Archivio selezionato: Sentenze Cassazione Civile ESTREMI Autorità: Cassazione civile sez. I Data: 02 maggio 2006 Numero: n. 10135 CLASSIFICAZIONE SOCIETA' DI CAPITALI Societa' cooperative recesso Società di capitali - Società cooperative - Recesso - Recesso convenzionale - Subordinazione all'apprezzamento degli organi sociali - Legittimità - Autorizzazione dell'assemblea o del consiglio di amministrazione - Natura giuridica - Condizione di efficacia del recesso - Potere discrezionale - Esercizio secondo correttezza e buona fede - Necessità - Violazione Applicabilità dell'art. 1359 c.c. - Sussistenza. SOCIETà - Società cooperative - Statuto Previsione del diritto di recesso con il consenso dell'Organo amministrativo - Natura giuridica del consenso - Accettazione di una proposta - Esclusione - Condizione di efficacia di un diritto potestativo del socio - Sussistenza - Conseguenze. INTESTAZIONE LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE SEZIONE PRIMA CIVILE Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati: Dott. LOSAVIO Giovanni - Presidente Dott. PLENTEDA Donato - rel. Consigliere Dott. RORDORF Renato - Consigliere Dott. PICCININNI Carlo - Consigliere Dott. PANZANI Luciano - Consigliere ha pronunciato la seguente: sentenza sul ricorso proposto da: CATTOLICA POPOLARE COOP. SRL DI MOLFETTA, in persona del suo presidente pro tempore, elettivamente domiciliata in ROMA, PIAZZA DEI CAPRETTARI, 70, presso l'avvocato GUARDASCIONE BRUNO, (giusta procura in calce al ricorso), che la rappresenta e difende unitamente all'avvocato GIANNELLI GIANVITO, giusta procura speciale per Notaio Dr.ssa CAMATA OLGA di Molfetta rep. n. 33905 del 30.01.06; - ricorrente contro R.D. e G.B. in R., elettivamente domiciliati in ROMA VIA GIUSEPPE FERRARI 4, presso l'avvocato CORONAS SALVATORE, rappresentati e difesi dall'avvocato ENRICO AMENDONI, giusta mandato a margine del controricorso; - controricorrenti avverso la sentenza n. 852/02 della Corte d'Appello di BARI, depositata il 17/10/03; udita la relazione della causa svolta nella Pubblica udienza del 08/02/2006 dal Consigliere Dott. Donato PLENTEDA; udito per il ricorrente l'Avvocato GUARDASCIONE che ha chiesto l'accoglimento del ricorso; udito per il resistente l'Avvocato CORONAS, con delega, che ha chiesto il rigetto del ricorso; udito il P.M. in persona del Sostituto Procuratore Generale Dott. CAFIERO Dario che ha concluso per l'accoglimento del ricorso. FATTO SVOLGIMENTO DEL PROCESSO I coniugi R.D. e G.B., titolari rispettivamente di 500 e 100 azioni della soc. Cattolica Popolare coop. a r.l., corrente in Molfetta, chiesero il 4.7.1996 la liquidazione dei loro titoli, in forza di una sopravvenuta esigenza personale, tenuto conto della facoltà di recesso prevista da una norma statutaria, condizionata al consenso del consiglio di amministrazione. Avendo quell'organo negato il consenso, senza specificare le ragioni, i coniugi predetti convennero l'istituto di credito dinanzi al Tribunale di Trani, al quale chiesero che ai accertasse l'avvenuto avveramento della condizione, per avere mancato la banca di rivelare le ragioni del diniego, così interpretando come meramente potestativa la condizione, in quanto tale nulla; chiesero, per l'effetto, che fosse dichiarato legittimo l'esercizio del recesso e fosse condannata la convenuta al pagamento del controvalore delle azioni. La società Cattolica Popolare resistette alla domanda, negando che la norma statutaria invocata prevedesse ipotesi di recesso, in luogo di un negozio traslativo, che nella specie era mancato, per non essersi realizzato l'incontro di volontà tra attori e convenuta. Il tribunale rigettò la domanda. I coniugi R. proposero impugnazione, che la Corte di Appello di Bari ha accolto con sent. 17.10.2002, con cui ha condannato la cooperativa a pagare il controvalore delle azioni, con gli interessi legali i a risarcire il danno agli attori, da liquidarsi in separata sede, e a pagare le spese del doppio grado. Premesso che lo statuto sociale contempla una ipotesi di recesso condizionato, di natura convenzionale, affidato al consenso del consiglio di amministrazione, ha ritenuto che la integrazione della norma - che era priva di indicazioni in ordine alle modalità di delibazione della istanza di recesso - secondo buona fede ex art. 1366 c.c., e la valutazione della condotta delle parti nella esecuzione del contratto con il medesimo criterio ex art. 1375 c.c., avevano comportato che, come la iniziativa del recesso doveva essere sostenuta da adeguata giustificazione, così avrebbe dovuto esserlo la valutazione del consiglio di amministrazione; che altrimenti essa sarebbe stata meramente potestativa. Conseguentemente, in mancanza di motivazione, il diniego avrebbe dovuto essere considerato tamquam non esset ed il comportamento della banca non conforme a buona fede, con l'effetto che la condizione del recesso avrebbe dovuto ritenersi avverata. Propone ricorso per Cassazione con due motivi la soc. Cattolica Popolare coop. a r.l.; resistono con esecuzione del contratto con il medesimo criterio ex art. 1375 c.c., avevano comportato che, come la iniziativa del recesso doveva essere sostenuta da adeguata giustificazione, così avrebbe dovuto esserlo la valutazione del consiglio di amministrazione; che altrimenti essa sarebbe stata meramente potestativa. Conseguentemente, in mancanza di motivazione, il diniego avrebbe dovuto essere considerato tamquam non esset ed il comportamento della banca non conforme a buona fede, con l'effetto che la condizione del recesso avrebbe dovuto ritenersi avverata. Propone ricorso per Cassazione con due motivi la soc. Cattolica Popolare coop. a r.l.; resistono con controricorso i coniugi R.. DIRITTO MOTIVI DELLA DECISIONE Con il primo motivo sono denunziate la violazione e la falsa applicazione degli artt. 1359, 1365 e 1375 c.c., e dei principi e delle norme sull'onere della prova e la erroneità e contraddittorietà della motivazione. Assume la ricorrente che non vi fosse alcun obbligo di motivare il diniego alla istanza di recesso, trattandosi di mera facoltà e di comportamento discrezionale, alla stregua dell'art. 13 dello statuto secondo cui il c.d.a. n può consentire...il recesso del socio"; norma incompatibile con il presunto obbligo di motivazione. Nè, aggiunga, giovano in tal senso gli artt. 1366 e 1375 c.c.; perchè, se non è sindacabile nel merito, la motivazione non ha alcuna funzione; ove invece lo fosse, la facoltà risulterebbe un dovere, mentre nessun addebito in termini di violazione dei principi di correttezza e buona fede sarebbe proponibile, visto che il c.d.a. aveva deliberato tempestivamente nella prima riunione successiva alla proposizione della istanza. Con il secondo mezzo sono denunziate la violazione e la falsa applicazione dell'art. 13, comma 2, dello statuto, in relazione all'art. 2518 c.c., comma 2, n. 8 e art. 2526 c.c.; nonchè la omessa e contraddittoria motivazione. La ricorrente contesta la tesi di controparte che l'art. 13 citato sia pleonastico, trattandosi di recesso convenzionale. Le norme codicistiche citate dispongono invece che è l'atto costitutivo a dovere indicare le condizioni per l'eventuale recesso e che esso è possibile solo se previsto dalla legge o da tale atto. Pertanto la norma statutaria, nello stabilire che il c.d.a. "può consentire", ha il significato di qualificare l'atto in termini di discrezionalità, giacchè in caso contrario la facoltà si tramuterebbe in obbligo; e conseguentemente prevede un accordo tra le parti e cioè un negozio giuridico bilaterale, per il quale non è previsto alcun obbligo di motivare la mancata accettazione. Il ricorso è infondato. I motivi vanno esaminati congiuntamente giacchè, sotto il profilo di distinte violazioni di norme di legge e con analogo addebito di vizio motivazionale, propongono la medesima questione della natura giuridica e degli effetti del recesso, in quanto regolato da disposizione statutaria, in relazione alla prevista facoltà del consiglio di amministrazione di consentirlo o meno. La tesi della società ricorrente, di ricondurre i termini della questione ad un negozio giuridico bilaterale, che avrebbe lasciato libera la società di "accettare" o meno il recesso e dunque di motivare il rifiuto di "consentirlo", non può essere condivisa. Se, come questa Corte ha già avuto modo di rilevare (Cass. 5126/2001), il recesso statutario, nascendo con l'atto costitutivo, come atto di manifestazione della volontà negoziale, dalla stessa volontà può essere disciplinato attraverso clausole determinative del contenuto, sia quando attribuiscono al socio la facoltà di recedere in situazioni specifiche, sia quando la limitano o condizionano; sicchè legittima è la disciplina che ne subordina l'esercizio a determinati presupposti o condizioni, tra cui l'autorizzazione o approvazione del c.d.a. o della assemblea dei soci; e se incontrovertibile e il potere discrezionale di quegli organi, in relazione all'apprezzamento dell'interesse della società a perseguire l'oggetto sociale, raggiungibile o più agevolmente perseguibile se la compagine resta integra o comunque non si modifica sensibilmente, siffatta discrezionalità non può tuttavia divenire arbitrio e tradursi nel rifiuto di provvedere o in un diniego assoluto ed immotivato di approvazione, equivalendo tanto il primo quanto il secondo ad una condotta ostruzionistica, che produce l'effetto della vanificazione del diritto di recesso. E se è principio di diritto che "nella attuazione del contratto sociale, come di ogni altro contratto, debbono essere rispettati i principi cardine della correttezza e della buona fede (art. 1335 c.c.), quale regola di comportamento che opera anche al di là di specifiche previsioni contrattuali, alla quale anche gli organi sociali sono tenuti a conformarsi nella loro attività di adempimento e come regola di governo della discrezionalità nell'esercizio dei poteri previsti dalla legge e dai patti sociali (Cass. 8802/1992)", la violazione del diritto di recesso, per effetto della inosservanza delle predette regole, rende legittima l'applicazione compiuta dalla sentenza impugnata dell'art. 1359 c.c., secondo la quale la condizione si considera avverata qualora sia mancata, per cosa imputabile alla parte che aveva interesse contrario al suo avveramento, costituendo il comportamento inattivo, anche nei termini in cui si è nella specie realizzato della mancata esplicitazione delle ragioni del rifiuto di "consentire", la violazione di un obbligo di agire imposto dal contratto sociale. Essendo, dunque, il recesso una manifestazione di volontà, corrispondente al diritto potestativo di uscire dalla società ovvero di rinunziare a conservare lo stato derivante dal rapporto giuridico nel quale il socio è inserito, nessuna compatibilità con tale categoria negoziale ha la configurazione dell'accordo prospettata da parte ricorrente, che, assegnando alla determinazione della società la funzione di accettazione di una sorta di proposta, attribuisce alla predetta dichiarazione mera rilevanza prenegoziale, in difetto della ipotizzata accettazione, e lascia così assolutamente libero il destinatario di essa persino di riscontrarla e comunque di aderirvi o meno, senza alcun onere di esplicitazione dei motivi di tale condotta. Posto che, invece, il recesso configura un negozio unilaterale, la deliberazione favorevole del c.d.a. opera dall'esterno, come condizione di efficacia, ed è regolata dall'art. 1359 c.c., in forza del quale essa si considera avverata, una volta che sia mancata per causa imputabile alla parte che aveva interesse contrario all'avveramento. Da tali principi non ha il Collegio alcun motivo di discostarsi, essi trovando conferma nella regola di diritto, di cui all'art. 2437 c.c., comma 3, anteriforma, che la prevalente dottrina e la giurisprudenza meno remota di questa Corte (Cass. 5790/1980) ritengono applicabile alle società cooperative, la quale contempla la nullità di ogni patto che esclude il diritto di recesso o che ne rende più gravoso l'esercizio; e più gravoso certamente verrebbe a risultare il suo condizionamento all'arbitrio del consiglio di amministrazione, in quanto affrancato da qualunque obbligo di indicazione delle ragioni giustificative del dissenso e che finirebbe sostanzialmente a far regredire un recesso così regolamentato in un sostanziale divieto di recedere e porrebbe sullo stesso piano rifiuto ingiustificato e ritardo nell'esprimerlo, sul quale ultimo la ricorrente mostra invece di condividere il giudizio di illegittimità della condotta dell'organo amministrativo (così Cass. 8802/1992). Nè può trovare ingresso, ancor meno in sede di legittimità, l'assunto che è mancata nella specie la prova adeguata della ragionevolezza di quel recesso, posto che ad essere oggetto di contestazione è la assenza assoluta di motivazione delle ragioni del "dissenso" da parte del c.d.a., rispetto alla manifestazione di volontà del socio, e non la svalutazione delle sue ragioni ovvero l'apprezzamento, di segno contrario, di quelle della società, in linea con l'interesse prima richiamato di perseguire l'oggetto sociale attraverso la integrità della compagine dei soci, in funzione della stabilità dell'ente. Il ricorso va dunque respinto. Le spese processuali seguono la soccombenza e si liquidano in Euro 3.100,00 di cui Euro 100,00 per esborsi e Euro 3.000,00 per onorari oltre alle spese generali e agli accessori di legge. P.Q.M. P.Q.M. La Corte rigetta il ricorso e condanna la ricorrente alle spese processuali in Euro 3.100,00 di cui Euro 100,00 per esborsi Euro 3.000,00 per onorari, oltre alle spese generali e agli accessori di legge. Così deciso in Roma, il 8 febbraio 2006. Depositato in Cancelleria il 2 maggio 2006 CONFORMI E DIFFORMI In senso conforme alla prima parte della massima cfr. Cass. 6 aprile 2001 n. 5126. La Corte rigetta il ricorso e condanna la ricorrente alle spese processuali in Euro 3.100,00 di cui Euro 100,00 per esborsi Euro 3.000,00 per onorari, oltre alle spese generali e agli accessori di legge. Così deciso in Roma, il 8 febbraio 2006. Depositato in Cancelleria il 2 maggio 2006 CONFORMI E DIFFORMI In senso conforme alla prima parte della massima cfr. Cass. 6 aprile 2001 n. 5126. Tutti i diritti riservati - © copyright 2002 - Dott. A. Giuffrè Editore S.p.A.