Parte 1 - Pro Varallo Pombia

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Ringraziamo, con la più sentita riconoscenza, quanti hanno
collaborato,
fornito notizie e testi, in modo particolare l'Ill.
Cav. Remo Fumagalli della Società Storica Novarese.
P R E M E S S A
Questi CENNI STORICI SUL CONTADO VARALPOMBIESE costituiscono
la parte introduttiva della Storia di Varallo Pombia che verrà in
seguito pubblicata con dispense periodiche sia su particolari
periodi storici, sia sui più importanti monumenti del nostro paese.
Con queste poche pagine ci siamo prefissi di dare al lettore
solo un sommario di tutte le complesse vicende che si sono
susseguite, riservandoci di approfondirle più particolarmente nelle
dispense.
Del resto, questo breve lavoro, considerando l'arco di tempo
che abbraccia, non può dare altro che una pallida idea della
materia; sufficiente, comunque, a presentare il quadro completo che
in seguito sarà sviluppato.
Leggendo queste pagine il lettore potrà domandarsi il motivo
per il quale abbiamo esaminato anche le vicende del borgo di
Pombia. La risposta è semplice: Pombia, nei secoli scorsi, aveva
una grande importanza - già in epoca romana era insignita della
dignità municipale - e il nostro paese, fino a pochi decenni or
sono, è stato legato alle sorti di tale borgo. La storia di Varallo
Pombia è dunque anche la storia di Pombia, senza possibilità di
scissione.
* * *
PARTE PRIMA
PREISTORIA
1–1
P A N O R A M A
G E O L O G I C O
Le nostre terre appartengono al quaternario: ultima delle ere
geologiche.
Alla radice delle Alpi sono gradatamente sviluppati i terreni
fluvio-glaciali e morenici. La carta geologica italiana divide i
terreni neozoici o quaternari della Pianura Padana in:
- Diluvium o quaternario antico,
- Alluvium o quaternario recente.
Il Diluvium è poi a sua volta diviso in:
1) Inferiore
2) Medio
3) Recente
L'Alluvium è diviso in:
1) Glaciale
2) Postglaciale.
Nel Quaternario si ebbero quattro glaciazioni:
1a – Donau - Gunz
2a - Mindel
3a - Riss
4a - Wurm
Quest’ultima poi divisa in tre fasi: Wurm 1°- 2° - 3°.
I periodi interglaciali corrispondenti sono:
Donau – Gunz
Mindel - Riss
Riss – Wurm
Post Wurm
Il Quaternario antico è stato caratterizzato dalle due
glaciazioni antichissime Donau e Gunz (forse precedute da una fase
più antica Biber). Le relative morene furono poi distrutte dalle
erosioni e i loro resti sono rappresentati dalle grandi distese di
ghiaia fluvio-glaciale che si trovano nelle zone più alte rispetto
alle attuali vallate.
Della glaciazione Mindel rimangono i resti morenici ai piedi
delle montagne, dove iniziano le grandi distese fluvio-glaciali,
con formazione di terrazze più basse rispetto la precedente
glaciazione.
Durante il Riss-Wurm i ghiacciai sono maggiormente incassati
nelle vallate ed hanno lasciato bellissime morene che si raccordano
alle basse terrazze delle vallate.
Se dall'alveo del Ticino si sale il pendio, superato il primo
gradino, troviamo il Diluvium superiore o recente; il secondo
ripiano rappresenta il Diluvium medio; infine, l'ultimo gradino ci
porta sul ripiano diluviale più antico: quello del Diluvium
inferiore.
Si attribuisce alla prima fase glaciale il conglomerato che
appare lungo la Ticinella, poco discosta dal bacino del Casone.
Pure al Diluvium antico appartiene l'altipiano ferrettizzato, noto
nel novarese come Baraggia.
Il ghiacciaio del Ticino fu uno dei maggiori e più_ complessi
delle Alpi; ricopriva il lago di Lugano, si ramificava nelle Cento
Valli ed era collegato al ghiacciaio del Toce che diede luogo al
Lago d'Orta.
Questo ghiacciaio Wurmiano formò l'attuale Lago Maggiore,
scavandone il bacino.
Il suo anfiteatro, distinto in molteplici cerchie frontali, si
estende da Carciago a Varallo Pombia, Pombia, Somma Lombardo,
Carnago, Varese e Velate e _ caratterizzato da morene interne
stadiarie alle quali si collegano i laghi di Varese, Comabbio,
Monate e Biandronno.
Queste morene s’innestano, esternamente, nei piani inclinati
della stessa età del Diluvium recente. Una barriera, appartenente a
formazione triassica del Secondario, chiudeva il Lago Maggiore fra
i promontori di Arona e Angera.
Il suo emissario, il Ticino, quindi, non scorreva nell'alveo
attuale, scavatosi in epoche posteriori nei depositi frontali di
questa glaciazione, bensì defluiva a livelli superiori, bagnando
diverse località delle nostre terre. Tracce del passaggio di queste
fiumane si riscontrano nella direzione Borgoticino-Valle San Pietro
e lungo la direttrice dell'avvallamento di Mercurago-BorgoticinoVarallo Pombia-Oleggio-Codemonte di Cameri.
I fiumi si sono progressivamente infossati in special modo nelle
ultime fasi del Quaternario. Tale aspetto si è andato formando
attraverso alternanze di scavo e di rinterro dell’alveo sotto
l’influenza delle varianti del clima, del livello del mare e da
altri complicati fattori. Le testimonianze di questi avvenimenti
sono date dalle alluvioni, distinte in terrazze alte, medie e
basse, disposte a piani che ci danno il profilo dei tempi
quaternari.
Forse è possibile trovare una traccia della formazione Rissiana
nelle piccole alture che emergono dai pianori più alti, come ad
esempio la leggera ondulazione della Selvigia.
L'ultima glaciazione Wurm 3° iniziò la fase di ritiro circa
undicimila anni fa, quando la sua massima estensione toccava il
nostro attuale "Monte”.
Il Wurz 1° raggiunse la sua più grande estensione circa 270 mila
anni fa, secondo gli studi più recenti, e i suoi ghiacciai
coprivano completamente le nostre terre arrivando fino alle cerchie
moreniche di Pombia, limite dell'estrema estensione glaciale.
Alla quarta glaciazione appartengono i depositi a superfici
irregolari e ondulate consistenti in una successione di piccole
colline allungate e avvallamenti, spesso acquitrinosi e torbosi:
paesaggio tipicamente morenico, come Mercurago, Pre-Borgoticino,
Revislate, dove furono rinvenute tracce tangibili delle prime
stazioni umane palafitticole.
Gli enormi cumuli di ciottoli arrotondati che occupano il
Campo dei Fiori (Camfiord), senza dubbio, di origine post-glaciale,
sono stati lasciati sul posto e ben dilavati dalle primitive acque
del Ticino, in fase di escavazione dell'attuale alveo.
2-1
I
P R I M I
U O M I N I
A causa del clima proibitivo le regioni Europee cominciarono a
essere abitate solo qualche millennio dopo il ritiro definitivo dei
ghiacciai.
Per questo motivo le prime civiltà fiorirono nel Medio Oriente,
vale a dire a Sud della fredda Europa.
Sembra che l'uomo sia comparso sulla terra un milione di anni
fa.
Ciò esula dalla nostra ricerca ma si ritiene opportuno accennare
brevemente almeno dei ritrovamenti umani e preumani.
La scienza moderna suddivide gli ominidi in tre gruppi:
- PROTOANTROPI
- PALEOANTROPI
- FANERANTROPI O HOMO SAPIENS.
Della prima specie le vestigia sono state rinvenute nell'isola
di Giava (Pitecantropo) e nella regione di Pechino (Sinantropo).
Questa specie, che conosceva il fuoco e sapeva fabbricare gli
utensili, visse fra 500 mila e un milione di anni fa.
Dei Paleontropi il resto più antico è la mascella di Maurer,
scoperta presso Heidelberg in Germania, che risale a un periodo fra
i 200 e i 500 mila anni fa.
Il cranio di Swanscombe (Inghilterra) e quello di Steinheim
(Germania) risalgono a circa 100 mila anni fa. Altri resti, quelli
di Krapina (Croazia), Quinzano (Verona), Font_chevade (Francia)
risalgono a 50- 70 mila anni fa.
I diversi resti dell'uomo di Neanderthal trovati in Europa
datano da 70 a 130 mila anni. Questa specie era notevolmente
evoluta, come testimoniano i diversi reparti rinvenuti.
I Fenerantropi sono i progenitori dell'Homo Sapiens.
La più celebre di queste razze è quella di Cro-Magnon; di poco
diversa da quella europea moderna.
Anche
gli
scheletri
di
Grimaldi,
di
tipo
negroide,
appartengono pure alla famiglia dei Fenerantropi.
Tutti questi uomini appartengono, come noi, alla specie dell'Homo
Sapiens. Il grado di evoluzione dell'Homo Sapiens è testimoniato
dalle pitture, dalle incisioni e dalle sculture ritrovate in varie
caverne, che dimostrano, quanto erano vicini all'uomo moderno.
Vivevano di caccia e di pesca in un periodo che va dai 30 ai
70 mila anni fa.
* * *
TAV. I - ETA’ NEOLITICA E DEL BRONZO
Dal Barocelli in B.S.S.N. - anno 1926 - fasc. II°
TAV. II - PRIMA ETA’ DEL FERRO
Dal Barocelli in B.S.S.N. - anno 1926 - fasc. II°
TAV. III - SECONDA ETA’ DEL FERRO
Dal Barocelli in B.S.S.N. - anno 1926 - fasc. II°
PARTE SECONDA
PROTOSTORIA
1-2
P R E M E S S A
Ritiratesi le acque nei loro attuali alvei, stabilizzatosi
il clima, che divenne poco dissimile dal nostro attuale, come pure
la flora e la fauna, anche le nostre terre cominciarono a ospitare
i primi uomini.
Il tempo preistorico è distinto in diversi periodi, fra i
quali il Paleolitico, che è diviso in Inferiore, Medio e Superiore,
il Mesolitico e il Neolitico.
Nel novarese, fino ad ora, non si sono scoperte tracce di
vestigia Paleolitiche e Mesolitiche.
Con l'Eneolitico inizia l'introduzione dei metalli.
La civiltà Neolitica risale a 2500 anni a.C., quella
Eneolitica va dal 2500 al 1700.
Seguono la civiltà del bronzo (1700-900), la prima età del
ferro
(900-500),
la
seconda
età
del
ferro
(500-100)
e,
successivamente, la civiltà Romanica dal 100 a.C. al 400 d.C.
Risalgono a un'epoca fra il Neolitico e l'Eneolitico i
ritrovamenti palafitticoli di Mercurago, Pre-Borgoticino, Gagnago e
Conturbia.
Quella di Mercurago, oltre ad essere la più antica traccia
umana del novarese, è anche la prima stazione su palafitte
italiana.
2-2
L A
C I V I L T A' D I
G O L A S E C C A
Il Castelfranco trovò presso il Molinaccio, nella zona
sottostante a Golasecca, una stazione umana con tracce di civiltà
Neolitica, ma tanto dubbie che non riuscì a stabilire con
precisione l'età di detta stazione.
Inoltre, sempre il Castelfranco scoperse sulla nostra riva
del Ticino una stazione umana della stessa età di quella
dell'altipiano di Golasecca.
La Civiltà di Golasecca, la cui esistenza è attestata
dall'età del bronzo alla romanizzazione, è la prima traccia di
popolazione con tradizioni linguistiche indoeuropee e rappresenta,
inoltre, la PIETRA MILIARE della storia riguardante questa parte
d'Italia.
Il Barocelli (Atti della storia Piemontese d'Archeologia e
belle arti, vol. X)
determina i limiti speciali della nuova
civiltà: "Castelletto Ticino - Pennino - Sesto Calende - Varallo
Pombia - Golasecca, tombe e sepolcreti della prima Età del Ferro".
Bartolomeo Gastaldi segnalò fin dall'anno 1862, sulle
alture del Pennino, nell'anfiteatro morenico del Ticino, allo
sbocco del Lago Maggiore, alcuni sepolcreti che per la presenza di
alcuni oggetti di bronzo, egli attribuì all'età che da questo
metallo prende il nome.
Sepolcri simili, scoperti nell'attigua morena lombarda,
erano stati ritenuti dal Giani vestigia della grande battaglia del
Ticino vinta da Annibale contro i Romani.
Dopo il 1870 si fece un po' di luce, specialmente dopo
l'esplorazione eseguita dal Castelfranco
di una stazione della
prima Età del Ferro, con focolare all'aperto e capanne, sulla
destra del Ticino, in località Merlotitt, vicino a Castelletto
Ticino.
Un'altra stazione con focolare e capanne all'aperto,
probabilmente coeva a quella dei Merlotitt fu scoperta sulla sponda
opposta del Ticino in località Molinaccio.
I materiali delle due stazioni sono conservati nel Regio
Museo Torinese di antichità.
A poco a poco, per opera del Castelfranco e di altri,
numerosi sepolcreti della prima Età del Ferro, divisi in gruppi,
furono scoperti in località che vanno da Castelletto Ticino fino a
Varallo Pombia e,
sulla sponda opposta del Ticino, da Sesto
Calende a Golasecca.
Furono le numerose scoperte avvenute presso
quest'ultimo villaggio che diedero il nome a questa particolare
facies di civiltà.
Il Fabretti arricchì il Regio Museo torinese, da lui
diretto, con l'abbondante suppellettile fittile e di bronzo di una
sessantina di tombe scavate sulla riva destra del Ticino.
Altri fittili e bronzi della stessa provenienza entrarono
nel Museo Civico di Novara e altri nel Regio Museo Preistorico
Romano.
Come risulta anche dai documenti conservati nell'Archivio
del Regio Museo torinese di Antichità, varie furono le località di
Castelletto Ticino in cui le tombe vennero in luce: sono nominati
il Bosco del Monte, la Regione Fontanilia, Costantini, Dorbiè,
Arquello, Cascina dei Ragni e Pozzola.
Una tomba di questa età, alla Cascinetta di Varallo
Pombia, era frammista a tombe di età romana.
Le tombe di cremati con gli avanzi combusti, per lo più
contenuti entro un'urna, solitamente erano protette da lastroni o
da ciottoli o da pietrame vario disposto con maggiore o minore
regolarità.
Qualche volta un gruppo di tombe aveva tutt'intorno un
recinto di pietre brute.
Riteniamo utile e, senza dubbio, doveroso citare il Ponti,
che riporta le relazioni del Castelfranco sui ritrovamenti ai
Merlotitt, Molinaccio e sulla Civiltà di Golasecca. (Ved. App. I)
Sulla scorta dei più recenti studi, alla voce Golasecca, a
pag. 471 del Dizionario Enciclopedico U.T.E.T. app. 1964, troviamo
una bella sintesi descrittiva della Civiltà di Golasecca.
"Nei territori dei Comuni lombardi di Sesto Calende, Somma
Lombardo, Vergiate e Golasecca e dei Comuni piemontesi di
Castelletto Ticino, Borgo Ticino e Varallo Pombia, sono state
tratte alla luce migliaia di tombe a incinerazione, proto storiche,
che documentano la così detta:
CULTURA
DI
GOLSASECCA.
Tale Cultura è attestata dall'Età del Bronzo alla
Romanizzazione, e può essere suddivisa in tre fasi: la prima
caratterizzata da urne biconiche con incisioni a dente di lupo,
coppe su piede, fibule bronzee a sanguisuga e a navicella; la
seconda da urne ovoidali ornate a traslucido, vasetti carenati,
oggetti di tipo Etrusco e Greco, armi e oggetti rituali di ferro;
la terza da urne ovoidali ornate a traslucido o cordonate, vasi a
tulipano, bicchieri con peduccio o a doppio tronco di cono, vasi a
trottola.
Nelle fasi più tarde si avvertono influenze galliche.
In questa fase i fittili sono verniciati con vernice rossa
che andò estendendosi nel periodo della Romanizzazione.
Mentre nella prima e seconda fase di Golasecca il rito
funebre
era
per
incinerazione,
nella
terza
forse
appare
l'”inumazione."
3-2
I
P R I M I
A B I T A T O R I
Secondo alcuni studiosi i Liguri occuparono le nostre
terre verso il 1600 a.C.; gli Umbri occuparono l'Insubria verso il
1500 ed infine subentrarono gli Etruschi, verso il 1000.
Da chi derivò la Civiltà di Golaseacca?
Il Castelfranco la ritenne derivata dai palafitticoli;
altri la ritennero di origine Ligure. Gli studi più recenti (Ved.
Lopes Pegna in "Popoli e lingue dell'antica
Italia“)
la
attribuiscono ai Paleoleponzi. I Leponzi risulterebbero dal
processo di fusione etnica della razza indigena Paleo ligure, a cui
si attribuiscono influssi culturali, iberici, con i Celti.
Chiunque fossero, hanno lasciato tracce indelebili della
loro civiltà: alta devozione religiosa verso i morti, segni perenni
del loro impegno e della loro operosità, rimasti a destare
meraviglia ai nostri occhi.
Anche i Romani, che subentrarono in seguito, non
riuscirono a cancellare la precedente civiltà locale o, quanto
meno, a romanizzare completamente le nostre terre.
Gli storici antichi ci dicono che popoli di origine
Ligure, Taurisci e Agnoni occuparono primitivamente la pianura
posta tra le Alpi e il Ticino.
Secondo Polibio, gli Agoni erano insediati fra il Mergozzo
e la pianura bagnata dall'Agogna.
Secondo Catone, i Liguri (in origine abitatori delle Alpi
Lepontine) erano di razza Taurisca (Ved. anche Plinio: Nat. Hist.,
III - 24/133 - 135)
ove se ne fa cenno parlando dei monti posti
fra le Alpi Retiche e Pennine - Alpi Attrezziane.
Secondo Plinio (III - 21), la nostra regione era abitata
dai Vertacomacori, della stirpe dei Voconzi di derivazione Celtica;
"Novaria ex Vertacomagoris, Vocontiorum hodieque pago, non ut
Catoexistimat Ligurum?".
Sulla sponda lombarda del Ticino, nel milanese, nel
comasco e fra Novara e Vercelli stazionavano gli Insubri, che,
secondo Strabone, occupavano anche la Lomellina.
I Leponzi occupavano, secondo altri scrittori, le Alpi
Attrezziane (dal Monte Rosa al Gottardo) fino alla parte alta del
Lago Maggiore, oltre la parte sud occidentale dell'area compresa
fra il Toce e la Sesia. Pare che in tempi lontanissimi i Levi,
originari Liguri, stanziassero nel Novarese. L'evoluzione di queste
genti dette luogo a quella popolazione Celto-Ligure incontrata dai
Romani.
A questi insediamenti si sovrapposero le penetrazioni UmbroEtrusche, per cui non si possono stabilire limiti ben definiti,
dato che a noi non sono pervenute che rare e incomplete tradizioni.
PARTE TERZA
GALLI – ROMANI INVASIONI BARBARICHE
1-3
L E
I N V A S I O N I
G A L L I C H E
Nel 594 a.C. iniziarono le invasioni Galliche: Belloveso
con la prima invasione occupò parte del Piemonte e della Lombardia
debellando gli Etruschi presso il Ticino.
Con la seconda invasione i Galli di Elitovio si sparsero
nel Novarese: successivamente, con la terza, si insediarono nel
Vercellese, tra il Sesia e la Dora, e con la quarta, attraverso il
Sempione e il Gottardo e per l'Ossola e la Val Sesia, occuparono
definitivamente il territorio Novarese.
Nell'anno 513 di Roma i Romani iniziarono
la conquista
della Gallia Cisalpina.
I
Cisalpini,
nonostante
l'aiuto
dei
Galli,
furono
sconfitti dalle legioni di P. Cornelio Lentulo e O.Fabio Massimo
tra il 518 e il 521 di Roma.
Poi, come narra Polibio, fu la volta degli Insubri, a
fianco dei quali, per combattere i Romani, si schierarono gli
avanzi dei Liguri primitivi,
i Gallo-Liguri, i Leponzi, i
Vertacomacori ma a Telamone, nell'Etruria, C. Attilio Regolo e L.
Emilio Papio sbaragliarono, nel 529, i Cisalpini.
Nel 533 (222 a.C.), sconfitto Viridumaro a Clastidium
(Casteggio) per opera di Claudio Marcello, la Lega Cisalpina cedeva
ai Romani Milano, Como e tutta l'Insubria dal Ticino al Sesia.
2-3 - L A
S E C O N D A
G U E R R A
P U N I C A
Ovviamente, gli Insubri non sopportavano la dominazione
romana e alla calata di Annibale in Italia si ribellarono, e così
fecero pure le altre popolazioni indigene.
Era l'anno 218 a.C. Annibale, superate le Alpi (per il
Monginevro o per il Piccolo S. Bernardo) e sconfitti i Taurisci,
avanzava verso il Ticino penetrando nel Novarese.
Intanto, Scipione, partendo da Pisa, raggiunta Piacenza a
marce forzate, muoveva da quest'ultima località per sbarrargli il
passo. Superato il Po e il Ticino, si trovò nel paese degli
Insubri, a cinque mila passi da Vico Tumulis, dove Annibale aveva
posto il suo campo: questo secondo Tito Livio.
In proposito occorre una digressione: gli antichi codici
Liviani dicono: "Ponte perfecto Romanus exercitus in agrum
Insubrium quinque milia passum a Vico Tumulis consedit. Ibi Annibal
castra habebat.", mentre nelle edizioni moderne è prevalsa la
dizione "Victumulis".
Di qui la caotica letteratura che ha inscenato la
battaglia del Ticino, fra Annibale e Scipione, presso il territorio
dei Vittumuli, che erano insediati, secondo Plinio e Strabone,
nella parte superiore dell'agro vercellese, verso Biella. Nel
diploma degli Imperatori Lodovico I e Lotario I dell'11-7-826 si
legge: "... Biella ... nel pago dei Vittumuli nel Comitato di
Vercelli ..." che confermerebbe quanto hanno scritto Plinio e
Strabone.
Queste genti pare si dedicassero alla ricerca dell'oro
nella sabbia dei fiumi compresi fra la Dora e il Ticino.
In diverse località del Vercellese si riscontrano grandi
ammassi di pietre e ghiaie provenienti dalla lavatura del terreno.
Per analogia, alcuni scrittori hanno affermato che queste genti
occupassero in seguito il basso Ticino: il Campo dei Fiori di
Varallo Pombia e parte dell'altipiano alluvionale eroso del Ticino
tra
Pombia
e
Oleggio,
confortati
anche
dai
provvedimenti
amministrativi escogitati dai Romani per trattenere i Vittuoni
entro i primitivi insediamenti.
Così, Plinio, ricorda tali provvedimenti: "Extat, lex
censoria Vitumulorum aurifondine Vercellensi Agro, qua cavebatur ne
plus quinque millibus hominum in opera pubblicani haberent".(Plinio
33 - 21)
Quindi, dobbiamo escludere che la battaglia del Ticino sia
avvenuta presso i Vittumuli, ma riteniamo che abbia avuto luogo in
località prossima, fra il Ticino e il Po.
Gli antichi itinerari segnano una pista che dal Monginevro
per Torino, Lomello, Pavia, Piacenza e l'Appennino porta a Roma,
mentre un secondo itinerario si ritiene potesse essere: Piccolo San
Bernardo, Aosta, Ivrea, Vercelli, Mortara, Garlasco, Pavia,
Piacenza, Appennino Lucchese, Roma. Or dunque, qualsiasi sia stato
il percorso fatto da Annibale, ne deriva che la battaglia del
Ticino
sia,
presumibilmente,
avvenuta
nella
pianura
della
Lomellina.
Quest’affermazione si deduce da quanto hanno scritto Livio
e Polibio e da quello che esporremo.
Dove avvenne, la battaglia del Ticino è controverso. Il
Giani (La battaglia fra Annibale e Scipione)
la suppone avvenuta
nel Galliatese, il Bellini (La battaglia Romana-Punica) presso le
Cornelliane di Golasecca e altri ancora presso Somma Lombardo.
Il primo sosteneva la sua tesi, ammettendo che il ponte
citato da Tito Livio si identificasse con i resti (palafitte)
di
quello che presumibilmente esisteva fra Castelletto Ticino e la
Cascina Persualdo sotto Golasecca, e ritenendo che la necropoli di
quest'ultima località fosse quella dei legionari romani caduti
nella battaglia. Anche il Bellini ammette che il ponte costruito
dai Romani fosse quello di Castelletto Ticino.
Il Ponti (I Romani ed i loro precursori sulle rive del
Verbano ed alto Novarese)
si pone la questione, ammettendo che
Annibale sia giunto al Ticino percorrendo il territorio posto tra
Novara e Vercelli oppure la linea Castelletto Ticino-Varallo
Pombia-Oleggio-Bellinzago-Galliate, conclude che la battaglia possa
essere avvenuta nella pianura presso il fiume che si estende fra
Castelletto Ticino, Somma Lombardo e Bellinzago a Nord di Novara.
Il Bellotti (Dei Victumuli) ipotizza la battaglia presso
Oleggio, il Colombo (La battaglia del Ticino)
la sposta a
Garlasco, infine il Momsen (Storia di Roma) propende per Carbonara
Ticino.
Francesco Pezza (Alla scoperta dell'annibalico Vico
Tumulis in B.S.S.N.-1957-n°3) risuscita Vico Tumulis in Vico
Monticelli, presso San Giorgio Lomellina.
A questo punto s’intende, con obiettività, analizzare la
questione sotto il profilo della logica.
L'obiettivo di Annibale era di giungere il più rapidamente
possibile a Roma, per cogliere i Romani impreparati.
Il
Cartaginese
giunse
nella
Pianura
Padana
approssimativamente verso la fine del settembre del 218 a.C.
(Polibio o.c.)
o alla fine di ottobre, secondo Livio, e, quindi,
logicamente tendeva a spostarsi verso il Sud nel modo più veloce:
questo anche per motivi logistici e per non farsi sorprendere
dall'inverno in zone inospitali (Livio).
Senza dubbio, servendosi di guide locali, avrà seguito una
delle millenarie piste che conducevano a Roma, non avendo motivi
per nascondere la sua marcia, poiché i Romani si erano già mossi
per contrastargli il passo.1
1
- E’ logico ritenere che l’esercito cartaginese seguisse una linea di
avanzamento sicura per raggiungere a Roma
Il problema del sostentamento dell’esercito era poi di primaria
importanza; da qui nasce spontanea l’idea che Annibale puntasse
direttamente su Casteggio per impadronirsi dei magazzini Romani e si
mantenesse, quindi, sempre su piste conosciute, in prossimità delle quali
stanziamento le tribù locali
che avevano la possibilà di razziare il
bestiame, di impadronirsi di viveri per gli uomini e di foraggio per
cavalli ed elefanti.
Scipione pensava di fermarlo ai piedi delle Alpi, o, per
lo meno, fra il Sesia e il Ticino, mentre con meraviglia se lo
trovò di fronte in prossimità del Ticino.
Tito Livio e Polibio asseriscono che, superato il Po,
Scipione ordini agli specialisti la costruzione di un ponte.
Livio continua dicendo che compiuto il ponte, munito di un
luogo fortificato e non di un castello, come alcuni storici locali
hanno sostenuto, trasferì il suo esercito nella terra degli
Insubri, che, come ci fa sapere Strabone già citato, stanziavano
anche nella Lomellina.
Polibio non dice nulla del trasferimento dei Romani in
territorio Insubre (lo lascia solo intendere, ponendo i due
eserciti in fase di avanzamento lungo il fiume, nel tratto che è
verso le Alpi, i romani tenendo la sinistra, i Cartaginesi la
destra).
Il giorno successivo i due eserciti avanzarono nella
pianura, però Polibio precisa più innanzi che Scipione, persa la
battaglia, attraversò la Pianura Padana fino al Po, per trovarsi di
là dal fiume prima che il nemico lo raggiungesse.
Annibale, infatti, inseguì i Romani fino al fiume dove
trovò il ponte (sul Po) semi distrutto.
Le tracce del ponte castellettese, anche se poste in luogo
tecnicamente moderno, è presumibile che non siano romane, bensì
resti di un ponte costruito, secondo la tradizione, dai Milanesi
attorno al 1295 (Belfanti - "Storia di Castelletto sopra Ticino").
Ancora Polibio lascia intendere che il tempo intercorso fra la
battaglia, la fuga di Scipione di là dal Po e l'arrivo di Annibale
al fiume sia stato breve.
Possiamo concludere che la battaglia del Ticino sia
avvenuta presumibilmente nella pianura Lomellinese compresa fra
Mortara e Vigevano verso Nord, il Ticino a Levante, il Po a mezzodì
e a ponente la direttrice Mortara-Valenza, area che la maggior
parte degli storici ha indicato come la più probabile.
Infatti, a parte quei pochi, come il Giani, il Bellini, il
Bellotti, il Ferrari e il Campana che la ritengono avvenuta
rispettivamente a Galliate, Golasecca, Oleggio, Somma Lombardo, la
maggioranza la ritiene avvenuta nella Lomellina, come il Vaccari,
il Ducati e il De Sanctis a Lomello: Portalupi a Cassolvecchio;
Capsoni e Calvi, a Tromello verso Gambolò; Baratta, a Dorno;
ecc.....
Noi prospettiamo, quindi, che lo storico scontro si sia
svolto a mezza via tra Mortara e San Nazzaro dei Burgundi, punto
medio dell'area prima indicata.
Si potrebbe obbiettare a questa tesi che Annibale potrebbe
essersi spinto più a Nord per accattivarsi le simpatie dei locali e
spingerli a combattere i Romani.
Se, però, supponiamo che Annibale seguisse la pista
Vercelli- Pavia e che Scipione passato il Ticino, gli muovesse
incontro, dobbiamo escludere che Annibale, poiché il successivo
scontro alla Trebbia avvenne in Dicembre (e quindi l'arco di tempo
intercorso tra l'arrivo del Cartaginese nella Pianura Padana, la
conquista dei Taurisci e la presa di Clastidium, è molto breve),
alla fine dell'autunno, anziché tendere verso Sud, si sia portato
verso le nostre contrade, allungando il percorso di qualche
centinaio di chilometri, senza altro motivo plausibile se non
quello di farsi alleata qualche tribù indigena che già gli era
favorevole.
Né oseremmo spostare la battaglia nella piana fra Pombia e
Oleggio solo perché in Pombia esiste la località "Monticello", che
richiama il Liviano "Tumulis”.
3-3
R O M A N I Z Z A Z I O N E
I Romani ritornarono, successivamente, nelle nostre
contrade, nel 554 di Roma (200 a.C.), con Furio Pampurione, e nel
194 a.C. con L. Valerio Flacco, che annientava Insubri e alleati
presso Milano, cosicché Como, Piacenza e Bologna cadevano sotto
Roma e tutta l'Insubria fino al Sesia era occupata dai Romani.
Assoggettate
le
nostre
terre,
i
Romani
dovettero
fronteggiare i Germani provenienti dall'Europa settentrionale.
Devastata la Gallia (Francia), i Teutoni e gli Amboni nel
102 a.C. furono annientati da Mario presso Acque Sextie (Aix).
I Cimbri, intanto, per il Brennero si erano spinti nella
Pianura Padana, portando distruzione e desolazione.
Superato il Ticino e il Sesia, dilagarono nel Vercellese.
Nel 101 a.C. le legioni di Mario e Catullo, presso i Campi
Raudii, fra Casalbeltrame e Rovasenda, sbaragliarono i Cimbri, poi
dispersi, inseguiti e distrutti dalle legioni di Silla.
In questa pianura sovente emergono resti umani, armi e
monete a testimonianza della battaglia. Cameriano ancora nel XVII
secolo, nei documenti era chiamata Arcamariano, forse a ricordare
il trionfo di Mario.
Nel 90 a.C. Gneo Pompeo Strabone estendeva alle nostre
terre il "Ius Latii", ossia la legge che dichiarava la zona
traspadana colonia romana.
La romanizzazione avvenne con Giulio Cesare, che dava ai
Cisalpini la cittadinanza romana (Lex Roscia de Gallia Cisalpina)
nell'anno 705 di Roma e in seguito, nel 709, con la "Lex Iulia
Municipalis" determinava l'ordinamento dei Municipi.
Nel 719 le legioni di Roma conquistavano il territorio dei
Leponzi e poi Cesare Augusto dal 725 al 747, con i consoli Druso e
Germanico, sottometteva tutti i popoli alpini, e costituiva, unendo
Piemonte e Lombardia, l'undicesima provincia di Roma.
Il territorio Novarese con l'Insubria, la Gallia Cisalpina
e il territorio fra il Sesia e il Ticino formò la tribù Claudia.
La civiltà Latina e il Cristianesimo, quindi, subentrarono
alla civiltà Gallica.
Da questo momento, e cioè con l'Imperatore Cesare Augusto,
le nostre terre godono un periodo di pace e benessere, ma sul
finire dell’impero Romano d'Occidente la situazione diventa ben
triste.
4-3
V E S T I G I A
R O M A N E
Le
vestigia dei Romani sono innumerevoli in Piemonte:
oltre ai monumenti di Augusta Taurinorum (Torino), Augusta
Praetoria (Aosta) e di altre località, le iscrizioni lapidarie, gli
acquedotti, i nomi di località, abbiamo tracce e ricordi di strade;
le vie consolari.
Dalla Gallia (Francia) per il Monginevro, attraverso SusaTorino-Chivasso-Strabino-Ivrea-Vercelli-Novara,
si
giungeva
a
Milano.
A Ivrea la strada biforcava per Aosta e da qui si dirigeva
al Gran San Bernardo; da Aosta attraverso l'attuale Pre S. Didier
si giungeva al Piccolo San Bernardo.
A Vercelli la strada per Milano biforcava e attraverso
Lomello-Pavia-Piacenza-Appennino Lucchese portava a Roma.
La strada del Sempione (via Settimia da Settimio Severo)
nel Novarese proveniva da Lomello-Mortara e per Novara-MomoGozzano-Orta-Domodossola portava al passo del Sempione.
Avanzi di una strada romana affiorano a mezza costa fra
Belgirate-Stresa-Baveno (lo affermano il Bellini, il De Vitt, il
Melzi) e potrebbero essere i resti di una strada che, dipartendosi
dalla Settimia a Feriolo, costeggiasse il Lago fino all'attuale
Arona, poi, per Borgo Ticino, Castelletto Ticino, Sesto Calende,
portava a Gallarate e quindi a Milano.
Qui occorre presupporre l'esistenza di un ponte sul
Ticino. Quello di Castelletto Ticino (Palafitte) (Giani - Arista)
o i resti in muratura affiorati durante la piena del 1868.
E' presumibile che tali resti appartengano all'opera di
presa per la costruzione del primo Naviglio (opera che non fu
attuata
forse
per
motivi
di
carattere
tecnico-idraulico
e
abbandonata all'inizio).
I resti di questo canale che fu chiamato allusivamente
Naviglio del Pamperduto (Romussi "Milano nei suoi monumenti") sono
visibili sulla sponda lombarda del Ticino all'altezza di Somma
Lombardo.
Infatti, il Naviglio Grande, tuttora esistente, fu
iniziato il 5 agosto 1179 ed esce dal Ticino sotto Tornavento,
presso la località Ca della Camera (Romussi o.c.).
Per le Gallie da Sesto Calende iniziava una strada che,
per Borgomanero-Romagnano-Gattinara, portava a Vercelli, dove
passavano le vie consolari.
Negli Statuti Novaresi del 1281 (Cap. 399) (Belfanti c.c.)
si parla di una strada proveniente da Novara per le località di
Oleggio e Borgo Ticino.
La strada che per noi riveste una notevole importanza è la
"Via Maior"; partiva da Novara e raggiungeva Oleggio.
Noi, malgrado non ci siano prove tangibili, abbiamo
ricostruito il prolungamento di questa strada che da Oleggio, per
i prati della Raspagna toccava la Cascina Zendone, la Cascina
Dogana, il Maglio e qui deviava per San Giorgio di Pombia, quindi,
per la Cascina Guzzetta risaliva presso la Cascina del Romano
toccava la Paniscera (Pan Cerrus, Cerri del Dio Pan) e di qui
scendeva al guado del Ticino di Porto Torre.
Inoltre essa biforcava sotto la Cascina del Romano e,
passando sotto il Monte, toccava la Valle San Pietro, si spingeva
verso la Cascinetta, raggiungeva la Cascina Curone, toccava il
Lazzaretto, il Martinaccio per poi raggiungere Borgo Ticino.
Come abbiamo già detto questa è una traccia solo
approssimativa della strada, la quale dovrà essere comprovata da
qualche sicura prova in successivi studi.
Si può anche ipotizzare che dalla Cascinetta la pista
scendesse per Dorbiè e Castelletto Ticino.
5-3
I N V A S I O N I B A R B A R I C H E
Verso la fine del V secolo cessa quel periodo di pace e
tranquillità iniziato con l'imperatore Cesare Augusto.
Nel 492-493, infatti, il Novarese, come del resto quasi
tutto il Piemonte, è messo a sacco dai Burgundi di Re Gundobaldo.
Nel 508 Teodorico riesce a ricacciare oltre le Alpi i
Burgundi, i quali però rimangono padroni di molte terre Piemontesi,
già devastate nei decenni precedenti dagli Eruli e dai Goti, dai
Visigoti e dai Vandali.
La proprietà terriera è in sfacelo per le continue guerre
che falcidiano le popolazioni.
Le invasioni barbariche sono respinte a stento e della
grandezza di Roma rimane solo il nome.
Per motivi di carattere politico e soprattutto per ragioni
pratiche l'Impero Romano
è diviso in due parti: l'Orientale, con
capitale Costantinopoli, l'Occidentale con capitale Roma, di fatto
Milano.
A completare questo quadro di desolazione e a provocare il
crollo definitivo della Romanità nel 568 scendono in Italia i
Longobardi, i quali, partiti dalla Pannonia (Ungheria), nel 572
occupano la Pianura Padana.
Il loro dominio in Italia ebbe non breve durata. I
contrasti tra la Chiesa e i Longobardi sfociarono nella chiamata in
Italia dei Franchi che, sotto il comando di Carlo Magno, nel 773 a
Pavia, capitale dei Longobardi, sconfissero Desiderio e provocarono
la definitiva caduta del regno Longobardico.
Le loro usanze e costumi e le leggi di Rotari, Grimoaldo,
Liutprando si osservarono ancora fin verso il 1200.
Scomparso così il regno Longobardico, a esso subentrò il
dominio dei Franchi.
IV
PARTE QUARTA
VARALLO P. E POMBIA NELL’ALTO
MEDIOEVO
1-4
O R I G I N I
O M B I A
D I
P O M B I A
E
D I
V A R A L L O P
Nessuno degli scrittori dell'antichità, da Strabone
(Geographia) a Plinio (Naturalis Historiae) a Tolomeo, parlano di
Pombia né, tanto meno, di Varallo Pombia.
Nemmeno gli itinerari Antoniniani, i vasi Apollinari di
Vicarello Lomellina, la tavola Peutigeriana, ne fanno cenno.
Neppure le lapidi o le casse cinerarie accennano a questi
nomi.
Il nome di Pombia compare per la prima volta nella
"Cosmographia" dell'anonimo Ravennate e, successivamente, nella
"Geographia" di Guido.
I due autori vissero probabilmente nel VII secolo; le
monete longobardiche "Tremissi" di Pombia sono del tempo di
Desiderio (756-774) e recano inciso il nome di Plumbiat-Flavia
(Regia).
Il
nome
di
Varallo
Pombia
compare
in
una
carta
dell'Archivio Capitolare di S. Maria di Novara del 17 giugno 885
(pag. 20, doc. 15° - Raginaldo del fu Repaldo di Pombia,
Arcidiacono e Visdomino della Chiesa di Novara dona, dopo la morte,
alla "Luminaria" di detta Chiesa un campo in Mergozzo; ... Signum
+ Luuoni de Varalo testes; ...)
L'Anonimo Ravennate così si esprime: "Item iuxta supra
scriptam civitatem Eporediam non longe ab Alpe est Civitas que
dicitur Victumula, item Oxilia, Staciona, Magesa, Lebontia,
Bellenica, Bellintiona, Omula, Clavenne, Item ad partem inferiorem
Italiae sunt civitates, idest Plumbia que confinatur ex praedicto
territorio Stacionensis.
Item Vercellis, Novaria, Sibrium, Comum ...".
Il cosmografo Guido dice: "Item ad inferiora sunt
civitates, Plumbea quae confinatur cum territorio paedicto civitas
Stacionensis: item Vercellis, Novaria ... "
Un terzo documento si trova in Monumenta Historiae Patriae
(Codice Diplomatico Longobardico n° 11 in data 5 aprile 745) dove
un Rottoperto accenna a "Pecunia mea quod abeo in finibus
Plumbense".
Il Gabotto nella sua pregevole opera "I Municipi Romani
dell'Italia Occidentale alla morte di Teodosio il Grande", afferma
che nel territorio posto tra il Sesia, le Alpi, il Ticino ed il Po,
nella tarda età dell'impero di Roma, vi erano cinque Municipi
Romani: Laumellum, Novaria, Plumbia, Stationa (presumibilmente
posta ai piedi del Montorfano e distrutta dal terremoto del 1117) e
Oxilia, presso Domodossola.
Questa tesi è accettata da tutti (Ved. gli Atti del Primo
Convegno di Studi sull'Alto Medioevo, pag. 43 e seg.), per cui si
può senz'altro affermare che all'epoca di Teodosio (379-395) Pombia
avesse la dignità Municipale.
Che cosa significhino i nomi di Pombia e di Varallo
Pombia, è problematico. Il Flecchia (Atti R. A. S. Torino, vol. 15)
ne: "I nomi locali d'Italia derivati dal nome delle Piante" fa
derivare il primo dalla parola "Populos" (Pioppo).
Il Massia (B.S.S.N. anno 1918 fascicolo III, pag. 138 e
seguenti) lo ritiene di origine gentilizia e di derivazione
onomastica personale femminile (Plumbia da un maschile Plumbius).
Da scartare l'ipotesi del Rusconi (in "I Conti di Pombia e
Biandrate secondo le carte del Novarese") che fa derivare Pombia da
Pons-bia, cioè strada del ponte.
Quanto a Varallo Pombia il Prof. M. Gramatica in
"Archeologia e Linguistica n° 9, Lombardia antica", formula
l'ipotesi che Var, Uar, di derivazione iberica, stia a significare
sprofondamento vallivo lacustre.
In latino il verbo vallo...are significa fortificare e la
parola vallum sta per vallo, bastione, riparo, argine.
Da ciò si potrebbe anche presumere che Varallo significhi
bastione sullo sprofondamento vallivo del Ticino.
2-4
P O M B I A
N G O B A R D O
D A
M U N I C I P I O
A
D U C A T O
L O
Pombia, come Municipio Romano, doveva avere una notevole
importanza, perché, subentrati in Italia i Longobardi (dal 578 al
774), la trasformarono in ducato nella sua integrità territoriale,
come le altre Circoscrizioni Romane più importanti.
I Ducati Longobardi, nell'epoca che va da Clefi ad Autari
(582 - 590), erano 35 o 36, a seconda che si conteggi o no Milano
(a questo numero corrisponde il numero dei Comitati Franchi), anche
se
Paolo
Diacono
(Storia
dei
Longobardi)
non
li
nomina
esplicitamente.
Che Pombia fosse un Ducato si può dedurre dalla prova
numismatica, le famose Tremissi d'oro di Desiderio recano sul
diritto:
"+ D NS.ESI.D.ER.RX" cioè: "Dominus Noster Desiderius
Rex"; e sul rovescio: "+ FL.APL.UMBIA.TH" cioè: "Plumbia-Flavia"
(Enzo Pellegrini, B.S.S.N. 1952).
Si potrebbe obiettare che le Tremissi non confermino il
Ducato di Pombia, indicandolo solamente prima e durante il regno di
Desiderio come semplice Gastaldato. E qui sta appunto la prova:
infatti, tale non poteva essere Pombia se prima non fosse stato un
Ducato.
Paolo Diacono (o.c.) nomina un solo Duca, Mimulfo di San
Giulio d'Orta fatto decapitare da re Agilulfo per avere tradito in
favore dei Franchi. (His diebus Agilulf Rex occidit Mumulfum ducem
de insula Sancti Iuli(an)i eo quod se superiori tempo re Francorum
ducibus tradidisset).
I cinque Ducati furono poi trasformati in Gastaldati,
ossia posti direttamente sotto il potere regio.
Si può senz'altro presumere che a Pombia si insediasse
allora
un
conservatore
del
luogo,
ossia
un
vicario
in
rappresentanza del re. Non si sa quando i Ducati furono trasformati
in Gastaldati.
3-4
L A
D O M I N A Z I O N E
L O N G O B A R D I C A
I Longobardi, come d'altra parte tutti i barbari, pur
conservando i segni della loro origine, subirono il fascino delle
istituzioni e degli usi e costumi della Romanità, come pure
aderendo
al
cristianesimo,
lasciarono
grandi
monumenti
a
testimonianza di quanto avevano assunto dalla grandezza di Roma;
così il grande Liutprando fece trasportare dalla Sardegna a Pavia
le spoglie di S. Agostino, a perenne ricordo della grandezza della
sua conversione (P. Diacono D.C.).
Il loro regno, però era scosso da continue contese per la
successione, da lotte interne fra ducato e ducato, e da
controversie con la Chiesa.
Se a queste lotte endemiche si aggiunge la misera
condizione della popolazione, il quadro si presenta ben triste,
eccezione fatta per Pavia, loro capitale.
La loro era una debole monarchia (cfr. G. Volpe "Il
Medioevo")
e questo apparve chiaro quando il dissidio col Papato
raggiunse l’acme.
Era in gioco il predominio sull'Italia della Chiesa.
Questa, innestatasi sul tronco romano, ne continuava
l'universalità e non intendeva venirvi a mano.
La grandezza della Roma dei Cesari era stata la base più
consona per la Chiesa universale.
Roma
era
stata
Caput
Mundi
e,
seppure
decaduta
politicamente, non era mai crollata, anzi era stata solamente
rinnovata dall'avvento del Cristianesimo ed era la sola barriera
spirituale, morale e temporale che esistesse contro le barbarie.
Così per la Chiesa il regno Longobardico era un pericolo
mortale: essa, infatti, temeva di vedersi diminuita nel suo potere
sull'Italia.
La conversione dei Longobardi e le grandi donazioni non
valsero a placare l’ostilità della Chiesa.
Comunque stessero le cose, l’invasione Longobardica non è
da considerarsi completamente disastrosa: forse con una Chiesa meno
ostile Romani e Longobardi si sarebbero maggiormente compresi e
fusi.
Infatti, dopo il rilassamento politico-economico dovuto
all’invasione, si ebbe una rinascita in vari campi: diritto,
agricoltura, commercio, arti.
Prova si ha che ancor oggi sull’antico tronco latino si
scorgono gli innesti Longobardi.
4-4 - L A
D O M I N A Z I O N E
F R A N C A
I Franchi di Carlo Magno, chiamati in Italia a difendere
gli interessi del Papato, trassero vantaggi per sé dall'impresa,
perché si insediarono nelle terre dei vinti.
Sconfitti i Longobardi a Pavia (773), Carlo Magno
trasforma in Contee i Ducati e lungo le frontiere crea i Conti di
confine (Mark-Grafen, marchesi).
Pombia appartiene alla Marca di Ivrea.
Ritornano a dominare i Conti e i municipi e le
circoscrizioni si trasformano in Comitati.
Da Carlo Magno furono istituite due autorità feudali: i
Conti, che nelle loro mani avevano il potere assoluto e i Vescovi.
A questi ultimi, in seguito, furono concessi i diritti dei
Conti e si ebbe così i Conti-Vescovi o Visconti.
Gli arbitrii e i soprusi dell'età feudale furono tanto
grandi che si ripercossero fatalmente per secoli.
Il primo Visconte di Pombia si trova nell’ 841 (Ved. Le
più antiche carte dell'archivio di San Gaudenzio di Novara, doc.
1°: "Maginardo, Visconte di Pombia, dona alla Chiesa di San
Gaudenzio un podere in Garbagna (giugno 841) " "... ego Maginardo
ex genere Francorum Vice Comes Plumbiense abitator in loco
Casaliglo ...").
Un successivo documento del 16 aprile 867 (n° 243, cod.
dip. lang.)
porta: "Gnerulfus ministeriali domni Imperatori di
legge salica, per mezzo del giudice Pietro del fu Paolo, e del suo
vassallo Ercembaldo, stabilisce di elargire in elemosina i beni da
lui posseduti: "... tam in Valetelina iudicairia Mediolanensis et
in Casale iudiciaria Plumbiensis".
Essendo il termine "iudiciaria" una dizione longobardica
per le località che avevano una propria giurisdizione, è
accreditata da questo documento l'ipotesi
dell'esistenza del Ducato di Pombia (Gabotto "Per la
storia Novarese nell'Alto Medioevo - Ducati e Comitati", B.S.S.N.
1917 n° 1-2).
Tale termine fu poi usato nel periodo Franco per le Contee
rurali.
In un'altra carta, già da noi menzionata, troviamo: “(177-885) Raginaldus Archidiaconus e Vicedominus sancte novariensis
ecclesie, figli bone memorie Rapaldi de castro Plumbiae" dona alla
Luminaria della Chiesa di Novara un campo in Mergozzo.
Fra i testimoni figura "Madalberti qui beto vocatur filio
Ioannemperti de Plumbia - Luoni de Uuaralo".
Il re Berengario dà a Leone, Visdomino della Chiesa di
Novara, fra il 911 e il 915 la facoltà di costruire castelli in
propriis suis rebus finibus Plumbiensis Comitatus, in vocabulis
villulis in sunt Peronate, Terdoblade, Cammari ed Galliade; nello
stesso periodo dona alla Chiesa di S. Maria "mansos duos in villa
Nebbiola actenus pertinentes de Comitato Plumbiense, cum omni eorum
integritate" (Gabotto o.c.).
Successivamente nell'Aprile del 942, tale Arnaldo di
Biulaco lascia per testamento alla Chiesa di S. Maria al monte
sopra Varese, proprietà "in vico et fundo Cassiate Comitatum
Plumbiense" (Cod. Dip. Lang. Doc. 567).
Da queste carte si ha notizia diretta che fra il 911 e il
915 Pombia è già sede di Comitato, ma non compare sino ad ora
nessun Conte di Pombia.
Nel documento 70 delle Carte dell'Archivio Capitolare di
S. Maria in Novara, troviamo tal Elgerico del fu Manginardo, Conte,
che vende a Uberto, Vescovo di Parma, la metà di un suo castello
"in Comitato Plombiensis locus quae dicitur Meecia".
TAV. IV - AGRO NOVARESE NEL MEDIO EVO
Carta ricopiata dalla carta geografica del Giulini
“ Ager Mediolanensis Aevi”.
PARTE QUINTA
contenuta
in
V
SOMMARIO DI STORIA GENERALE
ITALIANA
1-5 S M E M B R A M E N T O
E R O
D E L S A C R O
R O M A N O
I M P
Per meglio inquadrare questo periodo e i successivi
occorre, a nostro avviso, dare un breve ragguaglio della storia
generale italiana.
Carlo Magno, sconfitti i Longobardi, divenuto signore
d'Italia,
assoggettati
Sassoni,
Bavari,
Longobardi
e
Slavi
ripristinò in parte l'Impero Romano d'occidente.
I suoi successori non riuscirono a conservare tale opera e
con la morte di Carlo il Grosso (888) l'impero si smembrò.
I tedeschi proclamarono re Arnolfo, duca di Carinzia, i
feudatari Italiani elessero re Berengario, duca del Friuli, il cui
dominio era limitato ai precedenti Ducati Longobardi.
Il suo regno è tribolato: la Chiesa tenta di far cingere
la corona al duca di Carinzia ma Berengario riesce a mantenerla
finché non è ucciso a tradimento a Verona nel 924.
Allora i feudatari eleggono re Ugo di Provenza, il quale,
ritirandosi dopo qualche anno, lascia come erede il figlio Lotario,
sotto la tutela di Berengario II, Marchese d'Ivrea.
Morto precocemente Lotario, Berengario II rimane l'unico
sovrano (950). A questi si associa il figlio Adalberto, cui
Berengario vorrebbe dare in sposa la vedova di Lotario, Adelaide,
che rifiutatasi e fatta prigioniera, riesce a fuggire e a chiedere
aiuto al re di Germania Ottone I.
Ottone scende in Italia, si porta a Pavia, dove sposa
Adelaide e con essa torna in Germania.
Berengario, che è fuggito d'innanzi a Ottone, tenta un
accordo dichiarandosi vassallo del tedesco.
I feudatari Italiani richiamano di nuovo Ottone che nel
961 rientra in Italia e a Pavia si fa proclamare re d'Italia.
A Pombia il 6-9-957, moriva forse di veleno Liutulfo,
figlio di Ottone, che era sceso in Italia a combattere Berengario
II (il Bascapè nell'opera "Novaria Sacra", ed. 1878, tradotta dal
Ravizza, ricorda che nel castello di Pombia c'era un sarcofago con
l'iscrizione: LITULPHUS), dopo averlo assediato e scacciato
dall'isola di San Giulio d'Orta.
Berengario fuggì nella rocca di San Leo presso Urbino,
mentre la moglie, al sopraggiungere di Ottone, si rinchiudeva
nuovamente nell'isola si San Giulio d'Orta, ripresa, nel frattempo
dai partigiani di Berengario II. Nel 962 Ottone assedia l'isola, la
coraggiosa regina Willa gli resiste per ben settanta giorni, poi si
arrende ed è lasciata libera di raggiungere il marito che nel
frattempo si era rifugiato a Monte Feltro.
La lotta tra Berengario II da una parte e la chiesa con i
vescovi dall'altra aveva fatto sì che questi perdessero privilegi e
terre che in seguito Ottone I restituiva loro.
A Ottone I successe il figlio Ottone II (973-983) morto
giovane lasciando come successore Ottone III, morto a soli ventidue
anni.
L'improvvisa scomparsa del terzo Ottone offerse ai
feudatari Italiani la possibilità di una rivincita rivendicando
l'indipendenza del regno d'Italia.
Venne così eletto re d'Italia Arduino, Marchese d'Ivrea,
nell'anno 1004.
Questi era già molto noto per le sue lotte con i Vescovi
piemontesi.
L'Imperatore di Germania, Enrico II, chiamato dai Vescovi
calò in Italia costringendo Arduino, abbandonato da tutti nei
momenti di bisogno, a ritirarsi nei suoi feudi e si fece incoronare
a Pavia re d'Italia.
Ripartito Enrico II, egli riprese il potere per un
decennio (1004-1O14).
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