L`economia nell`antichità - IISS "Francesco De Sanctis"

L’economia nell’antichità
La prima questione che si presenta nello studio del pensiero economico è il ritardo dello svilippo
della scienza economica rispetto ad altre scienze sociali, di cui si trovano ampie e rigorose
trattazioni già nella civiltà greca (scienza politica) e in quella romana (scienza giuridica). Il pensiero
economico si sviluppa su tre filoni centrali: le entrate e le spese dello stato e il suo buon governo; la
moneta e il capitale finanziario; l’economia delle unità di produzione e di consumo in relazione al
mercato interno e a quello internazionale. Ora, il mondo greco non conobbe che unità politiche di
dimensioni limitate e con scarsa strutturazione. Atene, alle cui finanze politiche Senofonte dedicò il
primo saggio di scienza economica che si conosca, è un’eccezione che conferma la regola. E si
tratta, comunque, di una piccola città, in cui la maggioranza della popolazione era composta di
schiavi con i quali si entrava in relazione di dominio e non di mercato.
Roma ebbe organizzazioni statuali ben strutturate, complesse e durevoli, ma che ricavavano i loro
proventi dalla conquista bellica e dall’imposizione di tributi ai territori assoggettati. La principale
forma di capitalismo era l’appalto dei tributi. Questa condizione imperialistica, mentre consentiva
uno sviluppo del diritto, ai fini della conservazione e dell’ordinamento dei domini conquistati e
dell’amministrazione delle loro ricchezze, non favoriva quello della scienza economica.
Il mercato, anche internazionale, ebbe un considerevole sviluppo, tanto nel mondo greco che in
quello romano: ma, poiché alla produzione si dedicavano solo gli schiavi, l’interesse del pensiero
teorico per i problemi che vi erano connessi risultava scarso, come conveniva per questioni di
dignità inferiore. D’altra parte, l’accumulazione di capitale per scopi produttivi era limitata: i
capitalisti, grandi o piccoli, impiegavano il loro denaro soprattutto in prestiti usurari ai consumatori
o ai contadini, nel periodo tra un raccolto e l’altro, o allo stato, per finanziare le attività militari,
oppure prendevano in appalto la riscossione dei tributi statali (che spesso erano la base per quei
prestiti).
La moneta, tutta metallica, non era consapevolmente manovrata, ma spesso manipolata, per ottenere
lucri occulti, mediante la ‘tosatura’ del suo contenuto aureo o argenteo. Sulle relazioni di scambio e
di produzione prevalevano relazioni di potere e di rendita in un quadro economicamente
conservatore. La base per un pensiero economico meno che frammentario (quale quello che si può
rinvenire in certe regole, per lo più tecniche, sul buon governo agricolo, e in certe massime di
carattere morale e giuridico sulla moneta, l’interesse e lo scambio) era quindi carente.
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L’esperienza di Parmenide
Diotima nel Simposio di Platone
LO SPAZIO INESPLORATO PER UN’ECONOMIA DELLA BELLEZZA
Viviamo in un mondo in cui sta crescendo la consapevolezza che la conoscenza non abita in recinti,
ma in reti: la conoscenza è un sistema complesso che nasce, si propaga, si moltiplica e si trasforma
in reti, e sono reti la nostra mente, il nostro corpo, la società, la cultura, la tecnologia, oltre al web.
Sta crescendo nello stesso tempo la consapevolezza che sono i processi aperti e dinamici della
conoscenza a creare le condizioni di prosperità, a moltiplicare le opportunità, a generare ricchezza.
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L’economia della conoscenza, dei sistemi aperti e reticolari, può espandersi in nuovi spazi, oggi in
gran parte neppure intravisti, ma richiede di essere guidata da nuovi valori, pensati a prescindere dai
condizionamenti indotti da tecnologie oggi declinanti. Probabilmente si tratta “semplicemente” di
renderci conto che la complessa transizione presente richiede, più che un “nuovo paradigma”, la
rimozione del paradigma presente, almeno quella parte che separa etica e conoscenza, bellezza e
valore economico, scienze umane e scienze naturali.
Nel suo famoso discorso nel Simposio di Platone sul significato dell’Eros, Diotima ascende dai
sentimenti personali ai significati universali, in un climax che rappresenta una delle più grandi
testimonianze del pensiero umano intorno all’etica, e non solo. Il senso di un impegno orientato al
bello, al miglioramento della vita in tutte le sue dimensioni, a più ampie prospettive future, basato
sulla costruzione armonica di cose belle e ben fatte, di eventi, ambienti e relazioni ricche in cultura
e in diversità, dovrebbe ispirare le economie del futuro.
Questo significa: (1) il recupero della cultura come fattore chiave per l’economia del futuro,
saldando nuovamente le scienze umane e le scienze naturali, dopo una separazione durata secoli; (2)
la comprensione del ruolo dei processi cognitivi nel determinare le nostre convinzioni etiche ed
estetiche, e viceversa, avvicinando la società ai risultati che le scienze cognitive raggiungono in
sviluppi convergenti, in corso in molti campi; (3) la sperimentazione di nuovi modelli di lavoro in
sistemi locali e globali, dalle imprese alle scuole, dal welfare alla vita urbana, dal rischio alla
finanza; infine (4) l’orientamento di tutti gli agenti creativi della società verso visioni e prospettive
nuove e coraggiose.
Ripensare i territori come sistemi aperti, stelle polari con relazioni multiple ed estese, non ambiti
delimitati da confini: questo il modello per una proposta adeguata a una rivoluzione spaziale,
antropica, tecnologica, sociale, economica, molto più profonda e radicale di quella aperta dai viaggi
oceanici, dal sistema copernicano o dalle successive rivoluzioni industriali.
La grande metafora di questa rivoluzione è il passaggio dal modello della macchina al modello del
vivente, in cui la diversità, la molteplicità di fattori ricombinabili è la condizione della vita. Studiare
la biodiversità non è importante solo per trarne risorse ancora sconosciute, ma per comprendere gli
equilibri dinamici.
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