzionale e giuridico,
Nel 2004 vi è un quinto allargamento e nel 2007 un sesto.
Esistono 5 istituzioni europee:
• Parlamento Europeo: eletto ogni 5 anni dai cittadini degli Stati membri. Ha funzione legislativa
• Consiglio: rappresenta i governi degli Stati membri. Condivide la funzione legislativa col parlamento
• Commissione: organo esecutivo titolare del diritto d’iniziativa legislativa
• Corte di Giustizia: garantisce il rispetto del diritto
• Corte dei Conti: controlla la gestione finanziaria dell’Unione
o Comitato Economico e Sociale, Comitato delle Regioni: hanno funzione consultiva
o Banca Europea per gli Investimenti: istituzione finanziaria dell’UE
o Banca Centrale Europea: responsabile della politica monetaria nell’area dell’euro.
La realizzazione di un mercato unico è uno dei principali obiettivi nello sviluppo delle istituzioni europee.
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Nel 1969 era già stato annunciato il completamento del mercato unico, ma persisteva un numero
elevatissimo di barriere non tariffarie.
Nel 1985 furono eliminate 268 barriere e si fisso la costituzione del mercato unico entro il 31 dicembre 1992.
Nel 1986 viene approvato l’atto unico europeo con cui si introduce il principio del mutuo riconoscimento che
consente l’eliminazione delle barriere dovute a regole e standard tecnici diversi.
La costituzione prosegue nel corso degli anni ’90 con buon successo.
Tasso di cambio: prezzo relativo di una valuta rispetto ad un’altra. Si tratta di un prezzo che si comporta
come qualsiasi altro prezzo di fronte a eccessi di domanda e offerta.
Il grafico che rappresenta le curve di importazione ed esportazione, rappresenta anche la domanda di
moneta.
- Deprezzamento: aumento del tasso di cambio.
- Apprezzamento: diminuzione del tasso di cambio.
In presenza di tassi di cambio flessibili, il tasso di cambio si comporta come qualsiasi altro prezzo e si
apprezza o deprezza per mantenere in equilibrio le esportazioni nette.
I tassi di cambio euro-dollaro o euro-yen sono tassi di cambio flessibili.
Tuttavia in alcune circostanze un Paese può scegliere di fissare ad un livello il tasso di cambio della propria
valuta nei confronti di quella di un altro Paese; in questo caso si parla di tassi di cambio fissi.
Tra il 1948 e il 1970, in seguito ai c.d. accordi di Bretton Woods, la maggior parte dei paesi adottò un tasso
di cambio fisso nei confronti del dollaro.
Durante gli anni ’80 gli appartenenti alla CEE avevano adottato un tasso di cambio fisso nei confronti di una
moneta comune di riferimento, l’ECU.
Il prezzo viene fissato, nel caso dei tassi di cambio fissi, dallo Stato a un certo livello ma non è detto che tale
livello coincida con il livello di equilibrio.
Se si verifica un eccesso di domanda, la BCE attinge alle proprie riserve di valuta estera. Ma la banca
centrale prima o poi esaurisce le proprie riserve di valuta estera. Quando accade si verifica una crisi
monetaria e l’aggiustamento del tasso di cambio avviene in modo rapido e violento.
Nel 1979, nove paesi europei siglano l’accordo costitutivo del Sistema Monetario Europeo, volto a favorire la
convergenza delle politiche macroeconomiche e di creare un’area di stabilità monetaria interna all’euro.
È un sistema di cambi fissi ma aggiustabili, in cui si cerca un compromesso fra l’impegno di mantenere tassi
di cambio fissi e la necessità di garantire un certo grado di flessibilità. Tale compromesso viene raggiunto
seguendo alcune regole:
• Viene creata una moneta virtuale, ECU, utilizzata come unità di conto senza che vengano stampate
vere e proprie banconote. È una moneta composita il cui valore è determinato dalla media ponderata
dei tassi di cambio bilaterali.
• Ogni paese definisce un tasso di cambio per la propria valuta nei confronti dell’Ecu.
• Il tasso di cambio di ogni valuta può fluttuare entro un limite ristretto, una banca di oscillazione di
ampiezza pari al 2.25% in più o in meno.
• Le BC si impegnano a intervenire sui mercati valutari quando il cambio della propria valuta
raggiunga i limiti.
• In caso di evidenti squilibri la parità centrale può essere modificata mediante una decisione presa
congiuntamente dai Paesi membri dello SME.
Fra il 1980-1983 lo SME ha avuto vita travagliata.
Se i prezzi italiani crescono più rapidamente di quelli tedeschi, anche il prezzo di equilibrio delle due valute,
ossia il tasso lira-marco, tenderà ad aumentare (la lira si deprezza nei confronti del marco).
Nel 1991 a Maastricht viene firmato un trattato che definisce il percorso di realizzazione dell’Unione
Monetaria Europea (UME). Vengono definiti dei parametri:
• Stabilità valutaria: permanenza della propria valuta all’interno delle SME per almeno due anni senza
aver subito svalutazioni.
• Stabilità dei prezzi: il tasso d’inflazione del 1997 non deve superare dell’1,5% il tasso d’inflazione
medio dei tre paesi che lo hanno più basso.
• Stabilità dei tassi d’interesse: il tasso d’interesse nel 1997 non deve superare del 2% il tasso
d’interesse medio dei tre Paesi con l’inflazione più bassa.
• Assenza di squilibri rilevanti di finanza pubblica: il rapporto deficit/PIL non deve superare il 3% e il
rapporto debito/PIL non deve superare il 60%.
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Anche lo Stato è sottoposto a un vincolo di bilancio.
Non sempre l’ammontare delle entrate è sufficiente a coprire le uscite.
L’ammontare G – T costituisce la misura del deficit, se negativo, o del surplus, se positivo.
Se uno stato spende più di quanto si possa permettere, può chiedere prestiti ai propri cittadini emettendo
titoli di debito pubblico. Ciò che importa non è tanto il livello del debito o del deficit in sé, ma rispetto al PIL.
Dal 1987 al 1992 nello SME non si verificò nessun riallineamento ma i tassi di cambio di erano
progressivamente modificati. In questi anni, infatti, i paesi europei erano stati caratterizzati da politiche
differenti. I tassi di cambio fissati nel 1987 non si rivelarono appropriati, quindi si poteva
- riallineare i tassi di cambio
- adottare politiche economiche che potessero ripristinare condizioni compatibili.
Non fu scelta nessuna delle soluzioni, e lo SME collassò.
I Paesi, allora, iniziarono ad adottare politiche restrittive per cercare di rispettare i parametri di convergenza.
I risultati furono notevoli.
Nel 1997 fu firmato il trattato di Amsterdam che definiva il gruppo di 11 paesi ammessi all’UME. L’euro
diviene l’unità di conto e la BCE diventa effettivamente la Banca Centrale d’Europa.
Nel 2002 le monete e banconote nazionali vengono sostituite dall’euro.
Vengono specificati nuovi parametri fiscali a cui i paesi si devono attenere. Tali parametri prendono il nome
di “patto di stabilità e di crescita” e stabiliscono che i governi devono mirare a raggiungere un pareggio di
bilancio.
Da un punto di vista tecnico, tassi di cambio e moneta unica coincidono. Vi sono però due grandi differenze:
1. anche se i tassi di cambio sono fissi, esistono sempre dei costi di transazione legati al passaggio da
una valuta all’altra. Con la moneta unica tali costi si eliminano
2. i tassi di cambio fissi possono essere modificati con relativa facilità. Con l’unione valutaria, diventano
immodificabili.
Supponiamo che due paesi siano legati da un tasso di cambio fisso e debbano decidere se formare o meno
un’unione monetaria.
Supponiamo che tali paesi (I e G) siano colpiti da uno shock di domanda asimmetrico, ossia che colpisce un
paese in maniera positiva e l’altro in maniera negativa.
In I si verifica un aumento delle imp e una riduzione delle exp e quindi si verifica una riduzione delle
esportazioni nette che sposta la curva AD verso sinistra. In G si verifica l’opposto. Entrambi i paesi sono in
una condizione di squilibrio nei rapporti con l’estero:
• I ha una produzione inferiore al livello che garantisce il pieno impiego generando disoccupazione
• G ha una produzione superiore al livello di pieno impiego generando spinte inflazionistiche.
Esistono due meccanismi di aggiustamento automatici:
1. supponiamo che i salari siano particolarmente flessibili. La disoccupazione induce i sindacati a
moderare la proprie richieste salariali e di conseguenza i salari di I diminuiscono. I salari di G,
invece, aumentano. I costi di produzione di G crescono rispetto a quelli di I e la curva AS di I si
sposta destra, quella di G verso sinistra riportando entrambi i paesi a una condizione di equilibrio.
2. se ci fosse un’elevata mobilità del lavoro, i disoccupati di I andrebbero a lavorare a G eliminando
l’eccesso di domanda di lavoro e le tensioni inflazionistiche. Maggior numero di lavoratori in G
aumenta i consumi e le importazioni, viceversa per I. Le esportazioni nette tornerebbero, cosi, in
equilibrio.
Se questi due meccanismi non sono disponibili vi sarebbe una prolungata recessione in I e una lenta
inflazione in G. Esiste un altro metodo: se la lira italiana svalutasse rispetto al marco tedesco, i prodotti di I
tornerebbero ad essere competitivi, le esportazioni tornerebbero in
equilibrio e anche le curve AD di entrambi i paesi. Formando un
unione valutaria, questo metodo non è più disponibile.
Fu Robert Mundell a creare la teoria delle aree valutarie ottimali: una area possiede le caratteristiche di
ottimalità se presenta una notevole mobilità
del lavoro e una elevata flessibilità salariale
che permettano di assorbire rapidamente
eventuali shock asimmetrici di domanda.
La teoria di Mundel è basata sull’esistenza di shock di domanda asimmetrici. La probabilità dell’esistenza di
tali shock, dipende dal grado di diversificazione produttiva delle economie europee. Gli effetti di uno shock
che colpisce un singolo settore produttivo sono minori all’interno dei Paesi diversificati dal punto di vista della
produzione. Al crescere del grado di diversificazione, diminuisce l’importanza relativa di ciascun settore e di
conseguenza diminuisce l’entità della traslazione della curva AD a seguito di uno shock.
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Quanto più i diversi paesi membri di un’unione monetaria presentano una struttura produttiva simile, tanto
meno il tasso di cambio nominale costituisce uno strumento adeguato per correggere gli squilibri causati da
shock della domanda, proprio perché questi ultimi manifestano un impatto asimmetrico sempre più modesto.
L’introduzione della moneta unica, quindi, non risulta particolarmente costosa.
L’Europa non costituisce un’area valutaria ottimale:
- l’introduzione della moneta unica spinge verso una maggior interdipendenza commerciale
che accentua il grado di convergenza ciclica
- la gestione unificata della politica monetaria comporta l’uniformità del tasso di inflazione
facilitando la convergenza fra strutture dei sistemi finanziari.
- I vincoli posti alla versione della politica fiscale limitano la possibilità di shock asimmetrici dal
lato della domanda indotti da uso non coordinato della spesa pubblica e della tassazione da
parte dei diversi governi.
Il grado di ottimalità è influenzato da fattori endogeni allo stesso processo di unificazione. Un area può
diventare ottimale anche ex-post grazie alle modificazioni dell’unificazione stessa.
Un ulteriore meccanismo di aggiustamento prevede l’esistenza di un sistema fiscale federale in cui ogni
stato versa parte delle imposte e riceve parte dei trasferimenti, realizzando una redistribuzione delle risorse.
Maggiori sono gli scambi che un paese attiene all’interno dell’area UE, maggiori risultano i benefici derivanti
dall’adozione di una valuta comune. La stessa integrazione stimola la crescita di scambi intra-UE. La
creazione di un mercato europeo è l’esito finale di un processo di progressiva liberalizzazione degli scambi
commerciali a livello europeo.
Inoltre una maggiore integrazione comporta notevoli vantaggi microeconomici: un mercato più grande
comporta benefici sia per i produttori che per i consumatori. È però importante che un mercato unico
rispecchi le regole concorrenziali.
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