Ringraziamo, con la più sentita riconoscenza, quanti hanno collaborato, fornito notizie e testi, in modo particolare l'Ill. Cav. Remo Fumagalli della Società Storica Novarese. P R E M E S S A Questi CENNI STORICI SUL CONTADO VARALPOMBIESE costituiscono la parte introduttiva della Storia di Varallo Pombia che verrà in seguito pubblicata con dispense periodiche sia su particolari periodi storici, sia sui più importanti monumenti del nostro paese. Con queste poche pagine ci siamo prefissi di dare al lettore solo un sommario di tutte le complesse vicende che si sono susseguite, riservandoci di approfondirle più particolarmente nelle dispense. Del resto, questo breve lavoro, considerando l'arco di tempo che abbraccia, non può dare altro che una pallida idea della materia; sufficiente, comunque, a presentare il quadro completo che in seguito sarà sviluppato. Leggendo queste pagine il lettore potrà domandarsi il motivo per il quale abbiamo esaminato anche le vicende del borgo di Pombia. La risposta è semplice: Pombia, nei secoli scorsi, aveva una grande importanza - già in epoca romana era insignita della dignità municipale - e il nostro paese, fino a pochi decenni or sono, è stato legato alle sorti di tale borgo. La storia di Varallo Pombia è dunque anche la storia di Pombia, senza possibilità di scissione. * * * PARTE PRIMA PREISTORIA 1–1 P A N O R A M A G E O L O G I C O Le nostre terre appartengono al quaternario: ultima delle ere geologiche. Alla radice delle Alpi sono gradatamente sviluppati i terreni fluvio-glaciali e morenici. La carta geologica italiana divide i terreni neozoici o quaternari della Pianura Padana in: - Diluvium o quaternario antico, - Alluvium o quaternario recente. Il Diluvium è poi a sua volta diviso in: 1) Inferiore 2) Medio 3) Recente L'Alluvium è diviso in: 1) Glaciale 2) Postglaciale. Nel Quaternario si ebbero quattro glaciazioni: 1a – Donau - Gunz 2a - Mindel 3a - Riss 4a - Wurm Quest’ultima poi divisa in tre fasi: Wurm 1°- 2° - 3°. I periodi interglaciali corrispondenti sono: Donau – Gunz Mindel - Riss Riss – Wurm Post Wurm Il Quaternario antico è stato caratterizzato dalle due glaciazioni antichissime Donau e Gunz (forse precedute da una fase più antica Biber). Le relative morene furono poi distrutte dalle erosioni e i loro resti sono rappresentati dalle grandi distese di ghiaia fluvio-glaciale che si trovano nelle zone più alte rispetto alle attuali vallate. Della glaciazione Mindel rimangono i resti morenici ai piedi delle montagne, dove iniziano le grandi distese fluvio-glaciali, con formazione di terrazze più basse rispetto la precedente glaciazione. Durante il Riss-Wurm i ghiacciai sono maggiormente incassati nelle vallate ed hanno lasciato bellissime morene che si raccordano alle basse terrazze delle vallate. Se dall'alveo del Ticino si sale il pendio, superato il primo gradino, troviamo il Diluvium superiore o recente; il secondo ripiano rappresenta il Diluvium medio; infine, l'ultimo gradino ci porta sul ripiano diluviale più antico: quello del Diluvium inferiore. Si attribuisce alla prima fase glaciale il conglomerato che appare lungo la Ticinella, poco discosta dal bacino del Casone. Pure al Diluvium antico appartiene l'altipiano ferrettizzato, noto nel novarese come Baraggia. Il ghiacciaio del Ticino fu uno dei maggiori e più_ complessi delle Alpi; ricopriva il lago di Lugano, si ramificava nelle Cento Valli ed era collegato al ghiacciaio del Toce che diede luogo al Lago d'Orta. Questo ghiacciaio Wurmiano formò l'attuale Lago Maggiore, scavandone il bacino. Il suo anfiteatro, distinto in molteplici cerchie frontali, si estende da Carciago a Varallo Pombia, Pombia, Somma Lombardo, Carnago, Varese e Velate e _ caratterizzato da morene interne stadiarie alle quali si collegano i laghi di Varese, Comabbio, Monate e Biandronno. Queste morene s’innestano, esternamente, nei piani inclinati della stessa età del Diluvium recente. Una barriera, appartenente a formazione triassica del Secondario, chiudeva il Lago Maggiore fra i promontori di Arona e Angera. Il suo emissario, il Ticino, quindi, non scorreva nell'alveo attuale, scavatosi in epoche posteriori nei depositi frontali di questa glaciazione, bensì defluiva a livelli superiori, bagnando diverse località delle nostre terre. Tracce del passaggio di queste fiumane si riscontrano nella direzione Borgoticino-Valle San Pietro e lungo la direttrice dell'avvallamento di Mercurago-BorgoticinoVarallo Pombia-Oleggio-Codemonte di Cameri. I fiumi si sono progressivamente infossati in special modo nelle ultime fasi del Quaternario. Tale aspetto si è andato formando attraverso alternanze di scavo e di rinterro dell’alveo sotto l’influenza delle varianti del clima, del livello del mare e da altri complicati fattori. Le testimonianze di questi avvenimenti sono date dalle alluvioni, distinte in terrazze alte, medie e basse, disposte a piani che ci danno il profilo dei tempi quaternari. Forse è possibile trovare una traccia della formazione Rissiana nelle piccole alture che emergono dai pianori più alti, come ad esempio la leggera ondulazione della Selvigia. L'ultima glaciazione Wurm 3° iniziò la fase di ritiro circa undicimila anni fa, quando la sua massima estensione toccava il nostro attuale "Monte”. Il Wurz 1° raggiunse la sua più grande estensione circa 270 mila anni fa, secondo gli studi più recenti, e i suoi ghiacciai coprivano completamente le nostre terre arrivando fino alle cerchie moreniche di Pombia, limite dell'estrema estensione glaciale. Alla quarta glaciazione appartengono i depositi a superfici irregolari e ondulate consistenti in una successione di piccole colline allungate e avvallamenti, spesso acquitrinosi e torbosi: paesaggio tipicamente morenico, come Mercurago, Pre-Borgoticino, Revislate, dove furono rinvenute tracce tangibili delle prime stazioni umane palafitticole. Gli enormi cumuli di ciottoli arrotondati che occupano il Campo dei Fiori (Camfiord), senza dubbio, di origine post-glaciale, sono stati lasciati sul posto e ben dilavati dalle primitive acque del Ticino, in fase di escavazione dell'attuale alveo. 2-1 I P R I M I U O M I N I A causa del clima proibitivo le regioni Europee cominciarono a essere abitate solo qualche millennio dopo il ritiro definitivo dei ghiacciai. Per questo motivo le prime civiltà fiorirono nel Medio Oriente, vale a dire a Sud della fredda Europa. Sembra che l'uomo sia comparso sulla terra un milione di anni fa. Ciò esula dalla nostra ricerca ma si ritiene opportuno accennare brevemente almeno dei ritrovamenti umani e preumani. La scienza moderna suddivide gli ominidi in tre gruppi: - PROTOANTROPI - PALEOANTROPI - FANERANTROPI O HOMO SAPIENS. Della prima specie le vestigia sono state rinvenute nell'isola di Giava (Pitecantropo) e nella regione di Pechino (Sinantropo). Questa specie, che conosceva il fuoco e sapeva fabbricare gli utensili, visse fra 500 mila e un milione di anni fa. Dei Paleontropi il resto più antico è la mascella di Maurer, scoperta presso Heidelberg in Germania, che risale a un periodo fra i 200 e i 500 mila anni fa. Il cranio di Swanscombe (Inghilterra) e quello di Steinheim (Germania) risalgono a circa 100 mila anni fa. Altri resti, quelli di Krapina (Croazia), Quinzano (Verona), Font_chevade (Francia) risalgono a 50- 70 mila anni fa. I diversi resti dell'uomo di Neanderthal trovati in Europa datano da 70 a 130 mila anni. Questa specie era notevolmente evoluta, come testimoniano i diversi reparti rinvenuti. I Fenerantropi sono i progenitori dell'Homo Sapiens. La più celebre di queste razze è quella di Cro-Magnon; di poco diversa da quella europea moderna. Anche gli scheletri di Grimaldi, di tipo negroide, appartengono pure alla famiglia dei Fenerantropi. Tutti questi uomini appartengono, come noi, alla specie dell'Homo Sapiens. Il grado di evoluzione dell'Homo Sapiens è testimoniato dalle pitture, dalle incisioni e dalle sculture ritrovate in varie caverne, che dimostrano, quanto erano vicini all'uomo moderno. Vivevano di caccia e di pesca in un periodo che va dai 30 ai 70 mila anni fa. * * * TAV. I - ETA’ NEOLITICA E DEL BRONZO Dal Barocelli in B.S.S.N. - anno 1926 - fasc. II° TAV. II - PRIMA ETA’ DEL FERRO Dal Barocelli in B.S.S.N. - anno 1926 - fasc. II° TAV. III - SECONDA ETA’ DEL FERRO Dal Barocelli in B.S.S.N. - anno 1926 - fasc. II° PARTE SECONDA PROTOSTORIA 1-2 P R E M E S S A Ritiratesi le acque nei loro attuali alvei, stabilizzatosi il clima, che divenne poco dissimile dal nostro attuale, come pure la flora e la fauna, anche le nostre terre cominciarono a ospitare i primi uomini. Il tempo preistorico è distinto in diversi periodi, fra i quali il Paleolitico, che è diviso in Inferiore, Medio e Superiore, il Mesolitico e il Neolitico. Nel novarese, fino ad ora, non si sono scoperte tracce di vestigia Paleolitiche e Mesolitiche. Con l'Eneolitico inizia l'introduzione dei metalli. La civiltà Neolitica risale a 2500 anni a.C., quella Eneolitica va dal 2500 al 1700. Seguono la civiltà del bronzo (1700-900), la prima età del ferro (900-500), la seconda età del ferro (500-100) e, successivamente, la civiltà Romanica dal 100 a.C. al 400 d.C. Risalgono a un'epoca fra il Neolitico e l'Eneolitico i ritrovamenti palafitticoli di Mercurago, Pre-Borgoticino, Gagnago e Conturbia. Quella di Mercurago, oltre ad essere la più antica traccia umana del novarese, è anche la prima stazione su palafitte italiana. 2-2 L A C I V I L T A' D I G O L A S E C C A Il Castelfranco trovò presso il Molinaccio, nella zona sottostante a Golasecca, una stazione umana con tracce di civiltà Neolitica, ma tanto dubbie che non riuscì a stabilire con precisione l'età di detta stazione. Inoltre, sempre il Castelfranco scoperse sulla nostra riva del Ticino una stazione umana della stessa età di quella dell'altipiano di Golasecca. La Civiltà di Golasecca, la cui esistenza è attestata dall'età del bronzo alla romanizzazione, è la prima traccia di popolazione con tradizioni linguistiche indoeuropee e rappresenta, inoltre, la PIETRA MILIARE della storia riguardante questa parte d'Italia. Il Barocelli (Atti della storia Piemontese d'Archeologia e belle arti, vol. X) determina i limiti speciali della nuova civiltà: "Castelletto Ticino - Pennino - Sesto Calende - Varallo Pombia - Golasecca, tombe e sepolcreti della prima Età del Ferro". Bartolomeo Gastaldi segnalò fin dall'anno 1862, sulle alture del Pennino, nell'anfiteatro morenico del Ticino, allo sbocco del Lago Maggiore, alcuni sepolcreti che per la presenza di alcuni oggetti di bronzo, egli attribuì all'età che da questo metallo prende il nome. Sepolcri simili, scoperti nell'attigua morena lombarda, erano stati ritenuti dal Giani vestigia della grande battaglia del Ticino vinta da Annibale contro i Romani. Dopo il 1870 si fece un po' di luce, specialmente dopo l'esplorazione eseguita dal Castelfranco di una stazione della prima Età del Ferro, con focolare all'aperto e capanne, sulla destra del Ticino, in località Merlotitt, vicino a Castelletto Ticino. Un'altra stazione con focolare e capanne all'aperto, probabilmente coeva a quella dei Merlotitt fu scoperta sulla sponda opposta del Ticino in località Molinaccio. I materiali delle due stazioni sono conservati nel Regio Museo Torinese di antichità. A poco a poco, per opera del Castelfranco e di altri, numerosi sepolcreti della prima Età del Ferro, divisi in gruppi, furono scoperti in località che vanno da Castelletto Ticino fino a Varallo Pombia e, sulla sponda opposta del Ticino, da Sesto Calende a Golasecca. Furono le numerose scoperte avvenute presso quest'ultimo villaggio che diedero il nome a questa particolare facies di civiltà. Il Fabretti arricchì il Regio Museo torinese, da lui diretto, con l'abbondante suppellettile fittile e di bronzo di una sessantina di tombe scavate sulla riva destra del Ticino. Altri fittili e bronzi della stessa provenienza entrarono nel Museo Civico di Novara e altri nel Regio Museo Preistorico Romano. Come risulta anche dai documenti conservati nell'Archivio del Regio Museo torinese di Antichità, varie furono le località di Castelletto Ticino in cui le tombe vennero in luce: sono nominati il Bosco del Monte, la Regione Fontanilia, Costantini, Dorbiè, Arquello, Cascina dei Ragni e Pozzola. Una tomba di questa età, alla Cascinetta di Varallo Pombia, era frammista a tombe di età romana. Le tombe di cremati con gli avanzi combusti, per lo più contenuti entro un'urna, solitamente erano protette da lastroni o da ciottoli o da pietrame vario disposto con maggiore o minore regolarità. Qualche volta un gruppo di tombe aveva tutt'intorno un recinto di pietre brute. Riteniamo utile e, senza dubbio, doveroso citare il Ponti, che riporta le relazioni del Castelfranco sui ritrovamenti ai Merlotitt, Molinaccio e sulla Civiltà di Golasecca. (Ved. App. I) Sulla scorta dei più recenti studi, alla voce Golasecca, a pag. 471 del Dizionario Enciclopedico U.T.E.T. app. 1964, troviamo una bella sintesi descrittiva della Civiltà di Golasecca. "Nei territori dei Comuni lombardi di Sesto Calende, Somma Lombardo, Vergiate e Golasecca e dei Comuni piemontesi di Castelletto Ticino, Borgo Ticino e Varallo Pombia, sono state tratte alla luce migliaia di tombe a incinerazione, proto storiche, che documentano la così detta: CULTURA DI GOLSASECCA. Tale Cultura è attestata dall'Età del Bronzo alla Romanizzazione, e può essere suddivisa in tre fasi: la prima caratterizzata da urne biconiche con incisioni a dente di lupo, coppe su piede, fibule bronzee a sanguisuga e a navicella; la seconda da urne ovoidali ornate a traslucido, vasetti carenati, oggetti di tipo Etrusco e Greco, armi e oggetti rituali di ferro; la terza da urne ovoidali ornate a traslucido o cordonate, vasi a tulipano, bicchieri con peduccio o a doppio tronco di cono, vasi a trottola. Nelle fasi più tarde si avvertono influenze galliche. In questa fase i fittili sono verniciati con vernice rossa che andò estendendosi nel periodo della Romanizzazione. Mentre nella prima e seconda fase di Golasecca il rito funebre era per incinerazione, nella terza forse appare l'”inumazione." 3-2 I P R I M I A B I T A T O R I Secondo alcuni studiosi i Liguri occuparono le nostre terre verso il 1600 a.C.; gli Umbri occuparono l'Insubria verso il 1500 ed infine subentrarono gli Etruschi, verso il 1000. Da chi derivò la Civiltà di Golaseacca? Il Castelfranco la ritenne derivata dai palafitticoli; altri la ritennero di origine Ligure. Gli studi più recenti (Ved. Lopes Pegna in "Popoli e lingue dell'antica Italia“) la attribuiscono ai Paleoleponzi. I Leponzi risulterebbero dal processo di fusione etnica della razza indigena Paleo ligure, a cui si attribuiscono influssi culturali, iberici, con i Celti. Chiunque fossero, hanno lasciato tracce indelebili della loro civiltà: alta devozione religiosa verso i morti, segni perenni del loro impegno e della loro operosità, rimasti a destare meraviglia ai nostri occhi. Anche i Romani, che subentrarono in seguito, non riuscirono a cancellare la precedente civiltà locale o, quanto meno, a romanizzare completamente le nostre terre. Gli storici antichi ci dicono che popoli di origine Ligure, Taurisci e Agnoni occuparono primitivamente la pianura posta tra le Alpi e il Ticino. Secondo Polibio, gli Agoni erano insediati fra il Mergozzo e la pianura bagnata dall'Agogna. Secondo Catone, i Liguri (in origine abitatori delle Alpi Lepontine) erano di razza Taurisca (Ved. anche Plinio: Nat. Hist., III - 24/133 - 135) ove se ne fa cenno parlando dei monti posti fra le Alpi Retiche e Pennine - Alpi Attrezziane. Secondo Plinio (III - 21), la nostra regione era abitata dai Vertacomacori, della stirpe dei Voconzi di derivazione Celtica; "Novaria ex Vertacomagoris, Vocontiorum hodieque pago, non ut Catoexistimat Ligurum?". Sulla sponda lombarda del Ticino, nel milanese, nel comasco e fra Novara e Vercelli stazionavano gli Insubri, che, secondo Strabone, occupavano anche la Lomellina. I Leponzi occupavano, secondo altri scrittori, le Alpi Attrezziane (dal Monte Rosa al Gottardo) fino alla parte alta del Lago Maggiore, oltre la parte sud occidentale dell'area compresa fra il Toce e la Sesia. Pare che in tempi lontanissimi i Levi, originari Liguri, stanziassero nel Novarese. L'evoluzione di queste genti dette luogo a quella popolazione Celto-Ligure incontrata dai Romani. A questi insediamenti si sovrapposero le penetrazioni UmbroEtrusche, per cui non si possono stabilire limiti ben definiti, dato che a noi non sono pervenute che rare e incomplete tradizioni. PARTE TERZA GALLI – ROMANI INVASIONI BARBARICHE 1-3 L E I N V A S I O N I G A L L I C H E Nel 594 a.C. iniziarono le invasioni Galliche: Belloveso con la prima invasione occupò parte del Piemonte e della Lombardia debellando gli Etruschi presso il Ticino. Con la seconda invasione i Galli di Elitovio si sparsero nel Novarese: successivamente, con la terza, si insediarono nel Vercellese, tra il Sesia e la Dora, e con la quarta, attraverso il Sempione e il Gottardo e per l'Ossola e la Val Sesia, occuparono definitivamente il territorio Novarese. Nell'anno 513 di Roma i Romani iniziarono la conquista della Gallia Cisalpina. I Cisalpini, nonostante l'aiuto dei Galli, furono sconfitti dalle legioni di P. Cornelio Lentulo e O.Fabio Massimo tra il 518 e il 521 di Roma. Poi, come narra Polibio, fu la volta degli Insubri, a fianco dei quali, per combattere i Romani, si schierarono gli avanzi dei Liguri primitivi, i Gallo-Liguri, i Leponzi, i Vertacomacori ma a Telamone, nell'Etruria, C. Attilio Regolo e L. Emilio Papio sbaragliarono, nel 529, i Cisalpini. Nel 533 (222 a.C.), sconfitto Viridumaro a Clastidium (Casteggio) per opera di Claudio Marcello, la Lega Cisalpina cedeva ai Romani Milano, Como e tutta l'Insubria dal Ticino al Sesia. 2-3 - L A S E C O N D A G U E R R A P U N I C A Ovviamente, gli Insubri non sopportavano la dominazione romana e alla calata di Annibale in Italia si ribellarono, e così fecero pure le altre popolazioni indigene. Era l'anno 218 a.C. Annibale, superate le Alpi (per il Monginevro o per il Piccolo S. Bernardo) e sconfitti i Taurisci, avanzava verso il Ticino penetrando nel Novarese. Intanto, Scipione, partendo da Pisa, raggiunta Piacenza a marce forzate, muoveva da quest'ultima località per sbarrargli il passo. Superato il Po e il Ticino, si trovò nel paese degli Insubri, a cinque mila passi da Vico Tumulis, dove Annibale aveva posto il suo campo: questo secondo Tito Livio. In proposito occorre una digressione: gli antichi codici Liviani dicono: "Ponte perfecto Romanus exercitus in agrum Insubrium quinque milia passum a Vico Tumulis consedit. Ibi Annibal castra habebat.", mentre nelle edizioni moderne è prevalsa la dizione "Victumulis". Di qui la caotica letteratura che ha inscenato la battaglia del Ticino, fra Annibale e Scipione, presso il territorio dei Vittumuli, che erano insediati, secondo Plinio e Strabone, nella parte superiore dell'agro vercellese, verso Biella. Nel diploma degli Imperatori Lodovico I e Lotario I dell'11-7-826 si legge: "... Biella ... nel pago dei Vittumuli nel Comitato di Vercelli ..." che confermerebbe quanto hanno scritto Plinio e Strabone. Queste genti pare si dedicassero alla ricerca dell'oro nella sabbia dei fiumi compresi fra la Dora e il Ticino. In diverse località del Vercellese si riscontrano grandi ammassi di pietre e ghiaie provenienti dalla lavatura del terreno. Per analogia, alcuni scrittori hanno affermato che queste genti occupassero in seguito il basso Ticino: il Campo dei Fiori di Varallo Pombia e parte dell'altipiano alluvionale eroso del Ticino tra Pombia e Oleggio, confortati anche dai provvedimenti amministrativi escogitati dai Romani per trattenere i Vittuoni entro i primitivi insediamenti. Così, Plinio, ricorda tali provvedimenti: "Extat, lex censoria Vitumulorum aurifondine Vercellensi Agro, qua cavebatur ne plus quinque millibus hominum in opera pubblicani haberent".(Plinio 33 - 21) Quindi, dobbiamo escludere che la battaglia del Ticino sia avvenuta presso i Vittumuli, ma riteniamo che abbia avuto luogo in località prossima, fra il Ticino e il Po. Gli antichi itinerari segnano una pista che dal Monginevro per Torino, Lomello, Pavia, Piacenza e l'Appennino porta a Roma, mentre un secondo itinerario si ritiene potesse essere: Piccolo San Bernardo, Aosta, Ivrea, Vercelli, Mortara, Garlasco, Pavia, Piacenza, Appennino Lucchese, Roma. Or dunque, qualsiasi sia stato il percorso fatto da Annibale, ne deriva che la battaglia del Ticino sia, presumibilmente, avvenuta nella pianura della Lomellina. Quest’affermazione si deduce da quanto hanno scritto Livio e Polibio e da quello che esporremo. Dove avvenne, la battaglia del Ticino è controverso. Il Giani (La battaglia fra Annibale e Scipione) la suppone avvenuta nel Galliatese, il Bellini (La battaglia Romana-Punica) presso le Cornelliane di Golasecca e altri ancora presso Somma Lombardo. Il primo sosteneva la sua tesi, ammettendo che il ponte citato da Tito Livio si identificasse con i resti (palafitte) di quello che presumibilmente esisteva fra Castelletto Ticino e la Cascina Persualdo sotto Golasecca, e ritenendo che la necropoli di quest'ultima località fosse quella dei legionari romani caduti nella battaglia. Anche il Bellini ammette che il ponte costruito dai Romani fosse quello di Castelletto Ticino. Il Ponti (I Romani ed i loro precursori sulle rive del Verbano ed alto Novarese) si pone la questione, ammettendo che Annibale sia giunto al Ticino percorrendo il territorio posto tra Novara e Vercelli oppure la linea Castelletto Ticino-Varallo Pombia-Oleggio-Bellinzago-Galliate, conclude che la battaglia possa essere avvenuta nella pianura presso il fiume che si estende fra Castelletto Ticino, Somma Lombardo e Bellinzago a Nord di Novara. Il Bellotti (Dei Victumuli) ipotizza la battaglia presso Oleggio, il Colombo (La battaglia del Ticino) la sposta a Garlasco, infine il Momsen (Storia di Roma) propende per Carbonara Ticino. Francesco Pezza (Alla scoperta dell'annibalico Vico Tumulis in B.S.S.N.-1957-n°3) risuscita Vico Tumulis in Vico Monticelli, presso San Giorgio Lomellina. A questo punto s’intende, con obiettività, analizzare la questione sotto il profilo della logica. L'obiettivo di Annibale era di giungere il più rapidamente possibile a Roma, per cogliere i Romani impreparati. Il Cartaginese giunse nella Pianura Padana approssimativamente verso la fine del settembre del 218 a.C. (Polibio o.c.) o alla fine di ottobre, secondo Livio, e, quindi, logicamente tendeva a spostarsi verso il Sud nel modo più veloce: questo anche per motivi logistici e per non farsi sorprendere dall'inverno in zone inospitali (Livio). Senza dubbio, servendosi di guide locali, avrà seguito una delle millenarie piste che conducevano a Roma, non avendo motivi per nascondere la sua marcia, poiché i Romani si erano già mossi per contrastargli il passo.1 1 - E’ logico ritenere che l’esercito cartaginese seguisse una linea di avanzamento sicura per raggiungere a Roma Il problema del sostentamento dell’esercito era poi di primaria importanza; da qui nasce spontanea l’idea che Annibale puntasse direttamente su Casteggio per impadronirsi dei magazzini Romani e si mantenesse, quindi, sempre su piste conosciute, in prossimità delle quali stanziamento le tribù locali che avevano la possibilà di razziare il bestiame, di impadronirsi di viveri per gli uomini e di foraggio per cavalli ed elefanti. Scipione pensava di fermarlo ai piedi delle Alpi, o, per lo meno, fra il Sesia e il Ticino, mentre con meraviglia se lo trovò di fronte in prossimità del Ticino. Tito Livio e Polibio asseriscono che, superato il Po, Scipione ordini agli specialisti la costruzione di un ponte. Livio continua dicendo che compiuto il ponte, munito di un luogo fortificato e non di un castello, come alcuni storici locali hanno sostenuto, trasferì il suo esercito nella terra degli Insubri, che, come ci fa sapere Strabone già citato, stanziavano anche nella Lomellina. Polibio non dice nulla del trasferimento dei Romani in territorio Insubre (lo lascia solo intendere, ponendo i due eserciti in fase di avanzamento lungo il fiume, nel tratto che è verso le Alpi, i romani tenendo la sinistra, i Cartaginesi la destra). Il giorno successivo i due eserciti avanzarono nella pianura, però Polibio precisa più innanzi che Scipione, persa la battaglia, attraversò la Pianura Padana fino al Po, per trovarsi di là dal fiume prima che il nemico lo raggiungesse. Annibale, infatti, inseguì i Romani fino al fiume dove trovò il ponte (sul Po) semi distrutto. Le tracce del ponte castellettese, anche se poste in luogo tecnicamente moderno, è presumibile che non siano romane, bensì resti di un ponte costruito, secondo la tradizione, dai Milanesi attorno al 1295 (Belfanti - "Storia di Castelletto sopra Ticino"). Ancora Polibio lascia intendere che il tempo intercorso fra la battaglia, la fuga di Scipione di là dal Po e l'arrivo di Annibale al fiume sia stato breve. Possiamo concludere che la battaglia del Ticino sia avvenuta presumibilmente nella pianura Lomellinese compresa fra Mortara e Vigevano verso Nord, il Ticino a Levante, il Po a mezzodì e a ponente la direttrice Mortara-Valenza, area che la maggior parte degli storici ha indicato come la più probabile. Infatti, a parte quei pochi, come il Giani, il Bellini, il Bellotti, il Ferrari e il Campana che la ritengono avvenuta rispettivamente a Galliate, Golasecca, Oleggio, Somma Lombardo, la maggioranza la ritiene avvenuta nella Lomellina, come il Vaccari, il Ducati e il De Sanctis a Lomello: Portalupi a Cassolvecchio; Capsoni e Calvi, a Tromello verso Gambolò; Baratta, a Dorno; ecc..... Noi prospettiamo, quindi, che lo storico scontro si sia svolto a mezza via tra Mortara e San Nazzaro dei Burgundi, punto medio dell'area prima indicata. Si potrebbe obbiettare a questa tesi che Annibale potrebbe essersi spinto più a Nord per accattivarsi le simpatie dei locali e spingerli a combattere i Romani. Se, però, supponiamo che Annibale seguisse la pista Vercelli- Pavia e che Scipione passato il Ticino, gli muovesse incontro, dobbiamo escludere che Annibale, poiché il successivo scontro alla Trebbia avvenne in Dicembre (e quindi l'arco di tempo intercorso tra l'arrivo del Cartaginese nella Pianura Padana, la conquista dei Taurisci e la presa di Clastidium, è molto breve), alla fine dell'autunno, anziché tendere verso Sud, si sia portato verso le nostre contrade, allungando il percorso di qualche centinaio di chilometri, senza altro motivo plausibile se non quello di farsi alleata qualche tribù indigena che già gli era favorevole. Né oseremmo spostare la battaglia nella piana fra Pombia e Oleggio solo perché in Pombia esiste la località "Monticello", che richiama il Liviano "Tumulis”. 3-3 R O M A N I Z Z A Z I O N E I Romani ritornarono, successivamente, nelle nostre contrade, nel 554 di Roma (200 a.C.), con Furio Pampurione, e nel 194 a.C. con L. Valerio Flacco, che annientava Insubri e alleati presso Milano, cosicché Como, Piacenza e Bologna cadevano sotto Roma e tutta l'Insubria fino al Sesia era occupata dai Romani. Assoggettate le nostre terre, i Romani dovettero fronteggiare i Germani provenienti dall'Europa settentrionale. Devastata la Gallia (Francia), i Teutoni e gli Amboni nel 102 a.C. furono annientati da Mario presso Acque Sextie (Aix). I Cimbri, intanto, per il Brennero si erano spinti nella Pianura Padana, portando distruzione e desolazione. Superato il Ticino e il Sesia, dilagarono nel Vercellese. Nel 101 a.C. le legioni di Mario e Catullo, presso i Campi Raudii, fra Casalbeltrame e Rovasenda, sbaragliarono i Cimbri, poi dispersi, inseguiti e distrutti dalle legioni di Silla. In questa pianura sovente emergono resti umani, armi e monete a testimonianza della battaglia. Cameriano ancora nel XVII secolo, nei documenti era chiamata Arcamariano, forse a ricordare il trionfo di Mario. Nel 90 a.C. Gneo Pompeo Strabone estendeva alle nostre terre il "Ius Latii", ossia la legge che dichiarava la zona traspadana colonia romana. La romanizzazione avvenne con Giulio Cesare, che dava ai Cisalpini la cittadinanza romana (Lex Roscia de Gallia Cisalpina) nell'anno 705 di Roma e in seguito, nel 709, con la "Lex Iulia Municipalis" determinava l'ordinamento dei Municipi. Nel 719 le legioni di Roma conquistavano il territorio dei Leponzi e poi Cesare Augusto dal 725 al 747, con i consoli Druso e Germanico, sottometteva tutti i popoli alpini, e costituiva, unendo Piemonte e Lombardia, l'undicesima provincia di Roma. Il territorio Novarese con l'Insubria, la Gallia Cisalpina e il territorio fra il Sesia e il Ticino formò la tribù Claudia. La civiltà Latina e il Cristianesimo, quindi, subentrarono alla civiltà Gallica. Da questo momento, e cioè con l'Imperatore Cesare Augusto, le nostre terre godono un periodo di pace e benessere, ma sul finire dell’impero Romano d'Occidente la situazione diventa ben triste. 4-3 V E S T I G I A R O M A N E Le vestigia dei Romani sono innumerevoli in Piemonte: oltre ai monumenti di Augusta Taurinorum (Torino), Augusta Praetoria (Aosta) e di altre località, le iscrizioni lapidarie, gli acquedotti, i nomi di località, abbiamo tracce e ricordi di strade; le vie consolari. Dalla Gallia (Francia) per il Monginevro, attraverso SusaTorino-Chivasso-Strabino-Ivrea-Vercelli-Novara, si giungeva a Milano. A Ivrea la strada biforcava per Aosta e da qui si dirigeva al Gran San Bernardo; da Aosta attraverso l'attuale Pre S. Didier si giungeva al Piccolo San Bernardo. A Vercelli la strada per Milano biforcava e attraverso Lomello-Pavia-Piacenza-Appennino Lucchese portava a Roma. La strada del Sempione (via Settimia da Settimio Severo) nel Novarese proveniva da Lomello-Mortara e per Novara-MomoGozzano-Orta-Domodossola portava al passo del Sempione. Avanzi di una strada romana affiorano a mezza costa fra Belgirate-Stresa-Baveno (lo affermano il Bellini, il De Vitt, il Melzi) e potrebbero essere i resti di una strada che, dipartendosi dalla Settimia a Feriolo, costeggiasse il Lago fino all'attuale Arona, poi, per Borgo Ticino, Castelletto Ticino, Sesto Calende, portava a Gallarate e quindi a Milano. Qui occorre presupporre l'esistenza di un ponte sul Ticino. Quello di Castelletto Ticino (Palafitte) (Giani - Arista) o i resti in muratura affiorati durante la piena del 1868. E' presumibile che tali resti appartengano all'opera di presa per la costruzione del primo Naviglio (opera che non fu attuata forse per motivi di carattere tecnico-idraulico e abbandonata all'inizio). I resti di questo canale che fu chiamato allusivamente Naviglio del Pamperduto (Romussi "Milano nei suoi monumenti") sono visibili sulla sponda lombarda del Ticino all'altezza di Somma Lombardo. Infatti, il Naviglio Grande, tuttora esistente, fu iniziato il 5 agosto 1179 ed esce dal Ticino sotto Tornavento, presso la località Ca della Camera (Romussi o.c.). Per le Gallie da Sesto Calende iniziava una strada che, per Borgomanero-Romagnano-Gattinara, portava a Vercelli, dove passavano le vie consolari. Negli Statuti Novaresi del 1281 (Cap. 399) (Belfanti c.c.) si parla di una strada proveniente da Novara per le località di Oleggio e Borgo Ticino. La strada che per noi riveste una notevole importanza è la "Via Maior"; partiva da Novara e raggiungeva Oleggio. Noi, malgrado non ci siano prove tangibili, abbiamo ricostruito il prolungamento di questa strada che da Oleggio, per i prati della Raspagna toccava la Cascina Zendone, la Cascina Dogana, il Maglio e qui deviava per San Giorgio di Pombia, quindi, per la Cascina Guzzetta risaliva presso la Cascina del Romano toccava la Paniscera (Pan Cerrus, Cerri del Dio Pan) e di qui scendeva al guado del Ticino di Porto Torre. Inoltre essa biforcava sotto la Cascina del Romano e, passando sotto il Monte, toccava la Valle San Pietro, si spingeva verso la Cascinetta, raggiungeva la Cascina Curone, toccava il Lazzaretto, il Martinaccio per poi raggiungere Borgo Ticino. Come abbiamo già detto questa è una traccia solo approssimativa della strada, la quale dovrà essere comprovata da qualche sicura prova in successivi studi. Si può anche ipotizzare che dalla Cascinetta la pista scendesse per Dorbiè e Castelletto Ticino. 5-3 I N V A S I O N I B A R B A R I C H E Verso la fine del V secolo cessa quel periodo di pace e tranquillità iniziato con l'imperatore Cesare Augusto. Nel 492-493, infatti, il Novarese, come del resto quasi tutto il Piemonte, è messo a sacco dai Burgundi di Re Gundobaldo. Nel 508 Teodorico riesce a ricacciare oltre le Alpi i Burgundi, i quali però rimangono padroni di molte terre Piemontesi, già devastate nei decenni precedenti dagli Eruli e dai Goti, dai Visigoti e dai Vandali. La proprietà terriera è in sfacelo per le continue guerre che falcidiano le popolazioni. Le invasioni barbariche sono respinte a stento e della grandezza di Roma rimane solo il nome. Per motivi di carattere politico e soprattutto per ragioni pratiche l'Impero Romano è diviso in due parti: l'Orientale, con capitale Costantinopoli, l'Occidentale con capitale Roma, di fatto Milano. A completare questo quadro di desolazione e a provocare il crollo definitivo della Romanità nel 568 scendono in Italia i Longobardi, i quali, partiti dalla Pannonia (Ungheria), nel 572 occupano la Pianura Padana. Il loro dominio in Italia ebbe non breve durata. I contrasti tra la Chiesa e i Longobardi sfociarono nella chiamata in Italia dei Franchi che, sotto il comando di Carlo Magno, nel 773 a Pavia, capitale dei Longobardi, sconfissero Desiderio e provocarono la definitiva caduta del regno Longobardico. Le loro usanze e costumi e le leggi di Rotari, Grimoaldo, Liutprando si osservarono ancora fin verso il 1200. Scomparso così il regno Longobardico, a esso subentrò il dominio dei Franchi. IV PARTE QUARTA VARALLO P. E POMBIA NELL’ALTO MEDIOEVO 1-4 O R I G I N I O M B I A D I P O M B I A E D I V A R A L L O P Nessuno degli scrittori dell'antichità, da Strabone (Geographia) a Plinio (Naturalis Historiae) a Tolomeo, parlano di Pombia né, tanto meno, di Varallo Pombia. Nemmeno gli itinerari Antoniniani, i vasi Apollinari di Vicarello Lomellina, la tavola Peutigeriana, ne fanno cenno. Neppure le lapidi o le casse cinerarie accennano a questi nomi. Il nome di Pombia compare per la prima volta nella "Cosmographia" dell'anonimo Ravennate e, successivamente, nella "Geographia" di Guido. I due autori vissero probabilmente nel VII secolo; le monete longobardiche "Tremissi" di Pombia sono del tempo di Desiderio (756-774) e recano inciso il nome di Plumbiat-Flavia (Regia). Il nome di Varallo Pombia compare in una carta dell'Archivio Capitolare di S. Maria di Novara del 17 giugno 885 (pag. 20, doc. 15° - Raginaldo del fu Repaldo di Pombia, Arcidiacono e Visdomino della Chiesa di Novara dona, dopo la morte, alla "Luminaria" di detta Chiesa un campo in Mergozzo; ... Signum + Luuoni de Varalo testes; ...) L'Anonimo Ravennate così si esprime: "Item iuxta supra scriptam civitatem Eporediam non longe ab Alpe est Civitas que dicitur Victumula, item Oxilia, Staciona, Magesa, Lebontia, Bellenica, Bellintiona, Omula, Clavenne, Item ad partem inferiorem Italiae sunt civitates, idest Plumbia que confinatur ex praedicto territorio Stacionensis. Item Vercellis, Novaria, Sibrium, Comum ...". Il cosmografo Guido dice: "Item ad inferiora sunt civitates, Plumbea quae confinatur cum territorio paedicto civitas Stacionensis: item Vercellis, Novaria ... " Un terzo documento si trova in Monumenta Historiae Patriae (Codice Diplomatico Longobardico n° 11 in data 5 aprile 745) dove un Rottoperto accenna a "Pecunia mea quod abeo in finibus Plumbense". Il Gabotto nella sua pregevole opera "I Municipi Romani dell'Italia Occidentale alla morte di Teodosio il Grande", afferma che nel territorio posto tra il Sesia, le Alpi, il Ticino ed il Po, nella tarda età dell'impero di Roma, vi erano cinque Municipi Romani: Laumellum, Novaria, Plumbia, Stationa (presumibilmente posta ai piedi del Montorfano e distrutta dal terremoto del 1117) e Oxilia, presso Domodossola. Questa tesi è accettata da tutti (Ved. gli Atti del Primo Convegno di Studi sull'Alto Medioevo, pag. 43 e seg.), per cui si può senz'altro affermare che all'epoca di Teodosio (379-395) Pombia avesse la dignità Municipale. Che cosa significhino i nomi di Pombia e di Varallo Pombia, è problematico. Il Flecchia (Atti R. A. S. Torino, vol. 15) ne: "I nomi locali d'Italia derivati dal nome delle Piante" fa derivare il primo dalla parola "Populos" (Pioppo). Il Massia (B.S.S.N. anno 1918 fascicolo III, pag. 138 e seguenti) lo ritiene di origine gentilizia e di derivazione onomastica personale femminile (Plumbia da un maschile Plumbius). Da scartare l'ipotesi del Rusconi (in "I Conti di Pombia e Biandrate secondo le carte del Novarese") che fa derivare Pombia da Pons-bia, cioè strada del ponte. Quanto a Varallo Pombia il Prof. M. Gramatica in "Archeologia e Linguistica n° 9, Lombardia antica", formula l'ipotesi che Var, Uar, di derivazione iberica, stia a significare sprofondamento vallivo lacustre. In latino il verbo vallo...are significa fortificare e la parola vallum sta per vallo, bastione, riparo, argine. Da ciò si potrebbe anche presumere che Varallo significhi bastione sullo sprofondamento vallivo del Ticino. 2-4 P O M B I A N G O B A R D O D A M U N I C I P I O A D U C A T O L O Pombia, come Municipio Romano, doveva avere una notevole importanza, perché, subentrati in Italia i Longobardi (dal 578 al 774), la trasformarono in ducato nella sua integrità territoriale, come le altre Circoscrizioni Romane più importanti. I Ducati Longobardi, nell'epoca che va da Clefi ad Autari (582 - 590), erano 35 o 36, a seconda che si conteggi o no Milano (a questo numero corrisponde il numero dei Comitati Franchi), anche se Paolo Diacono (Storia dei Longobardi) non li nomina esplicitamente. Che Pombia fosse un Ducato si può dedurre dalla prova numismatica, le famose Tremissi d'oro di Desiderio recano sul diritto: "+ D NS.ESI.D.ER.RX" cioè: "Dominus Noster Desiderius Rex"; e sul rovescio: "+ FL.APL.UMBIA.TH" cioè: "Plumbia-Flavia" (Enzo Pellegrini, B.S.S.N. 1952). Si potrebbe obiettare che le Tremissi non confermino il Ducato di Pombia, indicandolo solamente prima e durante il regno di Desiderio come semplice Gastaldato. E qui sta appunto la prova: infatti, tale non poteva essere Pombia se prima non fosse stato un Ducato. Paolo Diacono (o.c.) nomina un solo Duca, Mimulfo di San Giulio d'Orta fatto decapitare da re Agilulfo per avere tradito in favore dei Franchi. (His diebus Agilulf Rex occidit Mumulfum ducem de insula Sancti Iuli(an)i eo quod se superiori tempo re Francorum ducibus tradidisset). I cinque Ducati furono poi trasformati in Gastaldati, ossia posti direttamente sotto il potere regio. Si può senz'altro presumere che a Pombia si insediasse allora un conservatore del luogo, ossia un vicario in rappresentanza del re. Non si sa quando i Ducati furono trasformati in Gastaldati. 3-4 L A D O M I N A Z I O N E L O N G O B A R D I C A I Longobardi, come d'altra parte tutti i barbari, pur conservando i segni della loro origine, subirono il fascino delle istituzioni e degli usi e costumi della Romanità, come pure aderendo al cristianesimo, lasciarono grandi monumenti a testimonianza di quanto avevano assunto dalla grandezza di Roma; così il grande Liutprando fece trasportare dalla Sardegna a Pavia le spoglie di S. Agostino, a perenne ricordo della grandezza della sua conversione (P. Diacono D.C.). Il loro regno, però era scosso da continue contese per la successione, da lotte interne fra ducato e ducato, e da controversie con la Chiesa. Se a queste lotte endemiche si aggiunge la misera condizione della popolazione, il quadro si presenta ben triste, eccezione fatta per Pavia, loro capitale. La loro era una debole monarchia (cfr. G. Volpe "Il Medioevo") e questo apparve chiaro quando il dissidio col Papato raggiunse l’acme. Era in gioco il predominio sull'Italia della Chiesa. Questa, innestatasi sul tronco romano, ne continuava l'universalità e non intendeva venirvi a mano. La grandezza della Roma dei Cesari era stata la base più consona per la Chiesa universale. Roma era stata Caput Mundi e, seppure decaduta politicamente, non era mai crollata, anzi era stata solamente rinnovata dall'avvento del Cristianesimo ed era la sola barriera spirituale, morale e temporale che esistesse contro le barbarie. Così per la Chiesa il regno Longobardico era un pericolo mortale: essa, infatti, temeva di vedersi diminuita nel suo potere sull'Italia. La conversione dei Longobardi e le grandi donazioni non valsero a placare l’ostilità della Chiesa. Comunque stessero le cose, l’invasione Longobardica non è da considerarsi completamente disastrosa: forse con una Chiesa meno ostile Romani e Longobardi si sarebbero maggiormente compresi e fusi. Infatti, dopo il rilassamento politico-economico dovuto all’invasione, si ebbe una rinascita in vari campi: diritto, agricoltura, commercio, arti. Prova si ha che ancor oggi sull’antico tronco latino si scorgono gli innesti Longobardi. 4-4 - L A D O M I N A Z I O N E F R A N C A I Franchi di Carlo Magno, chiamati in Italia a difendere gli interessi del Papato, trassero vantaggi per sé dall'impresa, perché si insediarono nelle terre dei vinti. Sconfitti i Longobardi a Pavia (773), Carlo Magno trasforma in Contee i Ducati e lungo le frontiere crea i Conti di confine (Mark-Grafen, marchesi). Pombia appartiene alla Marca di Ivrea. Ritornano a dominare i Conti e i municipi e le circoscrizioni si trasformano in Comitati. Da Carlo Magno furono istituite due autorità feudali: i Conti, che nelle loro mani avevano il potere assoluto e i Vescovi. A questi ultimi, in seguito, furono concessi i diritti dei Conti e si ebbe così i Conti-Vescovi o Visconti. Gli arbitrii e i soprusi dell'età feudale furono tanto grandi che si ripercossero fatalmente per secoli. Il primo Visconte di Pombia si trova nell’ 841 (Ved. Le più antiche carte dell'archivio di San Gaudenzio di Novara, doc. 1°: "Maginardo, Visconte di Pombia, dona alla Chiesa di San Gaudenzio un podere in Garbagna (giugno 841) " "... ego Maginardo ex genere Francorum Vice Comes Plumbiense abitator in loco Casaliglo ..."). Un successivo documento del 16 aprile 867 (n° 243, cod. dip. lang.) porta: "Gnerulfus ministeriali domni Imperatori di legge salica, per mezzo del giudice Pietro del fu Paolo, e del suo vassallo Ercembaldo, stabilisce di elargire in elemosina i beni da lui posseduti: "... tam in Valetelina iudicairia Mediolanensis et in Casale iudiciaria Plumbiensis". Essendo il termine "iudiciaria" una dizione longobardica per le località che avevano una propria giurisdizione, è accreditata da questo documento l'ipotesi dell'esistenza del Ducato di Pombia (Gabotto "Per la storia Novarese nell'Alto Medioevo - Ducati e Comitati", B.S.S.N. 1917 n° 1-2). Tale termine fu poi usato nel periodo Franco per le Contee rurali. In un'altra carta, già da noi menzionata, troviamo: “(177-885) Raginaldus Archidiaconus e Vicedominus sancte novariensis ecclesie, figli bone memorie Rapaldi de castro Plumbiae" dona alla Luminaria della Chiesa di Novara un campo in Mergozzo. Fra i testimoni figura "Madalberti qui beto vocatur filio Ioannemperti de Plumbia - Luoni de Uuaralo". Il re Berengario dà a Leone, Visdomino della Chiesa di Novara, fra il 911 e il 915 la facoltà di costruire castelli in propriis suis rebus finibus Plumbiensis Comitatus, in vocabulis villulis in sunt Peronate, Terdoblade, Cammari ed Galliade; nello stesso periodo dona alla Chiesa di S. Maria "mansos duos in villa Nebbiola actenus pertinentes de Comitato Plumbiense, cum omni eorum integritate" (Gabotto o.c.). Successivamente nell'Aprile del 942, tale Arnaldo di Biulaco lascia per testamento alla Chiesa di S. Maria al monte sopra Varese, proprietà "in vico et fundo Cassiate Comitatum Plumbiense" (Cod. Dip. Lang. Doc. 567). Da queste carte si ha notizia diretta che fra il 911 e il 915 Pombia è già sede di Comitato, ma non compare sino ad ora nessun Conte di Pombia. Nel documento 70 delle Carte dell'Archivio Capitolare di S. Maria in Novara, troviamo tal Elgerico del fu Manginardo, Conte, che vende a Uberto, Vescovo di Parma, la metà di un suo castello "in Comitato Plombiensis locus quae dicitur Meecia". TAV. IV - AGRO NOVARESE NEL MEDIO EVO Carta ricopiata dalla carta geografica del Giulini “ Ager Mediolanensis Aevi”. PARTE QUINTA contenuta in V SOMMARIO DI STORIA GENERALE ITALIANA 1-5 S M E M B R A M E N T O E R O D E L S A C R O R O M A N O I M P Per meglio inquadrare questo periodo e i successivi occorre, a nostro avviso, dare un breve ragguaglio della storia generale italiana. Carlo Magno, sconfitti i Longobardi, divenuto signore d'Italia, assoggettati Sassoni, Bavari, Longobardi e Slavi ripristinò in parte l'Impero Romano d'occidente. I suoi successori non riuscirono a conservare tale opera e con la morte di Carlo il Grosso (888) l'impero si smembrò. I tedeschi proclamarono re Arnolfo, duca di Carinzia, i feudatari Italiani elessero re Berengario, duca del Friuli, il cui dominio era limitato ai precedenti Ducati Longobardi. Il suo regno è tribolato: la Chiesa tenta di far cingere la corona al duca di Carinzia ma Berengario riesce a mantenerla finché non è ucciso a tradimento a Verona nel 924. Allora i feudatari eleggono re Ugo di Provenza, il quale, ritirandosi dopo qualche anno, lascia come erede il figlio Lotario, sotto la tutela di Berengario II, Marchese d'Ivrea. Morto precocemente Lotario, Berengario II rimane l'unico sovrano (950). A questi si associa il figlio Adalberto, cui Berengario vorrebbe dare in sposa la vedova di Lotario, Adelaide, che rifiutatasi e fatta prigioniera, riesce a fuggire e a chiedere aiuto al re di Germania Ottone I. Ottone scende in Italia, si porta a Pavia, dove sposa Adelaide e con essa torna in Germania. Berengario, che è fuggito d'innanzi a Ottone, tenta un accordo dichiarandosi vassallo del tedesco. I feudatari Italiani richiamano di nuovo Ottone che nel 961 rientra in Italia e a Pavia si fa proclamare re d'Italia. A Pombia il 6-9-957, moriva forse di veleno Liutulfo, figlio di Ottone, che era sceso in Italia a combattere Berengario II (il Bascapè nell'opera "Novaria Sacra", ed. 1878, tradotta dal Ravizza, ricorda che nel castello di Pombia c'era un sarcofago con l'iscrizione: LITULPHUS), dopo averlo assediato e scacciato dall'isola di San Giulio d'Orta. Berengario fuggì nella rocca di San Leo presso Urbino, mentre la moglie, al sopraggiungere di Ottone, si rinchiudeva nuovamente nell'isola si San Giulio d'Orta, ripresa, nel frattempo dai partigiani di Berengario II. Nel 962 Ottone assedia l'isola, la coraggiosa regina Willa gli resiste per ben settanta giorni, poi si arrende ed è lasciata libera di raggiungere il marito che nel frattempo si era rifugiato a Monte Feltro. La lotta tra Berengario II da una parte e la chiesa con i vescovi dall'altra aveva fatto sì che questi perdessero privilegi e terre che in seguito Ottone I restituiva loro. A Ottone I successe il figlio Ottone II (973-983) morto giovane lasciando come successore Ottone III, morto a soli ventidue anni. L'improvvisa scomparsa del terzo Ottone offerse ai feudatari Italiani la possibilità di una rivincita rivendicando l'indipendenza del regno d'Italia. Venne così eletto re d'Italia Arduino, Marchese d'Ivrea, nell'anno 1004. Questi era già molto noto per le sue lotte con i Vescovi piemontesi. L'Imperatore di Germania, Enrico II, chiamato dai Vescovi calò in Italia costringendo Arduino, abbandonato da tutti nei momenti di bisogno, a ritirarsi nei suoi feudi e si fece incoronare a Pavia re d'Italia. Ripartito Enrico II, egli riprese il potere per un decennio (1004-1O14).