Vincenzo Pappalardo
ANASSIMANDRO!
LA PRIMA GRANDE
RIVOLUZIONE SCIENTIFICA
Vincenzo(Pappalardo(
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ANASSIMANDRO
LA PRIMA GRANDE
RIVOLUZIONE SCIENTIFICA
Copyright © 2015 di Vincenzo Pappalardo
Tutti i diritti sono riservati
Il presente libro “Anassimandro: la prima grande rivoluzione scientifica” può essere
copiato, fotocopiato, a patto che il presente avviso non venga alterato, e che la
proprietà del documento rimanga di Vincenzo Pappalardo. Il presente documento è
pubblicato sul sito: www.liceoweb.it
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INDICE(
4
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Introduzione
CAPITOLO 1 - IL MONDO ANTICO
Mito e scienza – Le cosmogonie - Le più antiche civiltà
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CAPITOLO 2 - IL MONDO GRECO
Caratteri della società greca – La physis – La concezione classica della scienza
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CAPITOLO 3 – ANASSIMANDRO: La prima grande rivoluzione scientifica
La scuola di Mileto – Talete – Anassimene – Apeiron: principio e interpretazione di tutte
le cose – La grande rivoluzione concettuale di Anassimandro
28
Conclusioni
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Bibliografia
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Introduzione(
La scienza è puro interesse culturale, è desiderio di sapere, è conoscenza,
metodo, è pensiero scientifico.
Essa serve unicamente a soddisfare la curiosità
innata nell’uomo, da sempre, di conoscere l’ambiente che lo circonda e sé stesso. La
scienza
è
un
continuo
ridisegnare
il
mondo
e
il
pensiero
scientifico
è
un’appassionata esplorazione di modi sempre nuovi di ripensare il mondo. La
forza del pensiero scientifico non consiste nelle certezze raggiunte, anzi è nella
sua continua ribellione al sapere del presente e a tutte quelle certezze che
appaiono ovvie. La ricerca della conoscenza non si nutre di certezze, ma di una
radicale mancanza di certezze. L’ignoranza come molla per sovvertire l’ordine
delle cose e ripensare continuamente il mondo. La scienza nasce da ciò che non
sappiamo e dalla messa in discussione di ciò che crediamo di sapere. La natura del
pensiero scientifico è critica, ribelle, insofferente a ogni concezione a priori, a ogni
riverenza, a ogni verità intoccabile. La scienza, quindi, è soprattutto esplorazione
continua di nuove forme di pensiero. Ma se il sapere scientifico cambia
continuamente, perché dobbiamo ritenerlo affidabile e credibile? Perché a ogni
dato momento della storia, la descrizione del mondo che abbiamo è la migliore. Le
risposte scientifiche non sono mai definitive, sono semplicemente le migliori
risposte di cui disponiamo. La credibilità della scienza poggia sulla certezza che
nulla è definitivo.
Da queste considerazioni, possiamo considerare Anassimandro il primo
grande pensatore che offre una nuova visione del mondo. Il precursore di
Copernico, Galileo, Newton, Einstein. L’artefice della prima grande rivoluzione
scientifica della storia dell’uomo.
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CAPITOLO(1(
IL#MONDO#ANTICO#
1.1 Mito e scienza
Per spiegare i fenomeni naturali l’uomo, prima che alla ragione e
all’osservazione, fece ricorso alla fantasia, e si formarono così interessantissimi
miti intorno all’origine del mondo, al destino dei mortali, alle grandi forze
dominanti lo sviluppo degli eventi. Il mito (dal greco mythéo che significa io
racconto o narro) rappresenta il primo tentativo, nella lunga storia della ricerca
umana, di elaborazione della realtà. Attraverso il mito, infatti, l'uomo, in primo
luogo, dà il nome alle cose, vincendo in tal modo il sentimento di paura
primordiale, e, poi, costruisce delle narrazioni fantastiche che intendono spiegare
come si sono formati il mondo e le divinità. Il mito è una difesa di fronte alla
minacciosa presenza delle forze occulte della natura e con esso l'uomo procede a
dare un nome al mondo e ad illuminarlo, e a mettere ordine nel caos. Prima che
la scienza prendesse esplicitamente avvio, l'arte e la religione greca avevano già
abbozzato alcune riflessioni generali sull'uomo e sul mondo. Ciò avvenne
soprattutto nelle cosmologie mitiche, che cercavano di narrare l'origine del mondo
a partire dal caos primitivo. Questi racconti sono definiti mitici, in quanto
ricorrono a spiegazioni fantastiche. Essi, però, non devono essere considerati
come qualcosa di primitivo, in quanto la forma letteraria del mito, che sul piano
artistico attinge a vette elevatissime, è già una elaborazione della realtà. Il mito,
dunque, anche se non possiede l'universalità e la lucidità dell'affermazione
teorica, non va considerato come un complesso di falsità e quindi un ostacolo alla
conquista del vero. Al contrario esso ha avuto una funzione molto positiva: ha
educato l'uomo a non fermarsi ai semplici fatti nella loro molteplicità disorganica,
ma a considerarli connessi l'uno all'altro, cercando i principi di ciò che accade
intorno a noi, e, attraverso i principi, i mezzi per agire sulla natura onde
trasformarla a vantaggio dell'umanità.
Tra mito e scienza non c'è, pertanto, opposizione, in quanto entrambi sono
attività del pensiero umano tendenti a rispondere al perché del mondo, ma un
comune sentimento di stupore e la comune volontà di dare un senso ai fenomeni
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della natura: dai corpi celesti ai fenomeni atmosferici, dall'alternarsi delle stagioni
all'origine stessa degli uomini e delle divinità. La differenza principale tra mito e
scienza riguarda, piuttosto, il metodo con cui essi ricercano la verità delle cose. Il
mito si serve della narrazione fantastica e non si cura di accertare la validità dei
propri enunciati; la scienza, invece, fa del metodo scientifico, ossia della verifica
delle proprie ipotesi attraverso opportune misure quantitative, lo strumento
essenziale della propria ricerca.
1.2 Le cosmogonie
I primordi della scienza si confondono con la sapienza mitica espressa
soprattutto nelle cosmogonie. La cosmogonia (da kosmos=universo e
ghighnomai=io genero) è la spiegazione mitica dell'origine e della formazione del
mondo e tutti i popoli e le civiltà hanno formulato dei miti cosmogonici. Alcuni dei
miti cosmogonici più antichi si estendono a tutto l'oriente mediterraneo.
L'elemento primordiale sarebbe quasi ovunque un caos fluido (si pensi alla
spontanea fertilità dell'elemento acquoso che produce la vita nelle valli del Nilo,
del Tigri e dell'Eufrate), ed, emersa da esso, una Grande Madre avrebbe dato
inizio alla creazione del mondo e degli dèi. E' presente in questo mito il concetto,
che suggerirà a volte forme di religiosità panteistica, di unità dell'universo in
quanto originato da una materia unica. Ma il binomio Grande Madre-caos fu
interpretato anche come dualistica opposizione tra forza della vita e della morte,
della fecondazione e della sterilità, della luce e delle tenebre, dell'amore e
dell'odio.
Il più antico documento della cosmogonia presso i Greci è la Teogonia di
Esiodo (VIII sec. a.C.; VII sec. a.C.), il quale, fu probabilmente il primo a cercare
un principio delle cose quando disse che all'inizio ci fu «Caos», poi venne la terra
«dall'ampio seno» e quindi l'amore «che eccelle tra gli dei immortali». Egli vuole
rispondere alla domanda fondamentale che gli sta a cuore, e cioè: come il mondo
è divenuto quello che è. Per rispondere a tale questione un poeta dell'VIII secolo
a.C., come Esiodo, non poteva fare a meno di immaginare un complesso di atti e
di interventi divini che dessero ragione dell'esistenza e della forma di cui si
compone la realtà. In questa primitiva ricerca il mondo umano e quello divino si
trovano strettamente legati l'uno all'altro, e la cosmogonia si trasforma, dunque,
in teogonia: attraverso la narrazione delle generazioni degli dèi, l'autore allude al
multiforme divenire della realtà. Esiodo, per poter spiegare l'ordine che governa il
mondo, non fa altro che narrare i rapporti genealogici tra i vari dèi, che del
kosmos (=ordine) sono i garanti. Ed è significativo che nella Teogonia il ruolo della
coppia divina primigenia, che è all'origine di tutto, sia attribuito a Gaia (la terra) e
Urano (il cielo). Infatti, dovendo rappresentare l'ordine del mondo fisico attraverso
le gerarchie divine, Esiodo pone all'origine di tutte le generazioni una coppia che è
la personificazione stessa dell'universo fisico, la terra e il cielo.
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La Teogonia di Esiodo presenta alcune significative analogie con alcuni miti
cosmogonici del vicino Oriente. L'origine dell'universo da una coppia divina si
ritrova anche nella mitologia egizia, che propone vari racconti della creazione.
Un'idea ricorrente nei miti cosmogonici egizi è che la vita derivò dalle acque dello
"smisurato abisso". All'origine di questi miti c'era indubbiamente l'osservazione
che le terre inondate dal fertile limo del Nilo erano promesse di nuova vita per un
nuovo anno agricolo.
Presso i Babilonesi la creazione di un universo ordinato venne attribuita
alla vittoria di Marduk, il dio babilonese per eccellenza, su Tiamat, la divinità del
caos. Ancora una volta all'origine della creazione troviamo, come nella Teogonia di
Esiodo, una battaglia titanica tra forze divine opposte, un dramma cosmico tra il
caos e l'intelligenza ordinatrice. In questo mito si cela, forse, la lotta dell'uomo
primitivo contro le periodiche inondazioni della Mesopotamia, interpretata come
conflitto primordiale tra le forze del caos e quelle dell'ordine che producono la
vita.
Contemporaneamente alle credenze
religiose politeistiche del resto del bacino
mediterraneo si sviluppò nel popolo
ebraico, soprattutto per merito di Mosè,
una fede intransigentemente monoteistica.
Secondo la cosmogonia ebraica dio è
creatore di tutte le cose, ed il mondo che
può apparire ingiusto e malvagio ha in
realtà una sua profonda moralità e tende
ad un alto fine religioso.
1.3 Le più antiche civiltà
L’uomo ha sempre cercato di controllare e dominare la natura attraverso
l’invenzione di tecnologie sempre più avanzate; gradualmente ha poi provato a
comprenderla. Solo molto tempo dopo ha imparato a combinare i due desideri,
dando forma alla scienza moderna. Ma lo sviluppo della scienza moderna poggia
sulla curiosità e l’interesse di molti secoli nei quali le tecniche per esplorare la
natura sono state sviluppate lentamente, e la conoscenza lentamente
accumulata.
La tecnologia primitiva, oltre al mito, fu il mezzo attraverso cui l’uomo cercò
di sottomettere la natura. Basterebbero le imponenti rovine dei monumenti nel
Mediterraneo orientale per darci un’idea dello sviluppo fra quei popoli della
tecnica. Man mano che al bronzo si sostituiva il ferro, più economico e
funzionale, fonderie e miniere passavano dal livello artigianale a quello di piccole
manifatture, data la tecnica più complessa richiesta dalla nuova lavorazione. Non
si deve tuttavia pensare che la tecnica, prodotto di osservazione razionale e di
sperimentazione ripetuta, abbia potuto svilupparsi senza che un profondo
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impulso fosse dato pure alla scienza. Strumento della scienza in quest’epoca fu
anzitutto la scrittura, che, originariamente geroglifica, venne sostituita dalle più
funzionali scritture fonetiche, sillabica (miceneo) e alfabetica (forse di invezione
fenicia). La scrittura permise l’approfondimento delle prime conoscenze ed
osservazioni, si scrissero i primi libri e si fondarono le prime biblioteche nei
templi e palazzi reali.
Quindi, se vogliamo individuare il luogo in cui collocare le origini della
scienza moderna, questo è la Mesopotamia, dove intorno al 4000 a. C. si sviluppò
una fiorente civiltà, quella dei Sumeri prima e dopo quella dei Babilonesi. In
quanto popolo di commercianti, si interessarono di numeri. Svilupparono un
sistema sessagesimale, possedevano tavole di moltiplicazioni di grande
complessità, e anche tavole che fornivano la soluzione di problemi che oggi
risolviamo facilmente attraverso l’uso delle equazioni. Pertanto erano in grado di
risolvere equazioni complesse ma sempre in termini numerici, poiché non
possedevano la nozione di generalità. Nonostante la presenza di una grande
quantità di dati, conosciamo poco sul pensiero dei matematici babilonesi e
soprattutto sulla presenza di una struttura teorica sottostante.
La situazione nella vicina civiltà dell’Egitto era comparabile con quella del
bacino mesopotamico. Nonostante le colossali costruzioni di tombe e monumenti,
come le piramidi, la geometria egiziana era molto elementare, ed al pari di quella
babilonese, aveva uno scopo prettamente pratico e non teorico.
Anche se alcune fondamentali nozioni scientifiche, come la concatenazione
di causa ed effetto, furono conquista già della tecnica più primitiva, e nonostante
l’uso magistrale delle più sofisticate tecniche, sia gli egizi che i babilonesi
mancarono di curiosità nel comprendere perché queste tecniche funzionassero. In
nessuna fase cominciarono a speculare sulla natura, a costruire un sistema di
pensiero, e cercarono per i più appariscenti fenomeni, come il moto delle stelle o
dei pianeti, le fasi della luna o le eclissi, spiegazioni mitologiche. La civiltà
mesopotamica ed egiziana influenzarono i greci, loro successori, tecnicamente ma
non concettualmente.
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CAPITOLO(2(
IL#MONDO#GRECO#
2.1 Caratteri della società greca
I Greci, e primi fra essi gli ionici dell’Asia Minore, oltre a una vastità di dati
empirici, soprattutto astronomici, ereditarono il furore matematico dei popoli
mesopotamici e la tecnica geometrica degli egiziani. L’eredità venne accolta da
spiriti nuovi che tendevano al raziocinio più che all’osservazione minuta, alla
speculazione filosofica sull’origine e sui principi di tutte le cose più che al
semplice computo. È vero che le convinzioni religiose che avevano animato
l’indagine scientifica nell’Oriente non vennero meno neanche durante il periodo
della fioritura della scienza greca, solo che adesso sorgono degli accesi contrasti
di idee le cui conseguenze risulteranno fondamentali per lo sviluppo della scienza
nel mondo occidentale.
La scienza dei Greci che si venne delineando attraverso un lento e faticoso
processo di ricerca tra i secoli VI e V a.C., non si deve intendere come separata
dalla filosofia né dalle tecniche, che proprio in quei secoli acquistavano grande
importanza. Il termine greco téchne (tecnica), infatti, comprendeva fra i suoi
significati non solo quello di arte della manipolazione del mondo fisico, ma anche
della sua conoscenza (scienza, nel nostro linguaggio odierno). Inoltre, l'arte o
téchne era vista in funzione dell'utilità e del beneficio che poteva assicurare
all'uomo. Nel concetto greco di téchne sono, dunque, contenute sia l'idea della
conoscenza o epistème che quella dell'abilità pratica nella produzione di un oggetto.
Nella società greca arcaica, almeno fino a Platone, il sapere non si presenta
parcellizzato in tanti compartimenti stagni; pertanto, colui che aveva conoscenza
profonda delle cose, padroneggiava contemporaneamente anche l'arte del fare, era
cioè esperto nell'utilizzo tecnico di esse. Significativo, a tal proposito, il seguente
aneddoto che Aristotele ci tramanda su Talete e che evidenzia la stretta
interazione tra conoscenza, téchne e utilità per l'uomo. Si diceva - ci riferisce
Aristotele - che la gente rinfacciasse a Talete l'inutilità del suo sapere, dal
momento che egli era povero. Ma Talete, avendo previsto, in base ai suoi calcoli
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astronomici, un abbondante raccolto di olive, ancora in pieno inverno si
accaparrò tutti i frantoi di Mileto e di Chio, pagandoli a prezzo irrisorio, dal
momento che non ce n'era richiesta alcuna. Quando giunse il tempo della
raccolta, poiché erano molti a ricercare i frantoi, egli li noleggiò al prezzo che volle
e così, ricavatene molte ricchezze, dimostrò che per i sapienti era facile
arricchirsi, anche se non era questo il loro obiettivo. L'aneddoto mette in risalto
come la scienza, lungi dall'essere inutile, poteva essere fonte di arricchimento,
anche se non a questo badavano principalmente i primi filosofi.
Lo sforzo di descrizione, di
coordinazione, di spiegazione e di
previsione dei fenomeni naturali,
primo nucleo attorno al quale nel
corso dei secoli si formerà la
fisica (dal greco physis=natura),
cominciò dunque in Grecia nel VI
secolo a.C., favorito dall’ambiente
politico-sociale-culturale e da un
linguaggio già affinato da una
lunga tradizione letteraria. Però
quando si parla della Grecia
antica, non dobbiamo pensare
soltanto alla penisola che costituisce oggi lo stato greco, bensì a tutto il bacino del
Mar Egeo e dello Ionio, comprendente da un lato le coste dell’Asia Minore, e
dall’altro quelle della Sicilia e dell’Italia Meridionale, colonizzate dai Greci.
L’evoluzione della scienza greca si suole dividere in quattro periodi:
1. l’età ellenica (dal 600 al 300 a.C.), che corrisponde allo sviluppo libero delle
città greche;
2. l’età ellenistica (dal 300 all’inizio dell’era volgare), che riguarda
l’ellenizzazione di tutto il mondo orientale;
3. l’età greco-romana, che occupa i primi tre secoli dell’era volgare;
4. il periodo dei commentatori o della decadenza (dal 300 al 600 d.C.), che
non reca ulteriore sviluppo scientifico, ma solo una riduzione dell’antico
materiale, nella forma di riferimenti e di notizie.
L‘idea che si potesse comprendere la natura in modo razionale nasce,
perciò, nelle luminose città greche. La nascente civiltà greca è profondamente
diversa da quella mesopotamica ed egiziana, che sono ordinate, stabili e
gerarchiche. Il potere è centralizzato e la civiltà si regge sulla conservazione
dell’ordine stabilito. Il giovane mondo greco, al contrario, è dinamico, in
evoluzione continua. E’ apertissimo ad assorbire quanto può dalle civiltà vicine.
Non vi è potere centrale e ogni città è indipendente e, all’interno di esse, il potere
è rinegoziato in continuazione fra i cittadini. Le leggi non sono né sacre né
immutabili, ma, al contrario, sono continuamente discusse, sperimentate e messe
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alla prova. L’autorità è soprattutto di chi è in grado di convincere gli altri,
attraverso il dialogo e la discussione. In questo clima culturale profondamente
nuovo nella storia del mondo, nasce un’idea nuova della politica: la democrazia. E
le basi su cui poggia la democrazia delle giovani città greche sono le stesse della
ricerca scientifica del sapere. E nasce un’idea nuova della conoscenza: la
conoscenza razionale. Questa è una conoscenza dinamica, che evolve, che è
continuamente discussa e messa alla prova. L’autorità del sapere viene
soprattutto dalla capacità di convincere gli altri della giustezza delle proprie
affermazioni e non dalla tradizione, dal potere, dalla forza o dall’appello a verità
immutabili. La critica alle idee acquisite non è temuta; al contrario, è auspicata: è
la sorgente stessa del dinamismo, della forza di questo pensiero.
Questo nuovo metodo d’indagine avvicina la scienza greca alla nostra. I
Greci, staccandosi decisamente dalle pratiche magiche e sottoponendo a severa
critica ogni ricorso alle spiegazioni mitiche dei fenomeni naturali, tracciarono per
primi la via (il metodo) della ricerca scientifica, consistente soprattutto nel
congiungere l'esperienza e il ragionamento, i dati sensibili ottenuti tramite
l'attenta osservazione dei fenomeni e la sistemazione teorica.
2.2 La physis
Aristotele chiama "fisici" e "fisiologi" i primi pensatori greci. Nel suo
linguaggio, la "fisica" (cioè la scienza studiata dai "fisici” ) ha come oggetto quella
parte del Tutto che è la realtà diveniente (sia essa realtà corporea, o biologica, o
psichica), oltre la quale esiste la realtà immutabile di Dio. La "fisica" aristotelica
(e, a maggior ragione, la fisica moderna) non è scienza del Tutto. Anche se questa
interpretazione di Aristotele della nascita della filosofia è spiegabile in relazione al
modo in cui si configura la filosofia aristotelica, tuttavia il rendersi conto che nei
primi pensatori greci la cura della verità è insieme un rivolgersi al Tutto, richiede
che non si possa accettare la tesi aristotelica secondo la quale la filosofia al suo
inizio è semplicemente una "fisica". Poiché la parola "metafisica" sarà usata, nel
linguaggio filosofico successivo, per indicare il rivolgersi della filosofia al Tutto,
oltrepassando il sapere limitato al mondo fisico, è più aderente alla situazione
reale dire che i primi pensatori greci sono dei “metafisici” e anzi i primi metafisici.
Questo, qualora la parola "metafisica” (usata inizialmente da Andronico, editore
delle opere di Aristotele, nel I secolo a.C., per indicare gli scritti che, nell'edizione,
venivano "dopo" quelli destinati alla fisica) sia appunto intesa come il rivolgersi al
Tutto, andando oltre quella dimensione particolare del Tutto che è costituita dalla
realtà diveniente.
Il termine "fisica" è costruito sulla parola physis, che i latini hanno tradotto
con "natura". Se si sta alla definizione aristotelica di "fisica"- dove physis appunto
è la realtà diveniente - allora tradurre physis con “natura” è del tutto legittimo,
perché nel termine latino natura risuona innanzitutto il verbo nascor ("nasco",
"sono generato"), si che la "natura" è appunto il regno degli esseri che nascono (e
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quindi muoiono), ossia di ciò che, appunto, diviene. Ma quando i primi filosofi
pronunciano la parola physis, essi non la sentono come indicante semplicemente
quella parte del Tutto che è il mondo diveniente. Anche perché è la parola stessa
a mostrare un senso più originario, che sta al fondamento di quello presente ad
Aristotele. Physis è costruita sulla radice indoeuropea bhu, che significa “essere”,
e la radice bhu è strettamente legata (anche se non esclusivamente, ma
innanzitutto) alla radice bha, che significa "luce" (la parola saphes). Nascendo, la
filosofia è insieme il comparire di un nuovo linguaggio, ma questo linguaggio
nuovo parla con le parole vecchie della lingua greca e soprattutto con quelle che
sembrano più disponibili ad essere dette in modo nuovo. Già da sola, la vecchia
parola physis significa “essere” e “luce” e cioè l’essere, nel suo illuminarsi.
Quando i primi filosofi chiamano physis ciò che essi pensano, non si rivolgono a
una parte o a un aspetto dell'essere, ma all'essere stesso, in quanto esso è il
Tutto che avvolge ogni parte e ogni aspetto; e non si rivolgono all'essere, in
quanto esso si nasconde e si sottrae alla conoscenza, ma all'essere che si
illumina, che appare, si mostra e che in questa sua luminosità è assolutamente
innegabile. In questo rivolgersi alla physis, cioè al Tutto che si mostra, la filosofia
riesce a vedere il Tutto nel suo esser libero dai veli del mito, ossia dai tratti
alteranti che questo velamento conferisce al volto del Tutto. Per la filosofia,
liberare il Tutto dal mito significa che il Tutto non è ciò che resta suscitato dalla
forza inventiva del mito, bensì è ciò che da sé è capace di mostrarsi e di imporsi,
proprio perché riesce a mantenersi manifesto e presente. E il Tutto non mostra di
contenere ciò che il mito racconta (le teogonie e le vicende degli dèi e del loro
rapporto con gli uomini), bensì mostra il cielo stellato e il sole e la terra e l'aria, e
l'acqua, e tante altre cose ancora, che il filosofo si trova davanti e si propone di
penetrare e comprendere. La filosofia (la "cura per il luminoso") si presenta sin
dall'inizio come il lasciar apparire tutto ciò che è capace di rendersi manifesto e
che pertanto si impone (e non è imposto dalla fantasia mitica), ossia è verità
incontrovertibile: physis.
L’affermazione di Aristotele che la scienza dei primi pensatori è una "fisica"
può essere espressa anche dicendo che tale scienza è una "cosmologia", cioè una
scienza del "cosmo". Si è già accennato che, come la parola chàos, anche la parola
kòsmos ha un significato originario che illumina il senso della presenza di tale
parola nel più antico linguaggio filosofico. Quando si intende kòsmos come
"ordine" e "cosmo" (cioè mondo ordinato, in contrapposizione al disordine del
chàos), ci si trova già oltre quel significato originario. Anche qui è la radice
indoeuropea di kòsmos a dare l'indicazione più importante. Tale radice è kens.
Essa si ritrova anche nel latino censeo, che, nel suo significato pregnante,
significa "annunzio con autorità": l'annunziare qualcosa che non può essere
smentito, il dire qualcosa che si impone. Ci si avvicina al significato originario di
kòsmos, se si traduce questa parola con "ciò che annunziandosi si impone con
autorità". Anche l'annunziarsi è un modo di rendersi luminoso. Nel suo
linguaggio più antico, la filosofia indica con la parola kòsmos quello stesso che
(((((( 13(
essa indica con la parola physis: il Tutto, che nel suo apparire è la verità
innegabile e indubitabile.
Si può così comprendere perché la filosofia non abbia tardato a chiamare se
stessa epistéme. Se noi traduciamo questa parola con "scienza", trascuriamo che
essa significa, alla lettera, lo "stare" (stéme) che si impone "su" (epì) tutto ciò che
pretende negare ciò che "sta": lo "stare" che è proprio del sapere innegabile e
indubitabile è che per questa sua innegabilità e indubitabilità si impone "su" ogni
avversario che pretenda negarlo o metterlo in dubbio. Il contenuto di ciò che la
filosofia non tarda a chiamare epistéme è appunto ciò che i primi pensatori (ad
esempio Pitagora ed Eraclito) chiamano kòsmos e physis.
Come la fisica moderna (ma già la "fisica" aristotelica) non ha più a che fare
col senso della physis alla quale pensano i primi filosofi - appunto perché la
scienza moderna procede dall'assunto metodico di isolare dal suo contesto quella
parte della realtà che essa intende studiare e controllare - così l'epistéme alla
quale si riferisce la moderna epistemologia non ha a che fare col senso filosofico
dell'epistéme. L’epistemologia è la riflessione critica sulla scienza moderna, ossia
su quel tipo di conoscenza che ha progressivamente rinunciato a porsi come
verità incontrovertibile e si propone come conoscenza ipotetica provvisoriamente
confermata dall'esperienza e in grado di operare la trasformazione del mondo più
radicale che l'uomo sia mai riuscito a realizzare. E questi sono indubbiamente
elementi dell'aspetto per il quale, nella derivazione della scienza dalla filosofia, il
parto è un distacco traumatico e doloroso. Questo distacco della scienza dalla
filosofia è già in qualche modo preannunciato dal significato complesso di physis,
che se nei sui strati più profondi significa l'illuminarsi, l'apparire dell’essere, esso
include però anche il senso del nascere e del crescere. Si può supporre che al
significato originario di physis tenga dietro quello derivato, perché vi sono dei
modi specifici secondo cui le cose giungono a rendersi manifeste: il nascere
ricorrente del sole e della luna, il nascere degli uomini e degli animali, lo
spuntare, crescere, sbocciare, fiorire delle piante. Quando non si presta più
attenzione al fatto che, attraverso questi modi, le cose giungono a rendersi
manifeste e ad imporsi, e si presta invece attenzione ai modi specifici che
preparano il loro ingresso nell'apparire, allora la parola physis viene usata - come
appunto accade in Aristotele - per indicare soltanto l'insieme degli enti costituiti
da questi modi, e cioè l'insieme dei vari tipi di sviluppo, ossia quella regione
particolare dell'essere che è la realtà diveniente.
2.3 La concezione classica della scienza
Non è difficile riconoscere che i Babilonesi possedevano un numero
rispettabile di conoscenze astronomiche e matematiche, che avevano permesso
loro di costruire calendari molto precisi e di apprestare regole di computo corrette
per numerosi problemi concreti, e lo stesso si deve ripetere per gli antichi Egizi,
per i Maya, Aztechi o i Cinesi. Le straordinarie realizzazioni architettoniche di tali
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civiltà del passato, ottenute con mezzi materiali assai rudimentali,
presuppongono una genialità ingegneristica e la capacità di dominare e
combinare tante conoscenze anche astratte. Queste considerazioni, seppur
corrette, non tengono conto di un aspetto fondamentale della scienza quale noi la
intendiamo e conosciamo, quello della sua costruzione teorica, che si aggiunge
alla componente della constatazione di fatto e permette poi di spingere la
conoscenza molto al di là di quanto è semplicemente constatabile. E proprio su
questo punto che la civiltà greca ha introdotto quella rivoluzione nel modo di
intendere e fare scienza, ossia nell’aver elaborato un nuovo e originale modello del
sapere. Tale modello può essere brevemente schematizzato così: quando
aspiriamo a conoscere nel modo più pieno e adeguato una certa realtà, non
possiamo limitarci ad appurare che essa esiste e a descrivere accuratamente
come è fatta, ma dobbiamo anche cercare di comprendere perché esiste ed è fatta
così come ci appare. Per raggiungere questo ulteriore obiettivo non è più
sufficiente attenerci a quanto ci fornisce l'esperienza immediata delle cose, ma
dobbiamo far intervenire la ragione, la quale in qualche modo chiarisce che
quanto constatiamo non è casuale, bensì rientra in un quadro generale entro cui
risulta spiegabile. L'esigenza di comprendere e spiegare è connaturata all'uomo
ed è conseguenza del suo essere un "animale ragionevole"; pertanto tutte le civiltà
hanno cercato di soddisfarla, di solito producendo, come abbiamo visto per le
antiche civiltà, miti cosmogonici o proponendo concezioni animistiche di singole
realtà o eventi. Ciò che, invece, incomincia a manifestarsi nel mondo greco a
partire dal VI secolo a.C. è l'esigenza di rendere esplicite le ragioni attraverso una
dimostrazione, la quale sia capace di rifarsi a principi universali e non più a
raffigurazioni o storie singole, per lo più soltanto immaginate. In tal modo la
spiegazione dei modi di apparire delle cose fu ricercata nel che cosa esse sono,
cioè nella loro natura o essenza, e nelle cause che le pongono in essere. Venivano
così poste esplicitamente a tema, accanto alle esigenze dell'empiria, anche quelle
del logos.
In questa ricerca di ragioni generali al posto di spiegazioni ad hoc escogitate
caso per caso, e di un metodo dimostrativo per stabilirle, possiamo riconoscere i
tratti distintivi che separano il sapere prescientifico da quello scientifico. Pertanto
possiamo osservare che (come già si è detto) Babilonesi ed Egizi conoscevano
parecchi esempi pratici di soluzione corretta per problemi aritmetici e geometrici,
ma soltanto i Greci hanno fornito la dimostrazione delle proprietà generali dei
numeri e delle figure di cui quegli esempi non erano che casi particolari, e con ciò
fornirono anche la ragione della loro correttezza. Dovrebbe pertanto esser chiaro
in quale senso, pur riconoscendo senza esitazione che parecchie conoscenze che
oggi chiamiamo scientifiche erano state acquisite da varie civiltà, nessuna di
queste era pervenuta alla creazione della scienza in senso vero e proprio. Questa
creazione è un evento storico rivoluzionario di enorme portata che incomincia a
prodursi agli inizi della civiltà greca ma che, proprio per il fatto di aver inaugurato
una nuova forma di sapere e di pensare, è rimasto come caratteristica costante di
tutta la civiltà occidentale che a partire da essa si è sviluppata.
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Un fatto di capitale importanza è che le caratteristiche indicate in
precedenza come requisiti specifici della scienza greca non emergono come
risultato di un'analisi compiuta dai posteri, e in particolare dai filosofi della
scienza, bensì furono pienamente enunciate e riconosciute proprio dai filosofi
greci dell'epoca, i quali misero in risalto la differenza che sussiste fra il semplice
possesso della verità e l'autentico sapere. Non si tratta di un'analisi di poco conto.
Infatti è del tutto spontaneo identificare il sapere con il possesso della verità, e in
particolare far consistere il sapere in una collezione di conoscenze, ossia di
proposizioni vere. In sostanza la scienza è sapere pieno, in cui la verità è
affermata con l’ostensione delle sue ragioni. Tutto questo chiarisce pertanto che,
secondo il modello di conoscenza esplicitamente teorizzato dalla filosofia greca, il
sapere autentico si raggiunge solo quando, dopo aver appurato una verità, si è
anche in grado di darne la ragione, ossia di darne il perchè.
In che consiste il “dare le ragioni", il "mostrare perché"? I Greci diedero a
queste domande una risposta precisa: significa offrire una dimostrazione. Il
sapere autentico è un sapere dimostrativo, ossia argomentato e fondato in base a
ragionamenti corretti. In questa scelta si radica quel razionalismo greco che è poi
rimasto il carattere distintivo, anche se non esclusivo, dello stile intellettuale
dell’Occidente. Tuttavia questa impostazione lascia aperte, o addirittura pone,
alcune domande: in che consiste una dimostrazione? Ossia una concatenazione
logica (cioè conforme alle esigenze del logos) di ragionamenti? E in che modo può
una dimostrazione garantire la verità della conclusione di tale catena? Una
dimostrazione o ragionamento corretto, consiste in una concatenazione di
proposizioni nella quale la verità delle premesse si trasmette necessariamente
anche alle conclusioni. Utilizzare lo strumento dimostrativo per "dare la ragione"
di una proposizione vera, pertanto, significava trovare alcune premesse vere da
cui questa potesse esser dedotta come conseguenza logica necessaria, ma è
chiaro che in tal modo si ripresenta il problema di come garantire la verità di tali
premesse, problema che non si risolve né regredendo all'infinito, né muovendosi
in circolo, poiché allora non si potrebbe garantire la verità di nessuna
proposizione. Pertanto ogni dimostrazione deve partire da premesse indimostrate
e indimostrabili e, se a questa condizione formale aggiungiamo l’ulteriore
requisito che una dimostrazione non vuole essere soltanto una deduzione
formale, bensì il modo per fondare un sapere e garantire la verità dei suoi
contenuti, si dovrà anche dire che le premesse primitive e indimostrabili debbono
essere vere di per sé, ossia, come pure si dice, evidenti. Esse devono apparire tali
alla nostra intuizione intellettuale e, per distinguerle dalle premesse assunte in
modo soltanto ipotetico, sono spesso chiamate principi. In conclusione: per i
Greci un sapere autentico è quello che si fonda su principi evidenti, universali e
necessari, dai quali sono dedotte con ragionamenti corretti conclusioni vere, e se
capita che le conclusioni dedotte rigorosamente dai principi entrino in collisione
con quanto attestato dall'esperienza, non saranno mai i principi a essere
smentiti, ma semmai il valore di verità delle risultanze di osservazione. Tuttavia la
(((((( 16(
strada feconda, come vedremo in particolare per Aristotele, sarà quella di trovare
interpretazioni dei dati di esperienza che si accordino con i principi.
Quello qui abbozzato in modo intuitivo è il metodo assiomatico-deduttivo,
presentato come struttura canonica del sapere. In un dato ambito di ricerca si
tratta di organizzare le conoscenze in modo che, individuati alcuni enunciati
primitivi (chiamati assiomi o postulati), le rimanenti proposizioni risultino
rigorosamente dimostrabili a partire da essi. La scelta di tali enunciati primitivi si
basa sulla loro evidenza. In forza di questa struttura, un'autentica scienza (ossia
un autentico sapere) risulta dotata di universalità, necessità e certezza.
L'applicazione più celebre di questo modello del sapere è costituita dagli Elementi
di Euclide, ed ha costituito la spina dorsale della costruzione della matematica
occidentale fino ai nostri giorni, ma ha trovato ampia applicazione anche nelle
scienze fisiche. Per esempio, è stato adottato nei Principia di Newton ed è usato in
diverse presentazioni di altre teorie fisiche attuali, quali la teoria della relatività e
la meccanica quantistica. Ma forse ancor più essenziale è il fatto che, anche
quando si lasciano cadere i requisiti dell'evidenza e persino della verità (come
accade nelle epistemologie contemporanee), le teorie scientifiche continuano a
esser concepite come costrutti ipotetico-deduttivi aventi il fine di spiegare, ossia
di "dar ragione" dei fenomeni che esse studiano.
Analizziamo a questo punto grandezza e limiti della scienza greca. Le
scienze nel mondo greco raggiunsero altezze sbalorditive in certi campi e
conseguirono progressi piuttosto modesti in altri. Paradossalmente, la ragione di
questo fatto risiede nell’eccesso di perfezione cui si ispirava il modello della
ricerca di un sapere assolutamente certo, universale e necessario, sicuro nei suoi
fondamenti grazie a un impianto rigorosamente deduttivo. Un ideale del genere
finiva col precludere la strada a quelle che noi oggi chiamiamo scienze
sperimentali. Ciò accadeva perché, come si è visto, tra l'empiria e il logos esso
finiva col privilegiare in misura troppo cospicua il secondo, anche a discapito
della prima. La cosa si può cogliere facilmente analizzando il ruolo svolto dalla
deduzione logica nello schema classico del sapere e in quello delle scienze
empiriche moderne. Nel primo, il compito della deduzione era quello di partire
dalle proposizioni più evidentemente vere, per farne poi discendere la verità alle
proposizioni dedotte, che trovavano nelle prime il loro fondamento e avevano, in
genere, un carattere subordinato. Nel caso delle scienze empiriche quali oggi le
riconosciamo, invece, il cammino è inverso: in esse le proposizioni che si possono
ritenere immediatamente vere e meglio garantite sono quelle che descrivono
singoli fatti d'esperienza. Quando poi vogliamo spiegarle, è ben vero che
escogitiamo ipotesi e cerchiamo di mostrare deduttivamente che da esse
discendono come conseguenze logiche le proposizioni empiriche note, ma non
deve sfuggirci che le proposizioni immediatamente vere si trovano alla fine della
deduzione e, ben lungi dal ricevere dalle ipotesi la garanzia della loro verità, sono
esse che danno alle ipotesi un certo grado, per altro sempre rivedibile, di
plausibilità.
(((((( 17(
Tenendo conto di questo fatto si può comprendere perché la civiltà greca
abbia prodotto una splendida e ricca matematica, ma una fisica quasi
trascurabile. Per le matematiche, infatti, lo schema classico era perfettamente
applicabile, mentre, per le ragioni anzi dette, esso appare una camicia di forza
poco adatta alle scienze empiriche. Di fatto, tentando di applicare tale modello
anche alla scienza della natura, sia gli antichi sia i medioevali cercarono di
fondarla sulla determinazione di essenze, di principi e di cause universali, le cui
verità e certezza fossero più forti e più garantite che non quelle delle singole
conoscenze empiriche, che avrebbero dovuto risultare come loro corollari. Ne è
venuta una scienza naturale aprioristica, metafisicizzata, largamente arbitraria e
dogmatica, rispetto alla quale doveva prodursi soltanto nel Rinascimento la
Rivoluzione Scientifica. L'unica eccezione in questo campo era costituita
dall'astronomia, il cui vantaggio consisteva nel prestarsi a essere una sorta di
grande applicazione della geometria e del calcolo matematico.
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CAPITOLO&3(
ANASSIMANDRO##
La#prima#grande##
rivoluzione#scientifica#
3.1 La scuola di Mileto
La prima intuizione di una nuova via da seguire nella comprensione dei
fenomeni naturali si ebbe, dunque, non nella Grecia vera e propria, ma nelle
colonie della Ionia, in particolare a Mileto, attiva città posta sulle coste dell'Asia
minore, in cui, per effetto degli intensi scambi commerciali e per la vivacità della
vita civile e politica, fiorì un gruppo di intellettuali: Talete, Anassimandro,
Anassimene, accomunati dalla passione per la ricerca fisica e da un nuovo modo
di impostare i problemi. Pur
operando ancora sulla base di
vecchie tradizioni greche e
orientali, essi vi introducono
due nuovi elementi: in primo
luogo una sconsacrazione dei
miti
intorno
all’origine
e
all’unità del mondo, a cui si
sostituisce un’intuizione fisica
di
tale
origine
e
unità
attraverso una sistematica raccolta di informazioni mediante l'esperienza; e, in
conseguenza di ciò, la profonda visione metodica dell’omogeneità della natura. In
particolare Anassimandro compie la prima grande rivoluzione concettuale della
storia della scienza, ridisegnando profondamente la mappa del cosmo, in cui lo
spazio non è strutturato in alto e basso assoluti e in cui la Terra “galleggia” nello
spazio. E’ la scoperta dell’immagine del mondo che caratterizzerà l’Occidente per
secoli, è la nascita della cosmologia e la prima grande rivoluzione scientifica.
(((((( 19(
Il pensiero dei filosofi milesi si incentrava soprattutto sul problema della
realtà primaria e di fronte allo spettacolo multiforme e cangiante del mondo,
costituito da una molteplicità di cose in continuo mutamento, si convinsero che,
alla base di tutto, esisteva una realtà unica ed eterna, di cui ciò che esisteva era
passeggera manifestazione. La loro aspirazione era scoprire la natura essenziale,
ovvero la costituzione reale delle cose che essi chiamavano physis (fisica).
Pertanto, il termine fisica originariamente significava lo sforzo di scoprire la
natura essenziale di tutte le cose. Essi denominano tale sostanza archè (dal greco
principio), da cui tutte le cose derivano come la forza o legge che tutte le domina e
tutte le governa. E’ dunque una ripresa del problema che in precedenza si celava
sotto i miti teogonici, solo che ora il principio è materiale, come per Talete o
Anassimene, o immateriale (indefinita) come per Anassimandro. Questa ricerca
dell’origine di tutte le cose, questa ricerca dell’archè è propria di tutta la scuola
ionica, ed esprime una esigenza rimasta sempre alla base del pensiero scientifico,
ad esempio in una trasformazione fisica cerchiamo ciò che resta invariato
(l’energia, il momento angolare, ecc.), o ciò che vi è di comune, al di là di ogni
apparenza come per le radiazioni luminose, elettromagnetiche, termiche, ecc.
Oppure, cerchiamo, nella fisica post-einsteniana, attraverso il superamento della
geometria euclidea, nuovi strumenti matematici che ci diano la possibilità di
trovare un fondamento comune di cui il campo gravitazionale e quello
elettromagnetico siano espressioni particolari, in modo da ottenere l’unità del
tutto. Il divenire del mondo, ossia i mutamenti che avvengono nelle cose della
natura, obbedisce dunque alle stesse leggi ed è ciclico: tutto nasce dal principio e
tutto vi ritorna.
La scuola di Mileto era fortemente permeata di misticismo e la cultura
greca successiva definì i suoi filosofi ilozoisti, cioè coloro che pensano che la
materia sia animata, poiché non facevano alcuna distinzione tra animato e
inanimato, tra spirito e materia. In effetti, essi non avevano neppure un termine
per indicare la materia, in quanto consideravano tutte le forme di esistenza come
manifestazioni della physis, dotata di vita e di spiritualità.
Il modo di porsi di Talete, Anassimandro e Anassimene di fronte ai
fenomeni e al cosmo in generale, lascia intravedere un triplice aspetto nella
scienza dei Milesi:
1. la sistematica osservazione dei fenomeni naturali e il ricorso all'esperienza;
2. l'impiego delle tecniche;
3. la spiegazione dei fenomeni all'interno di un quadro logico, rappresentato
dalla struttura geometrica dell'universo.
Questo terzo aspetto è particolarmente importante perché indica che la
ricerca fisica, sin dall'inizio, muove dal bisogno di costruire una spiegazione
razionale dei fenomeni.
(((((( 20(
3.2 Talete
In questo clima culturale effervescente, all’inizio del VI secolo a. C., Talete
(c. 640/624 a.C; 547 a.C.), il fondatore della scuola ionica e rappresentante del
primo punto di passaggio fra la scienza dell’antico Oriente e la nuova sapienza
greca, cominciò una tradizione filosofica e scientifica. Aristotele attribuisce a
Talete l’affermazione: “L’acqua
è la causa materiale di tutte le
cose”. L’affermazione che il
mondo sia fatto di acqua (o a
partire dall’acqua), non va
inteso nel senso puramente
materiale, ma che l’acqua
rappresenta l’elemento primordiale o principio costitutivo di tutte le cose, e
questo implicò un nuovo e rivoluzionario rivolgimento concettuale. Primo,
l’esistenza di un problema circa la causa materiale di tutte le cose; secondo,
l’esigenza che a questa domanda si debba rispondere in conformità alla ragione,
senza ricorso ai miti, o al misticismo; terzo, il postulato che in definitiva sia
possibile ridurre ogni cosa ad un principio unico.
L’affermazione di Talete era la prima formulazione dell’idea d’una sostanza
fondamentale, di cui tutte le altre cose fossero forme transitorie. Pur facendo
diversa scelta del principio unico, tale principio costituisce il tratto caratteristico
e l’elemento comune al pensiero dei più antichi filosofi ionici (l’apeiron per
Anassimandro, l’aria per Anassimene o il fuoco per il pitagorico Ippaso). Per tutti
questi pensatori, non è dubbio che la materia sia qualitativamente unica, perché
tutte le specie diverse si vedono trasformarsi l’una nell’altra. L’unità risulta per
loro da un principio razionale di permanenza implicitamente accettato, per cui
l’intima natura delle cose persiste invariata attraverso l’apparenza dei
cambiamenti. Ed il presupposto fa parte ancora della nostra logica scientifica: in
tutte le trasformazioni chimico-fisiche, noi cerchiamo ciò che rimane invariato
(per esempio la massa) e che riteniamo attinente alla sostanza delle cose,
persuasi che attraverso il cambiamento nulla si crei o si distrugga. Motivo per cui
attraverso un ciclo conveniente di trasformazioni, ogni materia possa essere
ricostruita (per esempio l’acqua, se vengono prima separati e poi ricongiunti i
suoi costituenti, l’idrogeno e l’ossigeno).
Talete fu, dunque, il primo a propugnare l’idea che per comprendere il
cosmo fosse necessario conoscere la sua natura (physis donde fisica) e che questa
natura dovesse essere concepita in termini materiali. Egli fu perciò il fondatore
della tradizione filosofica materialista, che cercava di trovare la costituzione
definitiva del mondo attraverso la determinazione della materia di cui era
costituito. E, nella ricerca della costruzione basilare dell’universo, Talete, e quindi
i suoi discepoli, accettarono non solo il fatto che l’universo fosse costituito da
qualcosa di semplice, ma anche che la sua complessità risultasse da mutamenti
dai quali l’elemento materiale di base (acqua) era diversificato per formare la
(((((( 21(
materia che costituiva l’universo. Un'ipotetica ricostruzione dell'origine
dell'universo secondo Talete potrebbe essere la seguente: all'inizio esisteva il
grande oceano, poi si formarono la Terra e i corpi celesti. L’intero cosmo, secondo
questa teoria, è trasportato sul mare come una nave, mossa e guidata dall'acqua
stessa, che ha gli attributi della divinità. Per Talete, dunque, l'acqua è principio
divino e ha al suo interno la forza generatrice e regolatrice del cosmo, che
probabilmente tornerà ad essere acqua quando avrà finito i suoi giorni. La
rassomiglianza con il mito babilonese è evidente, ma è, altresì, significativa la
differenza: Talete, eliminando la personificazione dell'acqua in potenze mitiche, la
rende un principio materiale e naturale, appartenente cioè all'ordine delle cose
fisiche. È il primo passo verso una considerazione scientifica dell'universo. E’ vero
che Talete pensava che la Terra fosse un disco galleggiante sull’acqua, ma è di
enorme rilievo che egli speculasse su tali argomenti, per cui introdusse elementi
astronomici nella cosmologia che in precedenza erano a carattere magico e
religioso.
Talete fu il primo ad occuparsi di elettricità e magnetismo, avendo notato
che l’ambra, una resina fossile, opportunamente strofinata, era in grado di
attrarre oggetti leggeri come piccoli semi o pezzetti di paglia, e affermando che il
magnete fosse vivo perchè in grado di far muovere le cose (infatti attrae il ferro) e
che avesse un'anima.
3.3 Anassimene
Nel solco di questa visione del mondo si inserisce Anassimene (ca. 586
a.C.– 528 a.C.), il quale sostituisce l’acqua di Talete e l’apeiron (indeterminato) di
Anassimandro con l’aria. La scelta dell’aria come principio unico delle cose è il
tentativo, riuscito, di affrontare una difficoltà evidente nelle dottrine di Talete e
Anassimandro. Se il tutto è fatto di
acqua o di apeiron, come è possibile
che possano assumere forme e
consistenze così diverse, come quelle
che appaiono nella varietà delle
sostanze della natura? Come può una sostanza primitiva assumere
caratteristiche diverse? Anassimene cerca invece un meccanismo più ragionevole
che permetta a una singola sostanza di assumere apparenze diverse. Con
notevole sagacia, individua questo meccanismo nella compressione e rarefazione.
Egli ipotizza che l’acqua sia generata dalla compressione dell’aria, che a sua volta
si può riottenere per rarefazione dell’acqua; la Terra è generata per ulteriore
compressione dell’acqua e così via per le altre sostanze. Simplicio, nel suo
Commento alla Fisica di Aristotele testimonia: “Anassimene figlio di Euristrato di
Mileto diceva che la materia originaria è una e illimitata. Ma, diversamente da
Anassimandro, non pensava che non fosse specifica, ma che lo fosse, e che si trattasse
dell’aria. Ma essa appare diversa nei diversi oggetti, secondo la sua condensazione e
(((((( 22(
rarefazione. In forma rarefatta origina il fuoco, mentre nella forma più densa produce il
vento da cui provengono le nuvole e l’acqua, e da questa a sua volta si genera la terra, e
da questa le pietre, e da queste ultime tutte le altre cose”.
Anassimene insomma cerca
di spiegare come, mediante condensazione e rarefazione, elementi di diversa
densità possano essere ricondotti ad uno solo, riducendo le differenze qualitative
a differenze quantitative, e poiché l’aria è sempre in movimento, il mutamento è
una possibilità sempre presente. E’ un passo avanti verso una descrizione più
ragionevole della struttura del mondo.
Anassimene definì chiaramente l’approccio materialistico, ossia che il
cosmo potesse essere spiegato nei termini della materia di cui era formato, in
base ad un processo localizzato nello spazio e nel tempo; infatti, il suo concetto
più originale è quello di una volta celeste cristallina su cui sono infissi “come
chiodi” gli astri, visione che qui appare per la prima volta e che avrà la
consacrazione con Aristotele e che durerà fino al termine del medioevo. Come già
per Anassimandro il modello che chiarisce la generazione del cosmo, e i suoi moti
rotatori, è offerto dalla presenza di opposte azioni: centrifughe per i corpi leggeri,
centripete per quelli pesanti. In virtù di questo modello cosmologico, il moto di un
immenso vortice ha spinto la Terra verso il centro del mondo. Dice Aristotele:
“Tutti ammettono questa causa (l’immenso vortice) desumendolo da ciò che accade nei
liquidi e nell’atmosfera. In entrambi i casi i corpi più pesanti vanno verso il centro del
vortice”.
Anassimene pensava che le parti ignee (sfera del fuoco) fossero così state
respinte nelle parti periferiche di questo vortice universale. L’impulso del vortice
spezzò poi la sfera del fuoco in tanti anelli avvolti di aria e vapori, e le aperture
rimaste in tali involucri sono i corpi celesti che vediamo ruotare intorno alla
Terra. “Dio separò la luce dalle tenebre”. “Dio separò le acque sotto il firmamento, da
quelle che erano sopra il firmamento”. La scienza dell’antico Oriente non riusciva a
dire di più quando tentava di affrontare aspetti del problema cosmogonici. Gli
ionici, invece, muovevano alla ricerca di cause fisiche, consistenti, naturali.
3.4 Apeiron: principio e interpretazione di tutte le cose
Anassimandro (ca. 610 a.C.– ca. 546 a.C.) come il suo maestro Talete, è
alla ricerca di un principio di tutte le cose, ma la sua sostanza prima non è un
elemento materiale, come l’acqua per Talete, ma l’àpeiron (l’indeterminato o
l’infinito, e letteralmente “senza perimetro”). Simplicio (490 a.C.-560 a.C.),
commentando il passo e rifacendosi alle, per noi perdute, Opinioni dei
fisici di Teofrasto (371 a.C. – 287 a.C.), scrive che per Anassimandro “principio ed
elemento degli esseri è l'infinito, avendo egli per primo introdotto questo nome di
principio (archè). E dice che il principio non è né l'acqua né un altro dei cosiddetti
elementi, ma un'altra natura infinita, dalla quale provengono tutti i cieli e i mondi che in
essi esistono [...] e l'ha espresso con parole alquanto poetiche. È chiaro che avendo
osservato il reciproco mutamento dei quattro elementi [acqua, aria, terra, fuoco], ritenne
giusto di non porne nessuno come principio, ma qualcosa d'altro. Secondo lui la nascita
(((((( 23(
delle cose non avviene per alterazione del principio elementare, ma avviene per il
distacco da quello dei contrari a causa dell'eterno movimento”.
Nella designazione di Anassimandro, àpeiron è un aggettivo sostantivato
che designa una certa proprietà della sostanza primitiva, e che tale materia prima
è ritenuta infinita e infinitamente diffusibile, cioè suscettibile di espandersi
dappertutto identificandosi con lo spazio. Quindi, ápeiron inteso anche come "non
definito", "indeterminato". Essendo indeterminato, non identificandosi con
nessun specifico elemento (stoichéion) - acqua, aria, terra o fuoco – resta
determinato dall'unica qualità che gli appartiene derivante dalla sua stessa
definizione, ossia una materia indifferenziata, della quale nulla possa dirsi se non
infinita e irriducibile a ogni determinazione.
I filosofi naturalisti della Ionia, impressionati dal fenomeno del nascere, del
mutare e del morire di tutte le cose, ne ricercano la causa: l’acqua per Talete e
l’aria per Anassimene. Ma Anassimandro vede che i fenomeni si
producono ovunque e l'ovunque è per sua stessa natura indefinito proprio perché,
essendo il Tutto, è privo di individuazione al di fuori di sé stesso, non è spiegabile
attraverso la determinazione di qualcosa di altro, dal momento che questo
qualcosa rientrerebbe già nel Tutto. Allo stesso modo, se nell'ápeiron
sembrerebbe che vi debba essere una forza – “l'eterno movimento” di cui parla
Simplicio – che faccia nascere, trasformare e morire le cose, questa forza, proprio
in virtù dell'indefinibilità del Tutto, è resa definibile solo come essa stessa ápeiron,
indissolubilmente legata, non scindibile e non distinguibile da esso, altrimenti il
Tutto, nuovamente, non sarebbe più tale, avendo altro da sé, e come le cose
nascono dall'ápeiron, così lì devono trasformarsi e morire, perché non c'è
un altrove dove trasformarsi e morire.
Anassimandro, che usò per primo il termine archè, infatti, introduce l’idea
che ci possa essere una base comune di tutte le cose e che è all’origine
dell’universo, che chiama appunto àpeiron, una sostanza universale, eterna,
immutabile, illimitata, impercettibile e non propriamente materiale, come l’acqua
per Talete o l’aria per Anassimene, dalla quale derivava ogni materia tramite una
selezione di attributi o proprietà. Egli intuisce che per arrivare a rendere conto
della molteplicità delle cose e dei fenomeni dobbiamo essere pronti ad introdurre
oggetti nuovi, sostanze nuove, che non vediamo direttamente, ma che ci aiutano
ad organizzare e comprendere. Anassimandro compie un passo decisivo verso
una interpretazione globale della realtà, abbandonando l'idea che a fondamento
di essa possa esserci un elemento determinato e rivelando una capacità di
astrazione fino ad allora sconosciuta. Ma perché non accettare un elemento
materiale terrestre come principio di tutte le cose e scegliere come tale l’infinito (o
l’indeterminato)? Perché, interpreta Aristotele, tutte le cose hanno un principio:
“ma di questo (cioè dell’infinito) non c’è principio, ed esso sembra essere principio degli
altri, e tutti abbracciarli e governarli tutti… e questo è il divino immortale, infatti, e
indistruttibile, come dice Anassimandro”.
Ragioni di questo genere, che rimandano
alla divinità, origine di tutte le cose, e perciò non spiegano nulla dal punto di
vista fisico, sono per lo più confacenti ad Aristotele che non al fisico
(((((( 24(
Anassimandro. Pertanto, stando ai recenti studi ed alle attuali interpretazioni, il
filosofo ionico abbia voluto alludere ad una materia prima infinita e infinitamente
diffusa. L’intuizione geniale è che per spiegare la complessità del mondo sia
necessario postulare, immaginare, l’esistenza di qualcosa che non è nessuna delle
sostanze del mondo diretto della nostra esperienza, ma possa fungere da
elemento unificante di spiegazione per tutte queste.
Nel postulare l’apeiron, Anassimandro non fa altro che aprire la strada a
quello che la scienza continuerà poi a fare per secoli, con straordinario successo:
immaginare l’esistenza di “entità” che non sono direttamente visibili e percepibili,
ma la cui esistenza è postulata per organizzare e rendere conto in maniera
unitaria, organica e naturalistica, della complessità dei fenomeni osservabili. Con
questa interpretazione l’àpeiron diventa l’antenato di tutti gli oggetti introdotti
dalla fisica: l’atomo, il campo elettromagnetico, il campo gravitazionale, lo
spaziotempo, la funzione d’onda, i campi quantistici, le particelle elementari.
Un’interpretazione diversa, isolata, ma consistente con la precedente
lettura naturalistica dell’apeiron del fisico Carlo Rovelli, è quella del
filologo Giovanni Semeraro, secondo il quale ápeiron, che deriverebbe dal
semitico apar, («polvere», «terra»), accadico eperu equivalente del biblico 'afar,
sarebbe stato utilizzato da Anassimandro nel significato di terra e non di infinito.
Questa interpretazione ricondurrebbe la filosofia presocratica a una fisica
corpuscolare, che accomunerebbe Anassimandro, Talete e Democrito. La
relazione fra l'ápeiron di Anassimandro e gli atomi di Leucippo e Democrito è
corroborata dall'attributo che comunemente accompagna gli atomi nei frammenti
degli atomisti: "ápeira", plurale di ápeiron, usualmente tradotto con
"innumerevoli".
Anassimandro si pone anche il problema del processo attraverso il quale le
cose derivano dalla sostanza primordiale: tale processo è la separazione. La
spiegazione del processo di separazione è ancora una volta di carattere non
mitico, ma razionale ed empirico. Non è un dio all'origine della derivazione delle
cose dall'àpeiron, ma per l’azione di un moto rotatorio. Per primi si formarono il
freddo ed il caldo che si ruppero formando un anello: all’esterno caldo (cioè fuoco)
e all’interno freddo (aria); e dentro ancora la terra. La terra sarebbe sorta come
umidità; seccata sotto l’azione del caldo, essa lascia quattro anelli: caldo (fuoco),
freddo (aria), umidità (acqua), secco (terra), le qualità e le sostanze accettate per i
successivi duemila anni come essenziali in natura. Per mezzo di questa
separazione si generano i mondi infiniti, che si succedono secondo un ciclo
eterno. Ma i mondi sono infiniti anche contemporaneamente nello spazio o
soltanto successivamente nel tempo? Sicuramente è difficile negare che
Anassimandro abbia ammesso un’infinità spaziale dei mondi, giacché, se l’infinito
abbraccia tutti i mondi, esso deve essere pensato al di là non di un solo mondo,
ma di altri e altri ancora. La legge della separazione presiede anche alla
generazione dei primi uomini che, dopo una prima fase vissuta nell'acqua,
all'interno dei pesci, uscirono sul terreno asciutto e impararono a vivere in
(((((( 25(
società. Pertanto, la legge suprema che regola la vita è unica e vale sia per gli
uomini che per gli animali e per il mondo fisico. Tradotto in termini moderni, si
potrebbe dire che la “natura infinita” è concepita come un assoluto esistente di
per sé, mentre le cose o qualità che se ne separano hanno una esistenza relativa.
L’impulso a cercare ovunque ciò che vi è di relativo diventa un tratto
caratteristico della speculazione greca verso il 500 a. C.
Di Anassimandro ci resta solo un piccolo frammento: “Le cose nascono l’una
dall’altra e periscono l’una nell’altra, secondo necessità. Esse si rendono giustizia fra loro e
E’ un pensiero che,
probabilmente, esprime un’altra grandissima idea: gli eventi non avvengono per
caso ma guidati da una necessità, secondo leggi che governano il loro svolgersi
nel tempo. Nel quadro concettuale di un nuovo spazio e di un nuovo tempo, visto
come il principio rispetto al quale i fenomeni sono ordinati, il genio di
Anassimandro apre la strada alla nuova comprensione razionale del mondo.
riparano
le
loro
ingiustizie
secondo
l’ordine
del
tempo”.
3.5 La grande rivoluzione concettuale di Anassimandro
Ma la grande rivoluzione concettuale di Anassimandro è quella di aver
compreso che la Terra è un oggetto sospeso nel nulla, in sostanza galleggia nello
spazio. Quindi, rifiutando l’acqua di Talete come archè, la elimina anche dalla sua
macchina dell’universo come sostegno della
Terra, e adopera invece, e ciò è molto moderno,
un principio logico e geometrico. Ricorda
Aristotele: “Vi sono alcuni che denominano
indifferenza la causa che fa rimanere immobile la
Terra, come ad esempio Anassimandro fra gli antichi
filosofi. Essi affermano che ciò che è posto al centro, in
egual posizione rispetto agli estremi, non ha da
muoversi né in su, né in giù, né dalle parti. Non
essendo possibile che compia movimenti in versi opposti, necessariamente sta ferma”.
Anassimandro, in questo modo, ridisegna completamente il quadro concettuale
della comprensione umana dello spazio, della Terra, della gravità. Non più lo
spazio diviso in due, un sopra (cielo) e un sotto (terra) e gli oggetti che cadono dal
sopra al sotto, bensì uno spazio fatto di cielo, all’interno del quale sta sospesa la
Terra.
Senza esagerare, tale rivoluzione concettuale è più profonda di quella di
Copernico. Infatti, mentre Copernico si avvale di un immenso lavoro concettuale e
osservativo svolto dagli astronomi alessandrini e arabi, Anassimandro si appoggia
solo sulle prime razionali domande sul funzionamento del cosmo e sulle prime
imprecise speculazioni del suo maestro Talete. Su questa base così esigua di
elementi scientifici compie quella che Popper ha definito “una delle più audaci, una
(((((( 26(
delle più rivoluzionarie e delle più portentose scoperte dell’intera storia del pensiero
umano”.
Ma come ha fatto Anassimandro a
capire che sotto la Terra c’è ancora cielo?
Partiamo
dal
presupposto
che
con
Anassimandro nasce l’idea che è possibile
comprendere i fenomeni, le loro relazioni, le
loro cause, il loro concatenarsi, senza fare
ricorso agli dei. In sostanza spiegare il mondo
in termini delle cose del mondo. Quindi, gli
indizi non mancavano per giungere a questa
straordinaria idea, come osservare il movimento delle stelle circumpolari. Appare
chiaro ad Anassimandro che sotto l’orizzonte ci deve essere dello spazio vuoto
affinchè le stelle possano completare i loro cerchi. Alla domanda: se la Terra è
sospesa nel nulla, perché la Terra non cade? La risposta di Anassimandro è
perentoria e sconvolgente, ed è contenuta nel De Caelo di Aristotele: “Alcuni, per
esempio Anassimandro fra gli antichi, dicono che la Terra mantiene la sua posizione per
indifferenza. Perché una cosa che si trovi nel centro, per la quale tutte le direzioni siano
equivalenti, non ha ragione per muoversi verso l’alto o il basso o lateralmente; e siccome
non può muoversi in tutte le direzioni insieme, deve necessariamente restare ferma.
Questa idea è ingegnosa …”.
La Terra non cade perché non ha nessuna direzione
particolare verso cui cadere se non verso se stessa. Alla luce della nostra
comprensione della natura, la risposta di Anassimandro è esatta; anzi,
rappresenta uno dei momenti più importanti del pensiero scientifico di tutti i
tempi.
Nella nuova immagine del mondo proposta da Anassimandro, i concetti
fondamentali di “alto” e “basso” vengono profondamente modificati, e non sono
più quelli della nostra esperienza quotidiana. Le nozioni di alto e basso non
costituiscono una struttura
assoluta e universale del reale.
Non sono un’organizzazione a
priori dello spazio, ma sono
relativi alla presenza della
Terra. “Verso il basso” non
indica più una direzione
assoluta del cosmo, ma una
direzione particolare verso la quale cadono i corpi: verso la Terra. Dunque è la
Terra che determina cosa sia l’alto e il basso. E’ la Terra stessa che determina la
direzione verso cui cadere. In sintesi, alto e basso non sono assoluti ma relativi
alla Terra. In questo modo Anassimandro cambia il modo di comprendere non
solo l’immagine del mondo, ma la struttura stessa dello spazio, che per secoli era
stato inteso come la direzione privilegiata (assoluta) verso la quale le cose cadono.
La rivoluzione di Anassimandro ha molto in comune con le altre grandi
rivoluzioni del pensiero scientifico: come fa a muoversi la Terra se all’evidenza la
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Terra è ferma? Completando la rivoluzione copernicana, Galileo comprende che
non esistono stati o moti assoluti. E Einstein, con la relatività ristretta, scopre
che la “simultaneità”, cioè la nozione di “adesso” non è assoluta, ma relativa allo
stato di moto dell’osservatore.
Un’altra radicale novità della cosmologia di Anassimandro è quella di
considerare il mondo immerso in uno spazio esterno aperto. Infatti, la volta del
cielo era sempre stata vista come la chiusura superiore del mondo. I vari corpi
celesti (Sole, Luna, stelle, pianeti) come entità che si muovevano su una stessa
volta celeste, tutti alla stessa distanza da noi. Con Anassimandro, per la prima
volta, si introduce la possibilità che i corpi celesti siano a distanze diverse da noi.
Qualunque fosse il motivo che animava le ricerche di Anassimandro, non si
può certo dire che l’insieme delle idee e dei risultati raggiunti dal filosofo milese,
costituiscano un corpus scientifico nel senso della scienza moderna. Infatti
mancano diversi aspetti essenziali di quanto oggi chiamiamo scienza. In
particolare è del tutto assente l’idea di cercare leggi matematiche che possano
soggiacere ai fenomeni naturali. Questa idea comparirà, ad opera della scuola
pitagorica, nella generazione successiva ad Anassimandro. E manca
completamente l’idea di esperimento, nel senso della riproduzione artificiale di
situazioni fisiche per comprendere le leggi che governano la natura. Questa idea,
almeno nella sua forma più matura e consapevole, comparirà duemila anni più
tardi con Galileo.
Con l'approfondirsi della ricerca da parte dei filosofi successivi, quello che
era stato prima l'ambito della speculazione mitologica nella spiegazione dei
fenomeni naturali cedette sempre più il posto all'analisi razionale, che cercherà di
trarre le sue conclusioni sulla base dell'osservazione empirica dei fatti. Si
costruirà, allora, gradatamente un'immagine razionale dell'universo, che sarà il
frutto dello sviluppo della scienza.
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Conclusioni(
Ho cercato di raccontare attraverso lo sviluppo delle prime idee scientifiche
come l’uomo cerca di creare le varie immagini del mondo che ha disegnato nella
propria mente. Questa interpretazione delle cose e rappresentazione del mondo,
però, sono provvisorie. Il pensiero scientifico esplora e ridisegna il mondo in
continuazione; è un’esplorazione continua di forme di pensiero. La sua forza è la
capacità visionaria di far crollare idee preconcette, svelare territori nuovi del
reale e costruire nuove e più efficaci immagini del mondo. Ciò che l’universo
realmente sia non lo sappiamo, ed è senza significato cercarlo. Noi possiamo solo
formarci rappresentazioni della natura che mutano con i tempi e saranno sempre
incomplete.
La consapevolezza dei limiti della nostra conoscenza è il cuore del pensiero
scientifico. E’ lo stimolo continuo che ci permette di non considerare mai
definitiva l’immagine del mondo che ci siamo costruiti, perché sono ombre
proiettate sulla parete della caverna di Platone. Per imparare qualcosa in più
rispetto a quello che sappiamo, bisogna avere il coraggio di mettere in discussione
le conoscenze e le idee accumulate dai nostri padri. Senza questo sentimento di
ribellione scientifica, i vari Anassimandro, Galileo, Copernico, Newon, Einstein, i
fondatori della meccanica quantistica, non avrebbero mai messo in discussione le
idee e le concezioni dei loro predecessori. Se nessuno di questi avesse sollevato
dubbi e proposto nuove immagini del mondo, staremmo ancora a pensare alla
Terra come a un disco piatto oppure a una palla attorno alla quale ruota l’intero
universo.
La grande forza della scienza, ed è ciò che la disitingue dalle altre forme del
pensiero, è che attraverso ipotesi e ragionamenti, intuizioni e visioni, equazioni e
calcoli, possiamo stabilire se una teoria è giusta oppure no. Nella scienza non
esistono affermazioni che non possano essere messe in discussione e anche le
certezze scientifiche più radicate possono crollare davanti a nuove scoperte. Ma
la scienza non consiste solamente nei risultati delle osservazioni, altrimenti una
qualsiasi collezione di esse sarebbe buona quanto un’altra. E’ perché la scienza ha
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una struttura e un’interpretazione teorica che consentono di avere i risultati
delle osservazioni, li si può correlare e farli coincidere in teorie.
Ma se la scienza non è sicura di ciò che afferma perché dobbiamo fare
affidamento su di essa? La risposta è semplice: la scienza è affidabile perché
fornisce le risposte migliori che abbiamo al momento presente. La scienza
rispecchia
il
meglio
che
sappiamo
sui
problemi
che
affronta.
Quando
Anassimandro afferma che la Terra “galleggia nello spazio”, mettendo così in
discussione la visione del mondo che aveva il suo maestro Talete, ci fornisce la
migliore interpretazione possibile del mondo in quel momento. Quando Einstein
ha mostrato che Newton sbagliava, non ha messo in discussione l’affidabilità della
scienza, ma ha semplicemente dato delle risposte migliori alle domande che il
mondo poneva.
La natura del
pensiero scientifico è critica, ribelle, insofferente di ogni
concezione a priori, a ogni verità intoccabile. La scienza è alla ricerca delle
risposte più affidabili, non delle risposte certe e definitive. Fare scienza significa
vivere con domande cui non sappiamo (forse non sappiamo ancora, oppure non
sapremo mai) dare risposta.
La
curiosità
di
imparare,
scoprire,
voler
assaggiare
la
mela
della
conoscenza è ciò che ci rende umani, perché non siamo fatti “…. a viver come
bruti, ma per seguir virtute e canoscenza”.
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Bibliografia#
!
Vincenzo Pappalardo – Storia della fisica e del pensiero scientifico