1 Chantal Saint-Blancat, Università di Padova IMAM E RESPONSABILI MUSULMANI: LE MODALITÀ DI INTERAZIONE CON LA SOCIETÀ LOCALE Relazione presentata al Convegno L’islam in Italia. Appartenenze religiose plurali e strategie diversificate, Torino, 2-3 dicembre 2004 L’interazione tra individui e gruppi è la trama che utilizza Goffman per cogliere la natura stratificata delle situazioni sociali. Nell’interpretare la realtà che ci circonda, adoperiamo cornici interpretative condivise che riflettono l’ordine del mondo in cui viviamo. Nell’interagire con gli altri, possiamo adattarci a questi frames (cornici) dominanti, oppure prendere distanza, manipolarli o negoziare i loro significati in funzione delle situazioni in cui ci troviamo (Goffman 1967). Negli scambi sociali quotidiani, ciascuno di noi è chiamato ad un inevitabile e continuo “reframing”. I musulmani, in condizione minoritaria, non sfuggono alla necessità di dover ripensare le loro performance in funzione del loro interlocutore o del tipo d’interazione sociale in cui si trovano. Non ci si può quindi meravigliare se le loro modalità di interazione con la nostra società sono spesso contraddittorie, a volte ambigue. Nello stesso modo il loro spazio d’azione può essere locale, nazionale o transnazionale, anzi molto spesso tutti tre assieme. Nelle comunità della diaspora, l’islam nazionale, che esso sia italiano o tedesco, coabita ormai con le reti europee e mondiali di riflessione e di predicazione religiosa presso le quali alimenta in parte le sue scelte di cambiamento normativo e giuridico, mentre parallelamente si appoggia sui legami economici e di solidarietà familiare o etnica della circolazione migratoria. Qualsiasi analisi dell’adattamento delle popolazioni musulmane al loro contesto locale/nazionale di residenza non può oggi prescindere dal processo multidimensionale che caratterizza le forme di identificazione dell’islam europeo. Risulta quindi difficile inquadrare le molteplici relazioni che ciascun musulmano approdato nel paese struttura nella vita quotidiana con i suoi vicini, i datori di lavoro o le istituzioni locali. La gran maggioranza dei musulmani dichiara di non incontrare difficoltà nel comportarsi da musulmano in Italia (Saint-Blancat 1999: 134). Questo non implica che tutti scelgano di considerare l’islam come un “capitale sociale” nell’interagire con la società italiana. Nella maggioranza dei casi non l’usano, non lo ritengono utile o addirittura controproducente, optando per una privatizzazione dei comportamenti religiosi (Saint-Blancat, Schmidt di Friedberg, 2002; Recchi, Allam 2002) oppure scegliendo di militare come lavoratori senegalesi o marocchini nei sindacati nazionali. Quello che succede quotidianamente nelle cittadine della provincia italiana, dimostra che alcuni musulmani, attraverso conflitti, negoziati, adattamenti e modalità anche contraddittorie, cercano di ribaltare il diffondersi dei pregiudizi nei loro confronti. Chi sono? Quali sono le loro traiettorie sociali e le loro ambizioni? Questo sarà il primo punto che affronteremo. 2 Riscontrano presso la società locale italiana un mix complesso di reticenze, diffidenza, apertura e solidarietà, riflesso spesso della storia politica e culturale d’ogni contesto regionale 1 . Si tratta di un work in progress che non lascia molti dubbi sulla consapevolezza crescente da parte degli attuali responsabili associativi, che essi siano religiosi o laici, di doversi riappropriare del controllo del discorso pubblico nazionale. Ciò richiede l’acquisizione di competenze per interagire efficacemente con gli attori italiani chiave, istituzionali e non, e l’interiorizzazione di codici di comportamento necessari alla costruzione della fiducia. Suppone anche che i rappresentanti musulmani imparino a gestire la dimensione fortemente mediatica del dibattito italiano sull’islam. Questo sarà il nostro secondo oggetto d’analisi. Lontano dalle luci della ribalta, dal rumore mediatico orchestrato da alcuni “shouting leaders”2 che tendono ad occupare il palcoscenico, questi musulmani anonimi, lavorano silenziosamente per il riconoscimento delle proprie comunità nelle società locali dove risiedono. Inserendosi negli spazi sociali lasciati liberi dalle mancanze del potere centrale possono sviluppare autonomia e capacità d’iniziativa 3 . La nostra ipotesi è che sul terreno, lontano dalle dispute ideologiche dei guardiani delle frontiere culturali e dai controlli esercitati dagli stati d’origine, essi elaborino nuove modalità di interazione sociale. Queste strategie, a nostro avviso, determinano oggi il futuro dell’inserimento della presenza musulmana nello spazio pubblico italiano. Nella terza ed ultima parte di quest’intervento ne analizzeremo le ricadute sia sulle comunità musulmane sia sul tessuto locale italiano. I responsabili musulmani: tra continuità e cambiamenti I responsabili “storici” arrivano con le prime ondate d’immigrazione negli anni ’80. Si trattava all’inizio di studenti provenienti dalle classi medie alte che intendevano acquistare in Italia una formazione universitaria e professionale come ingegneri, architetti o medici. Erano prevalentemente d’origine somala, egiziana o siriana. Fondarono l’USMI (Unione degli studenti musulmani), primo nucleo dei futuri centri islamici italiani. Alcuni di loro sono tuttora attivi nella direzione o gestione delle associazioni islamiche. Il loro ruolo è stato decisivo nel costruire le prime reti di collegamento con le istituzioni locali, politiche e religiose, e nel fornire alle popolazioni musulmane risorse basilari come un luogo d’incontro (all’inizio una semplice stanza di preghiera) oppure strutture di insegnamento della lingua italiana. A differenza delle altre realtà europee, i convertiti italiani hanno svolto una funzione cruciale di mediazione tra la società italiana e le popolazioni immigrate (Allievi 1998). “Il fatto che siano cittadini italiani, che abbiano una miglior conoscenza dei meccanismi di funzionamento delle istituzioni spiega perché i musulmani italiani risultino così attivi e compongano la quasi totalità della leadership riconosciuta tra le associazioni musulmane. I rappresentanti dell’Unione delle comunità e delle associazioni islamiche in Italia (Ucoii), della Comunità religiosa italiana (Coreis), e dell’Associazione musulmani italiani (Ami) sono “Italiani” (Schmidt di Friedberg, 2002: 145). I convertiti italiani hanno profili contrastanti. Alcuni come Hamza Piccardo (segretario attuale dell’ Ucoii) o Ali Shutz che gestisce a Milano Il 1 Le interviste in profondità svolte da Aprile 2002 a Luglio 2003 in Toscana da F. Perocco e nel Veneto anche da chi scrive dimostrano, se fosse necessario, quanto possa risultare diverso essere musulmano al Nord, al Centro o al Sud del paese. 2 Vedere Saint-Blancat e Schmidt di Friedberg (2002) 3 Il Belgio e l’Italia possono essere considerati a questo proposito come laboratori sociali rappresentativi (Manço e Kanmaz 2002). 3 Fondaco dei Mori, un ristorante halal con circolo culturale e biblioteca annessi, lavorano instancabilmente per migliorare le relazioni tra i musulmani e le varie società locali. Altri invece hanno contribuito ad allargare il divario tra l’islam e la società italiana 4 , tramite una esacerbazione dogmatica tipica dei neo-zeloti in ogni fede, utilizzando deliberatamente uno stile comunicativo provocatorio atto ad esasperare i confini della differenza. La “vecchia” generazione e i musulmani italiani tendono oggi ad essere progressivamente sostituiti (soprattutto a livello locale) da nuove figure: lavoratori in fabbrica o piccoli imprenditori commerciali, di origine straniera questa volta, non ancora naturalizzati ma che tendono a considerare i propri figli nati nel nostro paese come cittadini italiani. La nuova generazione di responsabili ha con la precedente un punto in comune. Devono rispondere sia ai bisogni socio economici legati al processo di migrazione sia alle domande religiose. In molti casi svolgono ancora doppie funzioni. Assumono il ruolo tradizionale dell’imam: guidare la preghiera, assicurare il sermone del venerdì (khutba), insegnare i principi coranici ai bambini, presidiare ai riti di passaggio e fornire consigli giuridici nella misura delle proprie competenze. Sono anche continuamente sollecitati per risolvere problemi contingenti e d’ordine sociale, come i permessi di soggiorno, i problemi legati all’alloggio, i diritti al welfare (in particolare la sanità) o per dare suggerimenti sul mercato del lavoro o consigli su come districarsi nella bizantina legislazione italiana. La lista è senza fine. Simili domande hanno lasciato poco tempo e spazio per colmare le proprie lacune in campo religioso; questo spiega in parte la fragilità delle loro conoscenze e delle loro credenziali teologico-religiose. A differenza dei Turchi in Germania, dei Pakistani in Gran Bretagna, o dei Marocchini in Belgio, gli imam in Italia non provengono dai paesi d’origine. Sono eletti informalmente 5 all’interno delle loro comunità, spesso perché hanno una maggior conoscenza della lingua araba, qualche vernice di sapere religioso e sanno bene la lingua italiana. La selezione non avviene in genere secondo i criteri di legittimità prevista dalla Tradizione islamica ma piuttosto in funzione della capacità di alcuni gruppi musulmani di saper gestire l’accesso alle risorse del “welfare religioso” europeo come ben lo definisce Dassetto (2003). Risulta difficile appurare quale è stata la loro formazione e preparazione religiosa. I responsabili tendono ad essere piuttosto evasivi rispetto a questo tipo di domanda. Sarebbe forse più corretto definirli come autodidatti, riconosciuti e rispettati tuttavia da chi li ha eletti. L’islam italiano non è ancora istituzionalizzato come quello britannico dove, dal 1990, 22 seminari di formazione religiosa sono stati aperti nel paese, mentre gli studenti sono regolarmente mandati a perfezionare la loro educazione all’estero presso Università come Al- Azhar o Medina (Lewis 2004). Questa assenza di competenze potrebbe rappresentare in futuro un vero problema nel far fronte alle domande e attese delle nuove generazioni nate, socializzate ed educate in Italia. Lo rileva chiaramente l’imam E. dell’associazione culturale islamica di Bassano del Grappa nella florida provincia di Vicenza: “Siamo partiti dall’idea che bisogna contare sulla propria fede, contare su Dio e sul proprio impegno, (…) Stiamo cercando un imam, ma non è facile, non vogliamo importarlo dall’estero, vogliamo che sia di qui, vogliamo tirarlo su qui, che conosca il contesto. Noi abbiamo un problema: l‘imam” 6 . Per il momento i giovani colmano queste lacune 4 Come Adel Smith per esempio o Pasquini del Centro islamico di Milano Come maggior parte di loro lo conferma durante le varie interviste fatte sia nel 1998 che più recentemente. 5 6 Intervista E. Bassano, 19 dicembre 2002. Questo non fa dell’Italia un’eccezione. Il problema della formazione dell’imam è all’ordine del giorno ovunque in Europa. Vedere, a questo proposito, l’ultima iniziativa del governo francese sulla necessaria ripresa in mano della situazione con la creazione di un’università teologica musulmana. La problematica è stata affrontata in un recente colloquio europeo a Barcellona (Gennaio 2003). 4 tramite i legami transnazionali che intrattengono con le associazioni giovanili musulmane europee (come il FESYMO), usando il web e leggendo le pubblicazioni di un leader europeo come T. Ramadan. Sarebbe scorretto parlare di un gap generazionale. Meglio dire che i progetti di vita dei nuovi responsabili (in termini di realizzazione personale), combinati con concrete strategie di mobilità sociale, li hanno condotti ad assumere le loro attuali responsabilità. Non esiste nessuno studio sistematico, a livello nazionale, sulle origini e le traiettorie sociali dei leader associativi. La stessa funzione di “imam” ricopre assunzioni completamente diverse. Nei centri musulmani più grandi e ormai consolidati da più di 10 anni, la ripartizione dei compiti diventa più articolata e strutturata: un imam per la gestione interna della moschea (culto, insegnamento coranico, attività culturali e/o di solidarietà), un responsabile delle pubbliche relazioni con l’ambito locale e un’altra figura non sempre stabile che svolge la funzione di predicatore. Nei centri minori la stessa persona ricopre tutte queste funzioni. L’interpretazione del proprio ruolo e lo stile comunicativo derivano largamente dalla personalità del responsabile e dagli input ricevuti dal contesto locale. Parte della generazione recentemente arrivata in Italia non trovava nella sua società d’origine né spazio professionale né opportunità sociali a misura delle proprie ambizioni. Il controllo del pensiero religioso, l’assenza di libertà stavano stretti a responsabili che trovano invece in Italia un campo sociale su misura per la realizzazione di sé e il compimento di alcuni obiettivi socio-religiosi; la dimensione che assume nel progetto personale un ruolo centrale è la seguente: “qui posso dire la mia”7 . Alcuni hanno progressivamente scelto di svolgere un ruolo esclusivamente religioso o associativo, altri invece preferiscono combinare attività professionali e leadership comunitaria. Nel contesto italiano, incarichi politici e responsabilità sociali non entrano in contraddizione con il successo imprenditoriale o commerciale. Anzi rafforzano l’attendibilità del responsabile, sia agli occhi della propria comunità che rispetto ad una cultura locale in cui il successo professionale è rilevante. Decisioni nell’assumere responsabilità religiosa a tempo pieno o parziale sono flessibili ed evolvono con il tempo. L’esperienza locale è anche concepita (anche se non viene mai apertamente dichiarato) come un periodo di prova che potrà risultare utile in futuro in un altro contesto nazionale e/o europeo. Siamo di fronte a leader “mobili” e a personaggi “glocal”. E’ sul piano della legittimità religiosa (in particolare in termini di sapere teologico e giuridico) che parte di queste figure emergenti stenta ancora ad affermarsi. Politologi e sociologi hanno tentato di elaborare una tipologia della leadership musulmana in diaspora. Dassetto (2003) identifica molteplici profili sulla scena europea odierna. Alcuni, studenti formati in Europa in economia o in informatica, o “rifugiati politici” che hanno una discreta formazione in scienze teologiche, trovano nell’attività islamica una forma di riprofessionalizzazione. Altri provengono dalla diaspora stessa: i pionieri dell’immigrazione, i leader delle generazioni nate in Europa in conflitto con i precedenti, che non investono le moschee ma sviluppano una ‘formazione’ religiosa parallela, gli attori nominati dagli stati europei, la cui legittimità più che religiosa è fondata su competenze organizzative. Infine i convertiti con un ruolo di leadership intellettuale nella riflessione sui rapporti tra islam e spazio pubblico. Fregosi (2004) invece distingue tra l’ imam, figura a metà strada tra il ministro del culto e il mediatore socioculturale, il predicatore laico che mette l’accento sull’impegno sociale e la partecipazione alla cittadinanza come musulmano, il giureconsulto o meglio l’‘alim, esperto di diritto canonico più preoccupato della dimensione normativa della vita quotidiana per una comunità in condizione minoritaria. Cesari (2004) individua 4 tipi di autorità nell’islam della 7 Intervista G., Verona, 24 aprile 2002. 5 diaspora: il leader burocratico rimunerato dalle istituzioni islamiche dei paesi musulmani come l’Algeria, la Turchia, il Marocco o l’Arabia Saudita; il leader “parrocchiale” attivo nello spazio locale della moschea o nell’associazione islamica di quartiere o di città; il predicatore transnazionale che può ricollegarsi all’area di influenza minoritaria assolutista dei puritani dell’islam (waahhabiti, salafi o Jamaat al Tabligh) oppure alla tradizione riformista dei Fratelli Musulmani o ancora alle confraternita sufi. Infine il conferenziere, intellettuale o scienziato, che parla d’islam senza essere un dotto, la cui legittimità verte sul proprio carisma, le capacità didattiche e il suo personale audimat (indice di ascolto). In Italia siamo di fronte a figure miste e piuttosto atipiche. Non si tratta né di dotti religiosi né di veri e propri leader comunitari. Sono semplicemente attori che sanno rispondere alle domande di fedeli di cui si tende a sottovalutare la capacità di legittimare l’autorità dei propri rappresentanti, mentre la loro mobilitazione in termini di disponibilità e di denaro è all’origine ovunque in diaspora dell’emergere e del dinamismo dei centri islamici, che essi siano “moschee” o centri culturali (Zaghal e Gaborieau 2004: 18). I responsabili italiani sono vicini al profilo dell’imam di Fregosi o del leader ‘parrocchiale’ della Cesari. Aggiungerei che si tratta di figure multidimensionali, che fanno dell’imam, profilo marginale in terra musulmana, un referente centrale della comunità. Tutti non sono ovviamente in grado di rispondere su tutti i fronti: organizzativo, spirituale, di negoziazione e di comunicazione con la società locale. Tuttavia, data la presenza relativamente recente dell’islam in Italia rispetto ad altre realtà europee, i responsabili italiani dimostrano di saper far fronte alle sfide sociali e ai percorsi di interazione con i contesti locali, riscontrando a volte timori, tentazioni di ripiegamento o resistenze da parte dei musulmani, le cui reticenze sono giustificate rispetto ai pregiudizi diffusi nei loro confronti8 . In questa fase d’assenza di riconoscimento istituzionale dell’islam, tutti privilegiano un ruolo di mediazione tra la società italiana e le popolazioni d’origine musulmana. Questa strategia si riflette inevitabilmente sulla tipologia del discorso islamico che questi attori elaborano in termini d’inquadramento delle condotte, produzione di senso, ortoprassi, o discorso sullo status delle donne. Alcuni favoriscono un’osservazione rigida e normativa della doxa. Altri preferiscono invece un understatement (profilo modesto) pragmatico che lasci spazio ad un’interpretazione più flessibile delle categorie religiose. Tuttavia, non si osserva ancora presso i responsabili associativi, una rilevante capacità d’innovazione rispetto all’interpretazione dei Testi sacri, sfida centrale dell’islam europeo 9 . L’autorità del responsabile deriva in genere dalla sua capacità a sviluppare capitale sociale, costruire fiducia e competenze d’interazione e di comunicazione. Costruire fiducia, sviluppare reti e competenze 8 Vedere a questo proposito la cornice nazionale di sospetto e di ambiguità rispetto alle popolazioni musulmane, analizzata in Saint-Blancat e Perocco, 2005. 9 A questo proposito, altrove in Europa, sono emerse alcune iniziative rilevanti come quella di T. Oubrou o di T. Ramadan in Francia o di alcuni circoli femminili sufi in Germania. Nell’insieme il pensiero religioso trasmesso in diaspora rimane ancora maggiormente conservatore e poco critico. L’autorità delle istituzioni religiose tradizionali (Al Azhar) come centri di produzione e di trasmissione del sapere rimane ancora predominante. Alcuni predicatori di successo o “ulema” della diaspora, non possono autoconferirsi il patentino di legittimità senza una formazione certificata dalle grandi madrasa, dalle quali, solo in seguito, sono autorizzati a prendere distanza. E’ il caso di Hamza Usuf in California (Cesari, 2004: 226). 6 Reti e capitale sociali, ambedue risorse per l’azione individuale e collettiva alimentano flussi d’informazioni e fiducia reciproca, fissano i contenuti e i confini degli scambi e delle aspettative reciproche (Coleman, 1990; Portes, 1998). I musulmani, coscienti delle loro funzioni nell’accelerare il loro inserimento nella società italiana, li stanno costruendo. L’interazione quotidiana con la società locale comincia dalla conquista della fiducia dei vicini di casa, artigiani e commercianti del quartiere, come lo prescrive il Corano. Interagire con tutti, farsi conoscere e rispettare, contribuisce a diffondere credibilità. La costruzione delle reti è un lavoro paziente che si costruisce solo con il tempo. I responsabili giovani dimostrano una veloce comprensione dei rituali d’interazione con la società italiana locale. Sanno alternare quindi con maestria vari stili comunicativi in funzione del tipo d’interlocutore o del campo sociale prescelto. La costruzione delle reti avviene in tappe successive. Prima si cerca un interlocutore che possa appoggiare la comunità: si tratta in genere di persone collegate al volontariato laico o religioso, oppure di un funzionario con cui si tenta di stabilire un contatto. Si crea una relazione personale di fiducia con il preside della scuola, il sindaco o l’assessore all’immigrazione, oppure con il responsabile del dialogo ecumenico. Poi si passa dall’interazione informale all’istituzionalizzazione del rapporto con domanda ufficiale, acquistando visibilità, riconoscimento e legittimità. Un caso significativo di costruzione dell’interazione è quello dell’entrata di un imam in un carcere della provincia veronese, narrata 10 direttamente dall’interessato. Tramite la rappresentante di un’altra minoranza religiosa, quella protestante valdese, l’imam G. stabilisce un primo contatto con il prete che si recava in prigione regolarmente. “Dopo sei mesi d’attesa il Direttore dell’istituto penitenziario ci ha concesso il permesso. Per tre, quattro mesi ci siamo recati in prigione ogni venerdì facendo anche un buon lavoro di sostegno; circa 70 persone assistevano alla preghiera del venerdì. Poi di colpo non fu più possibile entrare. La scusa fu l’assenza di un’intesa tra i musulmani e lo Stato italiano. Allora abbiamo preso contatto con il presidente dell’Ucoii e si è interpellato il Ministero della Giustizia. Questo rifiuto costituiva una violazione dei diritti costituzionali allora in questo caso si prende un avvocato per difendere la comunità e si esce pubblicamente con una protesta sulla stampa nazionale”. Aver fornito prove concrete delle loro capacità di gestire lavoro e mediazione sociale, legittima i musulmani a difendere i loro diritti costituzionali. In questo caso, l’ovvia discriminazione in termini di parità religiosa può quindi essere trattata sul piano legale. Nella società italiana è facile e ricorrente che un conflitto locale si trasformi in una problematica nazionale 11 . Tuttavia, in questo caso il riconoscimento istituzionale, a volte, non basta. Alcuni responsabili confessano di trovare difficoltà ad identificare nei loro ranghi disponibilità nei confronti delle pecore smarrite, fenomeno riscontrato nelle carceri francesi in cui le associazioni islamiche sono vistosamente assenti a beneficio dell’influenza di un proselitismo di stampo radicale (Khosrokhavar 2004: 251). Molti rapporti rimangono personali ed ufficiosi. Servono per portare a termine, piccole, ma continue mediazioni e transazioni. Essi sono a volte altrettanto importanti di quelli istituzionali. L’interazione è anche strutturata attorno ad una strategia di trasparenza abbinata ad un rispetto rigoroso delle norme sociali o urbanistiche vigenti. Si tende a non aver paura di affermare la propria diversità pur dimostrando di conoscere i codici di comportamento, di averli fatti propri e quindi di rispettarli. Un buon esempio è il grado d’apertura della “moschea”. “Non abbiamo niente da nascondere, venite dentro a vedere la nostra moschea, anzi venite a fotografarci”. 10 Intervista G., Verona, 24 aprile 2002 A proposito del legame esistente tra livello locale e nazionale, vedere il caso paradigmatico della moschea di Lodi (Saint-Blancat e Schmidt di Friedberg, 2005 in corso di pubblicazione). 11 7 Rimanere nella legalità è fondamentale: “Alcune volte, in particolare i venerdì durante il ramadan, siamo in troppi a pregare, usciamo sul marciapiede ma nei limiti stretti della proprietà che abbiamo affittato, indicati sul suolo con una riga” 12 . Questa scelta di visibilità, che contrasta con l’islam nascosto degli anni ’60 del XX secolo in tutta Europa, si allarga ormai a tutti gli spazi sociali. La moschea è un luogo di preghiera come un altro ma anche i musulmani sono cittadini italiani come gli altri. Costruire reti e capitale sociale significa anche sviluppare competenze per collaborare con le istituzioni locali (municipio, questura, sindacati) acquistando non solo tecniche ma anche confidenza per interagire con i colleghi cristiani o il volontariato. Vuol dire confrontarsi con le istituzioni locali su più fronti: saper passare dalla risoluzione giuridica di un conflitto ad una mediazione sociale. Richiede quindi di saper gestire frequentemente il cambio di registri, il famoso re-framing di Goffman (1974). Quasi tutti i responsabili musulmani sono stati mediatori culturali o hanno seguito corsi di formazione. Abbattere la diffidenza, smontare il sospetto sono obiettivi che si raggiungono sia con la costruzione di reti che tramite uno stile comunicativo sereno, assertivo e propositivo. Strategie di comunicazione nello spazio pubblico locale Come i responsabili costruiscono la loro strategia di visibilità nello spazio pubblico? Quale stile di comunicazione scelgono, con chi e quando, quali sono i principali ostacoli riscontrati? Come tentano di capovolgere la costruzione sociale dell’ “eccezione musulmana”? Rilevante a questo proposito è cosa intendono per comunicazione. “Comunicare significa informare, relazionare ed essere visibili, farsi conoscere, rassicurare”. Secondo l’imam G., il lavoro è enorme: va dai contatti con i media, la Chiesa, alla comunicazione interna alla comunità, al collegamento regionale, nazionale ed internazionale con le associazioni musulmane d’Europa. Va dal volantino per la predica di un fratello di passaggio, all’uso d’Internet, passando per gli interventi presso la televisione locale. Le conferenze fatte presso ambiti sociali diversi dimostrano la chiarezza di una copertura comunicativa a tutto campo: i licei (perché bisogna “puntare sui ragazzi”, lì sta il nostro futuro), le Università statali, quelle teologiche, la Curia. Le conferenze sono rivolte all’insieme dell’opinione pubblica locale. Alcune sono organizzate anche in moschea. Il responsabile della moschea (o l’addetto alle pubbliche relazioni) prepara il materiale di presentazione della comunità, manda i volantini, assicura la copertura di ogni evento da parte dei mass media locali. Si tratta di una “macchina” programmata e sistematica di diffusione e di visibilità dell’islam. Si cambia stile, modo di vestirsi in funzione del target. La linea di frontiera tra le generazioni sta in questa differenza: i giovani responsabili hanno una visione più disinvolta, anzi cinica del tipo di relazione da costruire con i media. Sanno anche meglio districarsi con loro tramite un allenamento accelerato sul campo. Hanno un approccio positivo e costruttivo che contrasta con l’attitudine passiva dei responsabili giunti in Italia negli anni ’70. Finora, la tendenza generale consisteva nel proteggere la comunità, nel rafforzare la sua coesione interna, più che fare dei musulmani degli attori nello spazio pubblico italiano. Si preferiva adottare un profilo basso, un comportamento neutro rispetto ad un’arena sociale ritenuta troppo politicizzata e mediatizzata13 . Quest’attitudine non è casuale ma il risultato delle 12 13 Intervista a G., Verona, 24 aprile 2002 Intervista B., Padova 11 giugno 2002. 8 domande contraddittorie rivolte alle stesse popolazioni musulmane da parte della società italiana (Saint-Blancat, Schmidt di Friedberg, 2002). I più giova ni invece hanno meno dubbi: “i media ci usano allora dobbiamo usarli”. La strategia è scegliersi l’interlocutore e pilotarlo. Alcuni dicono “dopo l’11 settembre, non si può stare zitti”. In effetti, l’esigenza di sapersi presentare nello spazio pubblico italiano e la necessità di dover spiegare il “vero islam” alla società locale ha subito un’accelerazione dopo l’11 settembre. Se l’islamofobia ha fatto ripiegare su se stesse le popolazioni musulmane, allo stesso tempo alcuni, in particolare i giovani responsabili, sono stati spinti ad uscire pubblicamente per infrangere lo stereotipo: “I mass-media ci mettono l’etichetta, e basta. La gente comune, invece, ha due atteggiamenti: quelli che vedono i musulmani come degli integralisti, dei terroristi; quelli che sono più aperti. Tra gli italiani vedo un movimento di interesse e di bisogno di conoscenza. Vogliamo cogliere questo interesse per creare delle alleanze con la gente che la pensa come noi e che ha dei valori comuni”14 . S. imam di Castelfiorentino (Toscana) ribadisce anche lui che i mass- media nazionali presentano una visione dell’islam, spesso associata al terrorismo e al fanatismo. Aggiunge tuttavia che la responsabilità è anche degli stessi musulmani: “noi non ci siamo presentati bene, non abbiamo detto bene chi siamo e che cosa vogliamo. La colpa è anche nostra perché non abbiamo spiegato, mostrato noi, l’islam”. (..) Il musulmano non deve essere invisibile, ma(…) deve presentarsi bene”. Presentarsi bene significa: “in maniera ordinata, pulita; che non si vuole essere separati dalla società ma si vuole essere integrati, fare parte della comunità in cui si vive, seppur coltivando le proprie tradizioni e mantenendo la propria cultura”15 . In molti casi tuttavia rimane ancora molta strada da percorrere. Sforzi di comunicazione e attività di relazioni pubbliche attivate da alcuni centri islamici ottengono a volte effetti perversi e controproducenti, contribuendo a rafforzare pregiudizi e stereotipi nei confronti dell’islam. E’ il caso riportato da A. Frisina (2003) nella sua osservazione di una visita guidata, destinata a studenti delle scuole elementari, medie e superiori, alla moschea del Misericordioso a Milano. L’autrice sottolinea la costruzione cooperativa del pregiudizio tra gli attori coinvolti nell’esperienza: la guida alla quale gli studenti attribuiscono, per incompetenza loro, un ruolo di autorità religiosa indiscussa e il ruolo passivo degli insegnanti nel mediare l’informazione proposta. Per i musulmani trovare spazio nelle province italiane dipende quindi ancora non solo dalle logiche dei poteri locali, ma anche e soprattutto dalle reti e qualità personali dei loro responsabili, dalla scelta degli stili comunicativi e dalle loro doti di leadership. Queste caratteristiche appaiono decisive nel cond izionare le chances concrete dell’interazione. Strategie plurali d’interazione La chiave di successo per diventare interlocutore o mediatore agli occhi della società locale sta nel saper cogliere le opportunità e adattarsi all’offerta. Lo dimostra il pluralismo delle strategie osservate. Questo non è casuale. I musulmani non si lasciano ingannare dal discorso dominante in cui cultura fa rima con comunità. Baumann osserva che questo rappresenta la moneta di scambio con cui devono operare nel contesto locale e nazionale. Di conseguenza sviluppano “competenze discorsive strettamente connesse all’esperienza quotidiana, ed 14 15 Intervista K., Vicenza, 20 marzo 2003 Intervista S., Castelfiorentino, 10 novembre 2002. 9 elaborano una raffinata capacità di giudizio nello scegliere quale argomento usare e in quale contesto” (Baumann, 1996: 204). Sono state individuate tre modalità di interazione con il contesto locale 16 . Ne esistono probabilmente altre. Una prima strategia consiste nell’istituzionalizzare pazientemente le relazioni esistenti. Il secondo approccio è più complesso. Si tratta di una tattica informale che consente l’inserimento sistematico dei musulmani nelle pratiche sociali quotidiane in cui la propria diversità diventa una risorsa per interagire. Il terzo ed ultimo tipo di strategia preferisce invece un abbassamento delle frontiere simboliche e fa perno su un’identità flessibile che plasma le domande e/o le attese della società locale. L’azione del Consiglio islamico di Vicenza illustra chiaramente il primo tipo d’interazione. E’ un organismo religioso confederato su base provinciale, molto attivo nel campo culturale e nel dialogo interreligioso. Vi siedono cinque imam. Il suo obiettivo è diventare referente delle istituzioni e accelerare il riconoscimento della ‘comunità islamica’ nello spazio pubblico. Dichiara di non essere strettamente un’associazione religiosa, in realtà si presenta come tale, perfettamente cosciente del frame dominante che fa di qualsiasi comunità religiosa musulmana dichiarata, una fonte di sospetto. Il Consiglio si presenta quindi come il simbolo dell’islam moderato. “Ci mettiamo in discussione sulle cose che ci riguardano, sulle nostre tradizioni. Non ci mettiamo in discussione sui principi di fondo, ma siamo disposti a rivedere certe tradizioni, legate a contesti locali, o a quella etnia, che non c’entrano niente con l’islam. [..]abbiamo aspettato per troppo tempo che gli enti pubblici ci chiamassero. Ora vogliamo essere propositivi, e lavorare nei progetti di questi enti, presentando anche delle idee, delle proposte”. Interlocutore moderato, il Consiglio dichiara voler ma ntenere alcune specificità culturali, basate su valori comuni che non ostacolano la convivenza. Agli organi di governo regionale sono state poste due richieste: la possibilità di gestire centri multifunzionali e di aprire scuole per bambini, “senza essere etichettati come scuole coraniche”. Questa condotta dimostra una buona conoscenza del rapporto esistente tra vita politica locale e nazionale in Italia 17 . Il Consiglio anticipa l’istituzionalizzazione di una struttura ancora inesistente a livello nazionale, fiducioso nell’effetto pala di neve che può riscontrare il successo dell’inserimento concreto dei musulmani nelle pratiche sociali locali. La scelta della strategia informale costituisce un’altra versione della competenza d’alcuni responsabili nel saper gestire le interazioni con la società italiana, rompendo questa volta la cornice dominante della sovrapposizione tra musulmani ed islam. L’elemento che contraddistingue l’azione di H. , uno dei personaggi chiave del centro culturale islamico di Cornuda nella provincia di Treviso è la mobilità dei confini e dei ruoli. Molte volte agisce e si presenta come “immigrato”, a volte come “marocchino”, a volte come “volontario” o “mediatore culturale”, solo eccezionalmente come “musulmano”. Questa ultima dimensione resta sullo sfondo, ma non per questo è di minor importanza; costituisce in realtà una risorsa di senso molto robusta. L’islam non viene utilizzato nella penetrazione dello spazio pubblico e nella competizione per la leadership, svolge invece un ruolo primario nelle relazioni sociali come schema di riferimento valoriale. H., è per esempio una delle figure di spicco dell’associazione “Giovani senza frontiere”, formata da persone di diverse nazionalità, italiani compresi, che promuove iniziative di carattere socio-culturale, come la costituzione di un centro interculturale; è in stretto contatto con il settore immigrazione della Caritas locale, che organizza ogni anno un’importante festa interculturale, con la partecipazione di circa quindicimila persone; partecipa all’associazione “Le Genti del Libro”, un gruppo di dialogo 16 17 Per un approfondimento delle strategie qui presentate vedere la tesi di dottorato di F. Perocco (2003a). Vedere Saint-Blancat e Schmidt di Friedberg, 2005, op. cit, in corso di pubblicazione). 10 interreligioso. In sostanza H. si posiziona su tutti i fronti prima come individuo poi come membro della propria comunità. Il Centro interculturale islamico di Castelfiorentino in Toscana ha scelto di adattarsi per sopravvivere. Questo caso dimostra come lo spazio di manovra lasciato ai musulmani è spesso condizionato dall’ordine sociale locale. A. Cohen (1985) ci ricorda a questo proposito che il concetto di comunità è in realtà una “costruzione simbolica, contingente e situata”, destinata quindi a mutare con il tempo. Dopo anni di collaborazione con le istituzioni locali per risolvere i problemi materiali degli immigrati, l’associazione è diventata l’interlocutore privilegiato del comune, modellando le sue richieste sulle strutture di opportunità offerte. L’amministrazione locale è riuscita ad ottenere il riconoscimento pubblico dell’islam. Si tratta di un islam plurale, inserito nella vita quotidiana della società locale e paziente nelle sue richieste. Non a caso l’associazione ha accettato di chiamarsi “Centro interculturale islamico”. Essa è guidata da S., che sa come pensano e funzionano le istituzioni, è in grado di decifrarne le richieste e di assecondarne le esigenze; allo stesso tempo riesce a far passare tra gli immigrati la linea dell’amministrazione, a beneficio dell’inserimento con discrezione dei musulmani nel tessuto locale. Adattarsi al frame dominante di una comunità musulmana su misura, diventa una carta utile da spendere. Adottando le regole del gioco, si conquista assieme status, rispetto e risorse (Baumann 1996:193). Le strategie osservate riflettono la progressiva normalizzazione dell’islam nello spazio pubblico europeo. Informano anche sulle dinamiche e spinte contraddittorie presenti oggi all’interno delle popolazioni musulmane. Nelle diverse modalità di costruirsi come “referente” nella società locale italiana, emergono due tipi di problematiche che coinvolgono sia la realtà musulmana che locale. La prima è la concezione sociologicamente dominante della religione nella società. La seconda è una visione troppo spesso reificata della cosiddetta comunità. I musulmani interrogano il non detto sollevato dal dispositivo confessionalista della religione prevalente nelle società europee. Si favorisce l’aspetto istituzionale del culto attraverso l’identificazione di un’autorità centrale legittimata a regolare ad intra la vita religiosa nella sfera pubblica. Si suppone quindi che ci sia una supposta equivalenza tra rappresentazione e rappresentatività: vale a dire un interlocutore legittimo per il culto musulmano agli occhi dello Stato che possa anche parlare in nome di tutti i musulmani. Il carattere fittizio del meccanismo, verificatosi oggi anche per il cattolicesimo (Hervieu-Léger 2004:134), conduce nel caso dei musulmani alla solita logica di sospetto. I musulmani sono questionati sia sulla legittimità della loro rappresentanza (teologico-politica) che su quella della rappresentatività (sociologica). Questa contraddizione sottolinea una volta di più le ambiguità del principio di laicità che garantisce da un lato l’accesso indiscriminato di tutte le religioni allo spazio pubblico e prevede la neutralità dello stato in materia. Ma dallo stato ci si aspetta ben altro; che diventi il garante della legittimità/illegittimità della presenza religiosa nello spazio pubblico, soprattutto quando si tratta della religione dell’altro 18 (Cesari, 2004: 410). Non c’è quindi da stupirsi se emergono presso i musulmani italiani concezioni diverse della rappresentanza che combaciano con una visione spesso differenziata o perlomeno contraddittoria della propria “comunità”. Si ritrovano in effetti presi tra due fuochi. Da un lato l’islam non sfugge all’individualizzazione irreversibile dell’identità religiosa in tutte le credenze. Al di là della lotta interna per il monopolio del controllo del campo religioso, lo scarto tra l’appartenenza alla cultura musulmana e come ciascun musulmano intende esprimerla concretamente nello spazio pubblico appare inevitabile. Dall’altro i musulmani devono fare i conti con le politiche 18 Per un’analisi dell’ambiguità delle relazioni tra Stato e religione in Italia vedere Pace (1998) e Casanova (2000). 11 sociali nazionali e un volontarismo di stato 19 che impongono i contorni e il contenuto delle cosiddette ‘comunità’ (Baumann, 1996:197). Questo comunitarismo imposto dall’alto va a scapito dell’espressione di un islam plurale più vicino alle configurazioni concrete della diaspora musulmana e finisce per condizionare la scelta delle frontiere simboliche esterne (Saint-Blancat 2005). Alcuni per esempio, come E. di Bassano, intravedono il rischio appunto di una “confessionalizzazione” dell’islam e rifiutano di inquadrare la loro azione come “minoranza religiosa”, “Il comune ha raccolto e aperto un fascicolo per le minoranze religiose. Si è parlato in consiglio comunale della comunità musulmana e delle altre minoranze. Noi non vogliamo entrare come religione, come minoranza religiosa, ma restare associazione” 20 . Seguendo una logica simile, S. di Castelfiorentino intende per comunità musulmana “tutti i fratelli musulmani, anche quelli che non partecipano, che non frequentano la moschea, anche quelli che non praticano”21 . Quelli che non praticano sbagliano, ma sono ugualmente dei fratelli. S. intende costituire una comunità unita e attiva. Altri invece favoriscono la dimensione religiosa pur accettando eve ntuali adattamenti. J. responsabile del Centro culturale islamico di Colle Valdesa in Toscana afferma: “L’identità di noi musulmani qui, adesso, è mantenere la lingua, la letteratura, l’alimentazione, la preghiera. Essere una comunità compatta che mantiene alcuni principi che vengono dalla shari’a islamica, ma adattando le nostre abitudini e stili di vita a questa realtà, noi dobbiamo rispettare le regole di vita del paese in cui viviamo ed adattarci a questo posto”22 . J. è riuscito però ad ottenere di poter celebrare il matrimonio islamico nel centro, ove la coppia firma il “contratto di matrimonio” previsto dalla legge coranica. Il matrimonio religioso avendo valore civile in Italia come in Spagna, il centro islamico è riuscito a far accettare al Comune la richiesta di autentificazione da parte dell’amministrazione comunale che appone sul contratto il proprio timbro. Conclusione La varietà e la complessità delle scelte di accomodamento osservate sono legate al fatto che le realtà locali italiane e la presenza musulmana hanno una caratteristica in comune: il loro pluralismo interno. Ma non solo. L’ambiguità apparente e le contraddizioni rilevate corrispondono in realtà a strategie di sopravvivenza rispetto alle strutture d’opportunità offerte. I responsabili musulmani sanno che la loro legittimità e visibilità si costruiscono a partire dall’azione radicata nel locale e nel quotidiano, spazio centrale d’interazione e di negoziazione tra la società italiana e le loro comunità. Essi sono, come si è visto, attori sociali innovativi, capaci di elaborare pratiche sociali flessibili, adattate al contesto socioeconomico e alle regole del gioco politico locale. Queste strategie di bricolage consentono di rispondere concretamente alle sfide dell’inserimento pur salvaguardando la tutela e la trasmissione del proprio capitale culturale ed etico-religioso per le generazioni nate in Italia. Sono spesso musulmani anonimi che devono quotidianamente rielaborare e comunicare la definizione pubblica della loro cultura. Sono quindi costretti a destreggiarsi tra frontiere esterne 19 Vedere a questo proposito il lungo travaglio del CFCM francese o la dimensione etnica del modello di rappresentanza belga (Pace 2004). 20 Intervista E., Bassano, 19 dicembre 2002 21 Intervista S., Castelfiorentino, 10 novembre 2002 22 Intervista J., Colle Valdesa, 22 maggio 2003 12 ed interne, mediando con le attese della società locale, i suoi stereotipi e il suo modello implicito di cooptazione. Parallelamente devono anche fronteggiare le diffidenze, la paura di perdersi e l’irrigidirsi delle loro comunità. L’arbitrarietà delle politiche migratorie italiane (Sciortino, 1999; Perocco 2003) e l’ambiguità dello Stato italiano nel rimandare da anni il riconoscimento istituzionale dell’islam tramite una procedura d’intesa (Ferrari 2000, Aluffi, 2004) non hanno certamente contribuito a far emergere e maturare una leadership musulmana italiana a differenza di altre realtà europee (l’entrata nella vita politica locale in Gran Bretagna o l’emergere di una borghesia attraverso la vita associativa in Francia). Tuttavia, questi attori hanno percorso molta strada, sapendo gestire un proprio spazio sociale di manovra. Pragmatici e acrobati rispetto alla manipolazione delle categorie religiose che stentano a padroneggiare, questi responsabili no n sono catalogabili e possono anche essere considerati come ambivalenti. Rispecchiano la centralità ma anche le difficoltà riscontrate oggi dalla diaspora nella sua ricerca di un’autorità religiosa legittima. La diversità degli approcci, in particolare presso i giovani, tende a dimostrare che la realtà delle pratiche, le spinte individualistiche e l’acculturazione ad un contesto secolarizzato, rischiano di non trovare presso autorità tradizionali una risposta alle proprie attese (Saint-Blancat 2004). I responsabili attuali costituiscono l’ala dinamica dell’attuale processo d’interazione tra le popolazioni musulmane e la società locale italiana. Non si può oggi prevedere come evolverà questo modello d’interazione, come verrà organizzato e strutturato questo paziente lavoro quotidiano di interfaccia, in particolare di fronte alle crescenti tensioni internazionali. Bibliografia Allievi, A. (1998), Les convertis à l’islam. Les nouveaux musulmans d’Europe, Paris: L’harmattan. Aluffi B.-P, R (2004), ‘The Legal Treatment of the Muslim minority in Italy’ in Aluffi B.-P., R. and Zincone, G. (eds) The Legal Treatment of Islamic Minorities in Europe, Leuven: Peeters. Baumann, G. 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