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ATTESTAZIONI E CONTROLLO
GIUDIZIARIO NELLE
PROCEDURE CONCORSUALI
Il libro, frutto di uno sforzo di ricerca congiunto tra giuristi e
aziendalisti, coniuga in una prospettiva interdisciplinare le analisi sulle attestazioni dei professionisti e sul controllo giudiziario
nelle procedure concorsuali.
Particolare attenzione è dedicata al ruolo del professionista
nelle diverse fasi della gestione della crisi d’impresa, dalla
consulenza strategica per la tempestiva emersione dello stato di crisi, alla formazione del piano attestato di risanamento,
agli accordi di ristrutturazione dei debiti, ai piani di concordato preventivo. L’istituto delle attestazioni costituisce il cardine
giuridico per mezzo del quale sono approfonditi i temi relativi a
concordato con riserva e ordinario, ai controlli del tribunale
di L. D’ORAZIO,
F. S. FILOCAMO, A. PALETTA
come presupposto di conformità delle valutazioni del professio-
pagg. 544 - cod. 00139168
dell’imprenditore agricolo. Le complesse problematiche sotte-
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nista, al sovraindebitamento dell’imprenditore non fallibile e
se dall’istituto delle attestazioni trovano un robusto ancoraggio
nell’analisi del profilo economico aziendale del professionista
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il Fallimento
Anno XXXVIII
SOMMARIO
OPINIONI
Accordi di
ristrutturazione
LA CONVENZIONE DI MORATORIA DI CUI ALL’ART. 182SEPTIES
di Riccardo Ranalli
889
NORMATIVA
Decreto Legge 3 maggio 2016, n. 59
DISPOSIZIONI URGENTI IN MATERIA DI PROCEDURE ESECUTIVE E CONCORSUALI, NONCHÉ
A FAVORE DEGLI INVESTITORI IN BANCHE IN LIQUIDAZIONE
902
IN ITINERE
NOVITÀ GIURISPRUDENZIALI
a cura di Massimo Ferro
908
GIURISPRUDENZA
Legittimità
Accordi di
ristrutturazione
Fallimento
Concordato
preventivo
Cassazione civile, Sez. I, 20 aprile 2016, n. 7958
Tribunale di Udine 19 maggio 2016
Tribunale di Milano 11 febbraio 2016
GLI ACCORDI DI RISTRUTTURAZIONE NELLA CORNICE DELLA TUTELA DEI DIRITTI
E LA RILEVANZA DELLA FATTISPECIE SPECIALE DI CUI ALL’ART. 182-SEPTIES L.FALL.
IN CHIAVE DI COLLETTIVIZZAZIONE DELLA CRISI
commento di Massimo Fabiani
911
912
914
Cassazione civile, Sez. I, 7 aprile 2016, n. 6759
CESSIONE DI CREDITO IN GARANZIA E PRELAZIONE
commento di Aldo Angelo Dolmetta
930
Cassazione civile, Sez. I, 16 febbraio 2016, n. 2990
IL REGIME DEI PROVVEDIMENTI SULLA RISOLUZIONE (E SULL’ANNULLAMENTO)
DEL CONCORDATO PREVENTIVO (E FALLIMENTARE)
commento di Fabrizio De Vita
937
917
931
938
Merito
Concordato
preventivo
Accordi di
ristrutturazione
Corte d’Appello di Firenze 2 novembre 2015
LE IMPERCETTIBILI CORREZIONI DELLA GIURISPRUDENZA DELLA CORTE DI CASSAZIONE
IN TEMA DI CAUSA DEL CONCORDATO PREVENTIVO
commento di Federico Casa
945
Tribunale di Milano 3 dicembre 2015
ACCORDI DI RISTRUTTURAZIONE DEI DEBITI E FONDI COMUNI DI INVESTIMENTO:
UNA POSSIBILE ‘‘DIVERSA’’ LETTURA?
commento di Elena Grigò
958
Amministrazione Tribunale di Roma 9 luglio 2015
straordinaria
ORDINANZA PROVVISORIA DI RILASCIO DELL’IMMOBILE LOCATO E PROCEDURE CONCORSUALI
commento di Marcello Gaboardi
947
959
970
974
ITINERARIO
I CREDITI PREDEDUCIBILI
a cura di Marco Spadaro
il Fallimento 8-9/2016
985
887
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il Fallimento
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Anno XXXVIII
OSSERVATORI
TRIBUTARIO
a cura di Enrico Stasi
1001
Massimario di legittimità
Massime della giurisprudenza di legittimità pubblicate secondo l’ordine progressivo della materia
regolata dagli articoli del R.D. 16 marzo 1942, n. 267
1006
Massimario di merito
Massime della giurisprudenza di merito pubblicate secondo l’ordine progressivo della materia
regolata dagli articoli del R.D. 16 marzo 1942, n. 267
1009
INDICE
1011
Indice analitico-alfabetico
COMITATO PER LA VALUTAZIONE
N. Abriani, S. Ambrosini, M. Arato, G. Cabras, G. Cavalli, P.F. Censoni, P. De Cesari, L. Del Federico, S. Fiore, E. Frascaroli Santi, A.
Lanzi, F. Macario, F. Marelli, M. Montanari, I. Pagni, U. Patroni Griffi, M. Perrino, G. Presti, A. Rossi, R. Tiscini, G. Trisorio Liuzzi
Per informazioni in merito
a contributi, articoli ed argomenti trattati
Per informazioni su gestione abbonamenti, numeri arretrati,
cambi d’indirizzo, ecc., scrivere o telefonare a:
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EDITRICE
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HANNO COLLABORATO
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è a cura dell’Avv. Dario Finardi
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il Fallimento 8-9/2016
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Opinioni
Accordi di ristrutturazione
Convenzione di moratoria
La convenzione di moratoria di
cui all’art. 182 septies
di Riccardo Ranalli (*)
La convenzione di moratoria di cui all’art. 182 septies è volta ad accelerare i tempi di una fase
critica nel processo di risanamento che spesso si dilata oltre misura per la ritrosia delle banche
meno coinvolte ad accettarne il contenuto. Nel lavoro si affrontano i requisiti per l’estensione
forzosa dei suoi effetti, in particolare la concreta applicabilità dell’omogeneità delle categorie,
nonché la convenienza per i creditori rispetto alle alternative concretamente praticabili ed il contenuto dell’informativa che deve essere resa dal debitore.
Le caratteristiche dello strumento
L’art. 182 septies, sull’accordo di ristrutturazione
con intermediari finanziari e sulla convenzione di
moratoria, al comma 5 ha introdotto la possibilità
di estendere, a maggioranza, gli effetti di una moratoria in via temporanea raggiunta convenzionalmente con gli intermediari finanziari (1) ai creditori che presentino una posizione giuridica ed interessi economici omogenei rispetto a quelli dei creditori aderenti.
Si tratta di una moratoria che la norma stessa qualifica come atta a “disciplinare in via provvisoria gli
effetti della crisi”, lasciando con ciò intendere la sua
funzionalità al raggiungimento di una qualche soluzione definitiva di superamento della crisi. Il che è
coerente con il contesto di crisi (che va dalla temporanea tensione finanziaria sino all’insolvenza
conclamata) nella quale lo strumento può essere
impiegato, al punto che non parrebbe consentito
l’impiego dello stesso al di fuori di tali situazioni (2). L’espresso riferimento ad uno stato di crisi è
quanto mai opportuno in quanto, diversamente rispetto all’accordo di ristrutturazione speciale, nella
convenzione di moratoria non trova applicazione il
disposto dell’art. 182 bis, che al comma 1 così recita: “l’imprenditore in stato di crisi può domandare...”.
(*) Il contributo è stato sottoposto, in forma anonima, alla
valutazione di un referee.
(1) Trattasi degli istituti di credito iscritti nell’albo dell’art. 13
del d.lgs. 1° settembre 1993, n. 385 (TUB) e degli intermediari
finanziari di cui all’art. 106-107 del TUB ai quali rinvia l’art. 18
il Fallimento 8-9/2016
Invero, la necessità della presenza di uno stato di
crisi può ricavarsi anche:
a) dal fatto che la norma sia collocata nella Legge
fallimentare sotto il Titolo “Del concordato preventivo e degli accordi di ristrutturazione”;
b) dal rinvio al comma 4, terzo periodo, in relazione al vaglio in sede di omologa e così al tema della
convenienza rispetto alle alternative concretamente praticabili.
La norma sottolinea la natura “temporanea” della
moratoria; in considerazione del fatto che ogni moratoria per propria natura è limitata nel tempo, la
precisazione parrebbe superflua. Volendo comunque dare ad essa un significato, se ne può dedurre
che si tratta di un istituto destinato ad operare solo
in un orizzonte temporale di breve termine. Il che
è ragionevole in considerazione della sua natura
strumentale rispetto alla ricerca di composizioni
definitive della crisi. D’altronde, nel caso in cui la
moratoria da sola non sia in grado di rimuovere
l’insolvenza, la sua durata non dovrebbe eccedere
il termine di 90 giorni entro il quale l’art. 168 rende inefficaci le ipoteche giudiziali iscritte prima
della presentazione di un ricorso di concordato preventivo.
Sembra chiaro che il regime provvisorio della convenzione di moratoria possa sfociare sia in un accordo ai sensi dell’art. 182 bis, sia in un concordato
del TUF per i soggetti abilitati ai servizi di investimento.
(2) Diversamente rispetto allo scheme of arrangement anglosassone, al quale pur si ispira, utilizzabile anche da parte
delle realtà in bonis.
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Opinioni
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Accordi di ristrutturazione
preventivo. Ci si deve invece domandare se, in ragione del suo collocamento tra le norme del concordato preventivo e dell’accordo di ristrutturazione, la convenzione di moratoria possa essere funzionale ad un piano di risanamento attestato, eventualmente sottostante ad un accordo interbancario
ma comunque non omologato, o se addirittura possa non scaturirne il ricorso ad alcun altro strumento, per effetto del venir meno dello stato di crisi.
La risposta dovrebbe essere positiva in entrambi i
casi, in quanto non è espressamente prevista la
funzionalità della moratoria ad una soluzione predeterminata, né che ad essa faccia seguito l’impiego di un qualche diverso strumento. E ciò contrariamente agli strumenti protettivi di cui ai comma
6 degli artt. 182 bis e 161.
Ulteriori peculiarità dello strumento in esame sono
l’irrilevanza del debito coinvolto e dell’incidenza
del debito bancario (propri dell’accordo di ristrutturazione ordinario e di quello “speciale”), nonché,
nel contempo, l’assenza di un giudizio di omologa.
Tale ultima peculiarità fa sì che il professionista attestatore, ex art. 67 l.fall., sia chiamato in questo
senso a svolgere un ruolo di supplenza, rispetto al
tribunale.
Le finalità della norma
Per comprendere la scelta del legislatore pare opportuna qualche considerazione tratta dalla prassi
delle negoziazioni bancarie. In seguito all’apertura
di un tavolo bancario il rischio maggiore per la
continuità può derivare dagli atteggiamenti assunti
dalle banche con la revoca degli affidamenti esistenti o con ostacoli al mantenimento della normale operatività (non ultimo, la difficoltà nell’accettazione di nuova “carta” per alimentare gli utilizzi delle linee autoliquidanti). È ben vero che sin
dal 20 ottobre 1999 le banche hanno siglato il Codice di autodisciplina ABI con il quale si sono impegnate a tenere comportamenti in buona fede sin
dall’apertura del tavolo di consultazione. Tale codice prevede l’impegno delle banche “a non utilizzare la notizia della riunione [di avvio delle negoziazioni] al fine di modificare la propria situazione
di fatto in termini di affidamenti, acquisizione o
realizzo di garanzie verso l’impresa o il gruppo, dal
momento in cui è pervenuta la notizia e sino alla
comunicazione delle proprie decisioni”, che le banche stesse si impegnano “a far pervenire...prima del
compimento di eventuali atti urgenti nei confronti
dell’impresa”.
La valenza del codice è peraltro limitata. Occorre
infatti tener presente, prima ancora del fatto che
esso opera solo in caso di indebitamento bancario
significativo (3), che nessuna sanzione è prevista in
caso di violazione della convenzione e che esso
può essere più agevolmente violato, anche senza
eclatanti atti di revoca degli affidamenti, semplicemente ponendo ostacoli “operativi” all’utilizzo delle linee stesse. In ogni caso, in assenza di convenzione, non vi è alcun termine prefissato entro il
quale le banche non possano sfilarsi dal tavolo revocando gli affidamenti in essere.
È pertanto sempre opportuno, al fine di creare un
humus adatto all’attivazione del processo di risanamento, prevedere pattiziamente un pactum de non
petendo, temporaneo o provvisorio, al quale si affianchi un accordo di standstill per il mantenimento
dell’utilizzo delle linee nei limiti del livello di utilizzo esistente all’apertura del tavolo di ristrutturazione.
L’esperienza insegna, però, che la negoziazione dell’accordo di moratoria e standstill è spesso assai difficoltosa e dilatata nel tempo, per la ritrosia delle
banche meno coinvolte ad accettarne il contenuto,
con un conseguente braccio di ferro con quelle più
esposte le quali per contro pretendono, giustamente, omogeneità di comportamento. Il che si traduce
in moratorie di fatto, non regolamentate, incerte
negli effetti, prive di un vincolo temporale e di
reale cogenza.
La moratoria in senso tecnico, invero, si concretizza in un pactum de non petendo. Si invoca invece il
termine standstill per sottolineare la facoltà di utilizzo
degli affidamenti esistenti nei limiti dell’utilizzo in
essere alla sua attivazione. Invero occorre osservare
che, diversamente da un accordo di ristrutturazione, la moratoria necessita di fatto dell’adesione,
volontaria o coatta, da parte di tutte le banche creditrici. Accanto alla finalità derivante dall’assicurare le risorse finanziarie occorrenti alla prosecuzione dell’attività nelle more delle trattative, necessarie per pervenire ad un accordo sulla manovra finanziaria, è particolarmente sentita l’esigenza di assicurare un completo allineamento tra le banche di
modo che nessuna di esse nel frattempo si avvantaggi rispetto alle restanti. Il rientro di una banca
comporta infatti un incremento del fabbisogno finanziario che inciderà nella successiva manovra finanziaria con le restanti.
(3) Di almeno 30 milioni di vecchie lire.
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il Fallimento 8-9/2016
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Opinioni
Accordi di ristrutturazione
La convenzione di moratoria deve essere raggiunta
con la stessa maggioranza, di almeno il 75% dei
crediti omogenei per posizione giuridica e interessi
economici, prevista per gli accordi di ristrutturazione speciali.
Si potrebbe ritenere che la temporaneità della moratoria renda superflua la suddivisione dei creditori
in categorie e ben potrebbe applicarsi a tutti i creditori “bancari” indistintamente. Sotto tale profilo
non deve essere trascurato il fatto che, mentre
l’art. 182 septies pone l’accento sulla possibilità di
suddividere i creditori in questione in categorie
omogenee (v. comma 2), la definizione “categorie”
non è mai utilizzata con riguardo alla convenzione
di moratoria.
Invero, l’assenza della esplicita previsione di una
pluralità di categorie omogenee è di fatto priva di
rilevanza, essendo prevista dalla stessa norma, quale presupposto della estensione coattiva degli effetti della convenzione, l’attestazione di omogeneità
delle posizioni e degli interessi dei creditori coartati con quelli dei creditori aderenti. Sicché, in tutte
le ipotesi in cui solo una parte dei creditori aderenti fosse omogenea rispetto alle restanti banche che
si intendono coartare, è a tale parte che occorre fare riferimento in relazione alle pattuizioni convenute ed al quorum adesivo richiesto.
La norma, oltre a imporre il cennato requisito della
omogeneità, pone alcuni oneri in capo al debitore
per ottenere l’estensione delle pattuizioni ai non
aderenti:
a) la condivisione della notizia dell’avvio delle
trattative (dice la norma: “se questi - n.d.a. i coartati - sono stati informati dell’avvio delle trattative”). Con riferimento all’attivazione e alla comunicazione a tutti i creditori dell’avvio delle trattative, essa deve essere tale da rendere consapevoli
tutte le banche interessate dell’apertura del tavolo
di negoziazione e della possibilità di parteciparvi
(ultima parte della lett. b del comma 4). In pratica,
la comunicazione di avvio deve essere sufficientemente circostanziata per consentire alla singola
banca di coinvolgere la propria funzione interessata
e deve pervenire in tempo utile per una tempestiva
sua attivazione. Pare doveroso richiamare in merito
l’orientamento espresso dal Tribunale di Reggio
Emilia (6) che esige la convocazione di una riunione di kick-off del debitore con i creditori;
b) la buona fede nella conduzione delle trattative
che si deve ritenere estesa anche agli aderenti bancari. Che l’onere di buona fede sia posto a carico
anche di questi ultimi si desume dalla lettera della
norma (al comma 2, laddove si precisa che “tutti i
creditori della categoria ... siano stati messi in condizione di parteciparvi in buona fede”, da leggersi
coniugato al comma 5, nel quale si chiede che “le
trattative si siano svolte in buona fede”) (7). Il che
appare ragionevole, in quanto potrebbe accadere
che un creditore non aderente che teme di essere
coartato tenti, riuscendovi, in prossimità della conclusione dell’accordo, di ridurre la propria esposizione. Qui però forse soccorrono anche i rimedi generali previsti in materia contrattuale e, dalla pur
(4) Che deve essere resa da un professionista con i requisiti
previsti all’art. 67.
(5) Comunicazione che la norma chiede che avvenga con
lettera raccomandata o PEC.
(6) L. Varotti, Art. 182 septies. Accordo di ristrutturazione
con intermediari finanziari e convenzione di moratoria, in Crisi
d’Impresa e Fallimento, 18 agosto 2015.
(7) Vi è stato chi ha rilevato che la buona fede sembrerebbe
riferita al comportamento del creditore (M. Aiello, Art. 182 septies. Accordo di ristrutturazione con intermediari finanziari e convenzioni di moratoria, in S. Ambrosini - A. Trapuzzano (a cura
di), Codice del fallimento, in corso di pubblicazione) quand’anche egli ritenga più ragionevole che il requisito soggettivo vada accertato in capo al debitore anche perché sarebbe incon-
gruo consentire ad una banca di caducare l’accordo semplicemente assumendo un atteggiamento contrario alla buona fede. La frase non è delle più felici in quanto, come osservato da
taluni commentatori (Lamanna, La miniriforma (anche) del diritto concorsuale secondo il decreto “contendibilità e soluzioni finanziarie”, parte IV, in www.ilfallimentarista, 6), parrebbe riferita anche ai creditori bancari in quanto parte delle trattative.
Per dare ad essa un contenuto ragionevole e coerente con la
natura di requisito necessario per l’omologa, deve essere interpretata nel senso: “ove i creditori mostrino interesse alla proposta di accordo, essi debbono essere messi dal debitore concretamente in grado di fare le loro controproposte e quindi di
partecipare fattivamente all’iter di formazione del consenso”
(Lamanna, cit.).
In sostanza, la moratoria è comunque volta a consentire un primo rapido intervento per evitare iniziative individuali di alcune banche. È vero che,
sussistendone i requisiti, l’estensione degli effetti
potrebbe essere attivata solo al temine delle negoziazioni, semplicemente trasmettendo agli intermediari finanziari che si intendono coartare la convenzione e l’attestazione (4) di omogeneità (5). È
tuttavia improbabile che le banche aderenti non
prevedano clausole di scioglimento dagli impegni
della convenzione, nel caso in cui il debitore non
espleti le formalità occorrenti per l’estensione alle
banche non aderenti o nel caso in cui queste ultime tentino di svincolarsi tramite l’opposizione al
tribunale o l’eventuale successivo reclamo alla corte di Appello.
La peculiarità dello strumento; gli oneri
previsti in capo al debitore
il Fallimento 8-9/2016
891
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Opinioni
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Accordi di ristrutturazione
sibillina articolazione della frase, non dovrebbero
essere tratti ulteriori elementi, salvo il generale dovere anche del creditore di partecipare in buona fede alle trattative. Non può peraltro negarsi che,
nel momento in cui il creditore aderisce, lo fa nel
proprio interesse e non si può escludere che tale
interesse sia confliggente con quello di altri creditori per motivi a lui noti e non necessariamente resi manifesti agli altri intermediari finanziari (8). Il
che peraltro non dovrebbe rilevare sotto il profilo
della legittimità dell’estensione degli effetti.
Vi sono peraltro ulteriori oneri a carico del debitore che è dato trarre dal comma 6 della norma e
che assumono rilevanza nel caso in cui il creditore
coartato si opponga. Ci si riferisce al rinvio della
norma al terzo periodo del comma 4 (“Il tribunale,
con decreto motivato, decide sulle opposizioni, verificando la sussistenza delle condizioni di cui al
comma quarto, terzo periodo”). Trattasi:
i) della completezza e dell’aggiornamento informativo sulla situazione patrimoniale, economica e finanziaria del debitore, nonché sulla convenzione e
sui suoi effetti (lett. b);
ii) della concreta possibilità di partecipare alle trattative da parte dei creditori coartati (lett. b);
iii) della soddisfazione degli stessi in base alla convenzione in misura non inferiore rispetto alle alternative concretamente praticabili (lett. c).
Si tratta di condizioni che assumono particolare rilevanza e sulle quali ci si soffermerà più oltre.
Come più volte detto, possono essere coartati solo
gli intermediari bancari che siano omogenei rispetto ai creditori aderenti, con riferimento alla posizione giuridica ed agli interessi economici.
Il fatto che l’attestatore, in assenza del giudizio di
omologazione, sia chiamato ad attestare l’omogeneità fra i creditori interessati dalla moratoria, unitamente al fatto che il tribunale, in caso di opposizione, decida verificando la sussistenza delle condizioni previste dal terzo periodo del comma 4, rende
opportuno, se non necessario, suddividere gli intermediari finanziari in cluster omogenei.
Ravvisata la possibilità di strutturare i creditori
bancari in “categorie”, ci si deve domandare se per
la convenzione di moratoria le categorie siano un
obbligo o una facoltà. È stato osservato che l’omogeneità è una condizione per la deroga al principio
di relatività del contratto espresso dall’art. 1372
c.c. (9). Se, per un verso, l’obbligatorietà delle categorie risponde alla massimizzazione della tutela
dei creditori non aderenti, per altro verso l’obbligo
costituisce un rilevante ostacolo all’effettivo conseguimento della finalità di accelerazione delle trattative alle quali pare abbia voluto tendere la norma. Infatti, la banca poco esposta nei confronti del
debitore, che fino a ieri si opponeva in fase negoziale, costringendo talvolta il debitore a strutturare
cluster diversi tra creditori bancari dopo aver inutilmente tentato una negoziazione allargata a tutto
il ceto bancario, da oggi potrebbe invocare il fatto
di essere stata collocata in una categoria troppo penalizzante; il che le consentirebbe di opporsi ex
post con conseguenze ancora più devastanti rispetto
ad una mera dilatazione temporale del closing. Basti pensare al fatto che, per vanificare ogni sforzo è
sufficiente che, in seguito all’accoglimento dell’opposizione di talune banche, la tregua concessa dalla
moratoria non consenta di mitigare il fabbisogno
finanziario in misura adeguata ad assicurarne la copertura. In questo caso la varietà delle posizioni
soggettive potrebbe aprire prospettive di opposizione pressoché infinite, con esiti che dipenderanno
dagli argomenti difensivi del debitore, dal contesto
specifico e dall’orientamento del tribunale. Il tutto
con conseguente incertezza operativa e diffidenza
indotta verso lo strumento.
D’altronde la formazione delle categorie, stando alla lettera della norma, dovrebbe avere riguardo ai
due momenti che essa pone come rilevanti: quello
della posizione giuridica e quello degli interessi
economici. È a questi elementi che si dovrebbe fare riferimento. Si può così argomentare che la posizione giuridica può essere utilmente ricercata nell’elemento soggettivo del creditore in relazione al
rapporto pendente: rileveranno così le posizioni di
creditore, quella di garante, quella di cessionario di
crediti, quella di concedente di beni in leasing.
L’interesse economico discende invece dalle conseguenze lato creditore del comportamento del debi-
(8) Ad esempio, la banca aderente potrebbe aver sottaciuto
il fatto che vanta rilevanti posizioni creditorie nei confronti di
altra parte correlata, i cui flussi al servizio del debito sarebbero
compromessi in caso di discontinuità del debitore.
(9) M. Fabiani, La convenzione di moratoria diretta a disciplinare in via provvisoria gli effetti della crisi, in questa Rivista,
2015, 1275; l’Autore osserva che il sacrificio imposto ai creditori coartati è “subvalente sia rispetto agli interessi della collettività coinvolta nella crisi, sia rispetto agli interessi degli altri
creditori omogenei. Siamo di fronte ad una deroga ... che secondo la lezione corrente trova giustificazione soltanto quando
gli effetti che si propagano sono effetti profittevoli”.
L’omogeneità della posizione giuridica
e degli interessi economici dei creditori
coartati
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il Fallimento 8-9/2016
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tore. Vi saranno pertanto situazioni in cui il creditore ha un interesse economico nella prosecuzione
dell’attività da parte del debitore (si pensi alle posizioni creditorie autoliquidanti che dipendono dalla soddisfazione dei debiti commerciali che potrebbe venire meno nel caso di interruzione della continuità, ad esempio, per effetto della violazione degli impegni commerciali in essere) oppure situazioni in cui l’interesse predominante è quello della liquidazione dei beni (quando questi siano posti a
garanzia del credito).
L’argomento merita un approfondimento. Si cominci con l’osservare che il riferimento dell’omogeneità alla posizione giuridica ed agli interessi
economici dei creditori non è nuovo nell’ambito
della legge fallimentare, essendo previsto per le
“classi” del concordato preventivo. Non si può, infatti, non rilevare che ad una diversità di denominazione rispetto al concordato preventivo (“categoria” in luogo di “classe”) corrisponde un contenuto descrittivo identico (art. 160, comma 1, lett.
c: “suddivisione dei creditori in classi secondo posizione giuridica e interessi economici”). La diversità
terminologica induce peraltro a ritenere che, per lo
stesso legislatore, vi sia una significativa differenza
di finalità e di ambito tra le “classi” del concordato
preventivo e le “categorie” dell’accordo speciale di
ristrutturazione. Per comprenderle occorre peraltro
svolgere preliminarmente alcune considerazioni di
carattere generale. Le classi concorrono alla formazione della maggioranza, mentre nell’accordo e nella convenzione non vi è un’adesione a maggioranza (10).
Nel concordato preventivo prevale l’interpretazione della facoltatività (11) del classamento che, solo
se previsto nella proposta concordataria, deve rispondere ai requisiti di omogeneità. In merito la
giurisprudenza non è tuttavia unanime e pare comunque opportuno richiamare in via di estrema
sintesi gli indirizzi formatisi:
a) quello della discrezionalità del classamento (argomentando dalla sentenza della Cass. n. 3274 del
2011, ancorché riferita al concordato fallimentare);
b) quello della possibilità del tribunale di esprimersi sulla necessità della formazione di classi distinte
solo ed esclusivamente in presenza di opposizioni
(Trib. Monza 5 agosto 2010, in un caso di proposta
senza previsioni di classi e con la presenza di creditori forti, muniti di garanzie collaterali);
c) quello della obbligatorietà del classamento in
caso di retrocessione dei privilegiati di cui all’art.
160, comma 2, in considerazione del fatto che l’attivazione del giudizio di cram down è resa più agevole per i creditori classati (si sono pronunciate
nel senso della obbligatorietà del classamento ex
multis Trib. Prato 8 agosto 2014 e Trib. Milano 27
settembre 2012; in senso contrario Trib. Perugia
22 giugno 2012). Occorre peraltro osservare che il
tema era stato per lo più affrontato con riferimento
al regime antecedente al d.l. n. 83/2012, quando
solo l’appartenenza ad una classe dissenziente era
un presupposto per l’opposizione, sicché in assenza
di classamento era di fatto precluso il giudizio di
convenienza di cram down. L’obbligo di classamento rispondeva pertanto all’esigenza di tutela dei degradati per il riconoscimento agli stessi, in via concreta, di strumenti di reazione di fronte al degrado.
La necessità di classamento è peraltro venuta in
parte meno nel 2012, con la modifica del comma 4
dell’art. 180, consentendo l’attivazione del giudizio
di convenienza anche in assenza di classamento in
caso di contestazione da parte del 20% dei creditori dissenzienti ammessi al voto.
A ben vedere, l’elemento che maggiormente distingue le “classi” del concordato preventivo dalle
“categorie” dell’accordo di ristrutturazione e della
convenzione di moratoria è il fatto che nel concordato preventivo la formazione delle classi è rimessa
unilateralmente al solo debitore, mentre nell’accordo di ristrutturazione le “categorie” discendono
dalla stessa negoziazione dell’accordo medesimo.
Sarà il contenuto stesso delle pattuizioni con i creditori che dovrà essere diversamente modulato in
relazione alle posizioni giuridiche ed agli interessi
economici dei singoli per poter essere accolto dagli
stessi. Infatti, una pattuizione uniforme con riferimento a situazioni soggettive diverse non potrà
trovare l’accoglimento nella fase negoziale se le differenze assumono rilevanza in ottica della moratoria; saranno queste differenze, emerse nel corso delle trattative, che costringeranno il debitore ad articolare la proposta di conseguenza per tenere conto
del diverso interesse delle banche. A seconda dei
casi, rileveranno la forma tecnica (linee di cassa,
autoliquidanti, di factoring, a Medio Lungo Termi-
(10) B. Inzitari, Gli accordi di ristrutturazione con intermediari
finanziari e la convenzione di moratoria: deroga al principio di relatività del contratto ed effetti sui creditori estranei, in www.ildirittodegliaffari.it, 3, 2015.
(11) Lo scenario è destinato a cambiare con il disegno di
legge delega per la riforma organica delle discipline della crisi
di impresa e dell’insolvenza che introduce l’obbligo di classamento dei creditori.
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ne, di firma, leasing), la scadenza della linea, la presenza o meno di garanzie capienti liquide o prontamente liquidabili. D’altronde all’interno di una categoria vi deve essere un unico contenuto delle
pattuizioni nei confronti di tutti i creditori che ne
fanno parte; diversamente, l’individuazione, tra
molteplici pattuizioni, di quella che si intende
coartare sarebbe “meramente arbitraria e costituirebbe una prevaricazione del debitore” (12).
Sarà di conseguenza la negoziazione a disegnare le
diverse categorie e a differenziarne il trattamento
in relazione alla posizione dei creditori. È sufficiente a questo punto che l’attestatore, nel prendere atto del trattamento che il debitore intende estendere in capo al creditore non aderente, individui l’omogeneità della posizione di quest’ultimo con quella di uno o più creditori aderenti ricompresi nella
categoria alla quale si riferisce il trattamento in
questione. Con il che si renderebbe superfluo indagare se tutti i partecipanti alla categoria siano o
meno tra di essi omogenei. Nel corso della fase di
contraddittorio propria della negoziazione dell’accordo i creditori in questione, avendo accettato
uniformità di trattamento, hanno, infatti, implicitamente riconosciuto l’omogeneità delle rispettive
posizioni; e tanto dovrebbe essere sufficiente.
In conclusione, le categorie della convenzione di
moratoria, diversamente rispetto alle classi del
concordato preventivo, sono una scelta di fatto necessaria in quanto dipendono da proposte che non
potrebbero che essere formulate in maniera diversificata.
Volendo concludere ne deriva che, se ci si vuole
avvalere del portato coercitivo della norma, ben
potrebbe essere prevista un’unica categoria, ma a
condizione che possa essere formulata un’unica
proposta per i creditori senza violare gli interessi
economici che discendono dalle rispettive posizioni giuridiche.
A questo punto, è doveroso osservare che la norma, nell’affrontare il tema delle categorie, fa sempre riferimento ai creditori, ignorando la natura
del credito. D’altronde, posizione giuridica ed interesse economico sono riferibili più all’elemento
soggettivo del creditore che a quello oggettivo del
credito. Peraltro, al comma 2 la norma prevede
espressamente che il creditore può avere crediti
iscritti in categorie diverse; tale previsione potrebbe indurre a ritenere prevalente, ai fini del vaglio
di omogeneità, l’elemento del credito rispetto a
quello soggettivo. Per contro potrebbe essere ammissibile una lettura diversa che valuti nel suo
complesso la situazione del singolo creditore, quale
effetto cumulato delle diverse posizioni creditorie
assunte. Anche qui pare dirimente ai fini interpretativi la struttura in concreto della proposta, che
potrà essere diversa a seconda della natura delle
posizioni creditorie.
(12) L. Varotti, cit.
(13) M. Aiello, cit., par. 9, il quale suggerisce una interpretazione che egli definisce “ortopedica” espungendo il riferimento
alla lettera c perché incompatibile con la fattispecie della convenzione in moratoria.
894
La condizione della convenienza rispetto
alle alternative concretamente praticabili
La lett. c) del terzo periodo del comma 4 (al quale
rinvia il comma 6 in ordine alle verifiche di sussistenza della condizione sottostante alla decisione
motivata del tribunale in caso di opposizione), prevede che i creditori coartati “possano risultare soddisfatti in misura non inferiore alle alternative
concretamente praticabili”, con un modello affine
a quello del cram down di cui all’art. 180, comma
4, nel concordato preventivo.
Sotto il profilo della convenienza lato creditori, la
cennata mancanza del giudizio di omologazione
crea una netta separazione tra l’accordo speciale e
la convenzione di moratoria. Nel primo, il giudizio
di convenienza è svolto in via preliminare dal tribunale, in sede di omologa, anche sulla scorta delle
considerazioni svolte dall’attestatore e sulla base di
quanto il tribunale intende richiedere all’ausiliario.
Nella convenzione invece può essere attivato solo
dal singolo creditore opponente.
Pare comunque doveroso porre l’accento sul verbo
“possano” che è coerente con le incertezze di una
valutazione ex ante della convenienza.
Più complesso è il riferimento ai profili satisfattivi
che potrebbe apparire in astratto incoerente con
una moratoria che non comporta alcuna soddisfazione, durante la stessa. La mancanza di un momento di soddisfazione nel corso della moratoria
cagiona, infatti, perplessità sulla valutazione della
convenienza rispetto alle alternative concretamente praticabili. Al punto che, da parte di taluni (13),
si è ritenuto che il tema sia il frutto di un involontario incidente di percorso derivante dal richiamo
operato alla disciplina dell’accordo speciale.
L’esigenza di attribuire comunque un significato alla norma, unitamente alle considerazioni svolte in
ordine alla deroga alla relatività del contratto, rendono legittimo valutare la convenienza in termini
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differenziali di impatto sui creditori coartati rispetto all’ipotesi alternativa di assenza della stessa. Vi
è un vantaggio e, se sì, di quale natura per i creditori coartati?
Il punto focale è indubbiamente costituito dai quei
creditori coartati che vantano crediti il cui termine
di scadenza cade nel corso della moratoria. Essi, se
non venissero coinvolti nella moratoria, troverebbero soddisfazione nel corso della stessa. In base a
quale iter logico potrebbe essere ravvisata una convenienza nell’adesione coatta rispetto al soddisfacimento entro i termini contrattuali? Invero, la domanda se posta in questi termini sarebbe fuorviante e la risposta scontata; in realtà le banche non
aderenti verrebbero soddisfatte anche grazie al
temporaneo congelamento dei debiti nei confronti
delle banche aderenti. Il termine di raffronto non
dovrebbe essere quello dell’impatto della coercizione per la banca non aderente in presenza della moratoria; dovrebbe invece essere volto ad individuare le conseguenze sulla banca non aderente dell’alternativa dell’assenza in toto della convenzione di
moratoria.
Si tratta allora di comprendere come incide sulle
ragioni dei creditori il decorso temporale tra la data di apertura della moratoria e il suo spirare. Sotto
questo profilo le valutazioni di convenienza non
sono dissimili a quelle che è chiamato a compiere
l’attestatore per effetto del comma 1 dell’art. 182
quinquies, in caso di finanza interinale richiesta nel
corso di un prenotativo di cui all’art. 161, comma
6, o a valle di un preaccordo di cui all’art. 182 bis,
comma 6. Invero una differenza, per quanto marginale, vi è rispetto al giudizio di miglior soddisfazione dei creditori previsto dalla norma ora richiamata: la valutazione di cui alla lett. c) del comma 4
dell’art. 182 septies non richiede che vi sia un vantaggio per i creditori derivante dalla moratoria
(che imporrebbe un trattamento ex ante migliorativo e non solo la previsione di assenza di un danno), ma semplicemente che non vi sia un trattamento peggiore rispetto alle alternative concretamente praticabili.
Sotto il profilo della convenienza non rileva tanto
il fatto che in assenza della moratoria il creditore
Tizio venga soddisfatto integralmente perché le sue
partite creditorie scadono o perché il debitore è decaduto dal beneficio del termine nei suoi confronti. Rileva invece una comparazione tra l’alternativa
che si pone se la moratoria venga accordata o negata. In quest’ultimo caso potrebbe emergere uno
stato di incapacità ad adempiere che travolgerebbe
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tutti i creditori nel doveroso rispetto della par condicio creditorum.
Per contro non è detto che al termine della moratoria le criticità esistenti risultino rimosse. Il che
impone di valutare le conseguenze del mero differimento, rispetto al momento presente, dell’insorgenza delle criticità finanziarie.
In altre parole, l’approccio più rigoroso e rispettoso
della norma imporrebbe la misurazione della convenienza in termini di risorse disponibili per i creditori nell’ipotesi di liquidazione attuale, in osservanza della par condicio creditorum, rispetto ad una
liquidazione differita sino al momento della scadenza della moratoria, confrontando i flussi che ne
deriverebbero per i creditori nei due casi.
Possono in particolare verificarsi tre diverse situazioni. Due estreme: ad un estremo la presenza in
via prospettica di una situazione di creazione di valore per i creditori; all’estremo opposto quella di
insanabile distruzione di risorse. Una terza, intermedia, nella quale dalla limitata continuità deriva
una, seppur contenuta, distruzione di valore, ma
nel contempo vengono mantenute concrete possibilità di realizzo del complesso aziendale in luogo
della dismissione atomistica fallimentare dei suoi
beni.
Si versa nel primo estremo quando il Margine
Operativo Lordo è positivo sin dal periodo di moratoria. La grandezza del Margine Operativo Lordo
è, infatti, quella che meglio di altre rappresenta
l’impatto in termini di risorse disponibili per i creditori. Non deve invece assumere rilevanza la perdita risultante dal conto economico, perché questa
si compone di elementi che non incidono sotto il
profilo della soddisfazione dei creditori. Trattasi
degli ammortamenti (che costituiscono solo l’imputazione differita di un costo già sostenuto), degli
oneri non ricorrenti che comunque graverebbero
anche in ipotesi di discontinuità, degli oneri finanziari che comunque maturerebbero indipendentemente dalla continuazione dell’attività, delle imposte che sono una derivata del risultato positivo (e
pertanto delle risorse) generato.
Una strada diversa, per un verso intrigante ma per
altro verso di difficile misurazione, è quella della
mitigazione del rischio di fattibilità del risanamento. È una strada che però necessita di un piano già
definito e di una valutazione dei rischi di fattibilità
dello stesso a valle dell’anamnesi dell’azienda e della diagnosi delle cause della crisi. Un percorso che
appare a prima vista inconciliabile con i tempi ristretti di risposta che sono richiesti all’attestatore
in caso di moratoria, mentre, da parte dell’ausilia-
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rio del giudice, richiederebbe una profondità di disamina forse eccessiva rispetto al ruolo dello stesso.
Nondimeno occorre osservare che, se è vero che
l’ottenimento della moratoria mitiga il rischio di
insuccesso del piano, perché consente di mantenere la realtà più vitale, è altresì vero che la misurazione del grado di mitigazione del rischio è una valutazione permeata da elementi di grande soggettività e, per lo più, incisa da vantaggi destinati a
concretizzarsi solo successivamente all’adozione
dello strumento atto a superare definitivamente lo
stato di crisi.
Non ha comunque concreta efficacia la misurazione dei flussi di cassa che - in un orizzonte di breve
termine - possono essere positivi anche in presenza
di distruzione di valore. Così è ad esempio in caso
di flessione dei ricavi, con conseguente riduzione
delle attività a breve, costituite dai crediti commerciali oppure (ad esempio nel caso di vendita di
prodotti alimentari che necessitino di stagionatura)
quella di riduzione degli approvvigionamenti per
assenza di affidamento commerciale da parte dei
fornitori, con depauperamento del magazzino che
si ripercuoterà sul processo di vendita solo a distanza di qualche mese.
Per contro si è in presenza di una crisi insanabile,
destinata ad aggravarsi nel periodo della moratoria
quando, non solo la realtà presenti un Margine
Operativo Lordo gravemente negativo, ma non vi
siano neppure prospettive concrete (e raggiungibili
con le risorse disponibili) di ricreare situazioni di
redditività. Si pensi ad un’impresa in pesante perdita operativa (ante ammortamenti) operante in
un settore in run-off che necessiterebbe di un radicale riposizionamento con rilevanti investimenti
che essa non è in grado di sostenere.
Sicuramente più frequenti sono le situazioni che si
trovano nella terra di mezzo, quale il caso di realtà
che presentano un Margine Operativo Lordo negativo ma per le quali sono state disegnate o sono disegnabili intenzioni strategiche atte a superare le
cause della crisi. In tali situazioni rileva il mantenimento del valore derivante dalla continuità aziendale, sempre che sia prospettabile la cessione dell’azienda ovvero il realizzo di crediti e magazzino in
condizioni di normalità operativa evitando le perdite relative che deriverebbero dalla discontinuità.
Trattasi di perdite riferibili, per i crediti, al venir
meno del presidio da parte delle funzioni aziendali
e, per il magazzino, al deprezzamento in caso di sua
liquidazione in blocco.
896
La domanda che ci si pone è: come possono essere
svolte valutazioni di convenienza che portino in
conto i fattori qui rappresentati?
Invero la presenza di un Margine Operativo Lordo
negativo rende alienabile l’azienda solo se siano
prospettabili percorsi per il suo risanamento economico; in difetto, difficilmente vi sarà un operatore
disponibile a riconoscere un valore alla stessa superiore a quello dei suoi beni. Estrema rilevanza assume pertanto la presenza di intenzioni strategiche
del risanamento che siano coerenti con la situazione di fatto e segnatamente con le cause della crisi.
È bene precisare che l’intenzione strategica è il
momento ispiratore delle azioni (industriali e finanziarie) ma, diversamente da queste ultime, non
è definita a livelli di dettaglio tali che consentano
di attivarla e tanto meno di conoscerne gli effetti
in termini di costi di realizzazione e benefici correlati. Da questo punto di osservazione emerge la
profonda differenza tra strategia di risanamento e
piano delle azioni (o Action Plan). La strategia è
composta da un insieme di intenzioni strategiche e
si pone ad un livello programmatico di indirizzo,
mentre il piano delle azioni costituisce il momento
realizzativo di dettaglio. Le linee strategiche assumono, così, una rilevanza di primo livello, mentre
le azioni sono circoscritte ad un livello ulteriore.
Un’intenzione strategica deve essere razionale nel
senso che deve essere in grado di esprimere il percorso di risanamento definito, una volta individuate le cause della crisi e formulate le ipotesi sulla
probabile evoluzione dello stato di fatto in cui opera l’impresa. Occorre che il percorso presenti un
nesso di causa-fine-mezzo impiegato con le cause della crisi.
In tale ottica la convenienza che scaturisce dalla
convenzione di moratoria risiede nella mitigazione
del rischio di discontinuità aziendale e può essere
misurata, nella sua espressione massima, nel differenziale tra il valore del complesso aziendale e
quello atomistico dei suoi beni. Si tratta però del
vantaggio massimo auspicabile che deve comunque
tenere conto del fattore tempo e del fatto che ogni
risanamento presenta un momento iniziale inerziale durante il quale l’impresa continua a subire perdite con la stessa intensità del passato. Si tratta di
perdite future che vanno a decurtare il valore attuale del compendio aziendale.
Nel determinare il vantaggio concretamente realizzabile, ai fini del giudizio di convenienza, è peraltro
opportuno portare in conto, rispettivamente nel
minuendo e nel sottraendo, il deprezzamento del
compendio aziendale e quello dei singoli beni in
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caso di cessione fallimentare. Si tratta di una perdita di valore conseguente all’effetto della carenza
di garanzie da parte del venditore e delle vischiosità proprie dell’acquisto da procedure competitive
fallimentari.
Un ulteriore momento di convenienza, come anticipato, è costituito dai vantaggi derivanti dalla
continuità nel limitato orizzonte temporale della
moratoria in relazione alla riduzione dello stock dei
crediti commerciali e del magazzino. Sono, infatti,
entrambi asset il cui valore subisce una rilevante
decurtazione in ipotesi di discontinuità: il primo
dei due, a causa della maggiore sofferenza delle partite derivante dal venir meno dei presidi commerciali (che hanno il rapporto con la clientela), della
assistenza post vendita (che assicura le sostituzioni
in garanzia e il rispetto delle condizioni contrattuali), della gestione dei crediti (attraverso procedure
consolidate di governo dei crediti commerciali); il
secondo, a causa del diverso valore che le rimanenze assumono quando funzionalmente dedicate ad
un processo produttivo rispetto al loro valore stand
alone in capo ad una realtà che ha cessato l’operatività.
Vi è pertanto un percorso logico che può consentire al tribunale, che si avvarrà all’uopo dell’opera
dell’ausiliario (14), di accertare in termini oggettivi
la convenienza della moratoria, per il creditore opponente e non semplicemente in termini astratti,
piuttosto che riscontrarla sulla base del solo presupposto, non dimostrato, che la continuità sia comunque foriera di vantaggi (ad esempio, sulla base
dell’asserto che i vantaggi della moratoria si sostanzierebbero nel mantenimento di fluidità nel processo degli approvvigionamenti).
Un giudizio di convenienza circostanziato necessita
comunque di un piano di tesoreria. Non è superfluo il riferimento normativo all’art. 182 quinquies,
comma 1, nel quale quando il legislatore ha richiesto all’attestatore di esprimere un giudizio di opportunità, si è anche premurato di precisare che egli,
nel renderlo, deve verificare il complessivo fabbisogno finanziario dell’impresa sino all’omologazione.
Invero, nella conduzione delle trattative con il sistema bancario in situazioni di crisi, le convenzioni
di moratoria e standstill sono talvolta richieste anche in assenza di piani di tesoreria. Sotto questo
profilo, se il debitore vuole avvalersi della coercizione delle banche riottose, gli sarebbe imposto
dalle nuove disposizioni di predisporre un piano di
tesoreria e un budget economico (dal quale il primo
deve necessariamente trarre origine) che copra tutto il periodo della moratoria.
D’altronde il rinvio al comma 4, terzo periodo, per
il giudizio in caso di opposizione dei creditori coartati, porta il tribunale a valutare la completezza informativa sulla situazione patrimoniale, economica
e finanziaria ed è ragionevole ritenere che il piano
di tesoreria che copre il breve periodo per il quale
è richiesta la moratoria, sia parte di tale informativa finanziaria obbligatoria. Al punto che, in assenza, il tribunale non potrebbe fondatamente esprimersi sulla convenienza e ben potrebbe accogliere
l’opposizione sulla base della stessa incompletezza
informativa.
Vi è di più, però. La stessa lett. b) del comma 4
dell’art. 182 septies richiede che il debitore renda ai
creditori informazioni sull’effetto dell’accordo (qui
“convenzione”). L’accordo e la convenzione comportano indubbiamente effetti sul debitore, sulla
sua situazione patrimoniale, economica e finanziaria e, di conseguenza, per i creditori. È pertanto già
la norma che chiede al debitore di rappresentare le
conseguenze per i suoi creditori che derivano dalla
conclusione dell’accordo/convenzione. Alla luce
delle considerazioni poc’anzi svolte, parrebbe ragionevole ritenere che tali effetti debbano essere rappresentati in termini differenziali tra la conclusione
e la mancata conclusione della convenzione. Il che
permetterebbe al tribunale un percorso più snello
in sede di valutazione delle opposizioni, in quanto
le informazioni in questione sarebbero le stesse sulla base delle quali i creditori aderenti hanno concesso la moratoria. Ben potrà il tribunale accertare
se tale convenienza sussista per gli aderenti, essendo la sua assenza compensata dai vantaggi collaterali ai quali si è fatto sopra cenno, perché, nel primo caso, in presenza di concreta omogeneità di interessi, di essa si avvantaggerebbero anche i creditori non aderenti.
Nel valutare l’opposizione, il tribunale potrà in
ogni caso, ovviamente svolgere i necessari approfondimenti, per il tramite dell’ausiliario, alla luce
dei rilievi in termini di convenienza mossi dall’opponente.
L’ausiliario potrà così essere coinvolto in sede di
verifica della coerenza delle argomentazioni svolte
dal debitore, condivise da operatori qualificati e
(14) Il ricorso all’ausiliario è previsto nel terzo periodo del
sesto comma in un’ottica funzionale all’accertamento dei requisiti di coercizione. Il rinvio espresso a tale parte della dispo-
sizione in caso di convenzione di moratoria induce a ritenere
che il tribunale, nel compiere le proprie verifiche, possa avvalersi di norma dell’opera dell’ausiliario.
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consapevoli quali sono le banche che hanno aderito alla proposta. Con il che si eviterebbe all’ausiliario una complessa costruzione delle ragioni di
convenienza, incompatibile con i tempi di un giudizio che deve essere rapido, versando l’impresa in
un momento critico per la continuità aziendale.
In concreto, l’ausiliario, di volta in volta, alla luce
dei rilievi mossi, potrà limitarsi a:
a) ripercorrere i flussi informativi verificando l’autenticità degli stessi;
b) verificare la coerenza storica e corrente delle stime sottostanti al budget economico e alla declinazione finanziaria contenuta nel piano di tesoreria;
c) valutare le considerazioni svolte in ipotesi di assenza della convenzione (riferite pertanto ad una
situazione di discontinuità).
Il momento di riferimento per
l’individuazione dell’indebitamento ai fini
della convenzione di moratoria
Nella convenzione di moratoria il momento che rileva ai fini del freezing della esposizione bancaria è
quello della comunicazione ai creditori della convenzione stessa unitamente all’attestazione (15). È
questo, infatti, il dies a quo dal quale decorrono i
termini per l’opposizione, ma è anche il momento
nel quale il creditore apprende, attraverso l’attestazione, l’estensione degli effetti della moratoria nei
suoi confronti. Prima di questo momento il creditore era libero di intervenire sul rapporto con le
azioni che riteneva più opportune. Dal momento
della comunicazione egli deve invece attenersi a
quanto contenuto nella convenzione sulla base dei
riscontri dell’attestatore.
Le pattuizioni coercibili
Non tutte le pattuizioni sono coercibili. Per quanto
attiene alla moratoria, per espressa previsione normativa, costituisce pattuizione non coercibile il
mantenimento della possibilità di utilizzare affidamenti esistenti. La norma presenta forti assonanze
con altra norma coeva (quella del comma 3 dell’art. 182 quinquies) che riconosce il requisito della
prededucibilità al mantenimento delle linee di credito autoliquidanti in essere al momento del deposito della domanda, se autorizzato dal tribunale.
Le linee autoliquidanti costituiscono il tema di
maggiore criticità in materia di coercizione dei cre(15) Che deve avvenire obbligatoriamente tramite lettera
raccomandata o posta elettronica certificata (PEC).
(16) Pare difficile attribuire alla differenza terminologica un
qualche significato.
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ditori non aderenti negli accordi di ristrutturazione, ma ancor di più nella convenzione di moratoria.
Sulle linee autoliquidanti possono esservi due diverse letture. Una prima lettura, che circoscrive
maggiormente gli atti coercibili e, sotto un profilo
di concreto impiego dello strumento, ne sottrae in
gran parte la concreta utilità, pretenderebbe di impedire l’utilizzo delle linee che si siano scaricate
successivamente alla stipula della convenzione
(dell’accordo) senza possibilità di nuove anticipazioni, pur nel limite di quelle già esistenti. Una seconda lettura, più prossima alla disciplina propria
degli accordi di standstill, forse più sostanziale e sicuramente maggiormente in linea con le finalità
della norma, che vuole impedire in via coatta un
aggravamento del rischio del prestatore non aderente, consente di mantenere operative le linee
autoliquidanti, per l’ammontare effettivamente utilizzato al momento di riferimento, con possibilità
di accedere a nuove anticipazioni in via revolving o
meglio simmetrica agli scarichi intervenuti.
Sotto questo profilo pare doveroso osservare che le
convenzioni di moratoria e standstill prevedono
normalmente il mantenimento delle linee di credito nei limiti del loro utilizzo al momento dell’apertura dello standstill. Il che rende la seconda lettura
più vicina alla prassi operativa.
Entrambe le disposizioni, quella del comma 3 dell’art. 182 quinquies e quella del comma 7 dell’art.
182 septies, non fanno riferimento agli affidamenti
utilizzati, bensì a quelli “in essere” o “esistenti” (16). Sicché ben potrebbe argomentarsi che la
norma non assuma come non coercibili le linee
utilizzate, ma solo la parte non utilizzata di quelle
affidate, in quanto sarebbe insito nella moratoria
stessa il congelamento della parte utilizzata. D’altronde, come è stato acutamente osservato, la lettura più ampia della limitazione, assicurando alla
banca il rientro della propria posizione creditoria
andrebbe nella direzione opposta rispetto a quella
voluta dal legislatore (17).
Dirimente appare quanto riportato nella relazione
illustrativa del decreto per motivare le limitazioni
alla coercibilità delle pattuizioni e precisamente
l’esclusione dall’ambito della coercibilità delle pattuizioni che comportino un incremento dell’esposizione delle banche coartate. Si tratta delle stesse
(17) M. Fabiani, La convenzione di moratoria diretta a disciplinare in via provvisoria gli effetti della crisi, in questa Rivista
2015, 1260.
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motivazioni che impediscono alle banche di consentire, nelle convenzioni di standstill, l’ampliamento degli utilizzi, pur se nei limiti dell’affidato.
Vi è però un distinguo da fare: una cosa è una linea autoliquidante concessa, per la quale sia convenzionalmente previsto un reimpiego simmetrico
agli utilizzi; altra cosa è una linea concessa a fronte
di specifiche posizioni attive. Pare veramente arduo sostenere che tale ultima linea possa essere rialimentata con posizioni diverse da quelle iniziali
una volta che esse si siano estinte, in quanto ciò
avverrebbe in spregio alle pattuizioni contrattuali
con la banca.
Il ruolo dell’attestatore e il contenuto
dell’attestazione
L’attestazione della convenzione di moratoria parrebbe limitata al solo profilo della omogeneità della posizione giuridica e degli interessi economici
dei creditori interessati dalla moratoria.
Le considerazioni sopra svolte sul requisito della
omogeneità possono guidare l’attestatore nello
svolgimento delle proprie valutazioni. Assumerà
così estremo rilievo l’esito delle negoziazioni e la
strutturazione delle pattuizioni in relazione alle diverse forme tecniche in essere. A tal riguardo, non
si può sottacere che, con riferimento alla moratoria, per la natura temporanea della stessa, gli interessi economici dei creditori sono assai diversi rispetto a quelli che emergerebbero in presenza di
un accordo di ristrutturazione.
Ci si deve in primo luogo domandare quale sia l’effetto della moratoria. Il primo effetto è quello di
evitare la revoca degli affidamenti e la decadenza
dal beneficio del termine in caso di finanziamenti,
mutui e contratti di leasing. Sotto questo profilo
l’interesse di tutti i creditori è omogeneo. Tutt’al
più presentano un interesse diverso coloro che, per
clausole contrattuali, situazioni in essere, durata
della moratoria, non si trovino, né si troveranno
durante la moratoria, in una situazione che li autorizzi a sciogliersi dal rapporto. L’attestatore potrà
agevolmente compiere tale verifica andando ad indagare:
- limitatamente agli affidamenti: la scadenza degli
stessi, il rispetto o meno di covenants previsti, situazioni di anomalia “andamentale” che autorizzino la
revoca;
- limitatamente ai finanziamenti, mutui e leasing: il
contenuto del contratto e la presenza o meno di
elementi che autorizzino il creditore a ritenere, nel
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corso della moratoria, decaduto il beneficio del termine;
- limitatamente alle garanzie prestate: l’eventuale
intervenuta (o intervenenda, nel periodo della moratoria) escussione.
Un discorso a parte va fatto per l’autoliquidante,
che assume, in particolare nel caso di moratoria,
una rilevanza estrema. Che si ritenga o meno di
accedere alla lettura sopra svolta, e cioè alla legittimità della coercizione nell’impiego delle linee
autoliquidanti, pur nei limiti dell’utilizzo al momento del deposito della convenzione, con la possibilità di nuove anticipazioni in via simmetrica alle singole posizioni anticipate che via via si scaricano, è opportuno che l’autoliquidante costituisca
una categoria a sé stante. In un caso perché imporrebbe il mantenimento di una esposizione che si
scarica automaticamente nel periodo, nell’altro caso perché sarebbe l’unica posizione a rientrare.
A questo punto ci si deve domandare quali siano
le conseguenze nel caso in cui il debitore non abbia creato categorie separate e l’attestatore non abbia rilevato l’omogeneità tra tutti i creditori coinvolti dalla moratoria. In considerazione del fatto
che la comunicazione data al creditore che si intende coartare è costituita dall’insieme della convenzione e dell’attestazione, nonché del fatto che
tale comunicazione produce effetti in automatico
senza necessità di una preventiva richiesta, tenuto
anche conto dell’assenza del giudizio di omologazione previsto per l’accordo speciale, è l’attestazione che rileva l’omogeneità dei creditori e, in qualche modo, accerta all’interno dell’universo delle
banche e degli intermediari finanziari quali siano
tra loro omogenei, disegnando i sotto-perimetri
delle categorie. Nell’ambito di ciascuno di essi l’attestatore verificherà il raggiungimento o meno della maggioranza qualificata e individuerà i creditori
(o meglio i crediti alla luce delle considerazioni sopra svolte) coartati.
Egli può fermarsi ad esaminare il tema della omogeneità o è chiamato a svolgere ulteriori considerazioni? In particolare:
a) l’assenza di situazione di svantaggio per i creditori coartati;
b) il giudizio di fattibilità sul piano di tesoreria e
sul budget che, come anzidetto, dovrebbero essere
disponibili per rispettare il requisito della completezza informativa;
c) il rispetto delle regole della buona fede nella
conduzione delle trattative e la concreta possibilità
dei creditori coartati di parteciparvi sin dal loro avvio.
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Si potrebbe sostenere che, di fronte al silenzio della legge, sia obiettivamente eccessivo pretendere
dall’attestatore di esprimersi su tali ambiti. Vi è peraltro da osservare che l’espressione del giudizio di
omogeneità presuppone la disamina delle posizioni
debitorie nei confronti degli intermediari finanziari. Con il che la verifica di affidabilità dei relativi
dati contabili assumerebbe una natura funzionale
al giudizio di omogeneità che egli è chiamato a
rendere. È pertanto ragionevole ritenere che l’attestatore compia una disamina della base dati e riconcili le grandezze contabili con quelle risultanti
dalla Centrale Rischi della Banca d’Italia, come
d’altra parte egli farebbe in caso di attestazione di
fattibilità. Il che tra l’altro è un presupposto per la
corretta misurazione delle maggioranze dei creditori che versano in situazioni omogenee, presupposto
per l’estensione coattiva a loro carico degli effetti
della moratoria.
Con riferimento al tema della conduzione delle
trattative e di conseguenza della buona fede, della
concreta possibilità per le banche di parteciparvi e
della simmetria informativa, pare invece più ragionevole che l’attestatore si esprima in termini di negative assurance e cioè della mancata conoscenza di
elementi indicatori dell’assenza delle condizioni di
legge.
Analogo è l’approccio con riferimento al tema della convenienza, nel senso che è opportuno che egli
escluda di conoscere elementi che inducano a ritenere svantaggiosa, rispetto alle alternative concretamente praticabili, la coercizione delle banche
non aderenti.
Diverso è invece il tema della completezza informativa sul quale ben l’attestatore potrà pronunciarsi in via positiva. Ci si riferisce in particolare al
piano di tesoreria ed al budget sottostante ad esso
che copre l’intero orizzonte temporale della moratoria. Si tratta, come anzi argomentato, di informazioni necessarie per consentire ai creditori coartati,
nonché al tribunale in caso di opposizione, di valutare la sussistenza della convenienza rispetto alle
alternative concretamente praticabili. Ci si riferisce però anche alle informazioni sull’effetto della
convezione, per il debitore ma anche per gli intermediari finanziari interessati, che si sostanziano
nelle diverse conseguenze nel caso di convenzione
rispetto a quello in cui la convenzione di moratoria
non venga conclusa (si rinvia sotto questo profilo
alle considerazioni sopra svolte). In altre parole, si
tratta del vantaggio differenziale per debitore e creditori bancari, che deriva dalla moratoria.
D’altronde, l’intima connessione tra il requisito
della omogeneità degli interessi economici e quello
della convenienza dovrebbe indurre l’attestatore ad
estendere il giudizio che gli è richiesto sul primo ai
profili attinenti al secondo.
Sotto questo aspetto, sembra ragionevole che l’attestatore esamini criticamente la genuinità e la
coerenza del piano di tesoreria rispetto alle informazioni in suo possesso. La norma infatti non richiede un’attestazione specifica del piano ma,
quanto meno per analogia con l’art. 182 quinquies,
comma 1, in materia di finanza interinale, è opportuno che egli esamini il fabbisogno finanziario.
Anche nell’attestazione speciale per la finanza interinale non gli è richiesta, infatti, una “attestazione” della fattibilità del piano di tesoreria, ma egli è
chiamato comunque, lì in via espressa, a compiere
una verifica del fabbisogno finanziario. Nel valutare l’omogeneità degli interessi economici degli intermediari finanziari assume, infatti, rilevanza anche l’impatto della moratoria sul fabbisogno finanziario durante il corso della stessa, quale può solo
essere tratto da un piano di tesoreria fondato su
una situazione patrimoniale aggiornata e su un budget coerente con la situazione di fatto. Tant’è che,
in assenza di una copertura finanziaria dei fabbisogni, una linea creditoria di cassa non scaduta (anche se per essa non sia prevista alcuna pattuizione
specifica) non potrà mai essere considerata omogenea rispetto ad una linea autoliquidante.
L’opposizione del creditore e i suoi effetti
L’opposizione dei creditori coartati è prevista, per
la convenzione in moratoria, al comma 6 dell’art.
182 septies, senza peraltro precisare quale procedura
trovi applicazione in caso in opposizione (18):
- “... le banche e gli intermediari finanziari non
aderenti alla convenzione possono proporre opposizione entro trenta giorni dalla comunicazione della
convenzione stipulata”, che per espressa previsione
normativa deve essere accompagnata dalla relazione di attestazione;
- “con l’opposizione, la banca o l’intermediario finanziario può richiedere che la convenzione non
produca effetti nei suoi confronti”.
(18) La lettera della norma prevede unicamente che “Il tribunale decida con decreto motivato reclamabile alla corte di
appello”.
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Le eccezioni che potrà sollevare il creditore opponente saranno quelle:
a) legate alla buona fede nella conduzione delle
trattative integrate dalla trasparente attivazione
delle stesse, dalla completezza ed aggiornamento
informativo e dalla concreta messa in condizione
di parteciparvi. Rileva a tal riguardo la convocazione delle riunioni, il ruolo svolto dall’eventuale
agente delle banche, la formale trasmissione della
documentazione. Nel caso estremo di mancata trasmissione dell’attestazione, la convenzione non
produrrà alcuna efficacia estensiva rispetto ai non
aderenti e pertanto vincolerà i soli aderenti;
b) della carenza di omogeneità di posizione ed interessi rispetto ai creditori che hanno aderito alla
proposta, pur con i limiti di quanto sopra rappresentato;
c) della convenienza rispetto alle alternative concretamente praticabili.
Il legislatore ha precisato che il creditore può richiedere l’inefficacia della moratoria nei propri
confronti, anticipando gli effetti dell’opposizione
prima del passaggio in giudicato della stessa. Invero, non può non osservarsi che l’accoglimento della richiesta del creditore opponente comporta di
fatto il consolidamento del suo effetto prima del
passaggio in giudicato, al punto che, se dal diniego
dell’estensione della moratoria dovesse derivare
una situazione di insolvenza anche solo prospettica, il debitore dovrebbe prontamente attivare i
provvedimenti del caso.
L’opposizione non inficia peraltro l’intera convenzione di moratoria, in quanto essa attiene solo alla
posizione dell’opponente.
Si potrebbe sostenere che, per effetto dell’accoglimento dell’opposizione, si viene a generare un’asimmetria all’interno del ceto bancario tale da incidere sui presupposti che avevano indotto alcune
banche ad aderire alla convenzione. Sono però
queste ultime che dovranno fare constatare il venir
meno di tali presupposti. Esse dovrebbero dimostrare, avvalendosi delle valutazioni svolte dall’attestatore e dell’ausiliario, che la continuità durante
il periodo della moratoria è compromessa per effetto della circoscrizione del perimetro delle banche
interessate dalla stessa.
il Fallimento 8-9/2016
Sarebbe, peraltro, più opportuno per le banche
aderenti pretendere di introdurre accorgimenti
contrattuali che caduchino la convenzione nel caso di mancata estensione alle banche non aderenti
omogenee. Prevedere pattiziamente il venir meno
della convenzione nel caso di superamento di una
certa soglia, è un’opportunità che dovrebbe essere
colta, nell’ottica di evitare eccessive asimmetrie
nella posizione delle banche, in particolare se dovesse essere compromessa la tenuta del piano di tesoreria sino al termine della moratoria.
Conclusioni
Volendo trarre dalle argomentazioni svolte l’elemento di maggiore rilevanza, esso può individuarsi
nella conferma che il requisito dell’assenza di situazioni di svantaggio per le banche e gli intermediari
finanziari coartati, previsto per gli accordi speciali
di ristrutturazione, operi a pieno titolo anche per
la convenzione di moratoria, in quanto vi sono
percorsi logici che consentono di verificarlo in termini quantitativi.
Tali percorsi logici dovrebbero, nondimeno, integrare l’informativa, che il debitore è tenuto a dare
a tutte le banche interessate per ottenere l’estensione della portata della convenzione alle non aderenti, con valutazioni di convenienza che costituirebbero nulla di più e nulla di meno della rappresentazione degli effetti della convenzione di cui alla lett. b) del comma 4. Si tratta di conseguenze
della moratoria che debbono essere suffragate dal
piano di tesoreria (e dal budget necessariamente ad
esso sottostante) che costituisce anch’esso elemento che compendia la completezza informativa in
punto di “situazione finanziaria”.
Da una rappresentazione degli effetti, resa dal debitore e valutata dalle banche aderenti, l’eventuale
ausiliario e il tribunale sono in grado di comprendere più agevolmente la sussistenza di una concreta
convenienza per i coartati con riferimento anche
ad una mera moratoria temporanea.
Tale rappresentazione non può prescindere peraltro
dalla sostenibilità finanziaria della moratoria, intesa nel senso della capacità di fronteggiare i debiti
correnti, quale dovrà emergere dal piano di tesoreria.
901
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Normativa
Procedure esecutive e concorsuali
Nuove norme in materia di
procedure esecutive e fallimentari
Decreto legge 3 maggio 2016 n. 59, conv. in legge con modif. dall’art. 1, comma 1, L. 30 giugno 2016, n. 119 (1).
Disposizioni urgenti in materia di procedure esecutive e concorsuali, nonché a favore degli investitori in banche in liquidazione - G.U. n. 102, 3 maggio 2016, Serie Generale
Omissis
Capo I - Misure a sostegno delle imprese e di
accelerazione del recupero crediti
Art. 1
Pegno mobiliare non possessorio
1. Gli imprenditori iscritti nel registro delle imprese possono
costituire un pegno non possessorio per garantire i crediti
concessi a loro o a terzi, presenti o futuri, se determinati o
determinabili e con la previsione dell’importo massimo garantito, inerenti all’esercizio dell’impresa.
2. Il pegno non possessorio può essere costituito su beni mobili, anche immateriali, destinati all’esercizio dell’impresa e
sui crediti derivanti da o inerenti a tale esercizio, a esclusione dei beni mobili registrati. I beni mobili possono essere esistenti o futuri, determinati o determinabili anche mediante
riferimento a una o più categorie merceologiche o a un valore complessivo. Ove non sia diversamente disposto nel contratto, il debitore o il terzo concedente il pegno è autorizzato
a trasformare o alienare, nel rispetto della loro destinazione
economica, o comunque a disporre dei beni gravati da pegno. In tal caso il pegno si trasferisce, rispettivamente, al
prodotto risultante dalla trasformazione, al corrispettivo della
cessione del bene gravato o al bene sostitutivo acquistato con
tale corrispettivo, senza che ciò comporti costituzione di una
nuova garanzia. Se il prodotto risultante dalla trasformazione ingloba, anche per unione o commistione, più beni appartenenti a diverse categorie merceologiche e oggetto di diversi pegni non possessori, le facoltà previste dal comma 7
spettano a ciascun creditore pignoratizio con obbligo da parte
sua di restituire al datore della garanzia, secondo criteri di
proporzionalità, sulla base delle stime effettuate con le modalità di cui al comma 7, lettera a), il valore del bene riferibile alle altre categorie merceologiche che si sono unite o mescolate. È fatta salva la possibilità per il creditore di promuovere azioni conservative o inibitorie nel caso di abuso nell’u-
tilizzo dei beni da parte del debitore o del terzo concedente il
pegno.
3. Il contratto costitutivo, a pena di nullità, deve risultare da atto scritto con indicazione del creditore, del debitore e dell’eventuale terzo concedente il pegno, la descrizione del bene dato in garanzia, del credito garantito
e l’indicazione dell’importo massimo garantito.
4. Il pegno non possessorio ha effetto verso i terzi esclusivamente con la iscrizione in un registro informatizzato costituito presso l’Agenzia delle entrate e denominato “registro dei
pegni non possessori”; dal momento dell’iscrizione il pegno
prende grado ed è opponibile ai terzi e nelle procedure esecutive e concorsuali.
5. Il pegno non possessorio, anche se anteriormente costituito ed iscritto, non è opponibile a chi abbia finanziato l’acquisto di un bene determinato che sia destinato all’esercizio dell’impresa e sia garantito da riserva della proprietà sul bene
medesimo o da un pegno anche non possessorio successivo,
a condizione che il pegno non possessorio sia iscritto nel registro in conformità al comma 6 e che al momento della sua
iscrizione il creditore ne informi i titolari di pegno non possessorio iscritto anteriormente.
6. L’iscrizione deve indicare il creditore, il debitore, se presente il terzo datore del pegno, la descrizione del bene dato
in garanzia e del credito garantito secondo quanto previsto
dal comma 1 e, per il pegno non possessorio che garantisce
il finanziamento per l’acquisto di un bene determinato, la
specifica individuazione del medesimo bene. L’iscrizione ha
una durata di dieci anni, rinnovabile per mezzo di una nuova iscrizione nel registro effettuata prima della scadenza del
decimo anno. La cancellazione della iscrizione può essere richiesta di comune accordo da creditore pignoratizio e datore
del pegno o domandata giudizialmente. Le operazioni di
iscrizione, consultazione, modifica, rinnovo o cancellazione
presso il registro, gli obblighi a carico di chi effettua tali operazioni nonché le modalità di accesso al registro stesso sono
regolati con decreto del Ministro dell’economia e delle finanze, di concerto con il Ministro della giustizia, da adottarsi
entro trenta giorni dalla data di entrata in vigore della legge
(1) In corsivo le modifiche apportate dalla legge di conversione 30 giugno 2016, n. 119.
902
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Normativa
di conversione del presente decreto, prevedendo modalità
esclusivamente informatiche. Con il medesimo decreto sono
stabiliti i diritti di visura e di certificato, in misura idonea a
garantire almeno la copertura dei costi di allestimento, gestione e di evoluzione del registro. Al fine di consentire l’avvio della attività previste dal presente articolo, è autorizzata
la spesa di euro 200.000 per l’anno 2016 e di euro
100.000 per l’anno 2017.
7. Al verificarsi di un evento che determina l’escussione del
pegno, il creditore, previa intimazione notificata, anche direttamente dal creditore a mezzo di posta elettronica certificata, al debitore e all’eventuale terzo concedente il pegno, e
previo avviso scritto agli eventuali titolari di un pegno non
possessorio trascritto nonché al debitore del credito oggetto
del pegno, ha facoltà di procedere:
a) alla vendita dei beni oggetto del pegno trattenendo
il corrispettivo a soddisfacimento del credito fino a concorrenza della somma garantita e con l’obbligo di informare immediatamente per iscritto il datore della garanzia dell’importo ricavato e di restituire contestualmente
l’eccedenza; la vendita è effettuata dal creditore tramite
procedure competitive anche avvalendosi di soggetti
specializzati, sulla base di stime effettuate, salvo il caso
di beni di non apprezzabile valore, da parte di operatori
esperti, assicurando, con adeguate forme di pubblicità,
la massima informazione e partecipazione degli interessati; l’operatore esperto è nominato di comune accordo
tra le parti o, in mancanza, è designato dal giudice; in
ogni caso è effettuata, a cura del creditore, la pubblicità
sul portale delle vendite pubbliche di cui all’articolo
490 del codice di procedura civile;
b) alla escussione o cessione dei crediti oggetto di pegno fino
a concorrenza della somma garantita, dandone comunicazione al datore della garanzia;
c) ove previsto nel contratto di pegno e iscritto nel registro di
cui al comma 4, alla locazione del bene oggetto del pegno
imputando i canoni a soddisfacimento del proprio credito fino a concorrenza della somma garantita, a condizione che il
contratto preveda i criteri e le modalità di determinazione del
corrispettivo della locazione; il creditore pignoratizio comunica immediatamente per iscritto al datore della garanzia stessa
il corrispettivo e le altre condizioni della locazione pattuite
con il relativo conduttore;
d) ove previsto nel contratto di pegno e iscritto nel registro
di cui al comma 4, all’appropriazione dei beni oggetto del
pegno fino a concorrenza della somma garantita, a condizione che il contratto preveda anticipatamente i criteri e le modalità di valutazione del valore del bene oggetto di pegno e
dell’obbligazione garantita; il creditore pignoratizio comunica
immediatamente per iscritto al datore della garanzia il valore
attribuito al bene ai fini dell’appropriazione.
7-bis. Il debitore e l’eventuale terzo concedente il pegno
hanno diritto di proporre opposizione entro cinque giorni dall’intimazione di cui al comma 7. L’opposizione si propone
con ricorso a norma delle disposizioni di cui al libro quarto,
titolo I, capo III-bis, del codice di procedura civile. Ove
concorrano gravi motivi, il giudice, su istanza dell’opponente, può inibire, con provvedimento d’urgenza, al creditore di
procedere a norma del comma 7.
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7-ter. Se il titolo non dispone diversamente, il datore della
garanzia deve consegnare il bene mobile oggetto del pegno al
creditore entro quindici giorni dalla notificazione dell’intimazione di cui al comma 7. Se la consegna non ha luogo nel
termine stabilito, il creditore può fare istanza, anche verbale,
all’ufficiale giudiziario perché proceda, anche non munito di
titolo esecutivo e di precetto, a norma delle disposizioni di
cui al libro terzo, titolo III, del codice di procedura civile, in
quanto compatibili. A tal fine, il creditore presenta copia
della nota di iscrizione del pegno nel registro di cui al comma
4 e dell’intimazione notificata ai sensi del comma 7. L’ufficiale giudiziario, ove non sia di immediata identificazione, si
avvale su istanza del creditore e con spese liquidate dall’ufficiale giudiziario e anticipate dal creditore e comunque a carico del medesimo, di un esperto stimatore o di un commercialista da lui scelto, per la corretta individuazione, anche
mediante esame delle scritture contabili, del bene mobile oggetto del pegno, tenendo conto delle eventuali operazioni di
trasformazione o di alienazione poste in essere a norma del
comma 2. Quando risulta che il pegno si è trasferito sul corrispettivo ricavato dall’alienazione del bene, l’ufficiale giudiziario ricerca, mediante esame delle scritture contabili ovvero
a norma dell’articolo 492-bis del codice di procedura civile, i
crediti del datore della garanzia, nei limiti della somma garantita ai sensi del comma 2. I crediti rinvenuti a norma del
periodo precedente sono riscossi dal creditore in forza del
contratto di pegno e del verbale delle operazioni di ricerca redatto dall’ufficiale giudiziario. Nel caso di cui al presente
comma l’autorizzazione del presidente del tribunale di cui all’articolo 492-bis del codice di procedura civile è concessa,
su istanza del creditore, verificate l’iscrizione del pegno nel
registro di cui al comma 4 e la notificazione dell’intimazione.
7-quater. Quando il bene o il credito già oggetto del pegno
iscritto ai sensi del comma 4 sia sottoposto ad esecuzione
forzata per espropriazione, il giudice dell’esecuzione, su
istanza del creditore, lo autorizza all’escussione del pegno,
stabilendo con proprio decreto il tempo e le modalità dell’escussione a norma del comma 7. L’eventuale eccedenza è
corrisposta in favore della procedura esecutiva, fatti salvi i
crediti degli aventi diritto a prelazione anteriore a quella del
creditore istante.
8. In caso di fallimento del debitore il creditore può
procedere a norma del comma 7 solo dopo che il suo
credito è stato ammesso al passivo con prelazione.
9. Entro tre mesi dalla comunicazione di cui alle lettere a),
b), c) e d) del comma 7, il debitore può agire in giudizio per
il risarcimento del danno quando l’escussione è avvenuta in
violazione dei criteri e delle modalità di cui alle predette lettere a), b), c) e d) e non corrispondono ai valori correnti di
mercato il prezzo della vendita, il corrispettivo della cessione,
il corrispettivo della locazione ovvero il valore comunicato a
norma della disposizione di cui alla lettera d).
10. Agli effetti di cui agli articoli 66 e 67 del regio decreto 16 marzo 1942, n. 267 il pegno non possessorio è
equiparato al pegno.
10-bis. Per quanto non previsto dal presente articolo, si applicano, in quanto compatibili, le disposizioni di cui al libro
sesto, titolo III, capo III, del codice civile.
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Art. 2
Finanziamento alle imprese garantito da trasferimento
di bene immobile sospensivamente condizionato
1. Al decreto legislativo 1° settembre 1993, n. 385, dopo l’articolo 48 è aggiunto il seguente articolo:
“Art. 48-bis (Finanziamento alle imprese garantito da
trasferimento di bene immobile sospensivamente condizionato). - 1. Il contratto di finanziamento concluso tra
un imprenditore e una banca o altro soggetto autorizzato a concedere finanziamenti nei confronti del pubblico
ai sensi dell’articolo 106 può essere garantito dal trasferimento, in favore del creditore o di una società dallo
stesso controllata o al medesimo collegata ai sensi delle
vigenti disposizioni di legge e autorizzata ad acquistare,
detenere, gestire e trasferire diritti reali immobiliari,
della proprietà di un immobile o di un altro diritto immobiliare dell’imprenditore o di un terzo, sospensivamente condizionato all’inadempimento del debitore a
norma del comma 5. La nota di trascrizione del trasferimento sospensivamente condizionato di cui al presente
comma deve indicare gli elementi di cui all’articolo
2839, secondo comma, numeri 4), 5) e 6), del codice
civile.
2. In caso di inadempimento, il creditore ha diritto di
avvalersi degli effetti del patto di cui al comma 1, purché al proprietario sia corrisposta l’eventuale differenza
tra il valore di stima del diritto e l’ammontare del debito inadempiuto e delle spese di trasferimento.
3. Il trasferimento non può essere convenuto in relazione a immobili adibiti ad abitazione principale del proprietario, del coniuge o di suoi parenti e affini entro il
terzo grado.
4. Il patto di cui al comma 1 può essere stipulato al momento della conclusione del contratto di finanziamento
o, anche per i contratti in corso alla data di entrata in
vigore della presente disposizione, per atto notarile, in
sede di successiva modificazione delle condizioni contrattuali. Qualora il finanziamento sia già garantito da
ipoteca, il trasferimento sospensivamente condizionato
all’inadempimento, una volta trascritto, prevale sulle
trascrizioni e iscrizioni eseguite successivamente all’iscrizione ipotecaria. Fatti salvi gli effetti dell’aggiudicazione, anche provvisoria, e dell’assegnazione, la disposizione di cui al periodo precedente si applica anche
quando l’immobile è stato sottoposto ad espropriazione
forzata in forza di pignoramento trascritto prima della
trascrizione del patto di cui al comma 1 ma successivamente all’iscrizione dell’ipoteca; in tal caso, si applica il
comma 10.
5. Per gli effetti del presente articolo, si ha inadempimento quando il mancato pagamento si protrae per oltre nove mesi dalla scadenza di almeno tre rate, anche
non consecutive, nel caso di obbligo di rimborso a rate
mensili; o per oltre nove mesi dalla scadenza anche di
una sola rata, quando il debitore è tenuto al rimborso
rateale secondo termini di scadenza superiori al periodo
mensile; ovvero, per oltre nove mesi, quando non è prevista la restituzione mediante pagamenti da effettuarsi
in via rateale, dalla scadenza del rimborso previsto nel
904
contratto di finanziamento. Qualora alla data di scadenza della prima delle rate, anche non mensili, non pagate
di cui al primo periodo il debitore abbia già rimborsato
il finanziamento ricevuto in misura almeno pari all’85
per cento della quota capitale, il periodo di inadempimento di cui al medesimo primo periodo è elevato da
nove a dodici mesi. Al verificarsi dell’inadempimento
di cui al presente comma, il creditore è tenuto a notificare al debitore e, se diverso, al titolare del diritto reale
immobiliare, nonché a coloro che hanno diritti derivanti da titolo iscritto o trascritto sull’immobile una dichiarazione di volersi avvalere degli effetti del patto di
cui al medesimo comma, secondo quanto previsto dal
presente articolo, precisando l’ammontare del credito
per cui procede.
6. Decorsi sessanta giorni dalla notificazione della dichiarazione di cui al comma 5, il creditore chiede al
presidente del tribunale del luogo nel quale si trova
l’immobile la nomina di un perito per la stima, con relazione giurata, del diritto reale immobiliare oggetto del
patto di cui al comma 1. Il perito procede in conformità
ai criteri di cui all’articolo 568 del codice di procedura
civile. Non può procedersi alla nomina di un perito per
il quale ricorre una delle condizioni di cui all’articolo
51 del codice di procedura civile. Si applica l’articolo
1349, primo comma, del codice civile. Entro sessanta
giorni dalla nomina, il perito comunica, ove possibile a
mezzo di posta elettronica certificata, la relazione giurata di stima al debitore, e, se diverso, al titolare del diritto reale immobiliare, al creditore nonché a coloro che
hanno diritti derivanti da titolo iscritto o trascritto sull’immobile. I destinatari della comunicazione di cui al
periodo precedente possono, entro dieci giorni dalla
medesima comunicazione, inviare note al perito; in tal
caso il perito, entro i successivi dieci giorni, effettua
una nuova comunicazione della relazione rendendo gli
eventuali chiarimenti.
7. Qualora il debitore contesti la stima, il creditore ha
comunque diritto di avvalersi degli effetti del patto di
cui al comma 1 e l’eventuale fondatezza della contestazione incide sulla differenza da versare al titolare del diritto reale immobiliare.
8. La condizione sospensiva di inadempimento, verificatisi i presupposti di cui al comma 5, si considera avverata al momento della comunicazione al creditore del valore di stima di cui al comma 6 ovvero al momento dell’avvenuto versamento all’imprenditore della differenza
di cui al comma 2, qualora il valore di stima sia superiore all’ammontare del debito inadempiuto, comprensivo
di tutte le spese ed i costi del trasferimento. Il contratto
di finanziamento o la sua modificazione a norma del
comma 4 contiene l’espressa previsione di un apposito
conto corrente bancario senza spese, intestato al titolare
del diritto reale immobiliare, sul quale il creditore deve
accreditare l’importo pari alla differenza tra il valore di
stima e l’ammontare del debito inadempiuto.
9. Ai fini pubblicitari connessi all’annotazione di cancellazione della condizione sospensiva ai sensi dell’articolo 2668, terzo comma, del codice civile, il creditore,
anche unilateralmente, rende nell’atto notarile di avve-
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ramento della condizione una dichiarazione, a norma
dell’articolo 47 del decreto del Presidente della Repubblica 28 dicembre 2000, n. 445, con cui attesta l’inadempimento del debitore a norma del comma 5, producendo altresì estratto autentico delle scritture contabili
di cui all’articolo 2214 del codice civile.
10. Può farsi luogo al trasferimento a norma del presente articolo anche quando il diritto reale immobiliare già
oggetto del patto di cui al comma 1 sia sottoposto ad
esecuzione forzata per espropriazione. In tal caso l’accertamento dell’inadempimento del debitore è compiuto,
su istanza del creditore, dal giudice dell’esecuzione e il
valore di stima è determinato dall’esperto nominato
dallo stesso giudice. Il giudice dell’esecuzione provvede
all’accertamento dell’inadempimento con ordinanza, fissando il termine entro il quale il creditore deve versare
una somma non inferiore alle spese di esecuzione e, ove
vi siano, ai crediti aventi diritto di prelazione anteriore
a quello dell’istante ovvero pari all’eventuale differenza
tra il valore di stima del bene e l’ammontare del debito
inadempiuto. Avvenuto il versamento, il giudice dell’esecuzione, con decreto, dà atto dell’avveramento della
condizione. Il decreto è annotato ai fini della cancellazione della condizione, a norma dell’articolo 2668 del
codice civile. Alla distribuzione della somma ricavata si
provvede in conformità alle disposizioni di cui al libro
terzo, titolo II, capo IV del codice di procedura civile.
11. Il comma 10 si applica, in quanto compatibile, anche
quando il diritto reale immobiliare è sottoposto ad esecuzione a norma delle disposizioni di cui al decreto del Presidente della Repubblica 29 settembre 1973, n. 602.
12. Quando, dopo la trascrizione del patto di cui al
comma 1, sopravviene il fallimento del titolare del diritto reale immobiliare, il creditore, se è stato ammesso
al passivo, può fare istanza al giudice delegato perché,
sentiti il curatore e il comitato dei creditori, provveda a
norma del comma 10, in quanto compatibile.
13. Entro trenta giorni dall’estinzione dell’obbligazione
garantita il creditore provvede, mediante atto notarile,
a dare pubblicità nei registri immobiliari del mancato
definitivo avveramento della condizione sospensiva.
13-bis. Ai fini del concorso tra i creditori, il patto a scopo di garanzia di cui al comma 1 è equiparato all’ipoteca.
13-ter. La trascrizione del patto di cui al comma 1 produce
gli effetti di cui all’articolo 2855 del codice civile, avendo riguardo, in luogo del pignoramento, alla notificazione della
dichiarazione di cui al comma 5.”
Art. 3
Registro delle procedure di espropriazione forzata
immobiliari, delle procedure di insolvenza e degli strumenti
di gestione della crisi
1. È istituito presso il Ministero della giustizia un registro elettronico delle procedure di espropriazione forzata
immobiliari, delle procedure d’insolvenza e degli strumenti di gestione della crisi. Il registro è accessibile dalla Banca d’Italia, che utilizza i dati e le informazioni in
esso contenuti nello svolgimento delle funzioni di vigi-
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lanza, a tutela della sana e prudente gestione degli intermediari vigilati e della stabilità complessiva.
2. Nel registro sono pubblicati le informazioni e i documenti relativi:
a) alle procedure di espropriazione forzata immobiliare;
b) alle procedure di fallimento, di concordato preventivo, di liquidazione coatta amministrativa di cui al regio
decreto 16 marzo 1942, n. 267;
c) ai procedimenti di omologazione di accordi di ristrutturazione dei debiti di cui all’articolo 182-bis del regio
decreto 16 marzo 1942, n. 267, nonché ai piani di risanamento di cui all’articolo 67, terzo comma, lettera d),
del regio decreto 16 marzo 1942, n. 267, quando vengano fatti oggetto di pubblicazione nel registro delle imprese;
d) alle procedure di amministrazione straordinaria di
cui al decreto legislativo 8 luglio 1999 n. 270 e al decreto-legge 23 dicembre 2003, n. 347, convertito, con modificazioni, dalla legge 18 febbraio 2004, n. 39;
e) alle procedure di accordo di ristrutturazione dei debiti, di piano del consumatore e di liquidazione dei beni
di cui alla legge 27 gennaio 2012, n. 3.
3. Il registro si compone di una sezione ad accesso pubblico e gratuito e di una sezione ad accesso limitato,
aventi il contenuto che segue:
a) relativamente alle procedure di cui al comma 2, nella sezione del registro ad accesso pubblico sono rese disponibili in
forma elettronica, in relazione alla tipologia di procedura o
di strumento di cui al comma 2, le informazioni e i documenti di cui all’articolo 24, paragrafo 2, del Regolamento
(UE) 2015/848 e le altre informazioni rilevanti in merito ai
tempi e all’andamento di ciascuna procedura o strumento;
all’interno di questa sezione possono essere altresì collocate
le informazioni e i provvedimenti di cui all’articolo 28, quarto comma, secondo periodo, del regio decreto 16 marzo
1942, n. 267;
b) relativamente alle procedure di espropriazione forzata immobiliare, nella sezione del registro ad accesso pubblico sono
rese disponibili in forma elettronica le informazioni e i documenti individuati con decreto dirigenziale del Ministero della
giustizia di concerto con il Ministero dell’economia e delle finanze, da adottare entro centoventi giorni dalla data di entrata in vigore della legge di conversione del presente decreto. Nella individuazione delle informazioni il decreto tiene
conto, a fini di tutela della stabilità finanziaria, anche della
loro rilevanza per una migliore gestione dei crediti deteriorati
da parte degli intermediari creditizi e finanziari;
c) nella sezione del registro ad accesso limitato sono resi
disponibili in forma elettronica le informazioni e i documenti relativi a ciascuna procedura o strumento di
cui al comma 2, individuate con il decreto dirigenziale
di cui alla lettera b).
4. Con il decreto di cui al comma 3, lettera b), sentita
la Banca d’Italia per gli aspetti rilevanti ai fini di tutela
della stabilità finanziaria, sono altresì adottate le disposizioni per l’attuazione del registro, prevedendo:
a) le modalità di pubblicazione, rettifica, aggiornamento
e consultazione dei dati e dei documenti da inserire nel
registro, nonché i tempi massimi della loro conservazione;
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b) i soggetti tenuti ad effettuare, in relazione a ciascuna
tipologia di procedura o strumento, la pubblicazione
delle informazioni e dei documenti;
c) le categorie di soggetti che sono legittimati, in presenza di un legittimo interesse, ad accedere, anche mediante un avvocato munito di procura, alla sezione del
registro ad accesso limitato; il contributo dovuto per
l’accesso, da determinare in misura tale da assicurare almeno la copertura dei costi del servizio, e i casi di esenzione; è sempre consentito l’accesso gratuito all’autorità
giudiziaria;
d) le eventuali limitate eccezioni alla pubblicazione di documenti con riferimento alle esigenze di riservatezza delle informazioni ivi contenute o all’assenza di valore informativo
di tali documenti per i terzi.
5. Il registro deve consentire la ricerca dei dati secondo ciascuna tipologia di informazione e di documento in esso contenuti e di tribunale e numero di ruolo dei procedimenti. Le
disposizioni contenute nel decreto di cui al comma 3, lettera
b), assicurano che il registro sia conforme alle disposizioni
del regolamento (UE) 2015/848.
6. Su richiesta del debitore, del curatore, del commissario giudiziale, di un creditore, di chiunque vi abbia interesse o d’ufficio, il giudice delegato o il tribunale competenti possono limitare la pubblicazione di un documento o di una o più sue parti, quando sia dimostrata
l’esistenza di uno specifico e meritevole interesse alla riservatezza dell’informazione in esso contenuta. La richiesta di cui al presente comma sospende gli obblighi
di pubblicazione dei documenti, o della parte di essi, oggetto della richiesta di esenzione e, qualora la pubblicazione sia già avvenuta, sospende temporaneamente l’accesso ad essi da parte degli interessati. Nelle more della
decisione, il giudice può imporre una cauzione al creditore o terzo richiedente.
7. In attuazione degli obiettivi di cui al presente articolo, il Ministero della giustizia, per la progressiva implementazione e digitalizzazione degli archivi e della piattaforma tecnologica ed informativa dell’Amministrazione della Giustizia, in coerenza con le linee del Piano
triennale per l’informatica nella pubblica amministrazione di cui all’articolo 1, commi 513 e 515, della legge
28 dicembre 2015, n. 208, può avvalersi della Società
di cui all’articolo 83, comma 15, del decreto-legge 25 giugno 2008, n. 112, convertito, con modificazioni dalla
legge 6 agosto 2008, n. 133. Ai fini della realizzazione
dei predetti servizi di interesse generale, la Società
provvederà, tramite Consip S.p.A., all’acquisizione dei
beni e servizi occorrenti.
8. Per l’istituzione del registro è autorizzata la spesa di 3,5
milioni di euro per ciascuno degli anni 2016-2018. Il Ministero della giustizia, il Ministero dell’economia e delle finanze e la Banca d’Italia disciplinano con apposita convenzione,
da stipulare entro sessanta giorni dall’entrata in vigore della
legge di conversione del presente decreto, i rispettivi compiti
rispetto alla realizzazione, al funzionamento e al monitoraggio del registro, nonché l’eventuale entità della contribuzione
finanziaria da parte della Banca d’Italia.
…omissis…
906
Art. 5
Accesso degli organi delle procedure concorsuali
alle informazioni contenute nelle banche dati
1. All’articolo 155-sexies delle disposizioni di attuazione
del codice di procedura civile sono aggiunti, in fine, i
seguenti periodi: “Ai fini del recupero o della cessione
dei crediti, il curatore, il commissario e il liquidatore
giudiziale possono avvalersi delle medesime disposizioni
anche per accedere ai dati relativi ai soggetti nei cui
confronti la procedura ha ragioni di credito, anche in
mancanza di titolo esecutivo nei loro confronti. Quando di tali disposizioni ci si avvale nell’ambito di procedure concorsuali e di procedimenti in materia di famiglia, l’autorizzazione spetta al giudice del procedimento.”.
…omissis…
Art. 6
Modifiche alla legge fallimentare
1. Al regio decreto 16 marzo 1942, n. 267 sono apportate le seguenti modificazioni:
a) all’articolo 40, dopo il quarto comma, è aggiunto il
seguente: “Il comitato dei creditori si considera costituito con l’accettazione, anche per via telematica, della
nomina da parte dei suoi componenti, senza necessità
di convocazione dinanzi al curatore ed anche prima della elezione del suo presidente.”;
b) all’articolo 95, terzo comma, è aggiunto in fine il seguente periodo: “In relazione al numero dei creditori e
alla entità del passivo, il giudice delegato può stabilire
che l’udienza sia svolta in via telematica con modalità
idonee a salvaguardare il contraddittorio e l’effettiva
partecipazione dei creditori, anche utilizzando le strutture informatiche messe a disposizione della procedura
da soggetti terzi.”;
c) all’articolo 104-ter, decimo comma, è inserito, in fine, il seguente periodo: “È altresì giusta causa di revoca,
in presenza di somme disponibili per la ripartizione, il
mancato rispetto dell’obbligo di cui all’articolo 110 primo comma.”;
c-bis) all’articolo 110:1) al primo comma sono aggiunti, in
fine, i seguenti periodi: “Nel caso in cui siano in corso giudizi di cui all’articolo 98, il curatore, nel progetto di ripartizione di cui al presente comma indica, per ciascun creditore, le
somme immediatamente ripartibili nonché le somme ripartibili soltanto previo rilascio in favore della procedura di una
fideiussione autonoma, irrevocabile e a prima richiesta, rilasciata da uno dei soggetti di cui all’articolo 574, primo comma, secondo periodo, del codice di procedura civile, idonea
a garantire la restituzione alla procedura delle somme che risultino ripartite in eccesso, anche in forza di provvedimenti
provvisoriamente esecutivi resi nell’ambito dei giudizi di cui
all’articolo 98, oltre agli interessi, al tasso applicato dalla
Banca centrale europea alle sue più recenti operazioni di rifinanziamento principali, a decorrere dal pagamento e sino all’effettiva restituzione. Le disposizioni del periodo precedente
si applicano anche ai creditori che avrebbero diritto alla ripartizione delle somme ricavate nel caso in cui risulti insussi-
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stente, in tutto o in parte, il credito avente diritto all’accantonamento ovvero oggetto di controversia a norma dell’articolo 98”; 2) al quarto comma, secondo periodo, sono aggiunte, in fine, le seguenti parole: “; non si fa luogo ad accantonamento qualora sia presentata in favore della procedura una fideiussione a norma del terzo periodo del primo
comma, idonea a garantire la restituzione di somme che, in
forza del provvedimento che decide il reclamo, risultino ripartite in eccesso, oltre agli interessi nella misura prevista
dal predetto terzo periodo del primo comma”;
d) all’articolo 163, secondo comma, dopo il n. 2) è aggiunto il seguente: “2-bis) in relazione al numero dei
creditori e alla entità del passivo, può stabilire che l’a-
il Fallimento 8-9/2016
dunanza sia svolta in via telematica con modalità idonee a salvaguardare il contraddittorio e l’effettiva partecipazione dei creditori, anche utilizzando le strutture informatiche messe a disposizione della procedura da soggetti terzi”;
e) all’articolo 175 comma secondo, è inserito, in fine, il
seguente periodo: “Quando il tribunale ha disposto che
l’adunanza sia svolta in via telematica, la discussione
sulla proposta del debitore e sulle eventuali proposte
concorrenti è disciplinata con decreto, non soggetto a
reclamo, reso dal giudice delegato almeno dieci giorni
prima dell’adunanza.”.
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Giurisprudenza
In itinere:
novità giurisprudenziali
a cura di Massimo Ferro
FALLIMENTO
I REQUISITI DEL FALLIMENTO DELLA SUPERSOCIETÀ FRA
SOCIETÀ A RESPONSABILITÀ LIMITATA E PERSONA FISICA
Cassazione, Sez. I, 20 maggio 2016, n. 10507 - Pres. Didone - Est. Cristiano - MES S.r.l. Fall. Messina S.r.l. c. C.
Cassazione, Sez. I, 13 giugno 2016, n. 12120 - Pres. Didone - Est. Ferro - Fall. Domus Cantieri S.r.l. c. C.
(legge fallimentare artt. 1, 5, 147; cod. civ. artt. 2332,
2361, 2479; cod. civ. 111 duodecies disp. att.)
È ammissibile il fallimento della società di fatto tra una
S.r.l., a propria volta già dichiarata fallita ed una persona fisica, determinandosi per ripercussione, ai sensi dell’art. 147,
comma 1, l.fall., il fallimento di essi anche in proprio quali
soci illimitatamente responsabili. Tale estensione non trova ostacoli nella lettera dei commi 4 e 5 dell’art. 147, posto
che essi, nel prevedere il fallimento del socio dopo la dichiarazione di fallimento della società ovvero la scoperta della
società dopo il fallimento dell’imprenditore individuale, descrivono in modo solo esemplificativo il fenomeno, senza
restringerlo dunque ai casi in cui la scoperta della società
di fatto risulti anche dopo il fallimento di uno qualsiasi dei
suoi componenti, già in ipotesi fallito. Il principio trova peraltro applicazione non in via automatica ogni qual volta ricorra
un abuso dello schermo societario (in forza di dominio di
un socio o di un terzo sull’organizzazione), presiedendo alla
reazione ordinamentale in tali ipotesi le norme sulle responsabilità (come anche l’art. 2497 c.c.). Non esistono dunque
ostacoli nel diritto societario, trattandosi, dal punto di vista
della S.r.l., di un atto gestorio degli amministratori, valido
anche senza autorizzazione dei soci e indicazione nella nota
integrativa al bilancio. Comunque, anche a voler predicare la
nullità del contratto di società, essa non opererebbe retroattivamente, dovendo il soggetto collettivo entrare in uno
stato di liquidazione dei suoi rapporti ed equivalendo la
nullità, nel diritto societario, ad un’ipotesi di scioglimento.
Per la dichiarazione di fallimento occorre invece la sussistenza di un’impresa collettiva irregolare - dotata di affectio
societatis fra i suoi sodali, dunque un fondo comune, l’effettiva partecipazione a perdite e profitti, l’agire nell’interesse
dei soci e non contro di essi, l’assunzione di un vincolo o almeno la sua esteriorizzazione - con autonoma insolvenza,
all’insegna di un criterio di effettività, per cui occorre che
la società risulti e le sia riferibile l’attività economica, abbia o
meno speso il proprio nome per le relative operazioni.
(legge fallimentare art. 99; Cost. art. 111; cod. proc. civ.
artt. 189, 190)
Nel giudizio di opposizione allo stato passivo, il procedimento è compatibile con la trattazione delegata prima
avanti al giudice designato dal presidente, poi con investitura del collegio, per la fase decisoria, anche senza che
le parti siano state invitate dal primo a precisare le conclusioni o ricevano termini per il deposito di difese finali, come
comparse conclusionali e memorie di replica ai sensi degli
artt. 189-190 c.p.c. Allo speciale rito delle impugnazioni
allo stato passivo non si applicano infatti le regole di quello ordinario, restando eventuale anche la concessione di
termini per le ultime difese. Parimenti il passaggio dalla
fase di trattazione a quella di decisione non necessita, in
coerenza con la deformalizzazione del procedimento, di un
atto rituale, ben potendo avvenire anche per le vie brevi,
in coerenza con le esigenze di celerità di cui agli artt. 98-99
l.fall.
cOMUNICAZIONE DELLA SENTENZA SUL RECLAMO
AVVERSO LA SENTENZA DI FALLIMENTO E DECORRENZA
DEL TERMINE PER IL RICORSO PER CASSAZIONE
Cassazione, Sez. I, 20 maggio 2016, n. 10525 - Pres.
Nappi - Est. Di Virgilio - F. c. Fall. F. e altri
(legge fallimentare artt. 16, 18; cod. proc. civ. artt. 133,
325, 326, 327; cod. proc. civ. art. 45 disp. att.; R.D. 30
gennaio 1941, n. 12, art. 92; D.L. 24 giugno 2014, n.
90, conv. in L. 11 agosto 2014, n. 114, artt. 45)
La comunicazione integrale, da parte del cancelliere ed ai
sensi dell’art. 18, comma 14, l.fall., della sentenza con cui la
corte d’appello ha respinto il reclamo proposto avvero la
sentenza di fallimento è idonea a far decorrere il termine
breve per le impugnazioni. Ne consegue che il ricorso per
cassazione notificato dopo il 30° giorno da tale adempimento di cancelleria è tardivo. Risultata nella specie la ricevuta
di comunicazione telematica, a mezzo PEC, del testo della
sentenza, ciò permette - in questa materia - il superamento
della regola generale, pur posta dall’art. 133, comma 2,
c.p.c. che neutralizza la comunicazione integrale telematica
d’ufficio della pronuncia ai fini dei termini per l’impugnazione. Si tratta infatti di regola che è derogata da ogni altra disposizione speciale, ancorché anteriore alla modifica della
citata norma codicistica attuata dal D.L. n. 90 del 2014.
TERMINE PER IL RECLAMO AVVERSO LA SENTENZA
DI FALLIMENTO E DECORRENZA PER IL SOCIO DI SOCIETÀ
TRATTAZIONE DEL GIUDIZIO DI OPPOSIZIONE ALLO STATO
PASSIVO TRA GIUDICE DESIGNATO E COLLEGIO
Cassazione, Sez. I, 13 giugno 2016, n. 12116 - Pres. Bernabai - Est. De Chiara - BAS S.p.a. Fall. Doro Group r.l.
908
FALLITA
Cassazione, Sez. I, 23 maggio 2016, n. 10632 - Pres. Di
Palma - Est. Mercolino - L. S. c. Fall. Costruzioni Santa
Venere s.r.l.
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Giurisprudenza
(cod. proc. civ. artt. 325, 327; legge fallimentare artt.
15, 17, 18, 147)
PRODUZIONE DEGLI ESTRATTI DEI RUOLI, NOTIFICA
Il socio di una società di capitali dichiarata fallita è legittimato a proporre reclamo avverso la sentenza di fallimento di
questa, perché titolare di posizioni giuridiche che potrebbero
risultarne pregiudicate, ma non è tra quei soggetti verso i
quali è prevista la notificazione dell’istanza di fallimento, né
del decreto di convocazione in camera di consiglio davanti al
tribunale. A prescindere pertanto dalla sua eventuale partecipazione al procedimento di primo grado, va escluso che il
predetto socio possa sfuggire al termine lungo - ora 6 mesi
ex art. 327, comma 1, c.c. - per impugnare la sentenza stessa, ciò nemmeno ove adduca nullità o inesistenza della notifica effettuata in capo alla società, trattandosi semmai di vizi
di un atto che ha come destinatario un soggetto diverso, l’unico abilitato a rilevarne la sussistenza. Nella specie, il principio così applicato ha impedito di discutere sulla portata della
iscrizione della sentenza di fallimento al registro delle imprese nonostante la società, trasferita all’estero, avesse in
precedenza conseguito la relativa cancellazione, mentre il tribunale aveva disconosciuto efficacia a tale mutamento, ritenuto fittizio e non escludente la continuità giuridica della società. L’operatività oggettiva del termine, dalla pubblicità, si
impone perciò come regime cui soggiace l’impugnazione del
terzo, cui non si applica l’esenzione di cui all’art. 327, comma
2, c.p.c. per il convenuto contumace.
Cassazione, Sez. I, 13 giugno 2016, n. 12117 - Pres.
Bernabai - Rel. De Chiara- Equitalia ETR S.p.a. c. Fall.
Edilcasa S.r.l.
(d.P.R. 29 settembre 1973, n. 602, art. 87; legge fallimentare artt. 93, 98)
LIMITI DELL’INEFFICACIA DEL RISCATTO DELLA POLIZZA
VITA CONTRATTA IN FAVORE DEL FALLITO
Cassazione, Sez. I, 14 giugno 2016, n. 12261 - Pres. ed
Est. Bernabai - Ina Assitalia S.p.a. c. Fall. R. S.a.s.
(legge fallimentare artt. 44, 16; cod. civ. art. 1923)
Le somme dovute dall’assicurazione al fallito a titolo di riscatto della polizza vita da questi stipulata non divengono
oggetto di un pagamento inefficace, ancorché attuato dopo la dichiarazione di fallimento, poiché escluse dall’attivo
fallimentare ex art. 46, comma 1, n. 5, l.fall. Non è invero
possibile distinguere tra finalità previdenziali di simile polizza e finalità di risparmio: i bisogni della previdenza vanno infatti riconosciuti anche in quell’assicurazione privata,
da assimilare - per questi fini di protezione - alle assicurazioni sociali, determinandosi così l’insensibilità delle relative prestazioni, come voluto dall’art. 1923 c.c., all’apprensione esecutiva dei creditori o del curatore.
TARIFFA RIFIUTI E AMMISSIONE AL PASSIVO IN PRIVILEGIO
DEL CREDITO
Cassazione, Sez. I, 14 giugno 2016, n. 12275 - Pres.
Nappi - Est. Ferro - AMA c. Fallim. GER S.r.l.
(legge fallimentare art. 98; cod. civ. art. 2752)
Il credito vantato per il servizio di smaltimento dei rifiuti urbani ed assimilati (TARI) va ammesso al passivo in privilegio, dovendosi assicurare (come già avvenuto per la TARSU e la TIA) l’interpretazione estensiva del rinvio dell’art.
2752 c.c. al R.D. n. 1175 del 1931 sulla finanza locale. Si
tratta invero di una entrata pubblica assimilabile alle tasse
di scopo, con ripartizione dell’onere sulle categorie sociali
che ne traggono vantaggio e pur tuttavia assenza di un
rapporto sinallagmatico puntuale tra prestazione specifica e beneficio effettivo ritratto dal servizio.
il Fallimento 8-9/2016
DELLA CARTELLA ESATTORIALE ED AMMISSIONE AL PASSIVO
L’insinuazione al passivo dei crediti da parte del concessionario della riscossione, ai sensi dell’art. 87, comma 2,
d.P.R. n. 602 del 1973, può essere accolta anche se accompagnata dalla produzione del solo estratto del ruolo,
senza che occorra la previa notifica della cartella esattoriale e salva la necessità, ove sussistano contestazioni del
curatore, di procedere all’ammissione con riserva. Lo scioglimento di questa, ai sensi del successivo art. 88, comma
2, d.P.R. cit., avviene con decreto del giudice delegato, su
domanda del concessionario o del curatore, quando è inutilmente decorso il termine per introdurre la controversia
davanti al giudice competente o il giudizio sia stato definito
con decisione irrevocabile o risulti in altro modo estinto. Il
concessionario ha dunque l’onere di notificare anche la
cartella ma alla sola finalità di provocare la scadenza del
termine - a disposizione del contribuente, ora del curatore
- per impugnare l’atto tributario. Se però la pretesa creditoria iscritta a ruolo non abbia natura tributaria (ma ad es.
previdenziale), non sussiste questione di accertamento davanti al giudice speciale, per cui le eventuali contestazioni
del curatore vanno sollevate direttamente nel giudizio di
accertamento del passivo.
CONCORDATO PREVENTIVO
iL LIQUIDATORE SENZA DELEGA ASSEMBLEARE NON PUÒ
PRESENTARE LA DOMANDA: IL PROFESSIONISTA
INCARICATO NON HA CREDITO VERSO LA MASSA
Cassazione, Sez. I, 14 giugno 2016, n. 12273 - Pres.
Nappi - Est. Genovese - M. c. Fall. Tevi S.p.a. in liquidazione
(legge fallimentare artt. 152, 160, 161; cod. civ. artt.
2487, 2489, 2751 bis)
Messa in liquidazione la società con assemblea straordinaria e investito con la stessa delibera il liquidatore del mero
potere di convocazione dell’assemblea straordinaria per
deliberare altresì l’eventuale approvazione di una proposta
di concordato, alla deserzione della riunione dei soci e ciononostante il liquidatore aveva presentato comunque il ricorso di concordato. Il costo sostenuto dal legale così incaricato non venne ammesso al passivo nel successivo fallimento,
poi dichiarato dal tribunale, eccependosi una carenza assoluta di potere dell’organo conferente: decisione confermata dalla S.C., per la quale il liquidatore non avrebbe gli stessi poteri generali dell’amministratore, come voluto dall’art.
2380 bis c.c., dovendosene la fonte rinvenire in modo specifico nella sola delibera d’assemblea, ex art. 2487, comma 1,
lett. c), c.c., conformata e pubblicizzata come previsto dall’articolo successivo. L’art. 2489 c.c., attribuendo ai liquidatori gli atti utili per la liquidazione della società, non includerebbe la proposta di concordato, né soccorrerebbe l’art.
152 l.fall., che ha riguardo ai soli amministratori. Nel caso
909
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del credito del professionista, inoltre, la mancata iscrizione
di una delibera ad hoc sarebbe di ostacolo a riconoscere all’incaricato una situazione di buona fede opponibile, trattandosi di un potere la cui esistenza esige un conferimento con
particolari, non assolte, formalità.
LIQUIDAZIONE COATTA AMMINISTRATIVA
LIMITI DELLA FACOLTÀ DI SCIOGLIMENTO DEL CONTRATTO
D’OPERA PROFESSIONALE
Cassazione, Sez. I, 20 maggio 2016, n. 10526 - Pres.
Nappi - Est. Di Virgilio - B. c. Tirrena assicurazioni S.p.a.
910
in l.c.a.
(legge fallimentare artt. 72, 201; cod. civ. artt. 2119,
2237)
La scelta se subentrare o meno in un contratto di durata,
attuabile anche per facta concludentia, costituisce una prerogativa del commissario, cui si applica - in virtù del richiamo dell’art. 201 l.fall. - la disciplina generale dell’art.
72 l.fall., che non contiene portata delimitativa per la sola
vendita nemmeno nel regime anteriore al D.Lgs. n. 5 del
2006. Ne deriva che la mancata necessità di un negozio
formale e la ampiezza del principio permettono che l’organo concorsuale possa sciogliersi dal contratto di prestazione d’opera intellettuale di cui all’art. 2237 c.c.
il Fallimento 8-9/2016
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Accordi di ristrutturazione
Accordi di ristrutturazione e tutela dei diritti
Cassazione Civile, Sez. I, 20 aprile 2016, n. 7958, ord. - Pres. A. Nappi - Est. A. Didone - G.D. c.
Corte d’Appello di Napoli
Accordi di ristrutturazione - Tribunale - Decreto di omologazione - Diniego - Reclamo - Ricorribilità per cassazione - Rimessione della questione alle Sezioni unite
(Cost. art. 111; cod. proc. civ. art. 360; legge fallimentare artt. 182-bis, 183)
Va rimessa al primo presidente della corte di cassazione per l’eventuale assegnazione alle sezioni unite la
questione, di particolare importanza, relativa alla ammissibilità del ricorso per cassazione avverso il decreto
con il quale la corte di appello conferma il diniego di omologazione di un accordo di ristrutturazione quando
ad esso non faccia seguito la pronuncia della sentenza di fallimento.
La Corte (omissis).
1.- La s.r.l. Turistica Serinese ha proposto ricorso per
cassazione - affidato a un motivo - contro il decreto della Corte di appello di Napoli (depositato il 27.6.2014)
con il quale è stato rigettato il suo reclamo contro il decreto del tribunale di diniego di omologazione di un accordo di ristrutturazione ai sensi dell’art. 182 bis l.fall.
Il diniego di omologazione è motivato dal mancato raggiungimento della percentuale del 60% dei crediti per i
quali vi è stato accordo, considerato l’ammontare dei
crediti della Banca della Campania, oggetto di contestazioni ritenute pretestuose dai giudici del merito. Non
ha svolto difese il P.M. intimato.
2.- Con l’unico motivo di ricorso la ricorrente denuncia
la violazione dell’art. 176 l.fall. e la violazione del principio della domanda, avendo i giudici del merito valutato d’ufficio la fondatezza delle contestazioni del credito
della Banca della Campania. Elenca i rapporti intrattenuti con la Banca della Campania e le contestazioni
mosse nei giudizi pendenti (attinenti alla natura usuraria degli interessi e agli interessi anatocistici).
Deduce che i crediti contestati non possono essere valutati ai fini del raggiungimento della percentuale del
60% di cui all’art. 182 bis c.p.c., trattandosi di creditori
estranei che, se accertati come tali, devono essere soddisfatti integralmente.
3.- Osserva la Corte che è preliminare l’esame della ricorribilità del provvedimento impugnato.
Il comma 5 dell’art. 182 bis l.fall. prevede che il decreto
del tribunale “è reclamabile alla corte di appello ai sensi
dell’art. 183, in quanto applicabile, entro quindici giorni dalla sua pubblicazione nel registro delle imprese”.
L’art. 183 l.fall. - nel testo modificato dal D.Lgs. correttivo n. 169 del 2007 - a differenza del testo previgente,
secondo cui la sentenza pronunciata dalla corte di appello era ricorribile per cassazione, nulla prevede circa
l’impugnabilità del decreto.
In materia non risulta vi siano precedenti di questa
Corte (non assume alcun rilievo Sez. 6 - 1, Ordinanza
n. 16187 del 24 settembre 2012, trattandosi di decisione assunta in tema di regolamento di competenza, relativo ad un giudizio sull’efficacia di una transazione seguente ad un accordo di ristrutturazione).
il Fallimento 8-9/2016
La dottrina, d’altro canto, è divisa tra chi reputa ricorribile per cassazione il decreto reso dalla Corte di appello
su reclamo ai sensi dell’art. 182 bis l.fall. e chi, invece,
nega l’impugnabilità, registrandosi anche una tesi intermedia che la limita all’ipotesi di avvenuta omologazione e di rigetto di eventuali opposizioni.
La natura decisoria del decreto, in particolare, è negata
dal punto di vista della definitività, che mancherebbe,
potendo essere riproposta la domanda di omologazione.
In una fattispecie analoga (diniego di sospensione L. n.
3 del 2012, ex art. 12 bis) questa Corte (Sez. 1, n.
1869/2016) ha negato la ricorribilità per cassazione del
provvedimento reso dal tribunale in sede di reclamo
perché era sottoposta a censura “una pronuncia connotata dall’assenza di carattere decisorio e contestualmente definitivo del provvedimento di rigetto dell’ammissibilità del piano, che non pregiudica in tesi la stessa possibilità di presentare un altro e diverso piano (del consumatore), pur se con gli eventuali limiti temporali posti dal legislatore a fronteggiare un uso ripetuto ed indiscriminato dell’istituto - di cui all’art. 7, comma 2,
lett. b)”. Ha precisato la Corte che “il provvedimento
negativo a questa stregua, non esprime allora tratti rilevantemente diversi, riguardato sotto il profilo della ricorribilità per cassazione, dai corrispondenti provvedimenti negativi (o di rigetto allo stato degli atti) assunti
nella procedura prefallimentare (Cass. 6683/2015), in
quanto anch’esso esplicita una specifica inidoneità a
tradursi, per via giudiziale, nella validazione del singolo
progetto ristrutturativo del passivo quale proposto in un
dato ricorso e dunque riflette una situazione economico-finanziaria potenzialmente mutevole, né è assimilabile, come sbrigativamente ipotizzato dalla parte, al diniego dell’esdebitazione fallimentare di cui all’art. 143
l.fall., soggetta ad altri presupposti, delimitazioni e finalità”.
3.- Si è innanzi evidenziato che il reclamo in tema di
omologazione di accordi di ristrutturazione è disciplinato con richiamo all’art. 183 l.fall.
In materia di concordato preventivo e con specifico riferimento a tale ultima disposizione, questa Corte, nel
vigore della riforma, ha esplicitamente ammesso la impugnabilità per cassazione quando ne ha interpretato la
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Accordi di ristrutturazione
disciplina del termine. Secondo Sez. 1, Sentenza n.
22932 del 4 novembre 2011, al decreto emesso, ai sensi
dell’art. 183, comma 1, l.fall., dalla corte d’appello, che
decida sul reclamo avverso il decreto di omologazione,
si applica il rito camerale di cui agli artt. 737 c.p.c. e ss.
e, quindi, è ricorribile per cassazione entro il termine
ordinario di sessanta giorni, decorrenti dalla data di notificazione dello stesso; infatti, non può applicarsi per
analogia la disciplina prevista per il concordato fallimentare dall’art. 131 l.fall., e riformata con il D.Lgs. n.
169 del 2007, attesa la compiutezza della disciplina del
concordato preventivo e stante la diversità dei presupposti oggettivi in cui interviene la rispettiva omologazione (impresa fallita da un lato e “in bonis” dall’altro).
Per converso, si è ritenuto che il reclamo alla corte
d’appello avverso il decreto con il quale il tribunale abbia provveduto sull’omologazione (accordandola o negandola) del concordato preventivo, ai sensi dell’art.
183 l.fall., va proposto entro il termine di trenta giorni,
in quanto la circostanza che con lo stesso reclamo, proponibile contro il decreto che pronuncia sull’omologazione del concordato preventivo, possa essere impugnata anche la eventuale sentenza dichiarativa di fallimento impone, per una lettura costituzionalmente orientata
della norma, di reputare applicabile il medesimo termine previsto dall’art. 18 l.fall. (Sez. Sentenza n. 4304 del
19 marzo 2012; conf. Sez. 1, Sentenza n. 21606 del 20
settembre 2013).
La stessa lettura costituzionalmente orientata si imporrebbe in relazione all’art. 131 l.fall., che espressamente
prevede la possibilità di ricorso per cassazione avverso il
decreto reso dalla corte di appello sul reclamo contro il
provvedimento emesso dal tribunale in sede di omologa
del concordato fallimentare.
Sennonché, con ordinanza n. 3472 del 2016 questa Sezione ha rimesso gli atti al Primo Presidente per l’eventuale rimessione alle Sezioni unite sollecitando una pronuncia chiarificatrice e “una valutazione comparativa
delle diverse ipotesi di cui agli artt. 162, 173, 179 e 180
l.fall., in relazione alle diverse fattispecie concrete che,
in assenza di dichiarazione di fallimento, potrebbero dar
luogo al ricorso per cassazione ex art. 111 Cost.”. Ciò
induce il Collegio a rimettere la causa al Primo Presidente per la medesima finalità, trattandosi anche di
questione di massima di particolare importanza e occorrendo chiarire l’oggettiva impugnabilità del provvedimento in esame prima ancora di esaminare la questione
(rilevabile d’ufficio) dell’integrità del contraddittorio,
essendo stato notificato il ricorso soltanto al pubblico
ministero.
P.Q.M.
La Corte rimette la causa al Primo Presidente per l’eventuale rimessione alle Sezioni unite
(omissis).
Tribunale di Udine, Sez. II, 19 maggio 2016 - Pres. F. Venier - Rel. A. Zuliani Auto e Carri (...)
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Accordi di ristrutturazione - Documentazione - Piano ed attestazione - Pubblicazione sul registro delle imprese - Necessità
(Legge fallimentare art. 182 bis)
Negli accordi di ristrutturazione dei debiti, al fine di consentire ai creditori una compiuta informazione, il debitore deve depositare, per la pubblicazione sul registro delle imprese, oltre all’accordo, anche il piano e la attestazione.
Il Tribunale (omissis).
rilevato che il piano per l’attuazione dell’accordo - che
deve garantire il pagamento integrale dei creditori estranei - consiste sostanzialmente nella cessione dell’azienda all’attuale affittuaria, (...) A. (...) e (...) S.r.l.”, con la
quale è stato concluso un contratto preliminare per il
prezzo di Euro 350.000, da pagarsi al momento del contratto definitivo, il quale a sua volta sarà stipulato entro
45 giorni dall’omologazione dell’accordo di ristrutturazione (doc. n. 9);
preso atto che parte ricorrente, oltre a produrre una relazione aggiornata sulla situazione patrimoniale, economica e finanziaria della società (doc. n. 23), lo stato
analitico ed estimativo delle attività (doc. n. 24), l’elenco nominativo dei creditori (doc. n. 25) e l’elenco
dei titolari di diritti reali o personali su beni di proprietà o in possesso del debitore (doc. n. 26), produce uno
912
schema denominato “prospetto di dettaglio del piano di
ristrutturazione dei debiti al 31 maggio 2015” (doc. n.
10) e la relazione del professionista indipendente, dott.
(...), attestante l’attuabilità del piano di ristrutturazione
e la sua idoneità ad assicurare il pagamento integrale di
tutti i creditori estranei entro 120 giorni dall’omologa
(doc. n. 21);
rilevato che la relazione del professionista fa riferimento
ad un “piano di ristrutturazione dei debiti datato 22 giugno 2015” (v. pag. 4), che non risulta tra i documenti
prodotti con il ricorso, essendo stato prodotto soltanto
il citato “prospetto di dettaglio” (doc. n. 10);
rilevato, inoltre, che né il “piano di ristrutturazione”,
né la relazione del professionista indipendente risultano
essere stati pubblicati nel registro delle imprese, a differenza degli accordi di ristrutturazione (il cui testo non
menziona alcun allegato);
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Accordi di ristrutturazione
rilevato, altresì, che la relazione del professionista non
contiene un’esplicita attestazione della veridicità dei dati aziendali ed è generico nella descrizione del documento (anche questo non prodotto con il ricorso e
ignoto al tribunale, così come ai creditori) sul quale basa il giudizio di attuabilità del piano sotto il profilo della
prevedibilità di un esatto adempimento dell’acquirente
dell’azienda (si tratta di una lettera 15 giugno 2016 della B.C.C. della C. e del G.);
ritenuto che - nonostante l’ambiguità del dato legislativo, che prevede testualmente la pubblicazione nel registro delle imprese del solo accordo (e senza indicare
l’ordine cronologico rispetto al deposito del ricorso in
tribunale) - merita di essere accolta l’interpretazione
estensiva secondo cui devono essere resi pubblici mediante il deposito nel registro delle imprese anche: a) il
piano di ristrutturazione dei debiti; b) la relazione del
professionista indipendente;
ritenuto, infatti, che:
a) per quanto riguarda il piano di ristrutturazione dei
debiti, esso deve intendersi quale parte integrante dell’accordo, il cui scopo è appunto quello di superare o
comunque risolvere lo stato di crisi dell’impresa; vero è
che, quando la ristrutturazione dei debiti è basata sulla
liquidazione del patrimonio sociale, a sua volta concentrata quasi esclusivamente su un unico contratto di cessione d’azienda da stipularsi con soggetto già individuato (e già subentrato nella gestione a titolo di affitto), il
piano è estremamente semplice, tanto da renderne addirittura superflua la separata redazione in un apposito documento e possibile l’incorporazione nello stesso testo
dell’accordo; peraltro, ciò non è avvenuto nel caso di
specie, sia perché un “piano economico finanziario” è
stato redatto (gli accordi di ristrutturazione menzionano
il relativo incarico professionale e nella relazione dell’attestatore si legge che egli ha “potuto verificare ... i
contenuti e le condizioni del piano di ristrutturazione
dei debiti datato 22 giugno 2015”), sia perché i singoli
accordi di ristrutturazione non descrivono il piano in
modo sufficientemente preciso, limitandosi a menzionare fugacemente e genericamente il trasferimento dell’azienda o del ramo d’azienda”, al solo fine di stabilire il
termine per il pagamento dell’importo concordato (v.
clausola n. 4.1.); in definitiva, se il piano e un elemento
coessenziale allo stesso accordo, l’onere di pubblicare
quest’ultimo registro delle imprese deve essere interpretato come riferito anche al piano;
b) per quanto riguarda la relazione del professionista indipendente (che mantiene la sua rilevanza anche quando il piano è estremamente semplice, perché la semplicità strutturale del piano non elimina la necessità di un
motivato giudizio sulla sua concreta attuabilità), essa
rappresenta un elemento essenziale per permettere ai
creditori estranei di valutare l’opportunità di proporre
opposizione, tant’è che la legge evidenzia - quale contenuto peculiare della relazione in sede di omologazione
degli accordi di ristrutturazione - il giudizio “sulla idoneità dell’accordo ad assicurare l’integrale pagamento
dei creditori estranei”; qualora la relazione non fosse
pubblicata nel registro delle imprese, i creditori estranei
il Fallimento 8-9/2016
non avrebbero modo di conoscerla, e potrebbero essere
costretti a presentare un’opposizione “esplorativa” al solo fine di avere titolo per accedere al fascicolo del tribunale e prendere finalmente visione del documento che
proprio ai creditori estranei è principalmente diretto;
inoltre, poiché la legge non stabilisce l’ordine cronologico tra pubblicazione dell’accordo nel registro delle imprese e presentazione del ricorso in tribunale (e gli interpreti sono incerti sul se esista un ordine da seguire e
su quale esso sia), e poiché dies a quo per l’eventuale opposizione decorre dalla pubblicazione dell’accordo nel
registro delle imprese, ammettere la pubblicazione dell’accordo senza la pubblicazione della relazione del professionista indipendente, esporrebbe i creditori estranei
al rischio di vedere spirare il termine per l’opposizione
senza avere avuto la possibilità di vedere la relazione
dell’esperto (qualora il ricorso, con allegata la relazione,
venisse depositato in cancelleria almeno trenta giorni
dopo la pubblicazione dell’accordo nel registro imprese);
in definitiva, sebbene la relazione del professionista (a
differenza del piano) non possa intendersi quale parte
intrinseca dell’accordo, la sua funzione informativa nei
confronti dei terzi e la rilevanza processuale attribuita
alla pubblicazione nel registro imprese (dies a quo per le
eventuali opposizioni impongono di interpretare estensivamente la norma che prevede la pubblicazione del
solo accordo, ritenendola implicitamente riferita anche
alla relazione;
ritenuto per quanto riguarda le lacune riscontrate nella
relazione del dott. (...); a) che la “veridicità dei dati
aziendali” costituisce oggetto specifico dell’esame del
professionista indipendente e, quindi, deve tradursi in
una chiara ed altrettanto specifica attestazione, non potendosi considerare sufficiente l’implicita inclusione di
tale giudizio nell’attestazione di attuabilità del piano; b)
che la motivazione della attestata prevedibilità del regolare pagamento del prezzo della cessione d’azienda non
è completa, senza una compiuta descrizione del contenuto o l’allegazione della lettera della banca che “avrebbe garantito l’erogazione dell’intera somma pattuita entro la data del 15 giugno 2016”;
ritenuto che è possibile procedere agli adempimenti necessari per colmare le lacune sopra evidenziate in tempo
utile per rispettare i termini imposti dall’accordo di ristrutturazione (omologazione entro il 30 giugno 2016);
visto l’art. 182-bis l.fall.;
P.Q.M.
invita parte ricorrente a provvedere alla pubblicazione
nel registro delle imprese, ad integrazione della già effettuata pubblicazione dei separati atti contenenti l’accordo di ristrutturazione: a) della relazione del dott. (...)
di data 10 maggio 2016; b) del “piano di ristrutturazione
dei debiti” menzionato nella predetta relazione;
precisa che la data della pubblicazione di cui sopra verrà
considerata quale dies a quo per le eventuali opposizioni
di terzi creditori;
segnala la mancanza, nella relazione del dott. (...) di data 10 maggio 2016 di una chiara ed esplicita attestazio-
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Accordi di ristrutturazione
ne della “veridicità dei dati aziendali” e di una adeguata
motivazione della attestata attuabilità del piano sotto il
profilo della prevedibilità del pagamento del prezzo della cessione d’azienda;
si riserva di pronunciare il decreto sul ricorso per l’omologazione dopo la scadenza del termine per le eventuali
opposizioni.
(omissis).
Tribunale di Milano, Sez. II fall., 11 febbraio 2016, decr. - Pres. Rel. Simonetti
Accordi di ristrutturazione con intermediari finanziari - Estensione dell’accordo ai creditori non aderenti - Condizioni
(Legge fallimentare artt. 182 bis, 182 septies)
Negli accordi di ristrutturazione dei debiti con intermediari finanziari, l’estensione dell’accordo ai creditori finanziari non aderenti presuppone che (i) la domanda provenga da un imprenditore commerciale in possesso
dei limiti dimensionali, che (ii) l’imprenditore si trovi in stato di crisi, che (iii) l’accordo sia stipulato con creditori che raggiungono almeno il 60% dell’indebitamento complessivo, che (iv) l’indebitamento verso banche e
intermediari finanziari sia non inferiore al 50%, che (v) in ciascuna categoria in cui sono suddivisi i creditori vi
sia almeno il 75% degli aderenti, che (vi) la domanda sia accompagnata dai documenti di cui all’art. 161 l.fall.,
che (vii) il ricorso sia corredato dall’attestazione dell’esperto sull’attuabilità dell’accordo con particolare riferimento al pagamento dei creditori estranei.
Il Tribunale (omissis).
decidendo sul ricorso iscritto nel Registro Generale al
numero di ruolo indicato in epigrafe e presentato, ex art.
182 bis, 182 septies, l.fall., al fine dell’omologazione dell’accordo di ristrutturazione dei debiti, dalla società (...)
in liquidazione (p.i.: (...)) con sede in Milano via (...)
La società (...) in liquidazione ha presentato il 13 luglio
2015, in pendenza di un procedimento per dichiarazione di fallimento (RG 527/2015 Condominio è il creditore istante) una domanda di ammissione al concordato
preventivo con riserva ai sensi dell’art. 161, sesto comma l.fall., contestualmente chiedendo la concessione di
un termine per la presentazione della proposta, del piano e della documentazione, ai sensi dei commi secondo
e terzo di tale norma.
Il Tribunale ha accolto la richiesta fissando all’uopo il
termine del 21 settembre 2015.
La ricorrente ha quindi depositato in data 21 settembre
2015, sciogliendo la riserva, un ricorso contenente una
domanda di omologa di un accordo di ristrutturazione
ex art. 182 bis e septies l.fall. allegando la prescritta documentazione (accordo di ristrutturazione; business plan;
aggiornata relazione sulla situazione patrimoniale, economica e finanziaria dell’impresa; stato analitico ed estimativo delle attività: elenco nominativo dei creditori
con indicazione delle cause di prelazione: elenco dei titolari di diritti reali o personal) sui beni di proprietà o
in possesso del debitore: prova documentale dell’avvenuto deposito dell’accordo presso il Registro delle Imprese, poi integrata con nota di deposito del 23 settembre 2015, termine dal quale è quindi iniziato concretamente a decorrere il termine per le opposizioni; relazione di un professionista, designato dal debitore, in possesso dei requisiti di cui all’articolo 67, terzo comma,
lett. d), attestante la veridicità dei dati aziendali e la
fattibilità del piano; ultimi 3 bilanci della società; ulteriore documentazione di completamento) svolgendo
specifica domanda di estensione del raccordo nei con-
914
fronti dell’unica banca non aderente all’accordo, Banca
(...).
Nel termine di trenta giorni dalla pubblicazione nel registro delle imprese (23 settembre 2015) non è stata
presentata alcuna opposizione.
Ai sensi dell’art. 182 septies co. 4 l.fall., Da. ha provveduto in data 30 settembre 2015 alla notifica via pec a
(...) del ricorso per omologa, dell’accordo col ceto bancario, degli accordi con gli altri creditori e della documentazione contabile (bilanci, elenco nominativo dei
creditori e dei titolari di diritti reali o personali su beni
dell’impresa, attestazione dell’esperto e situazione patrimoniale, economica e finanziaria aggiornata al 31 agosto 2015). Con decreto del Tribunale del 10 dicembre
2015 è stata disposta la rinnovazione della notificazione
a (...) (in considerazione del fatto che la precedente notificazione a mezzo pec risultava carente dell’attestazione di cui all’art. 3 bis comma II e comma V L.
53/1994). La trasmissione a mezzo pec della documentazione è avvenuta regolarmente in data 11 dicembre
2015 e (...) non ha proposto opposizione nel termine
previsto dall’art. 182 septies comma 4 l.fall. In ragione
dell’intervenuto deposito della domanda di omologazione dell’accordo di ristrutturazione in data 21 settembre
2015. deve ritenersi applicabile la nuova normativa introdotta dal D.L. n. 83/15 entrato in vigore il 27 giugno
2015, nel testo della legge di conversione L. 83/2015.
Siccome non è stata presentata alcuna opposizione nel
termine di 30 giorni (dall’avvenuta pubblicazione) previsto dall’art. 182 bis, quarto comma e 182 septies quarto
comma l.fall., può procedersi de plano all’esame della
domanda di omologa.
In forza dell’art. 182bis e 182 septies l.fall., in mancanza
di opposizioni, l’omologazione degli accordi di ristrutturazione è subordinata alla ricorrenza delle seguenti condizioni:
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Accordi di ristrutturazione
1. la domanda deve provenire da un imprenditore commerciale in possesso dei requisiti, dimensionali previsti
dall’art. 1 l.fall.;
2. l’imprenditore si deve trovare in stato di crisi;
3. raccordo deve essere stipulato con creditori clic raggiungono almeno il 60% dell’indebitamento complessivo;
4. l’esistenza dell’indebitamento dell’imprenditore nei
confronti delle banche e intermediari finanziari deve essere non inferiore al 50% dell’indebitamento complessivo;
5. il raggiungimento in ciascuna categoria in cui sono
inseriti i creditori bancari e intermediari finanziari di
una percentuale di aderenti che rappresenti il 75% dei
crediti della categoria;
6. alla domanda deve essere allegata la documentazione
prevista dall’art. 161 l.fall.;
7. il ricorso per l’omologazione deve essere corredato da
una relazione redatta da un esperto munito dei requisiti
previsti dall’art. 67, comma 3 lettera d), l.fall., sull’attuabilità dell’accordo, con particolare riferimento alla
sua idoneità ad assicurare il regolare pagamento dei creditori estranei.
Nessun dubbio che il primo requisito sia sussistente, essendo la ricorrente una società commerciale (operante
nel settore immobiliare) ed emergendo dagli atti il superamento delle soglie indicate nell’art. 1, secondo
comma, l.fall.
Evidente è poi la competenza territoriale di questo Tribunale, avendo sede la società istante in Milano.
Quanto allo stato di crisi, esso è stato ammesso ed illustrato dalla stessa ricorrente, e risulta comunque ampiamente dimostrato dai bilanci prodotti.
La rimozione della situazione di crisi dovrebbe dunque
realizzarsi attraverso interventi di rimodulazione e ristrutturazione dell’esposizione debitoria nei confronti
del sistema bancario. dell’Erario, dei fornitori, dei clienti che hanno già stipulato contratti preliminari, che
danno contenuto all’Accordo di ristrutturazione.
Il piano presentato è di tipo liquidatori o, prevede il superamento della crisi aziendale con la liquidazione dei
beni immobili e il pagamento, anche attraverso l’apporto di finanza da parte dei soci:
- dei creditori sociali aderenti, nelle percentuali indicate nell’accordo, nell’arco di 24 mesi dalla data di pubblicazione del decreto di omologazione,
- dei creditori non bancari non aderenti nei termini di
cui all’art. 182 bis comma 1 lett. a) e b) attraverso le risorse che la compagine societaria metterà a disposizione
(totale Euro 847.714);
- dei creditori bancari non aderenti (unico non aderente BN.) nei termini dell’accordo concluso con gli altri
creditori appartenenti alla medesima categoria, avendo
la società chiesto l’estensione degli effetti dell’accordo
ai sensi dell’art. 182 septies l.fall.
Più nel dettaglio il piano prevede, a fronte di un indebitamento complessivo per Euro 21.285.174,00;
a) Il realizzo detrattivo (per un totale di Euro
6.927.266,00), composto da partecipazioni societarie valorizzate in Euro 145.700,00. rimanenze (identificabili
in unità immobiliari ancora invendute, alcune delle
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quali sono state valorizzate in Euro 2.381.500,00 in base
a una stima peritale condivisa col credi tuie ipotecario,
mentre altre sono già state oggetto di contratti preliminari per un importo complessivo di Euro 3.983.000,00,
senza che siano ancora state incardinate azioni giudiziali
ex art. 2932 c.c.) per Euro 6.364.500 00, crediti verso
terzi e società partecipate per Euro 398.365,00, disponibilità liquide per Euro 18.701,00;
b) L’apporto complessivo dei soci (...) (per Euro
827.714.00) e Gi. S.r.l. (per Euro 20.000,00. ricavabili
dalla vendita di un immobile) per un totale di Euro
847.714,00;
c) l’integrale pagamento dei debiti erariali per Euro
116.830.00. dei professionisti prededucibili o privilegiati
non aderenti per Euro 51.847,00 e dei fornitori chirografari non aderenti per Euro 50.745,00 c dei promissari
acquirenti degli immobili non aderenti per Euro
842.000,00 con le risorse messe a disposizione dai soci,
entro 120 giorni dall’omologa;
d) il pagamento ai professionisti prededucibili o privilegiati aderenti, che vantano un credito complessivo di
Euro 439.760.00, del minore importo di Euro
315.582.00, da versarsi, per Euro 113 488,00, entro 60
giorni dall’omologa e per Euro 150.247.00 entro 2 anni
dalla medesima, liquidità rinvenibile in parte da apporti
dei soci (per Euro 67,541.00) e in parte dal realizzo di
crediti e di partecipazioni:
e) il pagamento ai fornitori chirografari aderenti all’accordo, che vantano un credito complessivo di Euro
80.191.00, del minore importo di Euro 36.010,00, entro
2 anni dalla pronuncia del decreto di omologa, grazie al
realizzo di crediti e partecipazioni;
f) la soddisfazione dei promissari acquirenti di immobili
compromessi non aderenti all’accordo, che vantano crediti per Euro 1.625.443.00, mediante la stipula dei contratti definitivi.;
g) il pagamento all’istante per il fallimento aderente all’accordo, che vanta un credito di Euro 367.216,00, del
minore importo di Euro 200.000,00 entro 60 giorni dal
decreto di omologa, mediante liquidità messa a disposizione dai soci;
h) il pagamento ai creditori chirografari finanziari (non
intermediari), che vantano un credito complessivo di
Euro 545.900,00, del minore importo di Euro
54.590,00, da corrispondersi entro 24 mesi dall’omologa
grazie alla liquidità ricavabile dal realizzo di partecipazioni e crediti, in base a un accordo formalizzato;
i) la soddisfazione dei soci aderenti all’accordo per crediti da finanziamenti per complessivi Euro 2.631.324,00
in via postergata rispetto agli altri creditori;
j) il pagamento ai creditori bancari chirografari (tra i
quali rientra anche il creditore non aderente (Mi) per
affidamenti su conto corrente del minore importo di
Euro 200.625,00 (rispetto al totale di Euro 519.516,00),
messo a disposizione dai soci, nel termine di 60 giorni
dall’omologa;
k) il pagamento ai creditori bancari ipotecari aderenti
del minore importo di Euro 4.011.661.00 (rispetto al totale di Euro 5.896.872,00). derivante, per Euro
1.515.057.00, dai corrispettivi dei contratti definitivi di
915
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Accordi di ristrutturazione
vendita per le unità immobiliari già compromesse, alla
stipulazione dei quali entro 60 giorni dall’omologa le
banche hanno dichiarato di non opporsi, per Euro 2.381
500,00 dalla vendita, entro 2 anni dall’omologa, degli
immobili non compromessi, per Euro 20.000,00 dalla
vendita, entro 60 giorni dall’omologa, di un immobile
ipotecato e per Euro 95.104.00 da liquidità messa a disposizione dai soci e da versarsi entro 60 giorni dall’omologa;
l) il pagamento ai creditori bancari per fideiussioni chirografarie (tra i quali rientra anche il creditore non aderente (...)) del minore importo di Euro 85.317,00 (rispetto al totale di Euro 8.168.876,00, messo a disposizione dal socio (...) entro 60 giorni dall’omologa.
I presupposti formali per l’estensione dell’accordo di ristrutturazione ai creditori intermediari finanziari non
aderenti, ai sensi dell’art. 182 septies l.fall. risultano soddisfatti in quanto;
- la società (...) in liq. ha debiti verso banche e intermediari finanziari per un totale di Euro 14.585.265, importo non inferiore alla metà dell’indebitamento totale
di Euro 21.285.174;
- i creditori aderenti all’accordo rappresentano il
72,45% dei crediti, come descritto nella tabella di pagina 18 del piano; il creditore bancario non aderente non
è stato ricompreso nella percentuale degli aderenti;
- il raggiungimento, in ciascuna delle categorie in cui è
stata inserita in relazione alla diversa tipologia dei suoi
crediti, della percentuale di adesione non inferiore al
75%. Sul punto si rileva che, in base ai dati forniti dalla
società e corroborati dalla documentazione in atti, a
fronte di debiti bancari complessivi per Euro
14.585,264,00, risultano creditori bancari aderenti all’accordo per complessivi Euro 13.998.881,00, di cui:
a. creditori bancari chirografari per affidamenti su conti
correnti per un totale di Euro 442.249,00 su un totale
di Euro 519.516,00;
b. creditori bancari ipotecari per un mutuo ipotecario e
un’esposizione di conto corrente garantita da ipoteca
per complessivi Euro 5.896.872,00 su un totale di Euro
5.896.872,00);
c. creditori bancari garantiti da garanzie fideiussorie per
complessivi Euro 7.659.760,00 su un totale di Euro
1.268.876,00;
Appare, pertanto, rispettata anche la percentuale del
75% del monte debiti bancari imposta dall’art. 182 septies co. 2 l.fall.
Venendo ora ad esaminare la formazione delle categorie
tra i creditori bancari si osserva quanto segue.
La società ha distinto i creditori bancari in 3 categorie:
A. creditori bancari chirografari per affidamenti su conti correnti per un totale di Euro 5.516.00;
B. creditori bancari ipotecari per un mutuo ipotecario e
un’esposizione di conto corrente garantita da ipoteca
per complessivi Euro 5.896.872.00; (Euro 5.595.174,00)
in relazione al mutuo ipotecario concesso per l’operazione immobiliare di via (...), risalente nel tempo e (...)
per ipoteca concessa a garanzia di una esposizione di
conto corrente (Euro 301.698.00);
916
C. creditori bancari derivanti da fideiussioni prestate da
(...) a garanzia di esposizioni di società del suo gruppo
per un totale di Euro 1.268.876.00;
Il creditore bancario non aderente all’accordo, (...),
rientra sia nella prima categoria, per Euro 77.267,00, sia
nella terza categoria, pc: Euro 509.116,00.
La predetta classificazione appare rispettosa della necessità di individuare categorie di creditori omogenee per posizione giuridica (quindi può considerarsi corretta la distinzione delle categorie in relazione alla natura del credito (ipotecario o chirografario) e per tipologia dell’operazione fonte del credito verso la debitrice (mutuo o affidamenti su conti correnti, fideiussione) e interesse economico (quindi si giustifica la distinzione tra i crediti
bancari per affidamenti concessi a (...) e i crediti per fideiussioni prestate da (...) alle banche in relazione a operazioni creditizie di cui sono titolari società del gruppo).
L’inserimento di (...) nella categoria A per Euro
77.267,00 e nella categoria C per Euro 509.116,00 corrisponde al criterio di formazione delle categorie, come
attestato nella relazione del professionista.
Quanto al requisito relativo al fatto che tutti i creditori
di ogni categoria siano stati informati dell’avvio delle
trattative e siano stati messi in condizione di parteciparvi, esso risulta assorbito per tutte le banche, eccetto
(...) dalla circostanza che hanno aderito all’accordo.
Con riferimento a (...) creditrice non aderente alla quale
la società (...) in liq. ha chiesto di estendere il medesimo
trattamento previsto per i creditori aderenti, risulta soddisfatto il presupposto dell’informativa e della partecipazione alle trattative in buona fede. Il tribunale ritiene necessario, perché possa riconoscersi la sussistenza di trattative
in buona fede, come esplicitato dal comma 5 lett. b) dell’art. 182 septies l.fall. che l’imprenditore proponente abbia fatto presente ai creditori bancari o intermediari finanziari che la proposta si inserisce nell’ambito di un accordo ex art. 182 septies l.fall. abbia riferito sullo stato delle trattative con gli altri creditori; infatti, solo l’esplicita
informazione durante le trattative circa il tipo di accordo
proposto, se ex art. 182 bis l.fall. o ex art. 182 septies l.fall.
e, quindi, sulle diverse ricadute di efficacia sui creditori
non aderenti, oltre che sullo stato delle trattative con gli
altri creditori bancari, consente al creditore di assumere
una consapevole scelta in ordine alla proposta e alle
eventuali scelte difensive (opposizione) da adottare. Nel
caso di specie le trattative tra (...) e (...) come ampiamente documentato in atti (si veda anche doc. 5 nota di deposito 14.12.2015) sono state lunghe, hanno comportato
lo scambio di numerose informazioni tra cui la natura della proposta ex art. 182 septies l.fall. (come da mail 28 agosto 2015) con esplicito riferimento agli effetti dell’accordo
in ipotesi di omologazione e al fatto che tutti gli altri istituti di credito coinvolti avevano aderito all’accordo.
Infine, le considerazioni della società esplicitate a pagina 33 del piano di ristrutturazione, circa il soddisfacimento di (...) base all’accordo in misura non inferiore
rispetto all’alternativa, unica praticabile, del fallimento
sono supportate dalle valutazioni dell’attentatore e consentono di ritenere soddisfatto il presupposto di cui alla
lettera b) del comma 4 dell’art. 182 septies l.fall.
il Fallimento 8-9/2016
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Accordi di ristrutturazione
Nell’ipotesi alternativa della liquidazione fallimentare
non si prospetterebbe l’apporto finanziario della compagine societaria e quindi, a fronte del medesimo passivo,
i creditori avrebbero un attivo di valore ridotto.
L’estensione dell’accordo a (...) comporta quanto segue.
(...) creditrice chirografaria di (...) nei seguenti termini:
- ha un credito di Euro 77.267,00 per affidamenti concessi, a (...) in c/c, credito che in estensione dell’accordo accettato dalle banche ricomprese nella medesima
categoria viene soddisfatto nella percentuale del
45,49% del credito nominale;
- ha un credito di totali Euro 509.116,00 derivante da
fideiussioni prestate da (...) a garanzia di affidamenti
concessi da (...) a società partecipate dalla garante: questo credito viene soddisfatto nella misura dell’1,04% del
credito nominale, si tratta della medesima percentuale
prevista per i creditori inseriti nella relativa categoria.
Quanto agli altri presupposti di ammissibilità, deve ribadirsi che alla domanda è stata allegata la documentazione prevista dall’art. 161 l.fall.
Il ricorso, infine, è accompagnato dalla relazione prescritta dall’art. 182bis l.fall., redatta da un esperto in
possesso dei requisiti prescritti dall’art. 67, comma 3.
lettera d), l.fall. e apparentemente anche indipendente,
come da lui dichiarato.
Ebbene, nella sua relazione l’esperto ha anzitutto evidenziato l’attendibilità dei dati contabili aziendali e,
quanto all’attuabilità, ha dato atto della idoneità dell’accordo a consentire l’integrale pagamento dei creditori estranei, oltre che degli aderenti secondo le tempistiche programmate.
La garanzia del pagamento dei creditori estranei entro
120 giorni dall’omologazione in caso di crediti già scaduti
a quella data ed entro 120 giorni dalla scadenza, in caso
di crediti non ancora scaduti alla data dell’omologazione,
trova fondamento nel risanamento dell’esposizione debitoria dell’impresa e nel riequilibrio finanziario attuato
tramite l’accordo di ristrutturazione, nel breve periodo attraverso la stipulazione dei contratti di vendita immobiliare per i quali è già stato concluso il preliminare (entro
60 giorni dall’omologa per Euro 1,515.057) e l’apporto di
finanza dai soci (Euro 561.292).
La relazione, per la parte in cui l’esperto ha esaminato
precipuamente il contenuto degli accordi e del piano di
ristrutturazione, appare sufficientemente motivata.
È opportuno rimarcare che nessun creditore si è opposto
all’omologazione, che il creditore istante il fallimento
ha aderito all’accordo e ciò, a maggior conforto dell’idea
che l’accordo de quo è stato considerato soddisfacente e
credibile dall’intero ceto creditorio.
Alla stregua di tutte le considerazioni che precedono,
tenuto conto della situazione economico - finanziaria
rappresentata nel caso di specie, delle finalità e condizioni del piano, reputa il Tribunale che le previsioni
contenute nella relazione dell’esperto siano connotate,
nel loro insieme, da un livello adeguato di completezza
e di coerenza, sulla base di un percorso motivazionale
apparentemente immune da vizi logici ed idoneo come
tale a sorreggere, in termini di ragionevolezza, una valutazione di successo del piano.
P.Q.M.
Visto l’art. 182bis e 182 septies l.fall.;
1) omologa gli accordi di ristrutturazione presentati ex
art. 182bis l.fall. dalla società (...), in liquidazione, con
sede in Milano, via (...)
2) manda alla cancelleria per gli adempimenti di rito.
(omissis).
Gli accordi di ristrutturazione nella cornice della tutela dei diritti
e la rilevanza della fattispecie speciale di cui all’art. 182 septies
l.fall. in chiave di collettivizzazione della crisi
di Massimo Fabiani (*)
Con l’analisi dei tre provvedimenti, l’Autore cerca di offrire una prospettiva aggiornata del modo
in cui si atteggiano gli accordi di ristrutturazione rispetto al paradigma della concorsualità, pervenendo alla conclusione che i nuovi strumenti di regolazione della crisi con molta fatica possono essere ricondotti agli schemi tradizionali.
I tre provvedimenti pubblicati appaiono, a prima
lettura, eterogenei. La Corte di Cassazione si è occupata della ricorribilità per cassazione del decreto
con il quale viene rigettata la domanda di omologa
dell’accordo di ristrutturazione; il Tribunale di Milano si è occupato della nuova release degli accordi
di ristrutturazione di cui all’art. 182 septies l.fall.,
(*) Questa nota è dedicata a Stefano Poli, studioso attento
e uomo dolce e coraggioso, che ci lascia fra tanti scritti una
esemplare nota sul concordato del gruppo di società pubblicata sul fasc. 2/2016 della Rivista.
I tre provvedimenti in rassegna
il Fallimento 8-9/2016
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Accordi di ristrutturazione
ed infine il Tribunale di Udine ha affermato che
fra i documenti che il debitore deve far pubblicare
(recte, iscrivere) sul registro delle imprese devono
essere inclusi sia l’attestazione del professionista
che il piano di ristrutturazione.
In verità, se si guardano in filigrana, tutti e tre i
provvedimenti segnalano una criticità degli accordi
di ristrutturazione e cioè quanto sia profonda (o
no) la tutela dei diritti delle parti e dei creditori in
particolare.
La letteratura su questo istituto - creato dal legislatore con il D.L. n. 35/2005 e poi revisionato in
molte occasioni sino alla L. n. 132/2015 - è vastissima, di gran lunga maggiore rispetto all’impatto
che, in concreto, gli accordi di ristrutturazione
hanno avuto nella regolazione della crisi d’impresa (1).
Sennonché, le imponenti restrizioni che il legislatore recente e futuro ha voluto imporre al ‘concorrente’ concordato preventivo ed alcune ulteriori
aperture che il disegno di legge delega presentato
dal Governo in Parlamento nel marzo 2016 (2) lascia intendere, suggeriscono un supplemento di riflessione in merito al modo in cui vengono coinvolti e trattati i diritti dei creditori.
Procediamo con ordine e vediamo come sono state
sino ad ora risolte le questioni affrontate nei tre
provvedimenti. All’esito di questa ricognizione si
proverà a definire se la tutela dei diritti dei creditori sia pienamente conquistata e come possano gli
accordi di ristrutturazione rivolgere lo sguardo verso una concorsualità sempre più destrutturata.
I documenti da far iscrivere nel registro
delle imprese ai sensi dell’art. 182 bis l.fall.
Partiamo dalla decisione con la quale il Tribunale
di Udine ha statuito che per assicurare una (auspicabilmente) completa informazione dei creditori, il
debitore è tenuto a provvedere alla pubblicazione
(1) Pertanto ci si limiterà a ricordare alcune delle più recenti
trattazioni monografiche: C. Trentini, Piano attestato di risanamento e accordi di ristrutturazione dei debiti, Milano, 2016; P.
Valensise, Gli accordi di ristrutturazione dei debiti nella legge fallimentare, Torino, 2013; G. Buccarella, I “nuovi” accordi di ristrutturazione dei debiti, Milano, 2013; C. Trentini, Gli accordi di
ristrutturazione dei debiti, Milano, 2012; C.L. Appio, Gli accordi
di ristrutturazione del debito, Milano, 2012; L. Marchegiani, Gli
accordi di ristrutturazione dei debiti nella legge fallimentare, Milano, 2012; utilissimi sono, poi, gli itinerari di giurisprudenza
curati da C. Trentini, Gli accordi di ristrutturazione dei debiti, in
questa Rivista, 2016, 719 e da G. Carmellino, Accordi di ristrutturazione e controllo giudiziale, in questa Rivista, 2013, 625.
(2) Si tratta del d.d.l. delega presentato alla Camera dei Deputati in data 11 marzo 2016 e rubricato al n. 3671, gemmato,
918
sul registro delle imprese del documento che contiene gli accordi con i creditori (ciò che è testualmente contemplato nell’art. 182 bis, comma 2,
l.fall.), nonché alla pubblicazione della attestazione
e del piano di ristrutturazione, ovverosia la documentazione che la legge vorrebbe invece dover (solo) essere depositata in tribunale, visto il richiamo
all’art. 161 l.fall.
La ratio della decisione consiste nel voler offrire ai
creditori più ampie conoscenze di quelle ricavabili
dal documento che contiene l’accordo o gli accordi.
Orbene, la lettura dell’attestazione dovrebbe, allora, permettere al creditore di avere immediata evidenza sia della ‘apprezzabilità’ della condotta del
debitore (per avere questo superato il vaglio di veridicità delle scritture contabili), sia della realizzabilità del piano che regge l’accordo o gli accordi.
Che nell’ambito degli accordi di ristrutturazione
non fosse sicura la necessità della predisposizione
di un piano lo si ricavava dalla notazione per la
quale il giudizio del professionista è, testualmente, volto a certificare l’attuabilità dell’accordo;
sennonché si è, giustamente, obiettato che un accordo può essere, o no, adempiuto, mentre ciò
che è attuabile è il piano dell’operazione di regolazione della crisi che sostiene l’accordo o gli accordi.
In tale cornice, la circostanza che vi sia un richiamo esplicito all’art. 161 l.fall. là dove si prevede,
espressamente, che un piano sia depositato dal debitore, sembra risolutiva e tale da rendere pienamente condivisibile l’effetto per cui è necessario
che un piano sia redatto (3).
Tuttavia, il Tribunale di Udine ha compiuto un
passo ulteriore ed ha precisato che una interpretazione estensiva dell’art. 182 bis deve condurre, per
logica, a postulare che questi documenti addizionali (rispetto agli accordi) debbano essere pubblicati (4); infatti, il termine per la proposizione dell’opper larghissima parte, dai lavori della ‘Commissione Rordorf’.
(3) App. Catania 11 novembre 2013, in Dir. fall., 2014, II,
313; Trib. Milano 15 novembre 2011, in questa Rivista, 2012,
457; Trib. Roma 20 maggio 2010, in Dir. fall., 2011, II, 480;
Trib. Roma 5 novembre 2009, in Banca, borsa, tit. cred., 2010,
II, 731; E. Frascaroli Santi, Gli accordi di ristrutturazione ai sensi
dell’art. 182-bis l.fall., in Trattato di diritto fallimentare e delle altre procedure concorsuali, diretto da F. Vassalli - F.P. Luiso - E.
Gabrielli, IV, Torino, 2014, 484; P. Valensise, sub art. 182-bis,
in Il concordato preventivo e gli accordi di ristrutturazione, a cura di A. Nigro - M. Sandulli - V. Santoro, Torino, 2014, 415; C.
Trentini, Gli accordi di ristrutturazione dei debiti, cit., 228.
(4) Per la necessità della pubblicazione del piano v., già,
Trib. Roma 5 novembre 2009, cit.
il Fallimento 8-9/2016
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Accordi di ristrutturazione
posizione (di trenta giorni) decorre dalla pubblicazione sul registro delle imprese dell’accordo e se
questi documenti non venissero allegati, il creditore ‘estraneo’ potrebbe trovarsi costretto a presentare un’opposizione ‘esplorativa’ non essendo prevista
dalla legge una esplicita scaletta temporale fra l’adempimento della pubblicazione dell’accordo e l’adempimento del deposito in cancelleria del ricorso
e degli allegati.
L’interpretazione proposta nel decreto appare assai
importante e quanto mai opportuna. Come si cercherà di rappresentare nella porzione conclusiva di
queste brevi note, gli accordi di ristrutturazione
rappresentano (e ancor di più ambiscono a rappresentare) una significativa alternativa al concordato
preventivo ma perché con esso possano competere,
specie ora che si stanno progressivamente allargando le maglie dell’efficacia dell’accordo verso i terzi
estranei, è indispensabile che resti elevata la tutela
delle parti e dei creditori estranei in particolare
(v., infra) (5).
Proprio in questa cornice deve condividersi la tesi
della necessità della pubblicazione del piano e della
attestazione (6) e ciò in funzione di attribuire ai
creditori non aderenti di avere immediata cognizione della probabilità di realizzazione del piano,
così consentendo una (eventuale) articolata opposizione, sfruttando appieno il termine di giorni
trenta dalla pubblicazione.
La seconda decisione da esaminare è l’ordinanza
interlocutoria con la quale il giudice di legittimità
ha rimesso alle Sezioni unite la questione che pertiene alla ricorribilità per cassazione del decreto
(della Corte d’Appello che conferma il decreto del
Tribunale) che rigetta l’omologa degli accordi,
quanto meno nel caso (così appare dalla narrativa
del fatto) in cui al diniego di omologazione non segua la dichiarazione di fallimento (7).
La Corte motiva la rimessione sulla base di una oggettiva controvertibile lettura dell’art. 183 l.fall.
(richiamato nell’art. 182 bis), nonché adeguandosi
alla recente altra ordinanza con la quale, sempre la
Prima Sezione della Suprema Corte, ha chiesto
che le Sezioni unite si pronuncino sulla ricorribilità di decreti che chiudono (o non aprono) il concordato preventivo, in assenza di coeva dichiarazione di fallimento (8).
In verità, aggiungendo argomenti alla motivazione
della Corte, si potrebbe dubitare non solo della definitività di un decreto di diniego dell’omologazione ma, finanche, della stessa decisorietà di un siffatto provvedimento (9).
Si postula diffusamente che quando il giudice provvede sulle domande dirette a regolare la crisi con
gli strumenti della composizione concordata e nega
sussistano le condizioni per pervenire alla validazione del patto di concordato o dell’accordo di ristrutturazione, il provvedimento quand’anche decisorio sui diritti in contesa, giammai potrebbe essere
(5) Sulla decisività del valore della informazione, v., P. Benazzo, L’accordo di ristrutturazione con intermediari finanziari:
buona fede e principio di maggioranza, 7 del dattiloscritto destinato ad un’Opera Collettanea curata da S. Ambrosini, e consultato per la cortesia dell’Autore; M. Sciuto, I doveri informativi del debitore nella proposta concordataria e di ristrutturazione
del debito, in Dir. fall., 2015, 545 (il quale, tuttavia, poi, preferisce aderire alla tesi della iscrizione del solo accordo e ciò in
funzione della protezione della riservatezza del debitore); E.
Bertacchini, Clausole generali e autonomia negoziale nella crisi
d’impresa, in Contr. e impr., 2011, 687.
(6) C. Trentini, Gli accordi di ristrutturazione dei debiti, cit.,
257; P. Valensise, sub art. 182-bis, cit., 418; E. Frascaroli Santi,
Gli accordi di ristrutturazione ai sensi dell’art. 182-bis l.fall., cit.,
498; S. Ambrosini, Gli accordi di ristrutturazione dei debiti, in Il
nuovo diritto fallimentare, diretto da A. Jorio - M. Fabiani, Bologna, 2010, 1155. Sulla necessità della pubblicazione della attestazione v., A. Nigro, La disciplina delle crisi patrimoniali delle
imprese, in Trattato di diritto privato, diretto da M. Bessone,
XXV, Torino, 2012, 81; G. Falcone, Gli accordi di ristrutturazione
dei debiti: genesi, evoluzione, fenomenologia, in A. Didone (a
cura di), Le riforme delle procedure concorsuali, II, Milano,
2016, 1970; G.B. Nardecchia, sub art.182-bis, in Commentario
alla legge fallimentare, diretto da C. Cavallini, III, Milano, 2010,
814; ma, in senso opposto, C.L. Appio, Gli accordi di ristruttu-
razione del debito, cit., 111.
(7) Sui rapporti fra accordi di ristrutturazione e procedimento per la dichiarazione di fallimento v., da ultimo, Cass. 4 luglio
2014, n. 15347, in questa Rivista, con nota di G. Minutoli, Quali
interferenze tra l’istanza di fallimento e la proposta di accordo di
ristrutturazione dei debiti?
(8) Cass. 23 febbraio 2016, n. 3472, in questa Rivista, 2016,
653, con nota di M. Montanari, Ricorso straordinario in cassazione e improcedibilità del concordato preventivo, cui - per ragioni di spazio - si rinvia per tutti i precedenti di giurisprudenza
e per l’ampio panorama sulla letteratura; sulla questione, prima, v., F. Marelli, L’impugnazione del decreto di inammissibilità
e la reiterazione della proposta di concordato preventivo, in questa Rivista, 2011, 323.
(9) In verità qui si dovrebbe aprire una discussione ben più
approfondita sulla associazione dei termini ‘decisorietà’ e ‘definitività’ che spesso la S.C. tende a sovrapporre, con una soluzione che non fa premio della circostanza che un conto è dibattere sulla sussistenza di un diritto e altro conto è dibattere
sul fatto che quel diritto sia stato deciso per sempre o su di esso si possa, ancora, controvertere. Sul tema si rinvia a R. Tiscini, Il ricorso straordinario in cassazione, Torino, 2005, 123 ss.,
con la precisazione che la mancanza di definitività è associata
non solo alla previsione di un diverso rimedio esperibile, ma
anche alla riproponibilità della richiesta di tutela.
il Fallimento 8-9/2016
Decreto di rigetto dell’omologazione
e impugnabilità per cassazione
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qualificato definitivo, posto che il debitore potrebbe ripresentare una nuova domanda (10) e senza
alcun vincolo preclusivo, neppure attenuato come
accade, ad esempio, nella tutela cautelare (art. 669
septies c.p.c.).
Che non esistano vincoli preclusivi lo si buon ben
dare per ammesso se si guarda alla possibilità per il
debitore di ri-chiedere un nuovo provvedimento
regolativo della crisi; ciò nondimeno v’è da osservare che la nuova domanda non potrà che doversi
adeguare ad una nuova realtà sostanziale. Si porranno i ben noti temi della consecuzione e dei relativi effetti; il debitore dovrà presentare una nuova attestazione perché dovrà essere confezionato
un nuovo piano, anche per il semplice fatto che
l’esposizione debitoria sarà, necessariamente, diversa.
Gli accordi con i creditori dovranno essere ri-stipulati posto che, salva diversa pattuizione, presuppongono che la loro efficacia sia (risolutivamente)
condizionata all’omologazione dell’accordo (11).
Quindi se è ben vero che non si formerà alcuna
preclusione sul potere del debitore di chiedere ed
ottenere l’omologazione di un nuovo accordo, il
primo accordo sarà destinato ad essere travolto
senza che su di esso sia esperibile il controllo di legittimità.
Non a caso si è osservato che l’asticella dell’ammissibilità del ricorso per cassazione va posizionata anche al lume dei principi del giusto processo e di
economia processuale (12) e che non sarebbe irragionevole verificare in concreto quando sia preferibile consentire al debitore di ricominciare il procedimento daccapo e quando sia, invece, soluzione
migliore quella del controllo davanti ad altri giudici.
È indubbio che in un sistema nel quale l’accesso al
giudizio di cassazione è talora troppo agevole (per
la varietà delle decisioni ricorribili) e talora troppo
complesso (per le ‘trappole’ disseminate lungo il
percorso), si possa essere indotti ad optare per una
soluzione volta a limitare l’accesso e, così, a predicare che il decreto di rigetto dell’omologazione
non sia ricorribile, specie facendo leva sul rilievo
per cui gli attuali tempi del processo di cassazione
non permettono di condividere la tesi che sul pia-
no dell’economia processuale sia da prediligere il
controllo giudiziale in luogo della ‘seconda opportunità’ per il debitore.
Sennonché, quando lo spiraglio del giudizio di legittimità si riveli l’unica garanzia per la giustiziabilità dei diritti è decisivamente importante che prima di scartare un’ipotesi si facciano tutte le verifiche del caso.
Taluno potrebbe obiettare che un conto sono i diritti dei creditori (e di quelli estranei in particolare) e altro conto i diritti del debitore, ma francamente questa scissione di tutele a me non pare
condivisibile.
Si può essere d’accordo che la massima protezione
vada riconosciuta ai creditori estranei, ma negare
la ricorribilità per cassazione (in presenza del rigetto della domanda di omologazione) può risolversi
in un pregiudizio anche per loro; basta immaginare
che vi sia un solo creditore estraneo che formula
l’opposizione che viene accolta e tanti altri creditori estranei che si sarebbero avvantaggiati dall’accordo e che, invece, si vedono esposti al rischio
dell’apertura di un’altra procedura concorsuale che
assai probabilmente, non li soddisferà nella medesima misura, visto che l’art. 182 bis impone il pagamento integrale; né si trascuri che legittimati ad
opporsi sono anche i creditori aderenti, in quanto
non può essere certo escluso un interesse del creditore aderente ad opporsi all’omologa le quante volte dal momento in cui ha prestato l’adesione al
momento dell’omologazione si possono scoprire
eventi prima non dichiarati e tali che se conosciuti
avrebbero determinato una diversa scelta sul prestare il consenso (13), dal che consegue che possono formarsi conflitti fra creditori.
È chiaro, allora, che di tutela dei diritti si deve discutere a più ampio raggio e che l’inibizione al giudizio di legittimità si rivelerebbe, proprio, una potenziale compromissione.
(10) P. Valensise, sub art. 182-bis, cit., 424.
(11) Trib. Bologna 17 novembre 2011, in Dir. fall., 2012, II,
64.
(12) M. Montanari, Ricorso straordinario in cassazione e
improcedibilità del concordato preventivo, cit., 658.
(13) F. De Vita, Il giudizio di omologazione degli accordi di ristrutturazione dei debiti: problematiche processuali, in Dir. fall.,
2013, I, 382; G. Falcone, Gli accordi di ristrutturazione dei debiti: genesi, evoluzione, fenomenologia, cit., 2018; I. Pagni, Contratto e processo nel concordato preventivo e negli accordi di ristrutturazione de debiti: analogie e differenze, in Trattato di diritto fallimentare, diretto da V. Buonocore - A. Bassi, I, Padova,
2010, 608.
920
Oggetto del giudizio di omologazione
ed effetti sulla decisorietà
La tessitura normativa è così scarna da lasciare
aperta ed incerta non solo la proponibilità del ricorso per cassazione ma anche il profilo che pertie-
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Accordi di ristrutturazione
ne alle interferenze con la prospettabilità della revoca ex art. 742 c.p.c. (14). Se si parte dall’idea
che l’applicazione del procedimento camerale porti
con sé l’intero statuto di quel procedimento, la
conseguente ipotesi della revoca non sarebbe affatto eterodossa, ma è ben noto come l’istituto della
revoca abbia spazio là dove il procedimento camerale non sia stato piegato a contenitore per l’accertamento di diritti soggettivi e status. L’invocabilità
della revoca rende poi priva di ragione la praticabilità delle impugnazioni straordinarie della revocazione e dell’opposizione di terzo che presuppongono il formarsi del giudicato.
Par dunque più logico ricercare la coerenza della
alternativa ricorso per cassazione/revoca, non già
sul piano formale ma su quello sostanziale. Ed allora ci si deve confrontare con quello che è l’oggetto del processo di omologazione; un argomento
questo che ha davvero poco interessato gli studiosi
ben più attirati dallo scrutinare la questione che
pertiene alla maggiore o minore ampiezza dei poteri del giudice (15), tanto è vero che spesso, anche
in saggi approfonditi, manca del tutto un riferimento alla ammissibilità del rimedio del ricorso in
cassazione.
Se l’oggetto del processo è l’accertamento per cui
un accordo intervenuto fra privati è idoneo a rimuovere lo stato di crisi di un’impresa liberando risorse per gli estranei, il decreto del tribunale che
accoglie (o rigetta) la richiesta di omologazione
ben parrebbe iscriversi nel catalogo delle tutele camerali autorizzatorie-omologatorie (16), ciò che legittimerebbe la soluzione dell’esclusione della ricorribilità per cassazione. Ma, a ben vedere, se il
decreto di omologazione produce quale effetto
un’estensione dell’efficacia di un accordo anche
verso terzi, non si può porre nell’oblio che oggetto
dell’accertamento è, anche (e forse soprattutto in
prima battuta), l’accertamento negativo dello stato
di insolvenza, cioè una sorta di potere processuale
di vedere regolato il dissesto con le regole della negozialità procedimentalizzata (in luogo di quelle
dell’adempimento secondo le regole di diritto comune) (17). Sulla scorta di un siffatto argomentare
il decreto ha una natura mista e composita, perché
da un lato funziona come condicio iuris della propalazione di effetti dell’accordo verso terzi e dall’altro
incide sull’accertamento dello stato di non insolvenza.
Il quadro, però, non sarebbe completo se non ricordassimo che l’effetto dell’esenzione dall’azione revocatoria si riverbera sulla garanzia patrimoniale
generica di cui godono i creditori estranei ed allora
il decreto di omologazione potrebbe rivelarsi, nel
caso di successivo fallimento, un atto idoneo a indirettamente ledere la garanzia patrimoniale (con
la perdita della chance revocatoria), quella garanzia
patrimoniale che è protetta ai sensi dell’art. 2901
c.c. (18). Ed ancora, dall’omologazione derivano effetti legali che si riflettono sui terzi non aderenti,
come una, per vero breve, moratoria nei pagamenti.
Questa continua commistione fra gestione e tutela
di interessi, da una parte, e incisione su diritti, porta a ritenere decisamente preferibile il percorso
che concede la ricorribilità per cassazione le quante volte il tribunale decida di omologare; obiettive
riserve, invece, potrebbero nutrirsi nel caso di rigetto, dove l’apparente non definitività della decisione ben potrebbe far arrestare l’iter del procedimento davanti alla Corte d’Appello.
Poiché non si forma alcun giudicato sul potere del
debitore di chiedere una regolazione della propria
crisi, il debitore stesso potrebbe presentare un nuovo accordo di ristrutturazione, tuttavia, necessariamente, diverso dal primo (19), ed allora una idea
di stabilità e un richiamo al principio del divieto
del ne bis in idem potrebbe ben giustificarsi (20).
(14) C.L. Appio, Gli accordi di ristrutturazione del debito, cit.,
124.
(15) E. Frascaroli Santi, Gli accordi di ristrutturazione ai sensi
dell’art. 182-bis l.fall., cit., 506; S. Ambrosini, Gli accordi di ristrutturazione dei debiti, cit., 1164; P. Valensise, sub art. 182bis, cit., 424; V. Giorgi, Poteri del giudice nell’omologazione del
concordato preventivo e degli accordi di ristrutturazione del debito, in Dir. fall., 2015, I, 418.
(16) C.L. Appio, Gli accordi di ristrutturazione del debito, cit.,
127, la quale coerentemente ne fa discendere che il decreto
può essere revocato; così pure, P. Pellegrinelli, Procedimento e
controllo giurisdizionale nella soluzione negoziale della crisi d’impresa, Milano, 2011, 325. Contra, G. Buccarella, I “nuovi” accordi di ristrutturazione dei debiti, cit., 251, che non a caso assume che il decreto passi in giudicato.
(17) In termini, mi pare, non dissimili, L. Marchegiani, Gli
accordi di ristrutturazione dei debiti nella legge fallimentare, cit.,
188; così pure, per F. De Vita, Il giudizio di omologazione degli
accordi di ristrutturazione dei debiti: problematiche processuali,
cit., 387, l’oggetto sarebbe il diritto potestativo del debitore ad
ottenere gli effetti che derivano dall’omologazione. Diversamente, A. Nigro, La disciplina delle crisi patrimoniali delle imprese, cit., 86, postula che l’oggetto sia l’accertamento dei presupposti e dunque, di fatto, ascrive implicitamente il procedimento fra quelli “a contenuto obiettivo”, là dove non vengono
in gioco né diritti, né poteri; così, mi pare, anche F. De Santis,
I controlli del giudice nel piano attestato e nell’accordo di ristrutturazione dei debiti, in questa Rivista, 2014, 1049.
(18) Sulla natura decisoria del decreto, v., F. De Vita, Il giudizio di omologazione degli accordi di ristrutturazione dei debiti:
problematiche processuali, cit., 387.
(19) F. De Vita, Il giudizio di omologazione degli accordi di ristrutturazione dei debiti: problematiche processuali, cit., 388.
(20) I. Pagni, Evoluzione dell’accordo di ristrutturazione dei
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Accordi di ristrutturazione
Siamo, però, giunti solo ad una soluzione in prima
approssimazione in quanto vi sono ulteriori profili
da indagare.
Fatta questa premessa, quasi ideologica, si tratta di
vedere se la soluzione della ricorribilità sia praticabile al lume del diritto vivente.
Come accennato, esiste un imponente, ma non
granitico, formante giurisprudenziale che nega la
ricorribilità a proposito del concordato preventivo.
E questo formante è oggetto di un possibile ripensamento.
Per comprendere se vi è un effettivo spazio per un
ripensamento occorre volgere l’attenzione verso la
nozione di “definitività” (21). Abbiamo visto, infatti, che nel caso in discussione sarà possibile per
il debitore presentare un nuovo - ma diverso - accordo, talché si pone l’interrogativo se questa sia
una espressione di definitività.
Il mutamento delle circostanze di fatto consente la
riproposizione della domanda ma ciò ben si concilia con i principi in tema di vincolo preclusivo “rebus sic stantibus” (22). Più in particolare, per stabilire la definitività si può far riferimento a quella nozione di ‘stabilità temporanea’ evocata dal giudice
di legittimità (23).
È noto che in talune occasioni i rimedi che l’ordinamento concede sono orientati secondo il canone
“secundum eventum litis”, ma esiste un orientamento che vuole che una soluzione siffatta sia ammessa
solo se è la legge a prevederla, dovendo altrimenti
f ars i p ref e ri re il pri n c i p i o d i c u i a l l ’ art. 3
Cost. (24). Ciò conforta per predicare, come si
enuncerà nelle conclusioni, che il provvedimento
di diniego assume connotati di stabilità temporanea che giustificano la ricorribilità dinanzi al giudice di legittimità.
Nelle premesse, si era posto il quesito se, in verità,
negli accordi di ristrutturazione non potesse neppure discutersi di decisorietà del decreto, stante la peculiare natura dell’istituto.
Si tratta di meglio suddividere il quesito e ciò a seconda che il tribunale omologhi l’accordo, ovvero
ne rigetti la richiesta di omologazione, come accaduto nel caso scrutinato dalla Corte.
In presenza del decreto di omologazione, i diritti
delle parti coinvolte - debitore, creditori aderenti e
creditori estranei - ne escono modificati.
Solo per offrire qualche esempio, ci si avvede che
viene modificata la scadenza del pagamento, che i
creditori aderenti sono vincolati dall’accordo sottoscritto che trova validazione nel decreto di omologazione, che i creditori estranei sono penalizzati
nel caso in cui l’accordo non sia eseguito e ad esso
succeda il fallimento, perché in tal caso resisteranno gli atti compiuti in (parziale) esecuzione dell’accordo, con l’effetto di produzione di una esimente
dall’azione revocatoria fallimentare (art. 67, comma 3, lett. e).
Pertanto, al cospetto di simili mutazioni dei diritti
delle parti, è coerente predicare la decisiorietà del
decreto e visto che tale decreto è reclamabile davanti alla corte di appello, anche che il provvedimento con il quale la corte d’appello conferma l’omologazione, divenga definitivo e quindi, come tale, ricorribile per cassazione.
Occorre, però, chiedersi se ad analoghe conclusioni
si possa (o si debba) pervenire quando l’omologazione è respinta.
Per stabilire che il decreto sia decisorio, bisogna
verificare che sia vi sia l’attitudine del provvedimento ad incidere sui diritti soggettivi del debitore
e dei creditori.
Come già precisato, col deposito del ricorso e con
la pubblicazione dell’accordo si producono svariati
effetti (fra i quali uno dei più pregnanti è l’inibizione, sebbene, temporanea delle azioni esecutive e
cautelari individuali); altri effetti, più significativi,
si determinano con l’omologazione (quale l’effetto
di esimente dalle azioni revocatorie e da taluni reati di bancarotta), mentre se l’omologazione non
viene disposta si potrebbe ipotizzare che tutto torna come prima e quindi il decreto non ha deciso
su nulla.
debiti, protezione del patrimonio e omologazione, in questa Rivista, 2014, 1093.
(21) L.P. Comoglio - C. Ferri - M. Taruffo, Lezioni sul processo civile, I, Bologna, 2011, 719; G. Monteleone, Manuale di diritto processuale civile, I, Padova, 2015, 638
(22) Cass. 26 marzo 2015, n. 6132, in Foro it., Rep. 2015,
voce Filiazione, n. 61; Cass. 20 novembre 2010, n. 23578, in
Guida dir., 2010, 49, 34; Cass. 11 gennaio 2006, n. 396, in
Giust. civ., 2006, I, 1761.
(23) Cass. 17 maggio 2012, n. 7770, in Famiglia, persone e
successioni, 2012, 682; Cass., SS.UU., 21 ottobre 2009, n.
22238, in Foro it., 2010, I, 903.
(24) Cass. 2 novembre 2015, n. 22387, in Rep. Foro it.,
2015, Procedimento civile, n. 219. A tal proposito va ricordata
la posizione di F. De Santis, Ancora sull’istruttoria prefallimentare e sul giudicato di rigetto (o di revoca) della domanda di fallimento, in questa Rivista, 2015, 454, là dove patrocina la tesi
(invero condivisibile) della ricorribilità per cassazione del decreto con il quale la corte d’appello rigetta il reclamo ex art. 22
l.fall.
Incisione sui diritti del debitore
e dei creditori
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Accordi di ristrutturazione
Tuttavia se la richiesta di omologazione presenta
come “oggetto processuale” l’esercizio del potere
del debitore di regolare la crisi secondo modalità
convenzionali-pattizie con una relativa diffusività
del contratto verso i terzi, respingere la domanda
di omologazione significa impedire la regolazione
della crisi, salvo nuova domanda. V’è da chiedersi
se i creditori aderenti non vedano in tal modo inciso il diritto di credito che avevano deciso di regolare con l’accordo, oppure se, in verità, nessuna
modificazione del diritto di credito si sarebbe determinata in quanto necessariamente condizionata
dall’omologazione (25).
Che vi sia un interesse economico inciso è difficile
negarlo, ma ancora ciò non significa che vi sia modifica di un diritto. Di certo le parti hanno acquisito una ‘aspettativa’ che segue al deposito del ricorso in tribunale, ma non ancora un diritto alla modifica del rapporto obbligatorio.
In tal senso potrebbe non essere eterodosso predicare che senza l’omologazione non c’è alcuna variazione dei diritti dei creditori; tuttavia, se si valorizza il profilo della semplice sufficienza della ‘incisione’ sul diritto (26), nel caso del diniego di omologazione è indubbio che una incisione si realizzi.
Diverso è il ragionamento se si guarda dal prisma
visivo del debitore che, come già enunciato, potrà
sì ripresentare una nuova domanda ma a condizioni necessariamente diverse non fosse altro che per
effetto del trascorrere del tempo e dell’aggravamento dell’esposizione debitoria, pur se negli accordi di
ristrutturazione non opera il meccanismo della sospensione del corso degli interessi sui crediti chirografari di cui agli artt. 55 e 169 l.fall.
Vi sono, allora, degli indizi che spingono per escludere, prima ancora che la definitività del diniego,
la stessa decisorietà del rifiuto di omologazione (27).
Sennonché, prima di assentire a questa conclusione, occorre rammentare che la sorte dello sviluppo
del procedimento di omologazione degli accordi è
decisivamente segnato dal possibile ricorso alla c.d.
domanda con riserva o prenotativa o “in bianco”
di cui all’art. 161, comma 6, l.fall.
In passato ho avuto modo di sostenere che gli effetti che si producono col deposito della domanda
prenotativa non possono consolidarsi (o almeno
non tutti) quando, poi, si transita dal pre-concordato all’accordo di ristrutturazione (28).
Orbene, quella tesi è assai poco condivisa ma se
così è, se ne deve trarre come logica inferenza che
vi sono effetti che si consolidano quando il debitore propone in sequenza prima una domanda prenotativa e poi il ricorso ex art. 182 bis (29). In siffatta
evenienza, ad esempio a proposito dell’autorizzazione allo scioglimento di un contratto pendente (30), si è detto che tale scioglimento è definitivo
anche quando lo sbocco sia il ricorso per omologa
dell’accordo.
Se, allora, si può sostenere che i diritti delle parti
possono subire modifiche sembra che questi diritti
siano incisi dal ricorso del debitore e non già dal
decreto di omologazione, e tanto meno dal suo diniego; ma, se è vero che un carattere dominante
degli accordi di ristrutturazione è proprio il fatto
che non esiste un provvedimento di ammissione,
tutte le liti trovano come unico contenitore il giudizio di omologazione.
Questa è la ragione per la quale può essere rivista,
al lume di una cornice di regole profondamente innovata e innervata di incisività sui diritti delle parti, l’idea che il decreto di rigetto di omologa, confermato dalla corte d’appello, non sia suscettibile
di ricorso per cassazione ma sulla soluzione si rinvia
alle conclusioni.
Tuttavia, come si è visto, quando il debitore raggiunge l’accordo con i creditori e poi questo accordo non viene validato dal tribunale, quella soluzione regolativa della crisi d’impresa viene cancellata
per sempre. Occorre, dunque, domandarsi se questo
(25) Al contempo, se le parti avessero stipulato un accordo
non condizionato all’omologazione, di riflesso il diniego non
travolgerebbe l’accordo.
(26) Cass. 12 novembre 2014, n. 24155, in Rep. Foro it.,
2014, voce Cassazione civile, n. 57; Cass. 20 luglio 2011, n.
15949, in Rep. Foro it., 2011, voce Cassazione civile, n. 47;
Cass. 27 aprile 2010, n. 10069, in Rep. Foro it., 2010, voce
Cassazione civile, n. 70; Cass., SS.UU., 11 marzo 1996, n.
1952, in Giust. civ., 1996, I, 1289.
(27) Che non si tratti di un provvedimento decisorio mi pare
affermato da G. Falcone, Gli accordi di ristrutturazione dei debiti: genesi, evoluzione, fenomenologia, cit., 2021.
(28) M. Fabiani, La consecuzione biunivoca fra accordi di ristrutturazione e concordato preventivo, in Foro it., 2013, I, 666.
(29) Trib. Modena 30 novembre 2012, in Foro it., 2013, I,
666; A. Dimundo, Accordo di ristrutturazione e domanda preno-
tativa. I reciproci effetti, in questa Rivista, 2014, 1028; E. Frascaroli Santi, Gli accordi di ristrutturazione ai sensi dell’art. 182bis l.fall., cit., 531; P.F. Censoni, Il concordato preventivo, in
Trattato delle procedure concorsuali, diretto da A. Jorio - B.
Sassani, IV, 2016, 112; G. Buccarella, I “nuovi” accordi di ristrutturazione dei debiti, cit., 234.
(30) Risolta, ormai, la questione che ciò possa accadere anche nel pre-concordato, v., M. Amorese, I contratti pendenti
nel concordato preventivo alla luce della riforma estiva, in Dir.
fall., 2016, I, 91; P.F. Censoni, Il concordato preventivo, cit.,
236; P.D. Beltrami, Il pre-concordato “in” continuità, Milano,
2013, 56; F. Casa - F. Sebastiano, I contratti in corso di esecuzione nel concordato preventivo, in questa Rivista, 2014, 600.
Per la più ampia disamina della questione v., A. Patti, I rapporti
giuridici pendenti nel concordato preventivo, Milano, 2014.
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Accordi di ristrutturazione
sia sufficiente per giustificare l’ammissibilità del ricorso per cassazione (cfr. infra) (31).
Gli accordi di ristrutturazione
con intermediari finanziari
Il terzo provvedimento, e cioè il decreto del Tribunale di Milano, si sofferma su quel prototipo degli
accordi di ristrutturazione che presenta profili peculiari rispetto all’ipotesi ‘base’.
Nell’art. 182 septies l.fall. (32) è allocata la nuova
release degli accordi di ristrutturazione che potremmo qualificare come “gli accordi di ristrutturazione
finanziaria a maggioranza” (ma anche “semplificati (33)/rafforzati” (34)), là dove si superano - per effetto di una precisa previsione di legge - i limiti
soggettivi del contratto (35). Una definizione che
pare quasi un ossimoro, ma che vuole subito porre
in evidenza che un creditore finanziario - senza
concorrere alla formazione della soglia di adesioni (36) - ove sia riluttante ma si trovi in una posizione di (direi “perfetta”) omogeneità con altri creditori finanziari aderenti, subisce gli effetti dell’accordo inter alia concluso, al fondo in modo non co(31) Per la ricorribilità, v. I. Pagni, Evoluzione dell’accordo di
ristrutturazione dei debiti, protezione del patrimonio e omologazione, cit., 1093; contra, G.B. Nardecchia, sub art.182-bis, cit.,
824; C. D’Ambrosio, Gli accordi di ristrutturazione dei debiti, in
Fallimento e altre procedure concorsuali, diretto da G. Fauceglia
- L.Panzani, III, Torino, 2009, 1816; P. Pellegrinelli, Procedimento e controllo giurisdizionale nella soluzione negoziale della
crisi d’impresa, cit., 325; in termini dubitativi, G. Lo Cascio, Il
concordato preventivo, Milano, 2015, 778.
(32) C. Trentini, Piano attestato di risanamento e accordi di
ristrutturazione dei debiti, cit., 467; P. Benazzo, L’accordo di ristrutturazione con intermediari finanziari: buona fede e principio
di maggioranza, cit.; S. Ambrosini, Il diritto della crisi d’impresa
nella legge n. 132 del 2015 e nelle prospettive di riforma, in
www.ilcaso.it; R. Ranalli, Speciale decreto “contendibilità e soluzioni finanziarie” n. 83/2015: gli accordi di ristrutturazione con
intermediari finanziari. Alcune considerazioni critiche, in www.ilfallimentarista.it, L. Panzani, Le alternative al fallimento. Il concordato e gli accordi di ristrutturazione dopo il d.l. 83/2015, in Il
Nuovo diritto delle società, n. 21/2105, 9 ss., ivi, 44 ss.; B. Inzitari, Gli accordi di ristrutturazione con intermediari finanziari e la
convenzione di moratoria: deroga al principio di relatività de
contratto ed effetti sui creditori estranei, in Dir. fall., 2015, I,
517; L.M. Quattrocchio, L’accordo di ristrutturazione dei debiti
e la convenzione di moratoria, ivi, 18 ottobre 2015; L. Varotti,
Articolo 182 septies. Accordo di ristrutturazione con intermediari
finanziari e convenzione di moratoria, in www.ilcaso.it; C.L. Appio, Prime riflessioni in tema di accordi di ristrutturazione del debito ex art. 182-septies fra ragioni creditorie e principio consensualistico, in www.ilcaso.it; A. Nigro, Gli accordi di ristrutturazione con “intermediari finanziari” e le convenzioni di moratoria, in
Rivista Orizzonti del diritto commerciale, 2015, n. 2, in www.rivistaodc.eu.
(33) Perché il modo in cui sono costruiti dovrebbe rendere
possibile la conclusione di un maggior numero di accordi.
(34) Perché forzano, a certe condizioni, la volontà del creditore non aderente.
(35) Sulla opportunità di questa scelta v., N. Nisivoccia, Il
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sì distante dal principio di obbligatorietà del concordato (37).
Sappiamo che dal 2010, quando si decretò che la
prededuzione era nozione compatibile con gli accordi di ristrutturazione, si è aperto il dibattito
(con stimoli normativi assai più congrui che in
precedenza) sulla permanente possibilità di annoverare gli accordi di ristrutturazione come uno strumento estraneo al perimetro delle procedure concorsuali (38).
Man mano che le riforme si sono implementate si
è assistito ad un processo, quasi inesorabile, di concorsualizzazione degli accordi ex art. 182 bis. Benché il colpo assestato col nuovo art. 182 septies sia
di rilevantissimo impatto, il guado che separa gli
accordi dalla concorsualità a me pare ancora presente perché il debitore non è spossessato, perché
non esiste un provvedimento di apertura di un procedimento, perché i creditori aderenti possono essere trattati differentemente (anche se ora, forzatamente), perché non c’è un organo che vigila sul
procedimento, anche se, poi, pur non esistendo
nuovo art. 182-septies l.fall. (accordo di ristrutturazione con intermediari finanziari e convenzione di moratoria): quando e fin
dove la legge può derogare a se stessa?, in questa Rivista,
2015, 1182.
(36) Non può, quindi, essere considerato fra i creditori aderenti e non partecipa alla formazione della soglia minima, ma,
contra, C. Cecchella, Diritto fallimentare, Padova, 2015, 413.
(37) Non a caso il creditore renitente può sottrarsi agli effetti dell’accordo quando dimostra che in altro modo egli riceverebbe un trattamento migliore.
(38) Per l’esclusione dell’assimilazione alla procedura concorsuale, fra i molti, v. L. Balestra, Sul contenuto degli accordi
di ristrutturazione dei debiti, in Giur. comm., 2014, I, 283; E. Capobianco, Le patologie degli accordi di ristrutturazione, in Dir.
fall., 2013, I, 186; S. Ambrosini, Gli accordi di ristrutturazione
dei debiti dopo la riforma del 2012, in questa Rivista, 2012,
1137; A. Nigro, La disciplina delle crisi patrimoniali delle imprese, cit., 75; I.L. Nocera, Architettura strutturale degli accordi di
ristrutturazione: un’analisi di diritto civile, in Riv. trim. dir. proc.
civ., 2011, 1131; N. Rondinone, Il mito della conservazione dell’impresa in crisi e le ragioni della “commerciabilità”, Milano,
2012, 380; A. Castiello D’Antonio, Riflessi disciplinari degli accordi di ristrutturazione e dei piani attestati, in Dir. fall., 2008, I,
609; App. Napoli 1° dicembre 2014, in www.unijuris.it; Trib. Verona 16 febbraio 2015, www.ilcaso.it; Trib. Bergamo 19 dicembre 2013, in www.ilfallimentarista.it; Trib. Ravenna 10 ottobre
2013, in www.unijuris.it; Trib. Milano 2 marzo 2013, in Giur. it.,
2013, 2275; Trib. Bologna 17 novembre 2011, in questa Rivista, 2012, 594; per l’opposta visione, G. Terranova, I nuovi accordi di ristrutturazione: il problema della sottocapitalizzazione
dell’impresa, in Dir. fall., 2012, I, 4; E. Frascaroli Santi, Gli accordi di ristrutturazione dei debiti, Padova, 2009, 81; F. Abate,
La spinta degli accordi di ristrutturazione verso la concorsualità
in questa Rivista, 2013, 1183; C. Trentini, Piano attestato di risanamento e accordi di ristrutturazione dei debiti, cit., 158; S. Delle Monache, Profili dei “nuovi” accordi di ristrutturazione dei debiti, in Riv. dir. civ., 2013, I, 549.
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una regola parallela a quella dell’art. 184 l.fall., alcuni effetti di questa disposizione si applicano (39).
Forse, però, i contorni non sono più così ben scolpiti, anche pensando all’innesto degli accordi nel
palinsesto dei procedimenti ai quali si applicherà il
nuovo Reg. UE 848/2015 (40).
Ed allora, ma serviranno assai più approfondite riflessioni, varrà la pena di domandarsi se lo steccato
fra ‘procedura concorsuale sì e procedura concorsuale no’ vada mantenuto (41), ovvero se non sia
giunto il momento di accettare procedimenti ibridi
che potranno trovare una disciplina in parte con le
regole della concorsualità e in parte con le regole
dei contratti (cfr., infra).
Per l’intanto, nel guardare ai riflessi disciplinari, è
bene precisare che la ‘base’ di questi accordi è pur
sempre la struttura originale degli accordi di cui all’art. 182 bis (42), sì che si giustappone la disciplina
speciale dell’art. 182 septies solo quando il debitore
chiede l’estensione degli effetti e ciò in presenza
dei requisiti di cui alla norma di nuovo conio (43).
I punti salienti di disciplina concernono i profili
differenziali rispetto al modello base.
Innanzi tutto è previsto che vi si possa accedere
quando l’indebitamento verso gli intermediari finanziari supera di almeno il 50% l’indebitamento
complessivo, senza che si debba avere riguardo alla
diversa tipologia di crediti e tuttavia la diversa tipologia rileva ai fini della previsione della possibile
(e direi naturale) segmentazione dei crediti in più
categorie (o classi) (44) a seconda di vari livelli di
distinzione (45). Ciò in funzione di assicurare un
pari trattamento in relazione ad una omogeneità
dei crediti.
Occorre, allora che il credito del creditore finanziario che non vuole partecipare all’accordo sia inserito nella categoria omogenea (46); non è però
sufficiente, perché la forzatura del credito (47) che vale solo ai fini dell’esecuzione dell’accordo
posto che la forzatura non rende quel creditore un
aderente ai fini del raggiungimento della soglia del
60% - presuppone che la maggioranza dei crediti
della categoria che abbiano aderito sia pari al 75%,
che il creditore sia stato avvisato e poi posto in
grado di partecipare alla trattativa con il debitore e
sempre che il percorso della crisi si sia dipanato secondo buona fede; una buona fede che presuppone
una compiuta informazione anche sulla situazione
economico, patrimoniale e finanziaria del debitore.
Ma una buona fede che va oltre la semplice informazione e che assume la tonalità del requisito di
estendibilità degli effetti dell’accordo ai non aderenti, non diversamente da quanto è stabilito a
proposito della necessità del soddisfacimento integrale (48), dovendosi tener conto che la volontà
della maggioranza viene a formarsi fuori da una acconcia sede deliberativa (49).
Queste possono essere definite le condizioni di legittimità (formali) per poter far scattare l’estensione degli effetti; ma esistono, anche, delle condizioni di merito (sostanziali) e che consistono nella dimostrazione che il trattamento destinato al creditore renitente è il migliore fra quelli possibili negli
altri scenari praticabili (50).
(39) Per L. Varotti, Articolo 182 septies. Accordi di ristrutturazione con intermediari finanziari e convenzione di moratoria,
www.ilcaso.it, la regola che si applica al terzo è quella di maggioranza e non l’estensione degli effetti del contratto, ma proprio la volontà di deroga alle norme sulla relatività degli effetti
del contratto sembrano andare nella direzione della negozialità.
(40) E. Frascaroli Santi, Il diritto fallimentare delle procedure
concorsuali, Padova, 2016, 780.
(41) Dal punto di vista sistematico gioca un ruolo rilevante
la “criminalizzazione” degli accordi speciali per i quali si applica il regime penale del concordato preventivo. Di recente,
Cass. 24 settembre 2012, n. 16187, in Guida dir., 2012, 44, 58,
ha esplicitamente escluso la rilevanza della distinzione in relazione ad una specifica vicenda.
(42) C. Trentini, Piano attestato di risanamento e accordi di
ristrutturazione dei debiti, cit., 468; L. Quattrocchio, L’accordo
di ristrutturazione dei debiti e la convenzione di moratoria: la disciplina, cit., 9.
(43) Questo significa che per i creditori ‘non finanziari’ non
aderenti, resti invariato il regime del pagamento integrale.
(44) C. Trentini, Piano attestato di risanamento e accordi di
ristrutturazione dei debiti, cit., 478.
(45) Possiamo immaginare distinzioni che colgono il profilo
giuridico (crediti privilegiati e chirografari, ma non si tiene conto delle ipoteche iscritte nei novanta giorni anteriori e ciò serve
al fine della configurazione della ‘categoria’, v., L. Quattroc-
chio, L’accordo di ristrutturazione dei debiti e la convenzione di
moratoria: la disciplina, cit., 12; S. Ambrosini, Il diritto della crisi
d’impresa alla luce della “miniriforma” del 2015, cit., 27), il profilo dei crediti diretti e per firma, il profilo temporale di scadenza (crediti a breve, medio e lungo termine), il profilo delle modalità tecniche (aperture di credito semplici, garantite, linee
autoliquidanti etc...); v., A. Bombardelli, sub art. 182-septies, in
AA.VV., La nuova riforma del diritto concorsuale, Torino, 2015,
311.
(46) Certo, se quel credito fosse diverso da tutti gli altri, la
disposizione non potrebbe essere applicata.
(47) Forzare la volontà del creditore si può risolvere in una
dilazione o in uno stralcio, giammai in nuove prestazioni cui il
creditore renitente non potrà essere obbligato.
(48) Per il valore dominante della buona fede v., P. Benazzo,
L’accordo di ristrutturazione con intermediari finanziari: buona
fede e principio di maggioranza, 9; M. Bianca, La nuova disciplina del concordato e degli accordi di regolazione della crisi: accentuazione dei profili negoziali, in Dir. fall., 2015, I, 541.
(49) C. Trentini, Piano attestato di risanamento e accordi di
ristrutturazione dei debiti, cit., 476.
(50) Qui si disvela la decisività dell’accordo interbancario,
inteso come accordo fra banche, a latere dell’accordo col debitore; per una precisa distinzione v., T.M. Ubertazzi, Accordi
di moratoria, convenzioni interbancarie e bancarie nei risanamenti di imprese: profili civilistici e qualificatori, in Contr. e impr.,
2015, 340.
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La circostanza che venga meno quel dogma (così,
di solito, inteso) (51) della relatività degli effetti
del contratto (52), ha imposto l’adozione di particolari cautele a favore del creditore non partecipante, sia perché il ricorso per l’omologa gli deve
essere notificato (e solo dalla notificazione decorrerà il termine per l’opposizione all’omologa), sia
perché si può opporre lamentando il difetto delle
condizioni formali e sostanziali per le quali il debitore ha chiesto l’estensione.
La contaminazione col concordato deriva sia dall’applicazione del principio maggioritario (53), sia
dalla predeterminazione di categorie - perché si introduce un profilo di anelasticità nella tipica assenza di rispetto della par condicio creditorum propria
degli “accordi-base” (54) -, sia dall’estensione della
vincolatività dell’accordo.
Proprio la peculiarità dell’opposizione con la quale
il creditore finanziario chiede che gli effetti dell’accordo non siano estesi nei suoi confronti, induce a
ritenere plausibile - in presenza della richiesta del
debitore e delle risorse per soddisfare integralmente
i creditori estranei - che il tribunale possa omologare l’accordo negando l’estensione degli effetti,
qualora l’opposizione si riveli fondata ma non tale,
in base ad una sorta di prova di resistenza - da travolgere tutto l’accordo (55).
Il Tribunale di Milano ha svolto una verifica analitica dei parametri che l’art. 182 septies vuole siano
rispettati perché l’accordo non solo possa essere
omologato (e dunque tramite lo scrutinio del superamento della soglia del 60% dei creditori aderenti
e la verifica dell’attuabilità dell’integrale pagamento a favore dei creditori estranei), ma possa anche
estendersi nei confronti del creditore finanziario,
omogeneo ma non interessato ad aderire all’accordo (e dunque mediante una indagine sul fatto che
sia raggiunta la soglia del 50% dell’indebitamento
finanziario sull’indebitamento complessivo, nonché
il conseguimento della maggioranza del 75% all’interno delle singole categorie in cui è scomposto il
debito, l’omogeneità del credito e l’identità del
trattamento del creditore non aderente, la disponibilità alle trattative, la conduzione secondo buona
fede, una ampia e corretta informazione, un trattamento regolativo non peggiore di quello ipotizzabile in uno scenario fallimentare).
Anche per effetto della mancata opposizione dell’unica banca che non aveva aderito all’accordo, il
Tribunale di Milano non ha dovuto compiere una
disamina più approfondita di uno dei temi più delicati: l’omogeneità delle ragioni di credito. Nella
specie, il debitore aveva frazionato i crediti finanziari in tre categorie: (i) crediti da scoperto di c/c;
(ii) crediti ipotecari; (iii) crediti da garanzia per debiti di società del gruppo. La banca non aderente
vantava crediti per le ragioni sub (i) e (ii) e il trattamento proposto era, ovviamente, quello offerto
alle altre banche.
Qualche perplessità suscita in astratto, posto che la
vicenda concreta non è delineata con compiutezza,
la soluzione proposta dal debitore di prevedere una
sola categoria di crediti ipotecari. Infatti, è abbastanza improbabile che i crediti ipotecari possano
essere omogeneizzati in unica categoria, in quanto
la diversità dei cespiti a garanzia e i gradi dell’ipoteca dovrebbero, almeno tendenzialmente, escludere una situazione di omogeneità tale da giustificare
l’estensione degli effetti dell’accordo.
(51) Per la rigida applicazione dello schema della relatività
degli effetti del contratto negli accordi v., Trib. Milano 2 marzo
2013, cit.
(52) B. Inzitari, Gli accordi di ristrutturazione con intermediari
finanziari e la convenzione di moratoria: deroga al principio di relatività del contratto ed effetti sui creditori estranei, www.fallimentiesocietà.it, 518.
(53) B. Inzitari, Gli accordi di ristrutturazione con intermediari
finanziari e la convenzione di moratoria: deroga al principio di relatività del contratto ed effetti sui creditori estranei, cit., 520; C.
Trentini, Piano attestato di risanamento e accordi di ristrutturazione dei debiti, cit., 485.
(54) P. Benazzo, L’accordo di ristrutturazione con intermediari finanziari: buona fede e principio di maggioranza, 25.
(55) L. Panzani, Le alternative al fallimento. il concordato e
gli accordi di ristrutturazione dopo il d.l. 83/2015, cit., 47; P. Benazzo, L’accordo di ristrutturazione con intermediari finanziari:
buona fede e principio di maggioranza, cit., 25.
(56) A. Jorio, La parabola del concordato preventivo: dieci
anni di riforme e controriforme, in Giur. comm., 2016, I, 25.
926
Dalla concorsualità alla collettivizzazione
dei rischi e delle perdite derivanti dalla crisi
Così rappresentate le tre vicende, è giunto il momento di svolgere talune riflessioni di ordine sistematico sul tema del progressivo e direi indiscusso
avvicinamento degli accordi di ristrutturazione verso l’area di una concorsualità sempre più destrutturata e ciò in funzione di garantire e forse accrescere
la tutela dei diritti delle parti coinvolte.
È a tutti noto quanto sia stata devastante la conflittualità operativa e ideologica sul concordato
preventivo (56) e, quanto, per converso, analoga
conflittualità non abbia attraversato gli accordi di
ristrutturazione.
Poiché da sempre si è ritenuto che il perimetro di
elezione degli accordi fosse rappresentato da una rilevante presenza di indebitamento bancario e di
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un frazionamento del credito non esasperato, è
chiaro che la nuova versione di cui all’art. 182 septies sia idonea a incrementare le ipotesi applicative,
lasciando per ora sullo sfondo la suggestione che
questa estensione di effetti si possa immaginare anche rispetto a creditori non finanziari come stabilisce l’art. 5 dello schema di disegno di legge delega
che il Governo ha presentato al Parlamento.
Se ci ricordiamo qual è la genesi degli accordi e cioè
la storia delle convenzioni stragiudiziali (57), ci si
rende conto che ormai quasi tutte le esigenze che si
reclamavano sono state innestate nella disciplina.
Dalla protezione dall’azione revocatoria all’esimente per le ricorrenti ipotesi di bancarotta fraudolenta preferenziale e bancarotta semplice; dalla temporanea inibizione delle azioni esecutive individuali alla legittimazione sistemica della disponibilità
dell’insolvenza (58) (revocata in dubbio, invece,
quanto ai concordati), plasticamente rappresentata
dalla negozialità degli accordi (59), là dove il ruolo
del giudice è tipicamente quello di chi deve garantire i terzi estranei.
Orbene, l’opzione di consentire un’estensione degli
effetti nei confronti di chi non ha voluto partecipare all’accordo può si trovare una giustificazione
di matrice contrattualistica nella deroga agli artt.
1372 e 1411 c.c. (60), ma certo non vanno sottovalutate le spinte verso una maggiore collettivizzazione della disciplina degli accordi come strumento
di regolazione della crisi dell’impresa. Si dipana,
infatti, un secondo canale di effettività: dagli effetti contrattuali derivanti dall’accordo, in sé considerato, si transita ad una più intensa produzione di
effetti legali che vogliono essere una espressione
della intermediazione fra autonomia dei privati e
tutela di interessi pubblici nel cuneo del principio
di sussidiarietà (art. 111 Cost.) (61).
Come già anticipato permangono, ancora, alcuni significativi ostacoli alla riconduzione degli accordi
all’area tipica della concorsualità (62); l’esclusione
di uno spossessamento gestorio del debitore, neppure nella forma più attenuata, declinato anche nella
mancata previsione di un ausiliario del giudice che
accompagni il debitore verso l’omologazione, costituisce - nonostante serie obiezioni - un impedimento a che si possa discutere di concorso negli accordi,
rispetto ad un pacifico concorso fallimentare e ad
un diverso ma sicuro concorso concordatario.
Tuttavia, se sgombri da preconcetti ideologici, si
guarda alla omogeneizzazione dei crediti per categorie e alla efficacia della volontà di una maggioranza, è innegabile che una collettivizzazione dell’accordo sia ormai predicabile; un termine inconsueto ma che vuole esprimere, proprio, quella
posizione di limbo fra collegialità, maggioranza e
contrattualismo. Ed allora appare chiaro che nel
momento in cui si incrementano le propalazioni
degli effetti dell’accordo verso i terzi - dall’originaria esenzione dalla revocatoria, alla moratoria
dei pagamenti (63), al vincolo della maggioranza (64) - si è osservato che l’accordo si stipula
con una maggioranza ma (anche e solo) a maggioranza (plutocratica e qualificata) (65) - si potrà forse ancora preferire una lettura dell’istituto
non perfettamente allineata alle procedure concorsuali tradizionali (66), ma si dovrà, di necessi-
(57) G. Falcone, Gli accordi di ristrutturazione dei debiti: genesi, evoluzione, fenomenologia, in A. Didone (a cura di), Le riforme delle procedure concorsuali, II, Milano, 2016, 1930.
(58) L. Rovelli, Un diritto per l’economia. Bilancio di una stagione di riforme. Una scelta di degiurisdizionalizzazione?, in F. Di
Marzio (a cura di), La crisi d’impresa, Padova, 2010, 54; G. Falcone, Gli accordi di ristrutturazione dei debiti: genesi, evoluzione, fenomenologia, cit., 1950; E. Frascaroli Santi, Gli accordi di ristrutturazione ai sensi dell’art. 182-bis l.fall., cit., 466; A. Nigro - D. Vattermoli, Diritto della crisi delle imprese, Bologna, 2009, 381.
(59) I contributi sul punto sono assai numerosi e, per vero,
densi di sfaccettature molto differenziate, posto che alla riconducibilità degli accordi al modello del contratto, segue, poi, una
plurale lettura sul contenuto e sulla causa del contratto; fra i
contributi più coerenti col tema, sia consentito un rinvio a L. Balestra, Sul contenuto degli accordi di ristrutturazione dei debiti, in
Giur. comm., 2014, I, 283; E. Capobianco, Gli accordi stragiudiziali per la soluzione della crisi d’impresa - Profili funzionali e strutturali e conseguenze dell’inadempimento del debitore, in Banca,
borsa, tit. cred., 2010, I, 95; G. Vettori, Il contratto nella crisi dell’impresa, in Obbligazioni e contratti, 2009, 486; F. Di Marzio, Il
diritto negoziale della crisi d’impresa, Milano, 2011, 107; R. Tarolli, I contratti per la ristrutturazione dei debiti, in Giur. comm.,
2014, I, 789; I.L. Nocera, Architettura strutturale degli accordi di
ristrutturazione: un’analisi di diritto civile, cit., 1129.
(60) G. Falcone, Gli accordi di ristrutturazione dei debiti: genesi, evoluzione, fenomenologia, cit., 1962.
(61) M.P. Pignalosa, Accordi di ristrutturazione dei debiti e
creditori non aderenti, in Dir. fall., 2015, I, 291.
(62) In termini simili, G. Falcone, Gli accordi di ristrutturazione dei debiti: genesi, evoluzione, fenomenologia, cit., 1962.
(63) V. Roppo, Profili strutturali e funzionali dei contratti di
salvataggio (o di ristrutturazione dei debiti d’impresa), in Dir.
fall., 2008, I, 370; M. Sciuto, Effetti legali e negoziali degli accordi di ristrutturazione dei debiti, in Riv. dir. civ., 2009, 349; A.
Gentili, Accordi di ristrutturazione e tutela dei terzi, in Dir. fall.,
2009, I, 633; E. Follieri, Accordi di ristrutturazione dei debiti ed
efficacia giuridica, in Contratti, 2015, 1165.
(64) Mentre, prima, si escludeva giustamente che il quoziente del 60% esprimesse una forma di maggioranza, v., Trib.
Bologna 17 novembre 2011, in Dir. fall., 2012, II, 64.
(65) P. Benazzo, L’accordo di ristrutturazione con intermediari finanziari: buona fede e principio di maggioranza, 16; mentre, prima, era pacifico che non si potesse parlare di maggioranza ma, solo, di soglia, v., L. Guglielmucci, Diritto fallimentare, Torino, 2015, 350.
(66) Ma per l’esclusione di questo percorso v., P. Benazzo,
L’accordo di ristrutturazione con intermediari finanziari: buona
fede e principio di maggioranza, cit., 17; per la natura concorsuale, E. Frascaroli Santi, Il diritto fallimentare delle procedure
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tà, prelevare da quel mondo tutto lo strumentario
delle garanzie che sono apprestate quando si superano i confini della negozialità in senso stretto,
anche se si tratta di confini che vengono superati
[anche] nell’interesse del creditore estraneo (67).
La clausola di salvaguardia inclusa nell’art. 182
septies, comma 4 lett. c), in tema di esclusione di
trattamento pregiudizievole (rispetto ad altre alternative di soddisfacimento), riproduce nella sostanza la clausola di convenienza del concordato
preventivo con suddivisione dei creditori in classi, ed allora non può che predicarsi una tutela
non meno intensa; in tale contesto, ancorché
possano venire estesi non solo effetti legali (quelli dell’art. 182 bis) ma proprio quelli negoziali, la
clausola di salvaguardia appena enunciata consente di postulare che ci si situi, ancora, nel campo della estensione di effetti favorevoli, pur se tale valutazione è ascritta al volere di una maggioranza, posto che questa necessita di validazione
giudiziale (68).
La contaminazione ascendente degli accordi verso
il concordato è biunivocamente correlata alla contaminazione discendente del concordato verso gli
accordi, là dove - spesso in nome di una velleitaria
continuità d’impresa - sono scompaginate le regole
classiche della concorsualità sistematizzata, come
accade emblematicamente nella fattispecie del pagamento dei crediti anteriori ex art. 182 quinques
l.fall. (69).
Si diceva, allora, che a questo processo di progressiva ibridazione non può rimanere estrano il tema
della tutela dei diritti.
La tutela dei diritti vuole sicuramente che - come
intuito dal Tribunale di Udine - ai creditori sia riconosciuta la più completa informazione possibile
in modo che possano valutare se partecipare successivamente all’accordo, se accettare la moratoria
del pagamento, se rifiutarla e opporsi alla omologazione.
Ma la tutela dei diritti rivendica, anche, che sia
sempre possibile un sindacato di legittimità sulla
decisione, positiva o negativa, in ordine alla richiesta di omologazione. Infatti, se le Sezioni unite della Suprema Corte dovessero, come si auspica, aprire il controllo di legittimità sui provvedimenti di
“ingresso” ed ‘uscita’ dai concordati, sarebbe necessario espiantare quella soluzione anche a proposito
degli accordi che hanno ormai superato quell’enclave di forte (e forse esclusivo) contrattualismo
che li connotava in origine (70).
Questo approdo non significa affatto tornare agli
albori dell’introduzione dell’art. 182 bis quando si
discettava se gli accordi fossero un modello minore
di concordato preventivo (71), né riproporre la tesi
dell’applicazione analogica di norme dettate per il
concordato (72), ma si deve prendere atto che là
dove l’accordo procedimentalizzato e potenzialmente diffuso su una comunità più ampia di creditori oltre agli aderenti viene validato (73) o viene
rifiutato dal giudice (74), le garanzie negoziali (75)
concorsuali, Padova, 2016, 786.
(67) E. Follieri, Accordi di ristrutturazione dei debiti ed efficacia giuridica, cit., 1167, reputa infatti che le previsioni dell’art.
182-bis l.fall. siano estendibili ai terzi perché contenenti “effetti
favorevoli”.
(68) Per E. Follieri, Accordi di ristrutturazione dei debiti ed efficacia giuridica, cit., 1170, vengono propalati anche effetti sfavorevoli; contra, ma con riferimento alla disciplina anteriore, F.
Di Marzio, Profili sostanziali della fattispecie “accordi di ristrutturazione dei debiti”, in La crisi d’impresa, a cura di F. Di Marzio,
Padova, 2010, 311.
(69) F. Guerrera, La ristrutturazione ‘negoziata’ dell’impresa
in crisi: novità legislative e spunti comparatistici, in F. Barachini
(a cura di), Il diritto dell’impresa in crisi fra contratto, società e
procedure concorsuali, Torino, 2014, 130, parla di graduale
convergenza fra i due strumenti accomunati funzionalmente
dall’idea di concorrere alla regolazione della crisi dell’impresa.
(70) Certo, una ragione a favore di questa conclusione potrebbe essere il bisogno di stabilità predicato da I. Pagni, Contratto e processo nel concordato preventivo e negli accordi di ristrutturazione de debiti: analogie e differenze, cit., 609, ma questa stabilità che è necessaria nel caso della omologazione,
quando il decreto è, invece, di segno contrario, si ‘converte’ in
stabilità di un assetto di interessi in cui i diritti delle parti vengono modificati e, sebbene solo parzialmente, senza possibilità di essere, davvero e interamente, recuperati.
(71) È la tesi di P. Valensise, Gli accordi di ristrutturazione,
cit., 133, che però è stata contrastata dalla assoluta maggio-
ranza degli interpreti, fra i quali G.B. Nardecchia, sub art.182bis, cit., 795; G. Presti, Gli accordi di ristrutturazione dei debiti,
in Banca, borsa, tit. cred., 2006, I, 16; C. Trentini, Gli accordi di
ristrutturazione dei debiti, cit., 61.
(72) Ad esempio Trib. Milano 15 novembre 2011, in questa
Rivista, 2012, 457, ha applicato in via analogica la regola della
irrilevanza del trasferimento infrannuale della sede ai fini della
determinazione della competenza per territorio; per la negazione di qualsiasi analogia v., Trib. Udine 22 giugno 2007, in questa Rivista, 2008, 701; Trib. Milano 11 gennaio 2007, in Dir.
fall., 2008, II, 136; Trib. Milano 23 gennaio 2007, in questa Rivista, 2007, 701; Trib. Brescia 22 febbraio 2006, in Foro it.,
2006, I, 2563.
(73) Per la ricorribilità in questo solo caso, C. Cecchella, Diritto fallimentare, cit., 410; P. Valensise, sub art. 182-bis, cit.,
426; G. Buccarella, I “nuovi” accordi di ristrutturazione dei debiti, cit., 279; F. De Santis, I controlli del giudice nel piano attestato e nell’accordo di ristrutturazione dei debiti, cit., 1060; A. Didone, Gli accordi di ristrutturazione dei debiti (art. 182 bis l.fall.)
(Presupposti, procedimento ed effetti della anticipazione delle
misure protettive dell’impresa in crisi), in Dir. fall., 2011, I, 33.
(74) Per la ricorribilità anche nel caso del rigetto, C. Trentini,
Gli accordi di ristrutturazione dei debiti, cit., 342; F. De Vita, Il
giudizio di omologazione degli accordi di ristrutturazione dei debiti: problematiche processuali, cit., 389.
(75) Va, infatti, rammentato che quando il ricorso per l’omologazione viene rigettato, neppure si può pensare all’invocazione di rimedi negoziali (risoluzione e annullamento), i quali
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e processuali meritano di essere, tutte, dotate di
piena effettività (76); un sistema di garanzie, anche
procedimentali, che deve pervadere il sindacato su-
gli accordi in funzione della ricerca di un equilibrio
fra ostruzionismo del free rider e autoreferenzialità
della maggioranza.
presuppongono, ovviamente, che un accordo sia stato omologato, v., S. Bonfatti - P.F. Censoni, Manuale di diritto fallimentare, Padova, 2011, 666; P. Valensise, sub art. 182-bis, cit., 429;
G. Scarselli, Le sistemazioni stragiudiziali, in E. Bertacchini et al
(a cura di), Manuale di diritto fallimentare, Milano, 2011, 547.
(76) Sull’utilità dell’applicazione di norme dettate per il concordato preventivo, v., G. Falcone, Gli accordi di ristrutturazione
dei debiti: genesi, evoluzione, fenomenologia, cit., 1936; E. Frascaroli Santi, Il diritto fallimentare delle procedure concorsuali,
cit., 806.
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Cessione dei crediti
Cassazione Civile, Sez. I, 7 aprile 2016, n. 6759 - Pres. Bernabai - Rel. Di Virgilio - Banca Monte
dei Paschi di Siena S.p.a. (avv. Marino) contro Immobiliare San Camilo S.r.l. e Imel S.r.l. (avv.
Leppo)
Fallimento - Effetti per i creditori - Cessione di credito - Cessione di credito in garanzia - Trasferimento della titolarità del
credito - Non configurabilità - Differenza con il pegno di credito
(legge fallimentare art. 54 e art. 177)
La cessione del credito in garanzia dà luogo al trasferimento del credito dal patrimonio del cedente a quello
del cessionario. La stessa, perciò, non può essere confusa con il pegno di credito e assimilata allo stesso, non
integrando alcun diritto di prelazione (anche) ai sensi della disciplina fallimentare (massima non ufficiale).
La Corte (omissis).
1.1.- Col primo mezzo, la ricorrente si duole dei vizi ex
art. 360 c.p.c., nn. 3 e 4 della pronuncia impugnata; sostiene che la Corte del merito è “manifestamente sbrigativa, al punto di eludere le questioni nei termini posti e dibattuti”; deduce di avere fatto valere la cessione di credito
pro solvendo a scopo di garanzia come causa atipica di prelazione, assimilabile al pegno, in linea con la sentenza
3128/58, il cui principio non è mai stato superato da sentenze successive; che la costituzione in pegno di un credito verso la P.A. si realizza tecnicamente proprio con la
cessione in garanzia, e che per l’opponibilità la cessione
del credito fiscale non richiede l’accettazione della Pubblica Amministrazione, ma solo la notificazione a questa.
1.2.- Col secondo motivo, la Banca si duole del vizio di
motivazione della pronuncia impugnata, sul fatto controverso e decisivo della cessione pro solvendo del credito Iva, anno 1996, a scopo di garanzia del finanziamento effettuato dalla Banca al cedente. Secondo la ricorrente, il ragionamento della Corte di merito è illogico, per la negazione della prelazione, “supponendosi” il
riferimento alla causa tipica di prelazione, pegno e privilegio, mentre la Banca, riferendosi unicamente alla
cessione pro solvendo in garanzia del credito Iva, non
ha invocato né il pegno né il privilegio.
(omissis)
2.1.- I primi due motivi, strettamente collegati, vanno
esaminati congiuntamente e sono da ritenersi infondati.
La questione di diritto posta dalla parte è chiara; secondo la Banca, deve riconoscersi l’ammissione del proprio
credito derivante dalla cessione di credito Iva pro solvendo in funzione di garanzia in via privilegiata, dovendosi ritenere sussistente una garanzia atipica, secondo i
principi enunciati nella sentenza 3128/1958, e non già
quella tipica costituita dal pegno o dal privilegio.
Ciò posto, si deve rilevare che la pronuncia 3128/1958,
nella parte che qui interessa, si è limitata a ritenere che
la cessione di credito, stipulata in occasione di un finanziamento, assume funzione di garanzia, (atipica) paragonabile nei suoi effetti a quella tipica prevista dalla
legge nei casi consimili di pegno di crediti e, più in dettaglio, nella parte motiva, ha affrontato la questione
della violazione dell’art. 112 c.p.c., ritenendola infonda-
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ta, alla stregua dell’interpretazione della domanda contenuta nel ricorso al giudice delegato e di quella riproposta con l’atto di opposizione, rilevando che l’espressione adottata nel ricorso “con privilegio speciale” chiariva come la Cassa di Risparmio volesse avvalersi della
garanzia atipica integrata dalla cessione pro solvendo.
Ne consegue che il (datato) precedente invocato non
può adeguatamente supportare la tesi della ricorrente.
Nel merito, in ogni caso, la ricorrente, ha invocato nel
caso il medesimo effetto tipico riconosciuto dalla legge
ai diritti reali di garanzia, ovvero la soddisfazione del
credito con preferenza rispetto agli altri creditori in sede
di ammissione al passivo fallimentare, facendo valere
l’assimilabilità della fattispecie con il pegno di credito:
detta tesi è infondata, per la sostanziale diversità tra le
due figure giuridiche.
Ed infatti, come affermato nella pronuncia 5943/1980,
la cessione del credito a scopo di garanzia dà sempre
luogo alla trasmissione del credito che ne costituisce
l’oggetto: in via immediata, se il credito è già maturato,
ovvero in via differita, cioè al momento della maturazione, se trattasi di credito futuro; essa, pertanto, non
può essere confusa con il pegno di credito, in quanto
quest’ultimo, per la sua precipua caratteristica strutturale, integra un tipico diritto di prelazione, che non dà
mai luogo al trasferimento della titolarità del credito al
creditore pignoratizio: conseguentemente, non potendosi la cessione di un credito a scopo di garanzia annoverare tra i diritti di prelazione, indicati tassativamente
dall’art. 177, comma 3, legge fallimentare, bensì attuando soltanto una forma atipica di garanzia, l’adesione del
cessionario del credito al concordato preventivo del cedente non ne comporta la rinuncia.
Né, infine, può attribuirsi alcun effetto, ai fini che qui
interessano, alla intervenuta pronuncia di questa Corte
nel contenzioso tributario, che ha qualificato l’intervento della Banca in primo grado come adesivo autonomo,
ed ha respinto i ricorsi principale ed incidentali.
(omissis).
P.Q.M.
La Corte respinge il ricorso;
(omissis).
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Cessione di credito in garanzia e prelazione
di Aldo Angelo Dolmetta
La sentenza qui pubblicata precisa che il cessionario in garanzia, che ne faccia domanda, si insinua nel fallimento del cedente (suo debitore di base) come semplice chirografo. Non per questo
- puntualizza a sua volta la nota di commento - si potrebbe pensare che questa forma di garanzia possa dare al creditore qualcosa di meno di quanto offre il pegno di crediti. La realtà è di
una garanzia comunque fortissima: i cui vantaggi non possono non essere mediati e limitati, anzi, da un’applicazione severa del canone di buona fede oggettiva.
La soluzione accolta dalla sentenza della Cassazione qui pubblicata è senz’altro corretta. La stessa è
coerente con la struttura tipica della cessione di
credito in garanzia, quale figura conformata dal trasferimento della titolarità del credito dal patrimonio del cedente a quello del cessionario, per la funzione di garanzia di un debito (o di più debiti) del
primo nei confronti del secondo. Infatti, al verificarsi di tale trasferimento consegue in via diretta
che il credito dato in garanzia viene a ricadere nella disponibilità del cessionario garantito; e non
meno consegue pure che il detto credito risulta ormai esterno - estraneo, meglio - alla generica garanzia patrimoniale che la legge pone alla base della comune responsabilità debitoria con la norma
dell’art. 2740 c.c.
Questa essendo la forma tecnica che connota strutturalmente la garanzia data dalla cessione dei crediti, per la stessa non ha evidentemente senso discorrere di diritto di prelazione o di sua possibile
“assimilazione” con il pegno di crediti o di eventuale applicazione della norma dell’art. 54 l.fall. (e
disposizioni da quest’ultima poi dipendenti, con
connessa insinuazione al passivo fallimentare del
debitore cedente in via privilegiata da parte del
cessionario garantito): ché tutto ciò comunque
presuppone, in sé stesso, la permanenza attuale del
diritto, che è stato costituito in garanzia, nell’arco
formato dal patrimonio del debitore ovvero del terzo datore (1).
In effetti, la tesi per cui il cessionario in garanzia
assumerebbe - o potrebbe assumere (chiedendo al
giudice dell’insinuazione) - la posizione di creditore
privilegiato risponde a una fase oramai superata del
diritto; al tempo, cioè, in cui questa forma di garanzia si stava enucleando, per poi andare a staccarsene, da una sorta di indistinto, come “coagulato” dalle figure madri del pegno di crediti (art.
2800 cc.) e della cessione in luogo dell’adempimento (art. 1198 c.c.): tanto nell’operatività della
pratica, quanto nel pensiero della letteratura. E così la Corte di cassazione - che in una lontana sentenza del 1958 pure sostenne che la cessione di
crediti è una “garanzia atipica, o speciale ... che
può (nei suoi effetti) paragonarsi a quella tipica
prevista dalla legge in casi consimili, cioè il pegno
di crediti” (2) - ha poi corretto il tiro, già in avvio
degli anni ’80 (3).
L’insinuazione del cessionario in garanzia nel passivo fallimentare del cedente, che sia suo debitore,
non può avvenire, dunque, se non per la via del
chirografo (4).
(1) Corre frequente nella prassi bancaria una clausola per
cui dei crediti del cliente vengono portati a garanzia di una determinata esposizione a mezzo della cessione di crediti (e quindi di una garanzia dominicale) e insieme di pegno (ovvero di
una garanzia di prelazione); per solito, la clausola non manca
di aggiungere che, per tali crediti, la banca assume altresì la
veste di mandataria in rem propriam all’incasso.
Come si evince da quanto si espone nel testo, cessione in
garanzia e pegno non possono coesistere con riguardo a un
identico credito; e lo stesso vale, come ben può dirsi scontato,
con riferimento al mandato all’incasso. In realtà, una simile
clausola più che altro appare improntata all’intento di sfruttare
a vantaggio la migliore situazione che nel concreto si renda disponibile per la banca garantita. Si tratta di una clausola opportunistica, quindi; che non mi pare possa superare il vaglio
della meritevolezza degli interessi perseguiti ex art. 1322, comma 2, c.c.: amplius, sul punto, il mio Trasparenza dei prodotti
bancari. Regole, Bologna, 2013, 342 ss.
(2) Cass. 6 ottobre 1958, n. 3128, in Banca, borsa, tit. cred.,
1958, II, 498.
(3) Cass. 5 novembre 1980, n. 5943, Mass. Ma v., già orientata verso questo tipo di soluzione, pure Cass. 15 settembre
1972, n. 2746, in Giust. civ., 1973, I, 94.
(4) Nell’ambito di questa prospettiva, tra gli altri v. A.A. Dolmetta e Portale, Cessione del credito e cessione in garanzia nell’ordinamento italiano, in Banca, borsa, tit. cred., 1985, I, 258
ss., 288; M. Lascialfari, La cessione di crediti a scopo di garanzia, in AA.VV. Le garanzie rafforzate del credito a cura di V. Cuffaro, Torino, 2000, 291; G. Bozzi, Le garanzie atipiche, in Il diritto provato oggi a cura di Cendon, Milano, 1999, 226; U. Stefini,
Strutturale estraneità della garanzia data
dalla cessione al fallimento del cedente.
Insinuazione come chirografo del
cessionario
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Sugli effetti “vantaggiosi” di questa
strutturale estraneità
Per un certa opinione, che ancor oggi riscuote consenso in letteratura, la cessione di credito in garanzia, se non integra una causa di prelazione, dà invece “qualcosa di più e qualcosa di meno: qualcosa di
più, perché la cessio consente al cessionario, in virtù dell’anteriore trasferimento del diritto di credito, di soddisfarsi, riscuotendo direttamente il credito ceduto; qualcosa di meno, perché, fuori di questo, e per il resto, egli è un comune creditore chirografario” (5).
Sulla seconda parte di questa valutazione a me pare
non sia, per la verità, possibile convenire; non corretta, la stessa rimane su un livello di prima superficie. E questo proprio in relazione ai termini in
cui la detta valutazione viene formulata: sul piano,
cioè, della struttura di conformazione tipica della
figura della cessione dei crediti in garanzia, quale
operazione forgiata dall’autonomia dei privati; e
prima, pertanto, di eventuali - e rimediali - interventi portati dall’eteronomia. L’insinuazione al
passivo fallimentare del cedente come chirografario
dà ovviamente al cessionario qualcosa di diverso di
quanto gli darebbe la collocazione come creditore
privilegiato; non per questo, tuttavia, tale diversità
viene a concretizzarsi in una posizione deteriore.
La realtà è assai differente, a me pare.
Nel meccanismo strutturale della cessione in garanzia, la domanda di insinuazione e l’insinuazione
medesima nel fallimento del cedente non si pongono - è prima di tutto da rilevare - come condizione
di esigibilità del credito vantato verso il ceduto (6).
Secondo questo meccanismo, il cessionario può indifferentemente rivolgersi tanto al cedente, quanto
al ceduto: egli è, in effetti, titolare dell’un credito,
come pure dell’altro; e senza che corrano limitazioni peculiari in punto di esigibilità degli stessi. Il
che appare pure coerente, del resto, con la funzione di efficienza - di maggiore efficienza, se si prefe-
risce - che, nella normalità della prassi (perlomeno), caratterizza questa figura di garanzia. Se il debitore ceduto non è (a sua volta) fallito, la richiesta di pagamento, che il cessionario avanzi nei suoi
confronti, in realtà non risulta soggetta a oneri o
vincoli particolari (diversi, va da sé, da quelli inerenti al trasferimento in genere di un qualunque
credito): appunto perché il cessionario fa valere un
diritto di credito che appartiene alla sua titolarità (7).
D’altro canto, la struttura della garanzia comporta
che la gestione e la riscossione del credito ceduto
rimangono per intero nelle mani del cessionario in
garanzia. Tanto che quest’ultimo si insinui nel passivo fallimentare del cedente - quanto che non si
insinui -, comunque si rimane fuori dal perimetro
applicativo della disposizione dell’art. 53 l.fall., in
punto di tempi e di modi di realizzazione della garanzia di cui al pegno. Ancor meno il curatore potrebbe ingerirsi nel gestione del credito, posto che
un potere di questo tipo non stava in capo al cedente.
A differenza della prelazione, che sopporta forti limitazioni in punto di interessi (art. 54, comma 3,
l.fall.), poi, la cessione consente al creditore garantito di trattenere - da quanto abbia riscosso dal ceduto - una somma pari a quanto avrebbe potuto
trattenere se il cedente fosse rimasto in bonis, interessi compresi e computati per l’intero (8). Il credito del cessionario rimane cristallizzato - cioè infruttifero - alla data di dichiarazione di fallimento del
cedente esclusivamente ai fini della ripartizione
dell’attivo fallimentare. Ovviamente, la cristallizzazione non opera nel confronto del rapporto con il
ceduto; e nemmeno risulta esportabile fuori dalle
strette mura del processo esecutivo fallimentare. Se
il cessionario deve restituire (come, in effetti, deve) quanto dalla riscossione eventualmente residui
dopo l’integrale suo soddisfacimento, non è certo
perché è intervenuto il fallimento del cedente; è
La cessione del credito con causa di garanzia, Padova, 2007,
238 ss.; Id., La cessione del credito in garanzia nel fallimento, in
Obbl. e contr., 2005, 155 ss., ove pure ulteriori riferimenti.
Per il sotto punto dato dall’alternativa tra insinuazione come
semplice chirografo e insinuazione come creditore condizionale v. infra, nt. 23.
(5) Così, tra gli altri, G. Bavetta, La cessione di credito a scopo di garanzia, in Dir. fall., 1995, I, 605.
(6) Secondo Cass. 10 gennaio 2001, n. 280 (ripresa, per vero in termini del tutto acritici, da P. Lambrini, Della cessione
dei crediti, in Comm. del cod. civ. diretto da Gabrielli, artt.
1218-1276, **, Torino, 2013, 737) la “causa di garanzia ... impone al cessionario di non esigerne il pagamento se non nel
caso di inadempimento del debitore garantito, cioè di insolvenza del cedente”. La tesi - che peraltro risulta priva di rilievo
per il caso del fallimento del cedente, che qui direttamente interessa - è priva di fondamento. In sé, la stessa appare autoreferenziale, posto che si sostiene sull’idea - assunta come causa e, insieme, come effetto - che la “causa di garanzia ... condiziona la libera disponibilità del credito ceduto”, che del resto
è solo allegata; non si vede, inoltre, in che modo una simile
idea possa mai incidere sullo specifico punto dell’ordine delle
richieste di pagamento che il cessionario può avanzare.
(7) Di sicuro il ceduto non è munito di un’eccezione in tale
direzione.
Sul tema generale della posizione del debitore ceduto di
fronte agli eventuali vizi del negozio dispositivo del credito v. il
mio La cessione del credito, Torino, 1987, n. 8.
(8) Su questo punto specifico si tornerà in chiusura di esposizione.
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piuttosto per la ragione che il trasferimento del
credito, di cui si discute, è avvenuto in funzione di
garanzia: pienamente soddisfatto dei suoi diritti il
cessionario, lo stesso trasferimento functus est munere suo e viene quindi automaticamente meno;
l’eventuale residuo del riscosso senza dubbio configura, insomma, un’ipotesi di indebito oggettivo (9).
Ancora un riscontro in materia. Nel caso in cui intendendo pretendere la prestazione dovutagli
(anche o solo) dal cedente fallito (10) - il cessionario presenti domanda di insinuazione nel relativo
passivo fallimentare, lo stesso risulta naturalmente
soggetto alla verifica proveniente dai competenti
origani della procedura. Tuttavia, tale verifica viene a riguardare esclusivamente il rapporto garantito, non anche quello di garanzia (più esattamente:
il negozio costitutivo della garanzia e il rapporto
che da questo ne è disceso); secondo quanto propriamente avviene, per contro, nel caso della domanda di insinuazione in via privilegiata (11). Nella specie si tratta, per l’appunto, di insinuazione
che è stata promossa per la via del chirografo.
diverse direzioni. Che certo sotto il profilo logico
si pongono tra loro come rigorosamente alternative; ma che molto meno risultano esserlo ove, abbandonati gli schemi della logica astratta, si vada a
fare i conti con le logiche del diritto vivente.
Un primo approccio intende confrontarsi, dunque,
con il tema della validità della cessione di crediti
in garanzia in quanto tale, vale a dire per la somma
dei vantaggi addizionali che la stessa reca. Il secondo approccio indossa invece vesti più dimesse e
modeste: intendendo piuttosto cimare qui e là, comunque ammorbidire le punte più dure di uno o
altro vantaggio addizionale intrinseco alla figura in
questione.
Cessione in garanzia e divieto del patto
commissorio. Un rapporto irrisolto
In definitiva, la struttura tipica della cessione in
garanzia non presenta profili “compensativi” tra
vantaggi e svantaggi rispetto alla situazione portata
dalla prelazione. Essa confeziona piuttosto cospicui
vantaggi addizionali nei confronti di quest’ultima.
Ora, una simile circostanza ben può inquietare. E
più inquieta nel contesto di un sistema ordinamentale quale è quello formato dal codice civile e dalla
collegata legge fallimentare: che, lungi dal conoscere la figura della garanzia dominicale, si impianta e procede proprio sul diverso - e minore - cardine delle garanzie di prelazione. Insomma, il confronto tra la struttura di autonomia, che la cessione
propone, e la risposta dell’eteronomia viene a preoccupare.
Nel concreto, le preoccupazioni che desta una garanzia “rafforzata”, com’è quella fornita dalla cessione dei crediti, possono andare a sfociare in due
L’approccio che considera in somma i vantaggi addizionali della cessione in garanzia e discute della
validità della figura in quanto tale si richiama, naturalmente, alla norma dell’art. 2744 c.c. e al divieto di alienazione in garanzia che vi sta scritto.
Se nei fatti l’assunto della validità della cessione è
dato per affatto scontato nella comune giurisprudenza, il punto relativo alla definizione delle ragioni per cui la stessa sarebbe sottratta a tale divieto,
che è generale, rimane irrisolto.
Un recente, interessante studio (12) ha segnalato,
in proposito, come la nostra giurisprudenza non abbia “sviluppata un’adeguata prospettiva critica in
grado di verificare la “portata” del negozio [di cessione] di fronte a un ostacolo come quello rappresentato dal divieto” del patto commissorio. E ha
pure rivelato come la sentenza di Cass., 30 ottobre
1956, n. 4057, - che si pone, per certi versi, come
l’origine storica dell’attenzione sulla figura - abbia
nei fatti “evitato di affrontare il problema della
cessione”; la massima estratta da tale sentenza, da
cui “sembrerebbe ammesso il riconoscimento” della
figura è, in realtà, una “massima mentitoria”. E ancora ha riscontrato, il detto studio, che la più moderna pronuncia di Cass. 23 luglio 1997, n. 6882 un altro “punto fermo” della materia (13) -, nell’affermare la validità della cessione, si sia limitata a
(9) Cfr. amplius, A.A. Dolmetta - G. Portale, op. cit., 277 s.
Per la giurisprudenza, Cass. 10 gennaio 2001, n. 280, già citata, nonché Cass. 2 aprile 2001, n. 4796.
(10) Il tema dell’eventuale subordinazione dell’ammissione
al passivo del cedente all’avvenuto esperimento di azioni esecutive verso il ceduto sarà considerato nella parte finale del
presente lavoro.
(11) Fuori dal caso, va da sé, di garanzia costituita su beni
non sottoposti al fallimento, perché provenienti da un terzo da-
tore: cfr. Cass. 25 maggio 2004, n. 10012.
(12) G. Verdura, Cessione del credito a scopo di garanzia: tra
massime mentitorie e autorità morale del precedente, in Ricerche giuridiche, 2012, giugno.
(13) Per la notazione che la “validità della cessione di credito in garanzia ... è indiscussa” v. Cass. 29 gennaio 1997, n.
916. Non diversamente, più di recente, Cass. 3 febbraio 2010,
n. 2517. Non meno inconsistente è poi l’altro e più diffuso rilievo prodotto in proposito dalla giurisprudenza, che è formato -
Interna “problematicità” della cessione
in garanzia, in ragione dei vantaggi
“addizionali” che essa porta
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considerare il disposto dell’art. 2803 c.c. (imputazione del riscosso a estinzione del credito garantito), per rilevare che, se tanto può fare il creditore
pignoratizio, altrettanto può fare il cessionario in
garanzia: così mostrando, in realtà, di chiudere il
tema in una prospettiva angusta, se non proprio
cieca. In effetti, è evidente - se non altro alla luce
dei cenni svolti sopra, in merito ai vantaggi addizionali - che il richiamo della norma dell’art. 2803
“può al più aprire il problema della validità della
cessione in garanzia, certo non vale a risolverlo” (14).
Insomma, sul piano oggettivo il problema c’è. Né
può valere a risolverlo, a mio avviso, il richiamo
alla normativa sulle c.d. garanzie finanziarie - che
alle garanzie di prelazione pone a fianco quelle di
tratto dominicale, cessione in garanzia compresa oppure a quella (il cui iter parlamentare si è appena
concluso) dei finanziamenti bancari garantiti da
“trasferimento di bene immobile sospensivamente
condizionato” (15). Si tratta, in realtà di normative
fortemente settoriali, di portata assai limitata per
oggetti e soggetti, ispirate a logiche particolari
(quando non “particolaristiche”): che per di più - è
stato osservato - sembrano ricordare, come logica
di deviazione eccezionale dai principi, degli interventi legislativi di diritto speciale degli anni cinquanta (16) (al di là della percezione che poteva
avere il legislatore dell’epoca dei termini reali della
differenza tra garanzia di prelazione e garanzie dominicali).
Grave, il problema della validità della cessione in
garanzia in quanto tale non sembrerebbe tuttavia
destinato a venire sviluppato nel prossimo futuro
nel contesto del diritto vivente. I segnali sono in
questa direzione: anche al di là della già segnalata
disattenzione che la corrente giurisprudenza mostra
di fronte allo stesso. L’orientamento sviluppato
dalla Corte di cassazione in tema di lease-back che, nello stimare l’operazione sì valida, ma pure
in sé stessa pericolosa, dichiara di sottoporla al costante controllo della causa concreta (17) - sembra
chiaro testimone di una tendenza di più ampio respiro: a trasportare gli scenari degli eccessi (nel caso, dei vantaggi addizionali) dal piano della fattispecie astratta a quella della fattispecie concreta.
D’altra parte, la recentissima rivalutazione del patto marcano - promossa sempre dalla Cassazione e
sempre relativa a una fattispecie di lease-back sembra passare attraverso una ricostruzione del patto che ha maglie assai larghe, è lasca: contentandosi, parrebbe, della stima fatta da un terzo, sol che si
tratti di un “indipendente” (18).
In definitiva, per quanto in sé stesso molto serio,
nell’attuale mileu del diritto vivente il problema
della validità della cessione in garanzia non è certo
di moda, né pare destinato a diventarlo in un futuro (più o meno) prossimo.
di là da ogni richiamo all’autonomia privata - dalla rilevazione
che la cessione ha causa variabile. È chiaro, in effetti, che il
fatto (vero) che la cessione del credito può variare di causa
non significa certo che la stessa possa essere retta da una
causa qualunque (fatto non vero).
(14) A.A. Dolmetta - G. Portale, op. cit., 279.
(15) Cfr., D.L. 3 maggio 2016, n. 59 (c.d. “Salva banche”),
conv. con legge 30 giugno 2016, n. 119.
(16) Cfr. ancora G. Verdura, op. cit.
(17) Sul tema v. il mio Trasparenza dei prodotti bancari, cit.,
326 ss.
(18) Per un esame anche critico della sentenza di Cass. 28
gennaio 2015, n. 1625 v., in specie, M. Natale, Lease-back e
strutture utili di patto marciano, in Riv. dir. civ., 2015, 1595 ss.
Sul tema generale dei rapporti tra alienazione in garanzia e
controllo (giudiziale soprattutto) sull’attività liquidatoria del creditore dominicale v. il mio Lease-back e patto commissorio: un
rapporto complesso, in Giur. comm., 2002, I, 316 s.
(19) Cfr., in proposito, spec. A.A. Dolmetta - G. Portale, op.
cit., 275 ss.
Un’importante sottolineatura della regola scritta nella norma dell’art. 1358 c.c. si trova, nella giurisprudenza che si è occupata della cessione in garanzia, nella pronuncia di Trib. Milano 13 ottobre 1986, in Banca, borsa, tit. cred., 1988, II, 82 ss.
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“Smussare” i vantaggi eccessivi:
la prospettiva della buona fede
Migliore fortuna può sicuramente riscuotere, nell’attuale, l’altro degli approcci sopra indicati, come
ispirato a un intervento di eteronomia morbido,
inteso cioè a “smussare” i profili più duri della cessione in garanzia. In questa prospettiva è in via segnata da richiamare - come strumento flessibile di
integrazione contrattuale (e portatore di rimedi per
sé risarcitori) - il canone fondamentale della buona
fede oggettiva.
Nella specie, questa clausola generale - ben nota e
praticata, ormai, anche nell’ambito del diritto vivente - non si avvantaggia solo del richiamo generalissimo di cui all’art. 1375 c.c. Si poggia altresì su
quello, un poco più specifico, che viene fornito
dalla norma dell’art. 1358 c.c., a leggere - come si
deve - la struttura della cessione in garanzia in termini di trasferimento risolutivamente condizionato (19).
Con riguardo alla cessione, la clausola di buona fede appare in effetti idonea a smussare più profili
critici. Questo valorizzando la circostanza (per sé,
definitoria della figura) che, nel concreto, la fuoriuscita del credito dal patrimonio del cedente av-
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meno nell’ipotesi la procedura lo solleciti in tale
senso) i documenti che vanno a sorreggere la sua
posizione (di cessionario in garanzia e, nel caso di
non insinuazione, di creditore del cedente).
viene cavendi causa: e quivi trova, dunque, non solo conformazione, ma pure ragion d’essere e limiti;
e utilizzando, inoltre, entrambe le due “sottocategorie” che - ormai “classiche” - la Cassazione consegna alla clausola di buona fede oggettiva: oltre
agli evidenti obblighi di informazione cioè, pure
quelli di salvaguardia, intesa come necessaria cura
dell’interesse altrui, nel limite del proprio interesse
meritevole di tutela.
Se non v’è dubbio che quest’ultima nozione lascia
aperti margini di “discrezionalità” ricostruttiva non
lievi, è però pure vero che a darle (maggior) corpo
soccorre la precisazione normativa dell’art. 1358,
esplicitando l’obbligo del cessionario di comportarsi in modo tale da “conservare integre” le ragioni
sul credito ceduto del cedente e quindi del fallimento di questi, massa degli “altri” creditori ricompresa.
Così in punto di gestione del credito ceduto, e così
in ordine ai tempi e ai modi di realizzazione dello
stesso prescelti dal cessionario, la clausola di buona
fede è senz’altro idonea a venire a incidere (20).
Sanzionando, in specie, trascuratezze e ritardi, inefficienze e scelte solo egoistiche (ovvero opportunistiche) del cessionario in punto di recupero del
credito ceduto in garanzia; e prima ancora, le omissioni e le inesattezze informative che questi compia (21). Peraltro, a ben vedere pure il semplice
fatto di un comportamento del cessionario, che vada in esecutivis nei confronti del cedente e insieme
permissivo o silente nei confronti del ceduto, potrebbe comportare - nella verifica e concorso di
tutte le circostanze della fattispecie concreta, naturalmente - una violazione dell’obbligo di buona fede oggettiva (22).
Ma la buona fede potrebbe (dovrebbe) venire altresì in campo anche in punto di riscontro dell’effettività del diritto del cessionario nei confronti
del ceduto. Nel senso che questi, quale creditore
garantito, dovrebbe in ogni caso mettere a disposizione della procedura fallimentare del cedente (anche se non si insinua nel relativo passivo e quanto
Anche a fianco dell’intervento di “alleggerimento”
in genere dalla clausola di buona fede, è possibile
ipotizzare altri tipi di intervento eteronomo: di vocazione non (in potenza, almeno) totalizzante,
bensì intesi a incidere in modo diretto e puntuale
su degli specifici e importanti vantaggi recati dalla
conformazione strutturale della cessione in garanzia.
Secondo quanto è effettivamente avvenuto in letteratura, del resto. Nel chiudere queste brevi note,
sembra allora opportuno rendere conto di due tentativi che sono stati promossi, in tempi non ancora
lontani, nella direzione appena indicata.
Il primo tentativo si sostanzia nell’affermare che,
nella cessione in garanzia, è ravvisabile “a carico
del cessionario un onere di preventiva escussione
del debitore ceduto”, sì che l’insinuazione al passivo del medesimo dovrebbe andare nel novero dei
creditori “condizionali” di cui all’art. 55, comma 3,
l.fall. E questo - si spiega - come conseguenza diretta dell’esistenza, nel nostro ordinamento, di un
“principio inderogabile, valevole per tutte le garanzie reali e codificato all’art. 2911 c.c. relativamente
a pegno, ipoteca e privilegio speciale, che il creditore garantito non possa aggredire beni del debitore diversi da quelli costituiti in garanzia, senza agire esecutivamente anche su questi ultimi” (23).
Il tentativo non convince, bisogna dire. La norma
dell’art. 2911 c.c. - quale che sia il raggio reale della sua applicazione - non pone nessun onere di preventiva escussione. Al più si potrebbe discorrere,
perciò, di necessaria contestualità della richiesta rivolta verso il ceduto con quella avanzata verso il
cedente (fallito o meno che sia). Ma anche in que-
(20) Al di là dello strumento dell’agire surrogatorio che - ricorrendone i presupposti - potrà essere utilizzato dagli altri creditori del cedente, nonché dal fallimento di questi. Sul punto v.
Trib. Milano 13 ottobre 1986, cit.; e App. Milano 31 ottobre
1989, in Giust. civ., 1990, I, 463.
(21) La stessa tipologia di discorso potrebbe essere ripetuto
- non è inutile segnalare - per altre fattispecie tipo per uno o
per altro verso in qualche modo (anche grossolano) accostabili
alla cessione in garanzia. Così, per fare un esempio, per la realizzazione del bene dato in leasing nel caso previsto dall’art. 72
quater l.fall.; ovvero pure, per indicare un altro caso, alla realizzazione della cosa data in pegno nell’ambito della disciplina
delle garanzie finanziarie (su quest’ultima fattispecie v., secon-
do un’ottica che fa molto meditare, l’ordinanza del Trib. Brescia 29 gennaio 2015, in www.ilcaso.it.
(22) In quest’ordine di idee, si potrebbe fors’anche giungere a sanzionare il comportamento del cessionario che conteggi
a carico della prestazione riscossa dal ceduto (anche) delle
spese eccessive e/o sproporzionate, che abbia posto in essere
per il recupero del credito medesimo.
(23) U. Stefini, La cessione del credito con causa di garanzia,
cit., 143 ss., 238 ss.; per il quale, di conseguenza, l’insinuazione dovrebbe avvenire come creditore condizionale (art. 55,
comma 3, l.fall.). Le osservazioni svolte nel testo confermano
invece che trattasi di insinuazione come creditore chirografario
semplice (A.A. Dolmetta - G. Portale, op. cit., 288).
il Fallimento 8-9/2016
Altri tentativi promossi per “smussare”
degli specifici vantaggi eccessivi
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sta diversa, e minore, dimensione, la tesi non persuade. In effetti, non è per nulla dimostrato che la
detta disposizione del codice civile ponga oneri e
preclusioni e non già semplici doveri. D’altro canto, neppure risulta chiaro dove andrebbe fissato il
comportamento verso il ceduto sufficiente per dirsi
rispettato quest’ipotetico onere (domanda giudiziale; semplice richiesta scritta; ecc.). Tanto più che,
molto agevolmente, la norma dell’art. 2911 c.c.
può essere ricondotta e inquadrata nell’alveo informante della buona fede (così da risolversi la stessa
nella più elastica figura eteronoma sopra richiamata).
A qualche anno più addietro risale l’altro tentativo
del quale occorre qui fare cenno. Tentativo che fa
specifico e puntuale riferimento all’attività di riscossione del credito verso il ceduto posta in essere
dal cessionario dopo l’avvenuta dichiarazione di
fallimento del cedente. Se il cessionario trattiene
le somme così riscosse, si assiste - si rileva - a una
“palese violazione” della norma dell’art. 44 l.fall.;
“l’effetto finale della cessione a scopo di garanzia ...
è la realizzazione ... di un atto solutorio estintivo
del credito”; il cessionario “realizza integralmente
... la propria pretesa creditoria ... fuori del concorso
fallimentare ... ne discende una radicale impossibilità a poter ammettere una tale forma di pagamento”. Tutto questo per concludere che “si deve piuttosto ... ritenere che il [cessionario] abbia l’obbligo
di mettere a disposizione ... del curatore del debitore fallito l’intera somma riscossa” (24).
Per quanto interessante e anche stimolante - specie
là dove (seppure per implicito) mette in evidenza
l‘effettiva problematicità della tenuta della figura
della cessione in garanzia in quanto tale -, a me pare che neppure questa tesi possa essere condivisa.
Sembra infatti che la stessa traduca la cessione in
garanzia in una sorta di mandato all’incasso, degradando una riscossione nomine proprio a una riscossione nomine alieno: passaggio che non pare corretto fare, a me sembra, se non dopo avere escluso la
validità in quanto tale della cessione; e sondando
allora l’eventualità di una “conversione” della medesima.
(24) B. Inzitari, La cessione del credito a scopo di garanzia:
inefficacia ed inopponibilità ai creditori dell’incasso del cessiona-
rio nel fallimento, nel concordato e nell’amministrazione controllata, in Banca, borsa, tit. cred., 1997, I, 153 ss.
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Cassazione Civile, Sez. I, 16 febbraio 2016, n. 2990 - Pres. Est. Nappi - P.M. Sorrentino (conf.)
- Banca Monte dei Paschi di Siena S.p.A. c. Silmar S.r.l., in liquidazione e in concordato preventivo
Concordato preventivo - Annullamento e risoluzione - Istanza di risoluzione - Rigetto - Reclamo - Decreto confermativo
- Ricorribilità ex art. 111 Cost. - Esclusione - Fondamento
(Cod. proc. civ. art. 739; Cost. art. 111; legge fallimentare artt. 15, 22, 137, 186; D.Lgs. 12 settembre 2007, n. 169 art.
17)
Il decreto con cui la Corte d’Appello, in sede di reclamo avverso il provvedimento di rigetto dell’istanza del
creditore di risoluzione del concordato preventivo, confermi il predetto diniego, non è impugnabile con ricorso ex art. 111 Cost., attesa la sua inidoneità a precludere una rinnovazione della richiesta da parte del medesimo reclamante o di altri creditori insoddisfatti, mancando i profili di definitività necessari per rendere ammissibile il ricorso straordinario.
La Corte (omissis).
Con il primo motivo la ricorrente denuncia la violazione della l.fall., artt. 171 e 177, art. 178, comma 4, artt.
180, 184 e 186, deducendo che erroneamente la corte
d’appello ha escluso l’inadempimento della società in
concordato, solo perché il commissario e liquidatore
giudiziale ha inteso contestare il credito.
Sostiene che, dovendo considerarsi riconosciuta l’entità
debito incluso nell’elenco dei creditori l.fall., ex art.
171, era onere della debitrice promuovere un giudizio
per l’accertamento dell’eventuale diverso ammontare
dell’esposizione debitoria.
Con il secondo motivo la ricorrente deduce omesso esame di un fatto decisivo per il giudizio, ex art. 360 c.p.c.,
comma 1, n. 5), lamentando che la corte non abbia tenuto conto che il credito vantato nei confronti della società in concordato era fondato su un decreto ingiuntivo divenuto definitivo, a seguito della declaratoria di
estinzione del relativo giudizio di opposizione.
Il ricorso è inammissibile.
Com’è noto, la l.fall., art. 186, u.c. - nel testo sostituito
dal D.Lgs. n. 169 del 2007, art. 17, qui applicabile ratione temporis, trattandosi di concordato promosso con domanda depositata dopo l’1 gennaio 2007 prevede che
nel procedimento di risoluzione del concordato preventivo si applicano, in quanto compatibili, le disposizioni
della l.fall., art. 137, in tema di risoluzione del concordato fallimentare.
Orbene, interpretando appunto la l.fall., art. 137 - nel
suo testo originario del 1942 -, le sezioni unite di questa
Corte hanno affermato che il decreto della corte d’appello, di rigetto della richiesta di risoluzione del concordato fallimentare, non è impugnabile per cassazione a
norma dell’art. 111 Cost., trattandosi di provvedimento
che non decide in via definitiva e diretta su un diritto
soggettivo del creditore, il quale, oltre a poter beneficiare dell’eventuale modifica o revoca del decreto, ha la facoltà sia di riproporre la sua richiesta sia di formulare
autonome domande di condanna nei confronti del fallito tornato in bonis, del garante del concordato o dell’as-
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suntore dello stesso (Cass. sez. un., 19 novembre 1996,
n. 10095; vedi anche Cass. 7 marzo 2003, n. 3499).
Ritiene il Collegio che, contrariamente a quanto sostenuto dalla ricorrente, questo orientamento permanga
fondato anche dopo la reiterata riforma della l.fall., art.
137 (prima con del D.Lgs. n. 5 del 2006, art. 124 e poi
con del D.Lgs. n. 169 del 2007, art. 9, comma 10), per
l’assorbente considerazione che, in forza del richiamo
alla l.fall., art. 15, il decreto di rigetto della richiesta di
risoluzione rimane reclamabile innanzi alla corte d’appello (in applicazione analogica della l.fall., art. 22, ovvero ex art. 739 c.p.c.), il cui eventuale decreto di rigetto del reclamo è inidoneo a precludere una rinnovazione della richiesta di risoluzione da parte del medesimo
reclamante ovvero di altri creditori insoddisfatti - esattamente come avveniva nel regime previgente -, senza
quindi che siano rinvenibili quei profili di definitività
del provvedimento, che soltanto rendono ammissibile il
ricorso straordinario per cassazione.
Né appare utile, per sostenere la tesi della ricorribilità
per cassazione, invocare la circostanza che, in caso di
accoglimento della domanda di risoluzione del concordato preventivo, la sentenza che - su istanza del creditore e in presenza dell’insolvenza - abbia contestualmente
dichiarato il fallimento dell’imprenditore in concordato,
ai sensi della l.fall., art. 137, comma 5, sia oggi espressamente soggetta a reclamo l.fall., ex art. 18 e poi a ricorso per cassazione. Infatti la scelta del legislatore di confermare la ricorribilità per cassazione soltanto delle sentenze che aprono la procedura concorsuale, appare coerente con i rilevati profili di retrattabilità e modificabilità del decreto che respinge le istanze di risoluzione o
di annullamento del concordato; gli stessi che ancora
oggi, per giurisprudenza consolidata, sono riscontrabili
nei provvedimenti di rigetto delle istanze di fallimento
l.fall., ex art. 22 (Cass. 9 ottobre 2015, n. 20297; Cass.
2 aprile 2015, n. 6683; Cass. 10 novembre 2011, n.
23478; Cass., sez. un., 7 dicembre 2006, n. 26181).
(omissis).
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Il regime dei provvedimenti sulla risoluzione
(e sull’annullamento) del concordato preventivo (e fallimentare)
di Fabrizio De Vita (*)
La sentenza della Corte di cassazione si pronunzia, negandola, sull’ammissibilità del ricorso
straordinario per cassazione avverso il decreto che rigetta la domanda di risoluzione del concordato preventivo, valutandone a tal fine la decisorietà e la definitività. Il provvedimento costituisce lo spunto per una ricostruzione, che considera anche le riforme recenti ed imminenti, di un
quadro complessivo del regime dei provvedimenti possibili sulle istanze di risoluzione e di annullamento, sia nel concordato preventivo, che in quello fallimentare.
La fattispecie
Una banca creditrice propone domanda di risoluzione del concordato preventivo per inadempimento agli obblighi concordatari, ai sensi dell’art. 186
l.fall.; per il doppio rinvio da questa disposizione
all’art. 137 l. fall. sulla risoluzione del concordato
fallimentare, e da quest’ultimo all’art. 15, il giudizio si svolge secondo il procedimento per la dichiarazione di fallimento.
Dunque, il Tribunale, ritenendo di dover respingere l’istanza, emana decreto motivato ai sensi dell’art. 22, comma 1, l.fall., avverso il quale, in virtù
dei commi successivi della medesima disposizione,
viene proposto reclamo alla Corte d’Appello, a sua
volta rigettato.
La creditrice propone ricorso per cassazione straordinario ai sensi dell’art. 111, comma 7, Cost., avverso il decreto della Corte d’Appello, che viene
dichiarato inammissibile con la sentenza che si
commenta.
Gli orientamenti consolidatisi in
applicazione della disciplina previgente
Nella disciplina originaria della l.fall., per il combinato disposto degli artt. 137, 138 e 186 c.p.c., la risoluzione e l’annullamento del concordato (sia fallimentare che preventivo) erano dichiarati, all’esito di un procedimento in camera di consiglio, con
sentenza non soggetta a gravame, con la quale il
tribunale disponeva anche la riapertura, nel caso di
concordato fallimentare, oppure la dichiarazione,
(*) Il contributo è stato sottoposto, in forma anonima, alla
valutazione di un referee.
(1) Basta richiamare, in proposito, Cass., SS.UU., 19 novembre 1996, n. 10095, in questa Rivista, 1997, 194; in Giust.
civ., 1997, I, 386; ed in Arch. civ. 1997, 392.
(2) Sull’istituto, in generale: R. Tiscini, Il ricorso straordinario
in cassazione, Torino, 2005, in particolare su queste condizioni
di ammissibilità, 101 ss.
938
nel caso di concordato preventivo, del fallimento;
pur in mancanza di disciplina espressa, era pacifico (1) che anche ai fini del rigetto dell’istanza occorresse seguire il procedimento in camera di consiglio, ma che la forma del provvedimento, in mancanza di una deroga espressa quale quella prevista
per l’accoglimento, fosse quella del decreto motivato ai sensi dell’art. 737 c.p.c., reclamabile alla Corte d’Appello ai sensi dell’art. 739 c.p.c.; posto che
questa disposizione esclude la reclamabilità dei decreti della Corte d’Appello che decidono sul reclamo, si era già posta la questione della ammissibilità
del ricorso straordinario per cassazione avverso il
provvedimento di conferma, in sede di reclamo,
del decreto di rigetto della domanda di risoluzione
del concordato.
Come noto, i presupposti della ricorribilità in cassazione in via straordinaria, ai sensi dell’art. 111,
comma 7, Cost., sono considerati la decisorietà e
la definitività del provvedimento non diversamente impugnabile (2).
Seppur raramente, la S.C., seguendo una linea interpretativa comune a parte della dottrina (3), aveva talvolta ritenuto che queste caratteristiche fossero proprie del decreto di conferma del rigetto
dell’istanza di risoluzione del concordato, e dunque
che il ricorso straordinario fosse ammissibile.
In una fattispecie (4), si era considerato il provvedimento come decisorio, perché non ha effetti meramente processuali, ma incide sulle posizioni di
diritto sostanziale derivate a favore dei creditori
dal concordato preventivo, che integra, oltre a un
(3) A. Bonsignori, Del concordato, in Commentario a cura di
Scialoja e Branca, Bologna-Roma, 1977, 519; P. Pajardi, Manuale di diritto fallimentare, 1998, 564; G. Ragusa Maggiore,
Istituzioni di diritto fallimentare, Padova, 1994, 537; F. Ferrara A. Borgioli, Il fallimento, Milano, 1995, 681.
(4) Cass. 6 settembre 1974, n. 2423, in Dir. fall., 1975, II,
530.
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processo, anche un regolamento a base negoziale di
tutte le passività dell’imprenditore; e come definitivo per il singolo creditore istante, il quale non
può riproporre una nuova istanza di risoluzione, se
non deducendo nuovi elementi a suo fondamento,
a nulla rilevando che gli organi fallimentari possano risolvere il concordato d’ufficio, non potendo il
creditore influire in modo determinante su tale
eventualità.
Più di recente, in un caso in cui l’istanza di risoluzione proveniva dal curatore, la S.C. (5) era arrivata alla medesima conclusione sulla base di argomentazioni simili: il provvedimento è decisorio
perché impedendo al fallimento di riottenere l’immediata disponibilità di beni, è astrattamente idoneo a produrre, in conseguenza di violazione di
norme giuridiche sostanziali, effetti negativi immediati nella sfera giuridica del fallimento; ed ha carattere definitivo, in quanto la questione dell’inadempimento del concordato forma oggetto di un
accertamento acquisito nell’ambito di una procedura a carattere contenzioso e suscettibile di determinare il giudicato.
Tuttavia, nelle giurisprudenza di legittimità, era
decisamente prevalente la linea per la quale il decreto con il quale il tribunale, o la Corte d’Appello, in sede di reclamo, rigetti l’istanza del creditore
per la risoluzione del concordato preventivo o fallimentare, e, di conseguenza, neghi l’apertura o riapertura del fallimento, non è impugnabile con ricorso per cassazione, a norma dell’art. 111 Cost.,
perché non incide in via sostanziale o definitiva
sui diritti del creditore, il quale può riproporre l’istanza di risoluzione e di fallimento, ovvero agire
in via ordinaria contro il fallito tornato in bonis ed
il garante od assuntore del concordato (6).
L’orientamento dell’inammissibilità, condiviso da
altra, più ampia, parte della dottrina (7) è stato poi
recepito anche dalle sezioni unite della S.C. (8),
sinteticamente secondo queste argomentazioni:
- nessun dubbio può sorgere quando la Corte d’Appello abbia accolto il reclamo, perché essendo (allora) il relativo provvedimento una sentenza, ancorché l’art. 137 l.fall. lo dichiarasse non soggetto
a gravame, era, per principio generale, sempre impugnabile per cassazione, ai sensi dell’art. 111
Cost.;
- per il decreto di rigetto, invece la natura di provvedimento definitivo, che possa, cioè, determinare
la formazione di un giudicato, deve essere esclusa:
non decide in via diretta e negativamente sulla
sorte di un diritto soggettivo, ma può incidervi soltanto indirettamente;
- l’inoppugnabilità non lede definitivamente il diritto del creditore, perché, anche prescindendo dalle possibilità di revoca o modifica del decreto, in
ogni caso la legge gli offre la possibilità, oltre che
di formulare ulteriori e successive richieste di risoluzione o di giovarsi di provvedimenti d’ufficio a
lui favorevoli, anche di proporre autonome domande di condanna nei confronti del fallito tornato in
bonis, del garante del concordato o dell’assuntore
dello stesso;
- quindi, il decreto non può acquisire contenuto
decisorio né carattere definitivo, né conseguire la
necessaria efficacia di giudicato;
- la potenzialità del provvedimento a decidere su
diritti soggettivi non può desumersi neppure da altri elementi e, in particolare, dalla natura anche
negoziale del concordato, che si evince dal fatto
che la conclusione dello stesso richiede un incontro di volontà tra il debitore e la maggioranza dei
creditori;
- non causalmente il legislatore ha attribuito ai
provvedimenti di accoglimento e di rigetto dell’istanza natura rispettivamente di sentenza e di decreto: col prevedere queste differenziazioni circa la
forma dei provvedimenti giudiziali, sembra abbia
voluto regolare diversamente l’impugnabilità dei
due provvedimenti, conferendo a quello di rigetto
il carattere di mero provvedimento di giurisdizione
volontaria, non impugnabile perché emesso nell’ambito di un procedimento che non investe una
questione da risolvere in via contenziosa; scegliendo di imporre al provvedimento di rigetto la forma
del decreto in luogo della sentenza, il legislatore ha
inteso privilegiare le esigenze della procedura concorsuale e gli elementi pubblicistici del concorda-
(5) Cass. 21 luglio 1993, n. 8140, in questa Rivista, 1994,
351, con nota critica di G. Marvulli, Revirement della cassazione in tema di provvedimenti decisori e definitivi.
(6) Cass. 20 settembre 1978, n. 4220, in Giur. it., 1979, I, 1,
602; Cass. 19 febbraio 1980, n. 1215, in Giur. comm., 1981, II,
433; ed in Dir. fall., 1980, II, 236; Cass. 13 marzo 1982, n.
1633, in questa Rivista, 1982, 632; Cass. 6 maggio 1982, n.
2838, in Dir. fall., 1982, II, 962; Cass 8 luglio 1985, n. 4068, in
questa Rivista, 1986, 34, riferita alla risoluzione del concordato
approvato a conclusione della l.c.a., come Cass. 11 luglio
1985, n. 4119, in Foro it., 1986, I, 1639; in Giust. civ., 1986, I,
1739; in Giur. it., 1986, I, 1, 1208; ed in Dir. fall., 1986, II, 34.
(7) S. Satta, Diritto fallimentare, Padova, 1996, 431; G.U. Tedeschi, Le procedure concorsuali, a cura di Tedeschi, I, II, Torino, 1996, 1259; Cuneo, Le procedure concorsuali. Natura, effetti, svolgimento, Milano, 1988, 1369; G. Marvulli, Revirement
della cassazione, cit., 357; L. Russo, La risoluzione e l’annullamento del concordato fallimentare, in questa Rivista, 1989, 213.
(8) Cass., SS.UU., 19 novembre 1996, n. 10095, cit.
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to, a scapito della natura indubbiamente negoziale
del suo supporto e, quindi, a danno della posizione
soggettiva dei creditori che ne chiedono la risoluzione;
- non ha rilevanza la circostanza che la modifica o
la revoca non sarebbero consentite se non quando
siano stati dedotti motivi differenti da quelli precedentemente rigettati, perché rilevante, per accertare la natura decisoria ed il carattere definitivo del
decreto, appare la sola possibilità di una sua revoca
o di una modifica, d’ufficio o su istanza di parte.
Successivamente, la Corte di cassazione (9), in un
caso in cui il rigetto dell’istanza di risoluzione era
stato pronunziato con sentenza, ha affermato che
solo il provvedimento che risolve il concordato fallimentare è una sentenza, impugnabile con il ricorso straordinario per cassazione ex art. 111 Cost.,
mentre, in caso di rigetto della richiesta di risoluzione del concordato, il tribunale deve pronunciarsi con decreto, reclamabile alla Corte d’Appello ex
art. 739 c.p.c.; quindi, ove il giudice erroneamente
pronunci il rigetto con sentenza, il mezzo di impugnazione contro la stessa esperibile non è il ricorso
straordinario per cassazione - il quale, se proposto,
deve essere dichiarato inammissibile - dovendosi
escludere, in relazione a questo provvedimento, la
definitività, vale a dire l’assenza di ogni rimedio
nell’ambito dell’ordinamento processuale. Inoltre,
secondo la Corte, alla medesima conclusione
avrebbe dovuto pervenirsi anche nell’ipotesi in cui
si fosse voluto riconoscere al provvedimento del
Tribunale non soltanto la forma, ma anche la natura della sentenza, perché in base alla regola generale di cui all’art. 339 c.p.c., le sentenze pronunciate in primo grado possono e debbono essere impugnate mediante l’appello, a meno che la legge non
lo escluda espressamente; poiché l’art. 137 l.fall.
esclude l’appello soltanto con riferimento alla sentenza di accoglimento dell’istanza di risoluzione (10), trattandosi di previsione eccezionale non
(9) Cass. 7 marzo 2003, n. 3499, in questa Rivista, 2003,
1292, con nota di R.Tiscini, Rigetto dell’istanza di risoluzione del
concordato in forma di sentenza; in Gius, 2003, 1458, ed in
Arch. civ., 2004, 89.
(10) Sulla quale v. R. Tiscini, Il ricorso straordinario in cassazione, cit., 261 s.
(11) Critica, su questo secondo punto: R. Tiscini, Rigetto
dell’istanza di risoluzione, cit., 1294 s.
(12) Sulla evoluzione normativa dei provvedimenti sulla risoluzione e l’annullamento del concordato preventivo: G. Lo
Cascio, Il concordato preventivo, Milano, 2008, 849 ss.
(13) Come la dottrina prevalente: v. L. D’Orazio, La risoluzione del concordato, in S. Pacchi (a cura di), Il concordato fallimentare. La disciplina nel nuovo diritto concorsuale: da mezzo
di cessazione del fallimento a strumento d’investimento, Milano,
940
suscettibile di esegesi estensiva od, ancor meno, di
applicazione analogica, non si sarebbe mai potuto
ricorrere direttamente alla Corte di cassazione contro la sentenza pronunciata dal Tribunale, ma si si
sarebbe dovuta dapprima impugnare davanti alla
Corte d’Appello (11).
Sulle attuali caratteristiche di definitività
e decisorietà del provvedimento di rigetto
La S.C. si pronunzia per la prima volta, sullo specifico punto, nel vigore della l.fall. riformata, facendo in parte propri, confermandoli, i principi che si
erano consolidati nella giurisprudenza riferita alla
disciplina previgente (12).
La sentenza in commento, infatti, anche alla luce
della l.fall. novellata, ritiene condivisibile la linea
dell’inammissibilità (13); tuttavia, lo fa secondo
una motivazione che, seppure implicitamente, è
parzialmente diversa rispetto a quella della giurisprudenza appena descritta, che richiama per condividerne le conclusioni.
I passaggi dell’iter argomentativo, relativi alla sussistenza dei presupposti per la ricorribilità ex art.
111. Cost., sono i seguenti:
- anche nell’interpretazione degli artt. 186 e 137
l.fall. riformati, si deve ritenere che il decreto di rigetto dell’istanza di risoluzione sia reclamabile alla
Corte d’Appello, in applicazione analogica dell’art.
22 l.fall., considerato che si segue il procedimento
per la dichiarazione di fallimento di cui all’art. 15,
ovvero ai sensi dell’art. 739 c.p.c., dal momento
che questo provvedimento è comunque emanato
in camera di consiglio;
- il decreto non ha il carattere della definitività,
perché continua a non precludere, come nella disciplina previgente, la riformulazione dell’istanza di
risoluzione, sia da parte del reclamante che di altri
creditori;
2008, 277; S. Filocamo, Commento art. 186, in M. Ferro (a cura di), La legge fallimentare. Commentario teorico-pratico. Decreto legislativo 12 settembre 2007, n. 169. Disposizioni integrative e correttive, Padova, 2008, 387 ss.; e, riferito al concordato
fallimentare: M. Fabiani, Il concordato fallimentare, in Trattato
di diritto fallimentare e delle altre procedure concorsuali, diretto
dal F. Vassalli - F.P. Luiso - E. Gabrielli, II, Il processo di fallimento, Torino, 2014, 1028 ss.; invece secondo A. Audino,
Commento art. 186, in Commentario breve alla legge fallimentare (e alle leggi sull’amministrazione straordinaria delle grandi imprese in crisi), a cura di A. Maffei Alberti, Padova, 2009, 1111,
l’impugnabilità in cassazione dovrebbe ritenersi consentita se
la riproposizione dell’istanza di risoluzione è preclusa dalla decorrenza del termine di decadenza.
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Diversamente rispetto ai precedenti conformi, la
Corte fonda l’inammissibilità del ricorso straordinario per cassazione, esclusivamente sulla carenza
di definitività e stabilità del provvedimento, senza
fare alcun cenno alla decisorietà, cioè alla sua incidenza effettiva su diritti soggettivi. Questa scelta,
perché tale sembra anche se non espressa, è pienamente condivisibile. Peraltro, seppure operata in
riferimento alla risoluzione del concordato preventivo, da un lato è estensibile anche al rigetto della
domanda di annullamento, dall’altro è valida anche nel concordato fallimentare.
Infatti, la mancata dichiarazione di risoluzione o di
annullamento del concordato, sia preventivo che
fallimentare, in realtà incide sui diritti soggettivi
dei creditori.
In primo luogo, ai fini dell’adozione di questo
provvedimento, il giudice deve valutare, nel contenzioso tra le parti, la sussistenza dei presupposti
di merito per la risoluzione o per l’annullamento
del concordato (14).
Ma soprattutto, poiché il rigetto dell’istanza determina la permanenza degli effetti del concordato
fallimentare o preventivo (15), incide inevitabilmente sul diritto soggettivo del creditore istante e
degli altri creditori cui questi effetti si estendono ai
sensi, rispettivamente, degli artt. 135 e 184 l.fall.:
si pensi, soprattutto, alla esdebitazione del debitore
o alla non revocabilità, in caso di fallimento successivo, degli atti compiuti in esecuzione del concordato preventivo (16).
Resta, invece, ineccepibile che il diniego della risoluzione o dell’annullamento del concordato, sia
preventivo che fallimentare, sia privo del carattere
della definitività.
Anche su questo punto, tuttavia, il percorso argomentativo della sentenza in commento è diverso
rispetto a quello proprio dei precedenti conformi,
riferiti alla disciplina previgente: la non definitività è dovuta solo alla permanenza del potere del
creditore istante e reclamante, nonché degli altri
creditori insoddisfatti, di rinnovare la domanda di
risoluzione, evidentemente, anche se la Corte non
lo dice espressamente, anche sulla base delle stesse
ragioni di fatto o di diritto; non viene più indicato,
come motivo della non definitività del provvedimento - forse necessariamente vista la sopravvenu-
ta disciplina generale degli effetti del concordato il potere del creditore di proporre autonome domande di condanna nei confronti del fallito tornato in bonis, del garante del concordato o dell’assuntore dello stesso.
Peraltro, la non definitività del provvedimento che
nega la risoluzione del concordato preventivo - già
certa, come correttamente sostenuto dalla Corte è stata posta definitivamente fuori discussione, nel
concordato preventivo, dalle recenti modifiche
dell’art. 185 l.fall., che hanno integrato la disciplina della fase di esecuzione, attribuendo nuovi poteri al commissario giudiziale ed al creditore finalizzati, attraverso un provvedimento del tribunale, a garantire l’effettivo adempimento.
Con le aggiunte effettuate dall’art. 3, comma 6,
D.L. 27 giugno 2015, n. 83, convertito in L. 6 agosto 2015, n. 132, l’art. 185 l.fall., ai commi 3 ss.,
chiarisce espressamente che il debitore è tenuto a
compiere ogni atto necessario a dare esecuzione alla proposta di concordato approvata e omologata,
ma soprattutto, prevede che:
- ove il commissario giudiziale rilevi che il debitore
non sta provvedendo al compimento degli atti necessari a dare esecuzione alla proposta o ne sta ritardando il compimento, deve senza indugio riferirne al tribunale;
-il tribunale, sentito il debitore, può attribuire al
commissario giudiziale i poteri necessari a provvedere, in luogo del debitore, al compimento degli
atti a questo richiesti;
- anche il soggetto che ha presentato la proposta di
concordato approvata e omologata dai creditori
può denunziare al tribunale i ritardi o le omissioni
da parte del debitore, mediante ricorso al tribunale
notificato al debitore e al commissario giudiziale,
con il quale può chiedere al tribunale di attribuire
al commissario giudiziale i poteri necessari a provvedere in luogo del debitore al compimento degli
atti a questo richiesti;
- salvo il potere di revoca dell’ammissione al concordato ai sensi dell’art. 173 l.fall., il tribunale,
sentiti in camera di consiglio il debitore e il commissario giudiziale, può revocare l’organo amministrativo, se si tratta di società, e nominare un amministratore giudiziario stabilendo la durata del suo
incarico e attribuendogli il potere di compiere ogni
(14) V., in generale sul tema: P. Lucantoni, La risoluzione e
l’annullamento del concordato fallimentare e preventivo: spunti
per una ricostruzione della disciplina, in Riv. dir. comm., 2009,
485; e G.B. Nardecchia, La risoluzione del concordato preventivo, in questa Rivista, 2012, 253.
(15) Sugli effetti del concordato preventivo v., da ultimo, M.
Fabiani, Causa del concordato preventivo e oggetto dell’omologazione, in Nuove leggi civ., 2014, 618 ss.
(16) Che questo provvedimento incida su diritti soggettivi,
ma sia privo della definitività, è affermato da R. Tiscini, Rigetto
dell’istanza di risoluzione, cit., 1294.
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atto necessario a dare esecuzione alla proposta (alcuni atti vengono anche individuati dalla norma).
Oggi (17), la definitività del provvedimento di
conferma, in sede di reclamo, del rigetto dell’istanza di risoluzione nel concordato preventivo, dunque l’ammissibilità del ricorso straordinario per cassazione avverso lo stesso proposto, è esclusa sia dal
potere di chiedere nuovamente la risoluzione, che
da quello del commissario giudiziale di provocare e
del creditore di chiedere la surroga del commissario
giudiziale finalizzata all’adempimento, ottenendo
eventualmente la nomina di un amministratore
giudiziario per l’esecuzione.
Sembra opportuno, infine, dar conto della probabile, imminente, evoluzione normativa della fase esecutiva del concordato preventivo: il d.d.l., frutto
del lavoro della Commissione ministeriale Rordorf,
recante la delega al Governo per la riforma delle
discipline della crisi di impresa e dell’insolvenza,
attualmente all’esame della Camera con il n. 3671
bis (risultante dallo stralcio del d.d.l. n. 3671), fra i
criteri della delega riferiti alla procedura di concordato preventivo, all’art. 6, comma 1, indica: “l)
prevedere una più dettagliata disciplina della fase
di esecuzione del piano..., con possibilità per il tribunale di affidare ad un terzo il compito di porre
in essere gli atti necessari all’esecuzione della proposta concordataria”; e “m) riordinare la disciplina
della revoca, dell’annullamento e della risoluzione
del concordato preventivo, prevedendo la legittimazione del commissario giudiziale a richiedere, su
istanza di un creditore, la risoluzione del concordato per inadempimento”.
Ebbene, l’eventuale ampliamento del potere del
tribunale di attribuire ad un terzo i poteri di esecuzione del concordato e la previsione della legittimazione del commissario giudiziale a chiederne la
risoluzione, contribuirebbero ancor più a comprimere la definitività del provvedimento di diniego
della risoluzione.
(17) Nei procedimenti di concordato preventivo introdotti
successivamente all’entrata in vigore della legge di conversione del D.L. 83 del 2015, vale a dire dopo il 21 agosto 2015, cui
si applicano le nuove disposizioni.
(18) Per una recente disamina generale del tema v., da ultimi: C. Delle Donne, I provvedimenti che decidono sull’istanza di
fallimento ed il loro regime di impugnazione, in Riv. es. forz.,
2015, 333 ss.; N. Rascio- C. Delle Donne, Le impugnazioni dei
provvedimenti che decidono dell’istanza di fallimento, in Trattato
delle procedure concorsuali, diretto da A. Jorio - B. Sassani, I,
Introduzione generale. Il fallimento. Presupposti-Processo-Organi, Milano, 2014, 551 ss.; C. Cecchella, Le impugnazioni, in
Trattato di diritto fallimentare e delle altre procedure concorsuali,
diretto da F. Vassalli - F.P. Luiso - E. Gabrielli, II, cit., 137 ss.; v.
anche Commendatore, Le ragionevoli garanzie della dichiarazione di fallimento: un modello di giusto processo camerale, in
942
Un quadro del regime dei provvedimenti
sull’istanza di risoluzione (e di annullamento)
La S.C., ad ulteriore sostegno dell’inammissibilità
del ricorso straordinario per cassazione, considera irrilevante che, in caso di accoglimento dell’istanza di
risoluzione del concordato preventivo, la sentenza
che dichiari il fallimento, su istanza del creditore e
sussistendo l’insolvenza, sia poi soggetta a reclamo
ex art. 18 l.fall., deciso con sentenza ricorribile per
cassazione; anzi, ritiene che la differenza di regime di
questa sentenza, rispetto al decreto di rigetto dell’istanza di risoluzione o di annullamento del concordato, sia coerente con (e giustificata dalla) retrattabilità e modificabilità del solo decreto di rigetto.
In proposito, la sentenza segnala, peraltro, come
queste caratteristiche siano proprie, altresì dopo la
riforma, del decreto di rigetto delle istanze di fallimento (18), secondo un principio costantemente
affermato dalla giurisprudenza di legittimità.
Il ricorso per cassazione straordinario, infatti, per
questo motivo è stato escluso:
- innanzi tutto, appunto, per il decreto di rigetto
del reclamo ex art. 22 l.fall., avverso il decreto del
tribunale che ha respinto l’istanza di fallimento (19);
- ma anche per il decreto con cui la Corte d’Appello, in sede di reclamo avverso il provvedimento
di rigetto dell’istanza del creditore di riapertura del
fallimento, conferma il diniego (20);
- ancora, contro il decreto con cui la Corte d’Appello ha respinto il reclamo avverso il rigetto della
domanda di estensione della procedura di amministrazione straordinaria al gruppo di imprese di cui
la società già ammessa alla procedura fa parte (21);
- inoltre, avverso il decreto della Corte d’Appello
che accoglie il reclamo contro la dichiarazione di
chiusura del fallimento e dispone la rimessione degli atti al tribunale per la riapertura della procedura (22).
questa Rivista, 2016, 5 ss.
(19) Cass. 9 ottobre 2015, n. 20297, in www.ilcaso.it; Cass.
2 aprile 2015, n. 6683, in DeJure; Cass. 10 novembre 2011, n.
23478, ivi; ed in Guida dir., 2012, 9, 52 (s.m.); Cass., SS.UU., 7
dicembre 2006, n. 26181, in Foro it., 2007, I, 1172. In proposito v. anche R. Tiscini, Il ricorso straordinario in cassazione, cit.,
130 ss.
(20) Cass. 19 giugno 2008, n. 16656, in Giust. civ., 2008,
2396.
(21) Cass. 19 marzo 2015, n. 5526, in DeJure.
(22) Cass. 14 dicembre 2006, n. 2683, in questa Rivista,
2007, 533, con nota di R. Tiscini, Il provvedimento della corte
d’appello reso in sede di reclamo contro la chiusura del fallimento ed il ricorso straordinario in cassazione; in Foro it., 2007, I,
1172; ed in Giust. civ., 2007, I, 879.
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In definitiva, il quadro del regime dei provvedimenti sull’istanza di risoluzione del concordato preventivo, riferibile anche a quelli sulla domanda di
annullamento ed altresì al concordato fallimentare,
che viene fuori dalla sentenza in commento è il seguente:
- il provvedimento di rigetto è reclamabile ai sensi
dell’art. 22 l.fall., ma il decreto reiettivo del reclamo non è ricorribile in cassazione;
- se all’accoglimento della domanda di risoluzione
o annullamento del concordato preventivo segue,
evidentemente su istanza del creditore o del p.m.,
la sentenza dichiarativa del fallimento, questa è reclamabile ai sensi dell’art. 18 l.fall. e la sentenza
emessa in sede di reclamo è ricorribile per cassazione; il medesimo regime caratterizza la sentenza che
risolve o annulla il concordato fallimentare e riapre il fallimento.
Tuttavia, la ricostruzione della S.C. non fa riferimento ad un’altra ipotesi che può verificarsi quando viene formulata una domanda di risoluzione o
di annullamento del concordato preventivo, vale a
dire il provvedimento di accoglimento (del tribunale e/o della Corte d’Appello in sede di reclamo),
cui non segue la dichiarazione (o la riapertura) del
fallimento, in mancanza dell’istanza del creditore o
del p.m. (23).
In proposito, va segnalato che, con un’ordinanza di
pochi giorni successiva alla sentenza in commento (24), la prima sezione civile della Corte di cassazione ha ritenuto opportuna la rimessione alle sezioni unite, per la soluzione del quesito se, in base
alla normativa attualmente in vigore, il diniego di
ammissione al concordato preventivo, senza che
sia intervenuta contemporanea o successiva dichiarazione di fallimento (25), sia ricorribile o meno
per cassazione, ai sensi dell’art. 111 Cost.; tanto
perché:
- attualmente il legislatore ha eliminato l’automatismo della declaratoria di fallimento, sia ove la proposta venga dichiarata inammissibile dal tribunale,
sia nell’ipotesi di mancata approvazione del concordato in sede di adunanza dei creditori, sia in caso di mancata omologazione, subordinandola ad
un’istanza di fallimento di terzi o del p.m. (26);
- tanto pone il problema se il provvedimento che
in sede di reclamo ha negato l’accesso al concordato rivesta le condizioni di decisorietà e definitività,
per essere suscettibile di ricorso per cassazione ex
art. 111 Cost., nel caso in cui non sia stata pronunciata sentenza di fallimento;
(23) Secondo S Ambrosini, La risoluzione e l’annullamento
del concordato, in Trattato di diritto fallimentare e delle altre procedure concorsuali, diretto dal F. Vassalli - F.P. Luiso - E. Gabrielli, IV, Le altre procedure concorsuali, Torino, 2014, 431 s.,
per la risoluzione del concordato preventivo e 434, per l’annullamento, nel silenzio della legge l’istanza è respinta con decreto, mentre se viene accolta e vi è contestuale richiesta di fallimento, a sua volta accolta, il tribunale si pronuncia uno actu
con sentenza; se l’istanza di fallimento è rigettata nonostante
la risoluzione o l’annullamento, si emanano due distinti decreti; infine, e soprattutto, se non è formulata l’istanza di fallimento, il tribunale si limita a dichiarare la risoluzione o l’annullamento con decreto, procedendo alla trasmissione degli atti al
p.m., ove sussistano indizi di insolvenza. V. anche, su questi
aspetti: G. Fauceglia, Esecuzione, risoluzione e annullamento
del concordato preventivo, in Fallimento e altre procedure concorsuali, diretto da G. Fauceglia - L. Panzani, 3, Concordato
preventivo. Accordi di ristrutturazione. Liquidazione coatta amministrativa. Amministrazione straordinaria. Profili internazionali.
Disciplina penale, fiscale, transitoria, Torino, 2009, 1769 ss.; Capo, Commento art. 186, in A. Nigro - M. Sandulli- V. Santoro (a
cura di), Il concordato preventivo e gli accordi di ristrutturazione
dei debiti. Commento per articoli, Torino, 2014, 552 ss.; nonché, da ultimo, sulla risoluzione e l’annullamento del concordato preventivo: F.P. Censoni, Il concordato preventivo, in Trattato delle procedure concorsuali, diretto da A. Jorio - B. Sassani, IV, Concordato preventivo. Liquidazione coatta amministrativa. Tutela dei diritti. Profili penali, Milano, 2016, 359 ss.
(24) Cass. 23 febbraio 2016, n. 3472, in D&G, 2016, 10, 43,
con nota di V. Papagni, Il diniego della proposta concordataria
è ricorribile per cassazione?; in www.ilfallimentarista.it, 24 febbraio 2016; ed ivi, 26 aprile 2016, s.m., con nota di M. Giorgetti - S. Nadin, Il carattere definitivo del provvedimento di inammissibilità del concordato preventivo.
(25) Per P. Sisinni, Commento art. 186, in A. Nigro - M. San-
dulli - V. Santoro (a cura di), La legge fallimentare dopo la riforma. Concordato preventivo e accordi di ristrutturazione. Liquidazione coatta amministrativa, III, Artt. 160-215. Disciplina transitoria, Torino, 2010, 2363, si potrebbe ritenere che il ricorso di
fallimento rimanga assorbito dall’istanza di risoluzione o di annullamento del concordato: l’Autrice richiama Trib. Roma 14
marzo 2007, in questa Rivista, 2007, 1205, con nota di G. Rago, La risoluzione del concordato preventivo, tra passato, presente e... futuro, riferita alla disciplina vigente tra le riforme del
2006 e del 2007, per la quale, dichiarata la risoluzione del concordato, sussistendone i presupposti potrebbe comunque dichiararsi il fallimento, posto che in applicazione dell’art. 186
non rileva la nuova formulazione dell’art. 6 sulla relativa istanza, “per essere la dichiarazione di fallimento all’esito di risoluzione del concordato preventivo comunque prevista dagli artt.
162, 163, 173, 186, norme sicuramente prevalenti sull’art. 6 se
non altro perché speciali”.
(26) Secondo Cass., SS.UU., 15 maggio 2015, n. 9935, in
Foro it., 2015, I, 2323, con nota di M. Fabiani, Di un’ordinata
decisione della Cassazione sui rapporti fra concordato preventivo
e procedimento per dichiarazione di fallimento con l’ambiguo
addendo dell’abuso del diritto, “in tema di concordato preventivo, quando in conseguenza della ritenuta inammissibilità della
domanda il tribunale dichiara il fallimento dell’imprenditore, su
istanza di un creditore o su richiesta del P.M., può essere impugnata con reclamo solo la sentenza dichiarativa di fallimento e l’impugnazione può essere proposta anche formulando
soltanto censure avverso la dichiarazione di inammissibilità
della domanda di concordato preventivo”. E per Cass. 20 maggio 2011, n. 11178, in DeJure, il provvedimento che, in sede di
reclamo, confermi il decreto con cui è stata dichiarata l’inammissibilità della proposta di concordato preventivo, mancando
dei caratteri di decisorietà su diritti soggettivi e di definitività,
non è impugnabile con il ricorso straordinario per cassazione.
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- non si può dubitare della decisorietà del provvedimento, perché resta preclusa la possibilità di dar
corso alla procedura concorsuale con tutte le conseguenze sulla situazione soggettiva del richiedente,
ma è dubbio il suo carattere definitivo, potendo sostenersi che, in ogni caso, non rimane preclusa per
l’interessato la possibilità di proporre una nuova
domanda di concordato;
- in mancanza di una argomentata pronuncia della
S.C. sul tema, la questione è di massima particolare importanza, poiché riguarda la definizione del
concetto di definitività, essendo da verificare se
corrisponda al principio costituzionale del giusto
processo, imporre al richiedente il concordato di
presentare una nuova domanda, dando così corso
ad una nuova ulteriore procedura, gravosa quanto
a tempi e costi, quando in sede di ricorso per cassazione sarebbe possibile decidere in ordine alla esistenza o meno del prospettato vizio di carattere
procedimentale e definire così la questione;
- in particolare, sembra rilevante precisare il concetto di definitività del provvedimento che pronuncia l’inammissibilità della proposta concordataria, in relazione alla circostanza se la detta definitività sussista anche qualora l’impugnazione avverso
la pronuncia in questione verta su vizi del procedimento concordatario in sé, che non investono direttamente la proposta concordataria in quanto tale, essendo a tale circostanza connessa l’ulteriore
944
questione se il proponente possa in caso ripresentare la medesima proposta concordataria o debba
presentarne comunque una diversa.
Infine, la Corte afferma che “in tale contesto apparrebbe chiarificatrice una valutazione comparativa delle diverse ipotesi” di diniego di accesso al
concordato preventivo che, in assenza di dichiarazione di fallimento, potrebbero dar luogo al ricorso
per cassazione ex art. 111 Cost., indicando espressamente (attraverso il richiamo delle rispettive disposizioni della l.fall.) l’inammissibilità della proposta, la revoca dell’ammissione al concordato, la
mancata approvazione e la negata omologazione
del concordato.
Ebbene, non sembra discutibile che anche le ipotesi di risoluzione e annullamento del concordato
preventivo, non seguite dalla dichiarazione di fallimento, siano equiparabili a quelle per le quali la
questione è stata rimessa alle sezioni unite: anche
in esse il debitore non può più avvalersi della procedura concordataria, ma può promuoverne una
nuova, quindi si pongono i medesimi dubbi sulla
definitività del provvedimento e, quindi, sull’ammissibilità del ricorso straordinario per cassazione.
Dunque, non resta che attendere la soluzione nomofilattica delle sezioni unite sulla questione più
ampia, per completare il quadro del diritto vivente
sul regime dei provvedimenti sulle istanze di risoluzione ed annullamento del concordato preventivo.
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Causa in concreto e fattibilità
Corte d’Appello di Firenze 2 novembre 2015 - Pres. G. De Simone - Rel. E. Monti - Costruzioni
S.r.l. in liquidazione contro Fallimento Costruzioni S.r.l. in liquidazione
Concordato preventivo - Ammissione - Procedimento - Causa in concreto - Fattibilità giuridica ed economica
(legge fallimentare artt. 160, 161, 162, 180)
La fattibilità, cui fa riferimento l’art. 161 l.fall., non può che essere quella economica, poiché il controllo sulla
“fattibilità giuridica” già rientra a pieno titolo nei compiti autonomi del giudice, senza alcuna necessità di riferirsi all’attestazione del professionista. Ne consegue che il giudice, costituendo la “fattibilità economica”, un
requisito di ammissibilità della procedura di concordato preventivo, deve esercitare un sindacato di merito
sulla stessa, diretto ad investire il suo oggetto per l’intero.
La Corte (omissis).
La portata del controllo di fattibilità demandato al giudice ha dato luogo ad un vasto dibattito interpretativo,
che non sembra tuttavia avere raggiunto un esito soddisfacente ed univoco. Sintomo evidente dell’ambiguità
che ancora permane in materia è la circostanza per cui,
tanto nel provvedimento impugnato, quanto nell’atto
di impugnazione della fallita, si cita la stessa giurisprudenza di legittimità per trarne conclusioni opposte. Nella sua espressione più recente, la Suprema Corte è
orientata a ritenere che “in tema di concordato preventivo,
la fattibilità del piano è un presupposto di ammissibilità della
proposta sul quale, pertanto, il giudice deve pronunciarsi
esercitando un sindacato che consiste nella verifica diretta
del presupposto stesso, non restando questo escluso dall’attestazione del professionista. Tuttavia, mentre il sindacato del
giudice sulla fattibilità giuridica, intesa come verifica della
non incompatibilità del piano con norme inderogabili, non
incontra particolari limiti, il controllo sulla fattibilità economica, intesa come realizzabilità nei fatti del medesimo, può
essere svolto solo nei limiti nella verifica della sussistenza o
meno di una assoluta, manifesta inettitudine del piano presentato dal debitore a raggiungere gli obiettivi prefissati, individuabile caso per caso in riferimento alle specifiche modalità
indicate dal proponente per superare la crisi mediante una
sia pur minimale soddisfazione dei creditori chirografari in
un tempo ragionevole, fermo, ovviamente, il controllo della
completezza e correttezza dei dati informativi forniti dal debitore ai creditori, con la proposta di concordato e i documenti allegati, ai fini della consapevole espressione del loro
voto” (massima da Cass. n. 11497/2014). A sommesso
avviso di questa Corte, tale impostazione distorce il dettato normativo e si rivela intrinsecamente illogica. La
locuzione “fattibilità giuridica” invero non sta nella legge, nasce dalla creatività dell’interprete al fine di sottrarre al giudice il potere/dovere di valutare la fattibilità
economica della proposta concordataria, ma a ben vedere si rivela un mostro semantico, una contradictio in
adiecto, come sarebbe l’omologo inverso di “giuridicità
fattuale”. L’aggettivazione per vero, non solo è testualmente arbitraria, ma si pone in antinomia col sostantivo. Per afferrarne compiutamente il significato, occorre
stabilire se il referente consista in un giudizio di diritto
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o di fatto. Nel primo caso, il composto lessicale diventa
sinonimo di legittimità, nel senso che è giuridicamente
fattibile ciò che è lecito, mentre non è fattibile ciò che
è illecito, ma allora l’espressione si risolve in innocua
stravaganza terminologica. Volgendosi al mondo dei fatti, invece, la qualificazione “giuridica” della “fattibilità”
diventa incongrua, essendo chiaro a chiunque che il
termine “fattibilità” denota la possibilità di mettere in
pratica un progetto, l’opportunità di tradurre un’idea in
fatto, senza assumere alcuna inflessione giuridica, anzi
contrapponendosi ad essa. Siccome in claris non fit interpretatio, resta da spiegare perché il supremo Collegio abbia inteso sradicare il concetto di fattibilità dal piano
fattuale (che gli è manifestamente congeniale) per trasportarlo sul piano del diritto (che gli è manifestamente
estraneo) attraverso un’aggettivazione incoerente. A
rendere più acrobatica sul piano ermeneutico l’operazione additiva è la constatazione per cui la fattibilità prevista dalla legge non risponde ad una valutazione originaria del giudice, bensì al controllo della valutazione proveniente dal professionista designato dal proponente,
che, all’evidenza, non attesta la fattibilità giuridica del
piano concordatario, ma proprio la “fattibilità fattuale”,
ovvero la fattibilità economica. Del resto, se, come predica la Corte regolatrice, il requisito della fattibilità costituisce un requisito di ammissibilità della procedura
sul quale il giudice deve esercitare un sindacato diretto
di merito, allora non si capisce perché il controllo dovrebbe rinunciare ad investire il suo oggetto per l’intero, degradandosi a livello di “assoluta e manifesta inettitudine del piano a raggiungere gli obiettivi prefissati”. Siccome
l’ambito del controllo non può logicamente divergere
da quello del controllato, adottare uno spettro valutativo minorato o parziale rispetto al bersaglio significa abdicare dal compito assegnato dalla legge. Se il giudice
deve sincerarsi della fattibilità attestata dal professionista, è chiaro che si tratta appunto della fattibilità economica, giacché questa e soltanto questa compete all’asseveratore, mentre la cosiddetta “fattibilità giuridica”,
intesa come “non compatibilità con norme inderogabili”,
già rientra a pieno titolo nei compiti autonomi del giudice, senza alcun bisogno di ricollegarsi ad eventuali
opinioni professionali. La spiegazione dell’arcano si lega
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probabilmente alla scomparsa della valutazione d’ufficio
della convenienza economica del concordato, rimessa
dalla riforma alle sovrane determinazioni del ceto creditorio. Questo ha fatto supporre che la buona riuscita del
piano sia una faccenda di convenienza, ma non è così.
Un progetto in teoria convenientissimo potrebbe rivelarsi in pratica irrealistico, ovvero destinato a fallire,
mentre un progetto non conveniente potrebbe essere
facilmente realizzabile. A norma di legge, il giudice dovrebbe ammettere il secondo, se approvato di creditori,
ma non il primo, anche se approvato dai creditori. D’altra parte, un progetto non fattibile risulta all’evidenza
sconveniente, il che stende sulla fattibilità un velo di
convenienza, ma non autorizza a confondere i due
aspetti. Per dirimere l’interferenza, conviene muove dall’osservazione per cui omologare un concordato non
eseguibile comporta un’inutile perdita di tempo, equivale a far avanzare un percorso processuale ad epilogo nefasto. Un concordato che non si esegue va risolto, dunque è controproducente omologarlo. Appunto per questo, avendo tolto all’ufficio la valutazione di meritevolezza e di convenienza, il legislatore ha pensato bene di
lasciare al giudice un controllo basilare sulla fattibilità
della definizione dell’insolvenza proposta dal debitore,
che potrà essere in sé più o meno conveniente, come
giudicheranno i creditori in piena coerenza con la fisionomia negoziale dell’operazione concordataria, ma che
comunque non deve andare avanti se non è concretamente fallibile. (omissis) Si dirà che la probabilità di
adempimento è “intrisa di valutazioni prognostiche fisiologicamente opinabili” (Cass. n. 11497/2014), sicché è ragionevole che siano i creditori a valutare anche quella, ma
non si potrà negare la diversità del parametro rispetto a
quello della convenienza, di ordine per così dire secondario in vista del risultato: se il progetto è fattibile, se
ne può valutare la convenienza; se non è fattibile, è
pleonastico valutare la convenienza che avrebbe potuto
avere. La graduazione tra i due aspetti suggerisce di mettere tra l’uno e l’altro un filtro preliminare indipendente (d’ingresso ex art. 162 l.f. o di avanzamento ex art.
180 l.f.), tanto più nel timore che il vaglio dei creditori
possa essere superficiale, come non di rado accade nel
nuovo meccanismo di approvazione per silenzio assenso,
il quale innalza enormemente i rischi della noncuranza
dei chiamati a votare. (omissis) La presente vicenda offre un esempio eclatante d’inconsistenza della volontà
negoziale, che invero, se fosse genuina, non potrebbe
definirsi altro che masochistica. La difesa reclamante
sbandiera la percentuale quasi totalitaria (97,89%) delle
adesioni ottenute dalla proposta concordataria, dolendosi che sia stata vanificata dal diniego del Tribunale,
ma i numeri dicono che l’approvazione dipende soltanto dal non voto (euro 1.015.369,91), giacché le adesioni esplicite favorevoli (euro 20.234,31) sono state addirittura inferiori a quelle esplicitamente contrarie (euro
22.307,42). In sintesi, l’effettiva manifestazione di volontà negoziale sta attorno al 2% degli aventi dritto, il
resto è presunto dagli automatismi procedurali. La frequenza delle situazioni del genere consiglia prudenza
nel mitizzare la volontà negoziale, e, del resto, non è
946
nemmeno vero che la novella abbia espropriato il giudice da ogni valutazione al riguardo, dal momento che, in
certi limiti, anche in presenza di creditori dissenzienti,
che “contestano la convenienza della proposta, il tribunale
può omologare il concordato qualora ritenga che il credito
possa risultare soddisfatto dal concordato in misura non inferiore rispetto alle alternative concretamente praticabili” (art.
180 comma 4 l.f.). Questo significa che, almeno in certa misura, il giudice può sopperire con una valutazione
di convenienza propria a quella espressamente contraria
dei creditori, sicché specularmente non si vede perché
dovrebbe subire una volontà negoziale ottimisticamente
presunta che sia foriera soltanto di delusioni. Ma, come
si diceva, la fattibilità non afferisce alla convenienza,
afferisce alla probabilità basilare di adempimento della
proposta. Sarebbe assurdo mandare avanti un concordato che, sebbene conveniente a parole, non in grado di
soddisfare le promesse nei fatti. Onde evitare che questo
accada, dopo aver concesso il massimo spazio all’autonomia contrattuale nella fase genetica del patto concordatario, la legge lascia al Tribunale un potere basilare di
blocco in prospettiva funzionale. La sovranità dei creditori nella stima della convenienza idealmente non confligge col potere del giudice di fermare un concordato
non seriamente eseguibile: se sta bene ai creditori, nulla
osta ad ammettere una proposta poco conveniente, purché sia davvero fattibile. Quando il requisito primario
manca, diventa inutile avallare una sistemazione concordataria destinata a dissolversi in uno spreco di energie processuali. Tenere nelle mani del Tribunale la valutazione della fattibilità economica non significa quindi introdurre una surrettizia valutazione di convenienza,
di cui restano padroni i creditori, significa salvaguardare
lo scopo essenziale della procedura concorsuale. In assenza di una seria prospettiva di adempimento del concordato, la crisi d’impresa non viene definita, ma soltanto procrastinata e questo non si può ammettere. Ecco perché il giudice, privato del ruolo di garante della
convenienza, deve restare garante della fattibilità, intesa
come nucleo essenziale, come zoccolo duro, della prognosi di adempimento. Non a caso, il professionista designano dal debitore è tenuto ad esprimersi ex art. 161
l.f. sulle modalità e sui tempi “di adempimento” della
proposta: in questo consiste appunto la fattibilità e questo è quello che a norma dell’art. 180 l.f. il giudice deve
verificare al momento dell’omologa, in modo che la
procedura non sia puramente defatigatoria. La stessa
norma, del resto, laddove consente ai creditori dissenzienti di contestare il pino solo in punto di “convenienza”, presuppone che quanto meno la fattibilità sia garantita dal controllo del giudice. Ciò che non è fattibile
non ha speranza di tradursi in realtà, sicché il controllo
demandato all’ufficio si pone ad un livello davvero minimale, tende a garantire il “non adempimento sicuro”,
scatta alla prognosi nefasta, mentre lascia ai creditori la
formulazione della prognosi fausta, ovvero la valutazione del rischio fisiologico d’inadempimento. Viceversa,
degradando il riscontro giudiziale a livello di una malintesa “fattibilità giuridica”, lungi dal tutelare la volontà
contrattuale del ceto creditorio, si finisce per aprire le
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porte alle proposte di concordato inconsistenti, per arginare le quali il legislatore, con la recentissima legge n.
132/2015, ha ritenuto opportuno reintrodurre una soglia
obbligatoria minima del 20% per la soddisfazione dei
chirografari. La scelta, purtroppo, torna a limitare l’autonomia negoziale e smorza la flessibilità dell’originario
disegno sistematico, rimasto sostanzialmente incompreso. Benvenute erano le proposte al 5% se preferibili alla
soluzione fallimentare, ma occorreva che fossero davvero fattibili e non soltanto enunciate. (omissis) Di per sé,
e tanto più col suffragio della valutazione negativa
espresse del commissario giudiziale, ciò rende ragione
della decisione del Tribunale, che ha ritenuto il concor-
dato incapace di soddisfare la propria causa concreta.
Va pertanto confermata la dichiarazione di fallimento.
(omissis).
P.Q.M.
la Corte d’Appello di Firenze (omissis)
Conferma
la sentenza n. 19/2015 dichiarativa di fallimento della
Costruzioni S.r.l., emessa dal Tribunale di Livorno il 9
marzo 2015.
(omissis).
Le (impercettibili) correzioni della Corte di cassazione in tema
di causa del concordato preventivo
di Federico Casa (*)
Dopo la sentenza a Sezioni Unite del gennaio del 2013, nella quale la Suprema Corte teorizzava
la nota (e netta) distinzione tra la valutazione della fattibilità economica, demandata ai creditori,
e lo scrutinio sulla fattibilità giuridica, rimesso al tribunale, negli anni successivi la Corte di cassazione iniziava a proporre alcune correzioni al proprio orientamento, dapprima irrilevanti e sfumate, ma via via sempre più sicure e delineate, sia attraverso la verifica della causa in concreto
del concordato, sia tramite l’analisi (di “secondo grado”) del piano attraverso la relazione di attestazione, tanto che non appare oggi più così agevole descrivere la natura del controllo del tribunale sulla fattibilità economica.
Il percorso argomentativo proposto dalla Corte
d’Appello di Firenze nella sentenza oggetto di commento, che conferma il provvedimento del tribunale di Livorno e il fallimento della ricorrente,
non è di difficile comprensione; lo sviluppo del ragionamento dei Giudici d’appello è senza dubbio
articolato, non banale, in alcuni passaggi forse anche condivisibile, sicuramente suggestivo, anche
perché sostenuto a partire da una premessa di carattere filosofico, di natura epistemologica a voler
essere puntuali, avallata da argomenti scopertamente (“referente”, “denotare”) tratti dalle indicazioni della filosofia analitica di formazione anglofona, affermatisi nella filosofia giuridica italiana nella
seconda metà del secolo scorso grazie agli studi di
Norberto Bobbio e di Uberto Scarpelli (1).
Ciò nonostante, se la sentenza parrebbe comunque
criticabile sotto alcuni punti di vista, a ben vedere,
essa s’inserisce, come vedremo, in un filone giurisprudenziale, che può dirsi oggi quasi maggioritario,
quantomeno nella giurisprudenza di merito; certo, i
Giudici di Firenze non argomentano a partire dalla
“causa in concreto” del concordato, ma la proposta
di uno scrutinio profondo e accurato sul piano di
concordato da parte del tribunale non è orientamento che oggi possa essere considerato isolato. La
Corte d’Appello intende confutare sia il concetto
di “fattibilità economica”, sia quello di “fattibilità
giuridica”, sia in ultima analisi la loro distinzione,
così come proposta dalla S.C. (2), declinati entrambi nell’intento di ripristinare un approfondito
(*) Il contributo è stato sottoposto, in forma anonima, alla
valutazione di un referee.
(1) Cfr. N. Bobbio, Giusnaturalimo e positivismo giuridico, Milano, 1965; U. Scarpelli, Cos’è il positivismo giuridico, Milano,
1965.
(2) Si tratta della sentenza della Cass., SS.UU., 23 gennaio
2013, n. 1521, in questa Rivista, 2013, 149-155, oggetto di nu-
merosi commenti e contributi; si veda, senza pretesa di esaustività, L. Abete, La struttura contrattuale del concordato preventivo: riflessioni a latere della sentenza n. 1521 /2013 delle
Sezioni Unite, in Dir. fall., 2013, I, 1871; C. Alessi, Autonomia
privata nel concordato preventivo e ruolo del tribunale, in Giur.
comm., 2014, II, 443-460; L. Balestra, Brevi riflessioni sulla fattibilità del piano concordatario: sulla pertinenza del richiamo da
Gli scostamenti della Corte d’Appello
di Firenze; eppure una sentenza quasi
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controllo del tribunale sull’attuabilità del piano. In
altri termini, seppure in modo un po’ schematico e
forse eccessivamente frettoloso, il collegio fiorentino si appropria bruscamente di alcune sofferte indecisioni della Corte di cassazione a Sezioni Unite
del gennaio 2013 e finisce per ripercorrere, anche
se non del tutto consapevolmente, due delle tre
vie ideal-tipiche, utilizzate dalla giurisprudenza di
merito e ormai anche da quella di legittimità, dopo
l’emanazione della suddetta attesa pronuncia, per
evitare che il controllo sulla “fattibilità” del piano
rimanga attratto alla sfera di valutazione del ceto
creditorio, ritenuto il più delle volte disinteressato
all’andamento del concordato, troppo spesso detentore di informazioni asimmetriche.
Sia allora consentito indicare lo sviluppo del presente contributo attraverso gli itinerari seguiti dalla
giurisprudenza anche di legittimità e dalla dottrina,
nell’intento, nemmeno troppo dissimulato, di “disinnescare” una decisione che “dovrebbe consentire, quantomeno in thesi, il definitivo superamento
di interpretazioni scopertamente “retroguardiste” e
confliggenti con il tenore letterale e - se possibile
ancora più - con la ratio della disciplina quale evolutasi dal 2005 a oggi” (3). Alla prima via, paradossalmente la più battuta, della quale discuteremo
nell’ultimo paragrafo del presente contributo, la
Corte d’Appello non mostra di prestare troppa at-
tenzione; all’idea, in altri termini, sicuramente
autorizzata da un passaggio non troppo lineare delle Sezioni Unite (4), secondo la quale nell’ambito
di una domanda di concordato il tribunale debba
valutare non solo la “causa in astratto”, intesa come la funzione economico-sociale del tipo concordato, e cioè l’idoneità del contenuto del ricorso a
regolare la crisi, ma anche la “causa in concreto”,
indicata dalla Corte come l’effettiva attitudine di
quella particolare proposta ad assicurare ai creditori
una soddisfazione almeno “minimale”. Come vedremo, la verifica pertanto dell’esistenza della
“causa in concreto” costituisce il viatico per la disamina della “fattibilità economica” del piano. Il
secondo percorso è quello accreditato in parte anche dalle Sezioni Unite, il quale consente di riempire di significato la “fattibilità giuridica” attraverso la “causa in concreto” del procedimento di concordato (5); lungo tale crinale interpretativo, compiere un passo ulteriore è facile. Se spetta al tribunale la disamina della “fattibilità giuridica”, con essa intendendosi l’effettiva possibilità di attuare secundum legem il programma negoziale, è abbastanza
sicuro che occorra anche valutare la realizzabilità
del progetto imprenditoriale. La terza via, che analizzeremo nel prossimo paragrafo, affonda anch’essa
le proprie radici nella giurisprudenza di legittimità (6) formatasi in tema di concordato preventivo,
parte delle Sezioni Unite alla causa in concreto, in Corr. giur.,
2013, 383; P.F. Censoni, I limiti del controllo giudiziale sulla
“fattibilità” del concordato preventivo, in Giur. comm., 2013, II,
343-395; F. De Santis, Causa “in concreto” della proposta di
concordato preventivo e giudizio “permanente di fattibilità”, in
questa Rivista, 2013, 279-286; A. Didone, Le Sezioni Unite e la
fattibilità del concordato preventivo, in Dir. fall., 2013, II, 1 ss.;
per il rapporto tra “fattibilità giuridica” e “causa in concreto”
del concordato, occorre vedere A. Di Majo, Il percorso “lungo”
della fattibilità del piano proposto nel concordato, in questa Rivista, 2013, 291-293; M. Fabiani, La questione “fattibilità” del
concordato preventivo e la lettura delle Sezioni Unite, in questa
Rivista, 2013, 156-168; M. Ferro, Sub art. 161 l.fall., in M. Ferro, (a cura di), La Legge fallimentare. Commentario teorico-pratico, Padova, 2014, 2130-2132; G. Lo Cascio, Concordato preventivo: natura giuridica e fasi giurisprudenziali alterne, in questa Rivista, 2013, 530-534, il quale evidenzia come “l’assenza
della causa è cosa ben diversa dalla fattibilità del piano, perché l’assenza della prima riguarda un difetto genetico della
proposta del debitore mentre il piano costituisce l’insieme delle attività che devono essere assunte durante la realizzazione
del programma concordatario”; G.B. Nardecchia, La fattibilità
del concordato al vaglio delle sezioni unite, in Dir. Fall., 2013, II,
189; con maggiore entusiasmo I. Pagni, Il controllo di fattibilità
del piano di concordato dopo la sentenza 23 gennaio 2013 n.
1521: la prospettiva funzionale aperta dal richiamo alla causa
concreta, 2013, 286-290; come sempre di particolare interesse
L. Panzani, I nuovi poteri autorizzativi del tribunale e il sindacato
di fattibilità del concordato, in Società, 2013, 574; puntuale P.
Vella, L’affinamento della giurisprudenza di legittimità dopo le
Sezioni Unite sulla “causa concreta” del concordato: ha ancora
senso la distinzione tra fattibilità giuridica ed economica, in que-
sta Rivista, 2015, 438-447; G. Vettori, Fattibilità giuridica e causa concreta nel concordato preventivo, in Contr. e impr., 2013,
1203 -1214; V. Zanichelli, Il sindacato del tribunale sui tempi di
esecuzione del concordato preventivo, ivi, 2015, 825-834; nonché, last but not least, i Lavori dell’autorevole Seminario della
Rivista Giurisprudenza commerciale, con interventi di Bassi Calandra Buonaura - Cicotti - Costi - Di Cataldo - Ferraro Gambino - Jorio -Montalenti - Nigro - Sacchi - Terranova, in
Giur. comm., 2014, I, 215-247.
(3) Categorico S. Ambrosini, Il concordato preventivo, in F.
Vassalli - F.P. Luiso - E. Gabrielli (diretto da), Le altre procedure
concorsuali. Trattato di diritto fallimentare e delle altre procedure
concorsuali, IV, Torino, 2014, 236.
(4) Affermano le Sezioni Unite: “il margine di sindacato del
giudice sulla fattibilità del piano va stabilito, in via generale, in
ragione del contenuto della proposta e quindi della identificazione della causa concreta del procedimento nel senso sopra
richiamato”; cfr. Cass., SS.UU., 23 gennaio 2013, n. 1521, cit.,
152.
(5) Rientra nell’ambito “del controllo del tribunale l’impossibilità giuridica di dare esecuzione (sia pure parziale) alla proposta di concordato (...) ovvero la rilevazione del dato, se emergente “prima facie”, da cui poter desumere l’inidoneità della
proposta a soddisfare in qualche misura i diversi crediti rappresentati, nel rispetto dei termini di adempimento previsti”; si
veda Cass., SS.UU., 23 gennaio 2013, n. 1521, cit., 152.
(6) Prima degli interventi del legislatore che si sono succeduti a partire dal 2005 la giurisprudenza di legittimità era quasi
interamente orientata a ritenere che la proposta dovesse garantire la “quasi certezza” che i creditori fossero soddisfatti
nella misura prevista; tra le tante, cfr. Cass. 28 luglio 1989, n.
3527, in questa Rivista, 1990, 263.
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Occorre allora prendere le mosse dall’itinerario
argomentativo proposto dalla Corte d’Appello di
Firenze: siccome il testo dell’art. 161 l.fall. è sufficientemente esplicito e il concetto di “fattibilità
giuridica”, risultato del formante giurisprudenziale, è essenzialmente una “contradictio in adiecto”,
non resta che concentrare l’attenzione dell’interprete sulla “fattibilità economica”, definizione
che costituisce il “reale” significato ermeneutico
del termine “fattibilità”, utilizzato dal legislatore
fallimentare nella novella del 2005. D’altro canto, prosegue il Collegio fiorentino, se è la stessa
giurisprudenza di legittimità a spiegare che il sindacato di legittimità debba vertere anche sulla relazione di attestazione (9), non si comprende come si possa controllare l’operato del perito attestatore, senza soppesare la “fattibilità economica”
stessa del piano, soprattutto considerato, ed è
questo lo snodo cruciale dell’argomento proposto
dai Giudici fiorentini, che la valutazione sulla
fattibilità del piano è prima di tutto un giudizio
di ammissibilità, il quale, come tale, non può non
spettare al tribunale (10). A ben vedere, incalza
la Corte d’Appello, è vero che spesso il giudizio
di “fattibilità economica” è intriso di “valutazioni
prognostiche fisiologicamente opinabili”, non
sempre di facile decodificazione da parte di un
tribunale, anche molto esperto, eppure è altrettanto sicuro, osservando la questione dalla prospettiva del ceto creditorio, che non solo non si
possa attribuire alcun significato al silenzio, quasi
sempre indifferente dei creditori, ma anche che,
seguendo pedissequamente l’insegnamento della
Corte di cassazione a Sezioni Unite, si finisce per
non apprezzare correttamente il giudizio di “convenienza”, il cui presupposto logico è evidentemente la valutazione di “fattibilità” del piano
concordatario (11). In altri termini, chiosa il Collegio fiorentino, non c’è alcuna discussione in ordine alla considerazione che oggi il giudizio di
convenienza spetti ai creditori, ma ciò non signi-
(7) “Il giudice (...) deve certamente esercitare sulla relazione
del professionista attestatore un controllo concernente la congruità e la logicità della motivazione anche sotto il profilo del
collegamento effettivo tra i dati riscontrati ed il conseguente
giudizio”; si veda Cass., SS.UU., 23 gennaio 2013, n. 1521,
cit., 153.
(8) Cfr. Cass., SS.UU., 23 gennaio 2013, n. 1521, cit., 152.
(9) L’affermazione è ricorrente anche nella giurisprudenza
della Corte di cassazione che si è esercitata sulla questione
della “fattibilità” successivamente all’insegnamento delle Sezioni Unite del gennaio 2013; si veda Cass. 23 maggio 2014,
n. 11497, con nota di R. Amatore, Gli incerti limiti del sindacato
giudiziale in tema di fattibilità del piano, in questa Rivista, 2014,
1324-1336; cui fa espresso riferimento la Corte d’Appello di Firenze, secondo la quale “la S.C. esamina ragioni di probabile
insuccesso del concordato”; nonché Cass. 30 aprile 2014, n.
9541, in www.cassazione.it; Cass. 25 settembre 2013, n.
21901, in Mass. Giust. civ., 2013.
(10) Ci pare che in tal modo la Corte d’Appello di Firenze si
discosti da un proprio orientamento, abbastanza consolidato,
nel quale il controllo in ordine alla fattibilità del piano spetta,
senza particolari riserve, ai creditori; cfr. App. Firenze 27 febbraio 2014, in www.ilcaso.it, pubb. 4 marzo 2013; App. Firenze
10 febbraio 2014, in www.ilcaso.it, pubb. 17 febbraio 2014.
(11) Qui risultano più forti non solo gli echi di Cass. 15 settembre 2011, n. 18864, in questa Rivista, 2012, 36-42, con no-
ta particolarmente perspicua di A. Patti, La fattibilità del piano
nel concordato preventivo tra attestazione dell’esperto e sindacato del tribunale, 42-50; giudizio invece non lusinghiero quello
di M. Fabiani, I disorientamenti nella nomofilachia a proposito
della fattibilità del concordato preventivo e della cessione dei beni, in Foro it., 2012, I, 136; meno critico e più propenso a riconoscere una continuità con le precedenti sentenze di legittimità che avevano escluso un controllo di fattibilità del tribunale,
L. Salvato, Osservazioni a App. Genova 23 dicembre 2011, in
questa Rivista, 2012, 437-449; contigua a quest’ultima lettura
l’ordinanza di rimessione degli atti al Primo Presidente, cfr.
Cass. 15 dicembre 2011, in Corr. giur., 2012, 2, 229. Ma risuonano anche alcune difficoltà di Cass. 25 ottobre 2010, n.
21860, in questa Rivista, 2011, 167, ove il concetto di “fattibilità” pare effettivamente confondersi con quello di “convenienza”, nonostante la diversa autorevole lettura di G. Bozza, Il sindacato del tribunale sulla fattibilità del concordato preventivo,
ivi, 183-191, il quale, anche dopo le novelle del 2005-2007, ribadiva la necessità che il controllo del tribunale venisse esercitato sulla relazione di attestazione, in modo da sindacare indirettamente anche il piano, così attribuendo un particolare significato alla circostanza che al tribunale permane in ogni caso
il potere di sindacare la relazione di attestazione, secondo il
principio iudex peritus peritorum; nel senso del testo invece M.
Fabiani, Per la chiarezza delle idee su proposta, piano e domanda di concordato preventivo e riflessi sulla fattibilità, ivi, 172 ss.
ancor prima delle novelle del 2005 e del 2007, ma
che, almeno expressis verbis, le Sezioni Unite non
hanno confutato fino in fondo (7); essa si regge sul
convincimento che, siccome la relazione di attestazione rappresenta un requisito di ammissibilità della proposta, è difficile immaginare una lettura della
stessa separata dalla comprensione del piano. In
questo modo la verifica di ammissibilità diventa
necessariamente un esame di merito del piano attraverso la “lente d’ingrandimento” rappresentata
dalla relazione di attestazione, anche detto questo
controllo di “secondo grado”, dal momento che la
Corte fa riferimento alla “delibazione in ordine alla
correttezza delle argomentazioni svolte e delle motivazioni addotte dal professionista a sostegno del
formulato giudizio di fattibilità del piano, così come analogamente deve dirsi per la coerenza complessiva della conclusioni finali prospettate” (8).
La genesi di un controllo di “secondo grado”,
in ossequio ai “bei tempi passati”;
comprensibili nostalgie e alcune imprecisioni
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fica che il Giudice debba abdicare alla prerogativa sul giudizio di fattibilità, “intesa come nucleo
essenziale, come zoccolo duro, della prognosi di
adempimento”. La testa di turco della polemica
“fiorentina” è la critica all’incredibile spreco di
risorse della collettività a fronte di fallimenti
spesso già annunciati nel giudizio di omologa,
che coincidono con quell’elevatissimo numero di
concordati preventivi i quali, regolarmente omologati, anche a causa del pur giustificabile disinteresse dei creditori, risultano poi in tutto o in parte ineseguiti, sfociando solo successivamente in
procedure fallimentari, in cui però le azioni di
massa sono spesso prescritte, oppure generando
vicende spesso inestricabili, le quali certo non ri-
sultano agevolate dalla disciplina della risoluzione del concordato prevista nel nuovo testo dell’art. 186 l.fall. Eppure, la preoccupazione di fondo del Giudici fiorentini, quantomeno dal punto
di vista giuridico, e nemmeno troppo dissimulata,
rimane quella di riattribuire al tribunale il controllo sulla “fattibilità economica” del piano, oggi
pensavamo definitivamente sottrattogli. A bene
vedere, le Sezioni Unite della Corte di cassazione
non avevano fatto altro che confermare un orientamento già diffuso nella giurisprudenza di legittimità (12), anche se del tutto minoritario nelle
Corti di merito (13). Allora la Corte d’Appello di
Firenze è effettivamente efficace, allorché ripropone il tema, certo non peregrino, per quanto già
(12) Cfr. Cass. 25 ottobre 2010, n. 21860, cit.; Cass. 14 febbraio 2011, n. 3586, in questa Rivista, 2011, 805, con entusiastica adesione di L.A. Bottai, Il (limitato) potere di controllo del
tribunale sulla proposta di concordato: chiusura del sistema,
ivi, 805 ss.; Cass. 15 settembre 2011, n. 18864, cit.; Cass. 16
settembre 2011, n. 18987, in questa Rivista, 2012, 36-42, con
nota di A. Patti, La fattibilità, cit., il quale evidenzia perplesso
come la seconda sentenza riconduca “le inesattezze contabili
del piano alla nullità del contratto per impossibilità dell’oggetto”. Di particolare interesse, con attenzione al tema delle coerenza dei poteri del tribunale lungo tutto il percorso concordatario, rimane una “pietra miliare” del formante giurisprudenziale dell’ultimo decennio, Cass. 23 giugno 2011, n. 13817, in
questa Rivista, 2011, 933, con commento di Ambrosini Il sindacato in itinere sulla fattibilità del piano concordatario nel dialogo tra dottrina e giurisprudenza, ivi, 2011, il quale, con la puntualità che caratterizza i suoi scritti, evidenziava come la Corte
in tale sentenza avesse fatto proprie le istanze più significative
della recente dottrina, con particolare riferimento alla circostanza che, se il commissario giudiziale rilevasse, dopo l’approvazione, che sono mutate le condizioni di fattibilità del piano, ex art. 179, comma 2, l.fall., ne dovrebbe informare i creditori, non essendo previsto che venga data notizia al tribunale e
tanto meno che questo possa assumere provvedimenti di alcun genere; cfr. anche S. Ambrosini, Contenuti e fattibilità del
piano di concordato preventivo alla luce della riforma del 2012,
in www.ilcaso.it. doc. 306, 8; con la consueta lucidità M. Fabiani, Per la chiarezza, cit., 172 ss.; A. Patti, La fattibilità, cit.;
più di recente, S. Ambrosini, Il concordato preventivo, cit., 231238; M. Fabiani, Concordato preventivo, in Comm. ScialojaBranca-Galgano, a cura di G. De Nova, Bologna, 2014, 552581.
(13) Le maggiori resistenze si ritrovavano effettivamente
nella giurisprudenza di merito, la quale, come dicevamo, praticava o un controllo diretto di fattibilità sul piano oppure, dopo
le novelle del 2005-2007, una verifica di “secondo grado” attraverso la relazione di attestazione, eccezion fatta per Trib.
Roma 16 aprile 2008, in Dir. fall., 2008, II, 550 e in Banca, borsa, tit. cred, 2009, II, 732, con commento adesivo di F. Macario, Nuovo concordato preventivo e (antiche) tecniche di controllo degli atti di autonomia: l’inammissibilità della proposta per
mancanza di causa, il quale faceva riferimento alla “causa concreta” del concordato. Tra le sentenze di merito, più decise in
un senso oppure in un altro, si veda Trib. Bari 25 febbraio
2008, in questa Rivista, 2008, 682 ss., con nota di P. Genoviva,
I limiti del sindacato del tribunale nel concordato preventivo alla
luce del “correttivo”; invece per un sindacato stringente sulla
perizia di attestazione, così da valutare indirettamente la fattibilità, si veda App. Torino 19 giugno 2007, in questa Rivista,
2007, 1315 ss., con nota di M. Vacchiano, I poteri del controllo
del tribunale in sede di ammissione del debitore al concordato
preventivo; App. Milano 4 ottobre 2007, in Dir. fall., 2008, II,
317 ss., con nota di M.M. Gaeta, Fabbisogno concordatario e
poteri di accertamento del giudice. Con motivazioni invece più
sintetiche ma altrettanto puntuali, si veda: Trib. Firenze 27 luglio 2012, in www.ilcaso.it, 2012; Trib. Monza 10 luglio 2012,
ivi, 2012; Trib. Arezzo 17 aprile 2012, in De Jure, 2012; Trib. Siracusa 11 novembre 2011, ivi, 2011; Trib. Crotone 26 febbraio
2011, in Dir. fall., 2012, II, 408, il quale suggerisce un controllo
della fattibilità del piano attraverso la relazione di attestazione;
Trib. Milano 28 ottobre 2011, in Foro it., 2012, 1, I, 136; Trib.
Arezzo 25 agosto 2011, in DeJure, 2011; Trib. Biella 10 febbraio 2011, in questa Rivista, 2011, 806-810, con nota di L.A.
Bottai, Il processo di disintermediazione giudiziaria continua, 810-817; App. Roma 18 settembre 2010, in Dir. fall., I,
2011, II, 18; Trib. Napoli 26 maggio 2010, in questa Rivista,
2010; Trib. Roma 20 aprile 2010, ivi, 2010, anche quest’ultima
attraverso il controllo della relazione di attestazione, come peraltro Trib. Udine 2 marzo 2009, ivi, 2010, 248; controllo pure
sempre diretto invece quello di Trib. Tivoli 15 luglio 2009, ivi,
2010, 857-860, con nota di A. Penta, La revoca dell’ammissione al concordato preventivo, rilevanza della percentuale offerta e
della fattibilità del piano, 860-868; App. Bologna 15 giugno
2009, in Corr. mer., 2009, 1091; Trib. Roma 24 aprile 2008, in
Foro. it., Rep. 2009, n. 105; App. Roma 18 aprile 2009, in Dir.
fall., 2010, II, 188, nella quale il controllo sulla fattibilità avviene
attraverso la disamina della relazione di attestazione; Trib. Milano 19 novembre 2008, in Giust. civ., 2008, 11, 79; Trib. Pescara 16 ottobre 2008, in Giur. mer., 2009, 1, 125; Trib. Roma
20 febbraio 2008, in Giur. it., 2009, 104 ss.; Trib. Palermo 18
maggio 2007, in questa Rivista, 2008, 75 ss.; Trib. Vicenza 27
febbraio 2007, in De Jure, 2008; Trib. Pescara 28 dicembre
2006, in Società, 2007, 57 ss.; Trib. Torino 12 dicembre 2006,
in questa Rivista, 2007, 84-85, con nota di A. Penta, Il controllo
del tribunale in sede di omologazione del concordato preventivo
e la prosecuzione dell’attività d’impresa; 86 ss.; Trib. Milano 2
ottobre 2006, ivi, 2007, 331; Trib. Milano 6 luglio 2006, ivi,
2007, 110; App. Bologna 30 giugno 2006, ivi, 2007, 470 ss.;
Trib. Milano 30 giugno 2006, ivi, 2006, 1456; App. Bologna 27
giugno 2006, ivi, 2007, 661; Trib. Milano 8 giugno 2006, ivi,
2006, 1420; Trib. Sulmona 19 gennaio 2006, ivi, 2006, 608;
Trib. Bologna 17 novembre 2005, in Giur. mer., 2006, 658 ss.;
Trib. Bari 21 novembre 2005, in questa Rivista, 2006, 222 ss.;
Trib. Bologna 15 novembre 2005, in Giur. comm., 2006, II, 891
ss.; Trib. Bari 7 novembre 2005, in questa Rivista, 2006, 52 ss.;
Trib. Pescara 21 ottobre 2005, ivi, 2006, 56, anch’esso attraverso la disamina della relazione; Trib. Monza 17 ottobre 2005,
in Dir. prat. soc., 2005, 22, 67.
950
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confutato da parte della dottrina ancora prima
che si pronunciassero le Sezioni Unite del
2013 (14), del controllo del giudice sulla relazione di attestazione, sostenendo i Giudici di Firenze
che essa, in quanto requisito di ammissibilità della domanda giudiziale, debba essere oggetto di un
sindacato di “secondo grado” da parte del tribunale. La proposta della Corte d’Appello non è
particolarmente innovativa, motivata forse un
po’ semplicisticamente e sorretta da argomenti
che non tengono in alcuna considerazione quella
giurisprudenza della Corte di cassazione, in tema
di “causa in concreto” del procedimento di concordato, la quale poteva comunque essere utilizzata nella controversia oggetto del presente contributo. Eppure, non solo nella giurisprudenza di legittimità e di merito (15) ma anche nella dottrina
più avvertita (16) la tesi è ancora sostenuta con
grande decisione: in sede di ammissione del ricorso per concordato il tribunale deve esaminare la
relazione di attestazione, quale requisito di ammissibilità della proposta concordataria, valutando la chiarezza e la precisione dei dati offerti, la
lucidità dell’esposizione, la motivazione e la coe-
renza delle conclusioni rassegnate in aderenza ai
dati analizzati e alla prognosi di fattibilità, finanche la ragionata comprensibile metodologia di indagine osservata, rappresentando tale sindacato,
di “secondo grado”, avente ad oggetto il programma economico del debitore, “una ricorrente tecnica di limitazione della latitudine della verifica
giudiziale, che si sostanzia nel consentire al giudicante di sindacare il percorso che l’atto esaminato ha compiuto onde pervenire ad un determinato assunto, ma non già l’assunto stesso” (17). Affermazioni queste, ci pare, apparentemente poco
controvertibili, eppure proprio in esse si annida
l’equivoco, oppure forse anche il fraintendimento
teorico, sul quale poggia, un po’ in bilico, l’argomento proposto dalla Corte d’Appello di Firenze.
Secondo queste teoriche (18), infatti, i riferimenti della Corte di cassazione alla perizia di attestazione vengono interpretati nel senso che l’elaborato dell’attestatore vada sindacato quale rappresentazione del programma economico del debitore, cosicché il tribunale possa valutare in termini
di realizzabilità concreta il piano, attraverso la
lettura che dello stesso viene offerta dal perito at-
(14) Cfr. A. Patti, La fattibilità, cit., 46-47, a giudizio del quale all’attestatore “compete la disamina critica del piano, con la
conseguente formulazione di un giudizio prognostico di risultato atteso, in quanto proposto ai creditori come effettivamente
realizzabile”, mentre al giudice spetta “una funzione di garanzia informativa sotto il profilo della verifica di chiarezza, di precisione dei dati offerti (...) mediante esposizione chiara, motivata e coerente delle conclusioni rassegnate, in aderenza ai
dati analizzati, con ragionata e comprensibile metodologia di
indagine osservata (...)”; nonché S. Ambrosini, Contenuti, cit.,
8; A. M. Azzaro, Concordato preventivo e autonomia privata, in
questa Rivista, 2007, 1267-1278; S. Bonfatti - P. F. Censoni,
Manuale di diritto fallimentare, Padova, 2009, 486 ss.; M. Fabiani, Per la chiarezza, cit., 172 ss.; G. Fauceglia, Ancora sui
poteri del tribunale per l’ammissibilità del concordato preventivo: errare è umano, perseverare è diabolico, in Dir. fall., 2008,
II, 573.
(15) Cfr. Trib. Torino 20 maggio 2014, in www.ilcaso.it; App.
Ancona 26 marzo 2014, ivi, pubb. 19 giugno 2014, di sicuro interesse anche per l’utilizzo del concetto di “causa in concreto”;
si veda inoltre Cass. 25 settembre 2013, n. 21901, cit.; Cass.
27 maggio 2013, n. 13083, cit.; tutte commentate in modo sostanzialmente positivo, nonostante ne vengano anche evidenziate alcune significative aporie, da P. Vella, La giurisprudenza,
cit., 5-15; di diverso avviso invece C. Trentini, Fattibilità, cit.,
180, 181.
(16) Cfr. S. Ambrosini, Il concordato preventivo e gli accordi
di ristrutturazione dei debiti, in Trattato Cottino, XI, Padova,
2008, 71; M. Arato, La domanda di concordato preventivo dopo
il d.lgs. 12 settembre 2007, in Dir. fall., 2008, I, 53 ss.; G. Bozza, Il sindacato, cit., 194-195; .altrettanto decisamente V. Colesanti, Crisi d’impresa, accordi di ristrutturazione e insolvenza
“prospettica”, in Corr. giur., 2012, 122 ss.; S. Filocamo, Le condizioni di ammissibilità del concordato preventivo, in questa Rivista, 2010, 1452-1466; G. Lo Cascio, Concordato preventivo,
incerti profili interpretativi, ivi, 2012, 9; G.B. Nardecchia, Nuova
proposta di concordato, istanza di fallimento e poteri del tribuna-
le in sede di ammissione, ivi, 2011, 1456; P. Pajardi - A. Paluchowski, Manuale di diritto fallimentare, Milano, 2008, 842 ss.;
G. Zanichelli, I concordati giudiziali, Torino, 2010, 182 ss.; anche dopo le Sezioni Unite, sia pur con qualche perplessità sul
controllo di “secondo grado”, I. Pagni, Il controllo, cit., 286290; A. Villa, Fattibilità del piano concordatario e sindacato giudiziale indiretto, in Riv. dir. proc., 2014, 241.
(17) Si veda op. ult. cit., 241. È di estremo interesse che
l’Autore nel proseguo del Suo contributo assimili il controllo
del tribunale al vaglio della Corte di cassazione ai sensi del n.
5 dell’art. 360, comma 1, c.p.c., secondo il quale le determinazioni in fatto contenute nella sentenza di merito oggetto di impugnazione non sono di per sé censurabili in cassazione, mentre lo sarebbe il percorso attraverso cui il giudice sarebbe pervenuto a tali determinazioni; quando invece, secondo la concezione proposta nel testo, nel giudizio di cassazione ci pare
difficilmente separabile il “fatto” dal “diritto”. A tal proposito,
per un’opera ancora oggi insuperata, quantomeno per profondità di analisi ed eleganza stilistica, G. Calogero, La logica del
giudizio e il suo controllo in Cassazione, Padova, 1937.
(18) Tale orientamento è anche sostenuto a partire da non
proprio fragili argomenti, anche testuali, come la considerazione che, siccome l’art. 162 l.fall. prevede la facoltà del tribunale
di chiedere al debitore integrazioni, ciò significa che esso debba anche vagliare il piano e la relazione di attestazione sulla
fattibilità, e conseguentemente il merito stesso del piano, cfr.
G. Bozza, Il sindacato, cit., 194-195; tale tesi è confutata da M.
Fabiani, La questione, cit., 158; C. Trentini, Fattibilità, cit., 178.
La verifica di “secondo grado” ci pare sia proposta con la consueta finezza anche da M. Martinelli, La valutazione dell’attestazione da parte del giudice, in S. Ambrosini - A. Tron (opera
diretta da), Piani di ristrutturazione dei debiti e ruolo dell’attestatore, Bologna, 2016, 61-65, 69-71, anche se a partire dalla critica della tesi della “causa in concreto” suggerita dalla Corte di
cassazione, mentre il controllo dell’attestazione è prescritto come maggiormente pregnante nel concordato con continuità
aziendale.
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testatore (19). A tale concezione del sindacato
giudiziale ci parrebbe di dover obiettare che in sede di ammissione non sia chiesto al tribunale di
analizzare il programma negoziale, nemmeno attraverso la “lente d’ingrandimento” dell’attività
del perito attestatore ma, più semplicemente, esaminare la relazione con riferimento alla intelligibilità e alla idoneità della stessa ad orientare il
voto dei creditori (20). Ne dovrebbe conseguire,
in linea evidentemente teorica, che un ricorso
per concordato potrà essere oggetto del decreto di
ammissione, anche se la relazione di attestazione,
pur totalmente menzognera, fosse apparsa in grado di fornire ai creditori il maggior numero di informazioni e così orientarli perfettamente al voto;
per converso, dovrebbe essere dichiarato inammissibile il ricorso per concordato, in presenza di
una attestazione incomprensibile e disorganica,
imprecisa rappresentazione di un piano sicuramente attuabile (21).
La questione della “fattibilità giuridica”;
una categoria da abbandonare oppure
da neutralizzare
La Corte d’Appello ci pare invece un po’ più fragile, quando discute di epistemologia giuridica e/o di
teoria dell’interpretazione, nell’intento di confutare l’idea che si possa analizzare un piano in termini
di “fattibilità giuridica”. A ben vedere, infatti, il
problema in questa sede non è tanto comprendere
se sia corretto svolgere il ragionamento a partire
dal brocardo latino in claris non fit interpretatio, come suggerisce appunto la Corte d’Appello, sia perché da almeno sessant’anni la più accreditata teoria generale d’interpretazione ha dimostrato il contrario (22), sia dal momento che è la stessa attività
ermeneutica del Collegio sul testo dell’art. 161
(19) Come dire: la domanda di concordato va ammessa al
voto, se la relazione di chi attesta il piano persuade il tribunale
della realizzabilità del programma economico; in questo modo
pare effettivamente trasformarsi, surrettiziamente, un controllo
di ammissibilità in una verifica di fattibilità.
(20) Occorre vedere Cass., SS.UU., 13 gennaio 2013, n.
1521, cit., 149-155; nel senso pertanto di escludere che il tribunale possa esercitare un controllo di “secondo grado” ma
solo verificare che le ipotesi ricostruttive e le inferenze del perito attestatore consentano ai creditori di esprimere un voto informato, sul tema si veda S. Ambrosini, Il concordato preventivo, cit., 238; M. Fabiani, La questione. cit., 156-168; più di recente M. Fabiani, Concordato preventivo, cit., 568-574; G. Fauceglia, La cassazione e il concordato preventivo, in Giur. it.,
2013, 12; sulle orme di Fabiani, con grande attenzione C. Trentini, Fattibilità, cit., 167-183, il quale commenta positivamente
Cass. 4 luglio 2014, n. 15345, 165-167; in giurisprudenza la
medesima interpretazione è proposta da App. Milano 25 ottobre 2013, in www.ilfallimentarista.it con nota di A. Farolfi.
952
l.fall., e più particolarmente sul termine “fattibilità”, a comprovare come la lettura di qualsiasi disposizione, anche la più banale, costituisca comunque il risultato di una complessa e articolata attività ermeneutica, e ciò anche se il risultato dell’interpretazione non sia univoco (23), quanto verificare se abbia un senso (giuridico), come propongono le Sezioni Unite, discettare di “fattibilità giuridica”, lemma che costituisce il prodotto di un’attività ermeneutica che scinde in due il concetto normativo di “fattibilità”, procedimento questo che
tecnicamente prende il nome di argomento della
dissociazione, una ipotesi di interpretazione restrittiva (24).
È interessante notare come il Collegio fiorentino
faccia riferimento, senza però citarla, alla cosiddetta “legge di Hume” o della “fallacia naturalistica”,
secondo la quale, detto banalmente, occorre tenere
separare i discorsi descrittivi, che vertono sull’”essere” e quindi sui “fatti”, dalle asserzioni sul “dover
essere”, quindi sulla morale e sulle norme, cosicché
non è ipotizzabile confondere i giudizi di fatto o sugli eventi della controversia dai giudizi di diritto o
sul significato delle norme (25). Pertanto, affermare la “fattibilità giuridica” di un piano di concordato sarebbe una contraddizione, poiché in tal modo
si finiscono per mescolare inavvertitamente le due
forme di giudizio, che invece vanno tenute opportunamente distinte, pena la creazione di una “innocua stravaganza terminologica” (26). Nei limiti
del presente contributo, sia solo consentito osservare che nella costruzione del “caso” della controversia, il quale corrisponde al giudizio del tribunale
sull’astratta realizzabilità di un programma negoziale (“siccome il mio debitore è insolvente, acquisisco definitivamente la proprietà della casa che mi
è stata data in garanzia”) e nella ricerca della rego(21) Di diverso avviso, ci pare C. Alessi, Autonomia, cit., 51.
(22) Si pensi anche solo ai “casi facili” ed ai “casi difficili”
di cui discute H.L.A. Hart, Il concetto del diritto, 1961, Torino,
2002.
(23) Sul tema il rinvio non può che essere a G. Tarello, L’interpretazione della legge, Milano, 1980.
(24) R. Guastini, Interpretare e argomentare, in A. Cicu - F.
Galgano - L. Mengoni (già diretto), continuato da P. Schlesinger, Trattato di diritto civile e commerciale, Milano, 2011, 284.
(25) Sull’argomento, il riferimento, quantomeno nella dottrina filosofica-giuridica italiana, è a G. Carcaterra, Il problema
della fallacia naturalistica. La derivazione del dover essere dall’essere, Milano, 1969.
(26) Tale convincimento, che ripropone l’opposizione di fattispecie concreta a fattispecie astratta, oppure di quaestio facti e quaestio iuris, rappresenta un vecchio armamentario, certo
compagno di mille battaglie, ormai però perdute, figlio di un
paleo-positivismo giuridico che si ritrova solo nei manuali.
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la ad esso adeguata, che coincide con la valutazione giuridica di ciò che appunto il piano si ripropone di conseguire (“non lo possa fare, poiché tale
soluzione impinge nel divieto del patto commissorio di cui all’art. 2744 c.c.”), si realizza un processo
interpretativo, che conduce a comparare, ad equiparare, a mettere in corrispondenza, elementi tra
loro disomogenei ed autonomamente consistenti,
tanto che è compito dell’interprete creare l’isomorfismo tra la norma e la situazione concreta. Oggi
comunemente si afferma che l’applicazione della
norma al fatto consiste nella determinazione e nella scoperta della loro coincidenza non attraverso
un’attività di sussunzione della fattispecie nella
norma, ma tramite un movimento circolare del
comprendere, che procede in una pluralità di livelli successivi (27). Il “fatto” è indissolubilmente intrecciato al “diritto”: le concrete circostanze fattuali risultano effettivamente comprensibili nella loro
rilevanza giuridica con riferimento ai materiali normativi che vengono in considerazione; per converso, essi rivelano il loro significato solo attraverso la
comprensione delle circostanze concrete, cosicché
il testo acquista senso in virtù delle equiparazioni
che fanno da ponte tra disposizione normativa e
“fatti” cui quella disposizione intende riferirsi (28),
cosicché predicare la “fattibilità giuridica” di un
programma negoziale è solo apparentemente un ossimoro, tutt’al più si tratta di affermare un concetto intuitivo e di facile comprensione per un giurista. Eppure, la sentenza della Corte d’Appello, se
letta criticamente, rivela invece un certo interesse,
allorché insinua l’idea, questa sì suggestiva almeno
dal punto di vista della teoria dell’interpretazione,
che l’attività ermeneutica sia essenzialmente attività politica (nel senso etimologico e positivo del
termine), a servizio della quale sarebbero i criteri
dell’interpretazione, il cui utilizzo in un senso anziché in un altro potrebbe consentire di conseguire
il risultato prestabilito (29), ma non è queste la sede, e occorre venire al punto.
La tesi che s’intende sostenere è la seguente: l’ulteriore itinerario che consente di recuperare al tribunale un esame sulla “fattibilità economica” del piano di concordato passa attraverso la collocazione
sistemica della “fattibilità giuridica”; è riconducibile a questa teorica non solo quella dottrina che alla
“fattibilità giuridica” attribuisce un significato marginale, per certi versi una complicazione anche lessicale introdotta dalla Corte di cassazione (30), ma
lo sono anche quei dottori che la assimilano alla
“causa in concreto” (31), cosicché ne deriva un
controllo di “fattibilità” direttamente esercitabile
sul piano (32). In altri termini, il ragionamento
proposto da queste teoriche è il seguente: siccome
la categoria “fattibilità giuridica” non ha una propria autonomia sistemica oppure non le si attribuisce alcuna capacità descrittiva oppure la si identifica con la “causa in concreto” del concordato, anche tale sovrapposizione di “fattibilità giuridica” e
“causa concreta” consente al tribunale di verificare
se il piano di concordato sia concretamente in grado di regolare la crisi.
(27) G. Zaccaria, Ermeneutica e Giurisprudenza. Saggi sulla
metodologia di Josef Esser, Milano, 1984, 173-175.
(28) G. Monateri, Interpretazione del diritto, in Dig. disc.
priv., sez. civ., X, Torino, 1991, 47.
(29) Il riferimento è ancora alla Scuola di Genova e a G. Tarello, L’interpretazione, cit., il quale riteneva che, essendo l’interpretazione attività essenzialmente politica, come la legislazione, compito della teoria generale dell’interpretazione era la
“caccia alle ideologie”, alle idee politiche che presiedevano all’utilizzo di questo o di quell’argomento dell’interpretazione; si
veda inoltre G. Tarello, Diritto, enunciati, usi, Bologna, 1974.
(30) Ne evidenzia l’inutilità G.B. Nardecchia, La fattibilità, cit., 189; propone invece di assimilarlo a quello di legittimità del tribunale, pur considerandolo “un ossimoro, il quale re-
sterebbe sicuramente incompreso nel più pragmatico contesto
europeo”, P. Vella, La giurisprudenza, cit., 8; nonché L’affinamento, cit., 443-447, quale commento a Cass. 17 ottobre
2014, n. 22045, 436-438.
(31) Cfr. A. Di Maio, Il percorso, cit., 292.
(32) Tale orientamento ha ricevuto alcuni non banali riscontri non solo nella giurisprudenza di legittimità intervenuta dopo
le Sezioni Unite, cfr. Cass. 29 gennaio 2015, n. 1726, in
www.ilcaso.it; Cass. 17 ottobre 2014, n. 22045, in questa Rivista, 435-438, con nota adesiva di P. Vella, L’affinamento, cit.,
443.447; ma anche in quella di merito, cfr. Trib. Pistoia 29 ottobre 2015, in www.osservatoriooci.org.it., secondo il quale la
“fattibilità giuridica” si risolve nella idoneità della proposta elaborata dal debitore a superare la crisi.
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La “causa in concreto” e la verifica del
piano; le armonie dissonanti delle categorie
sistemiche; debolezze concettuali
Dopo e a causa delle Sezioni Unite del gennaio del
2013 la giurisprudenza e la dottrina sono tornate a
separarsi; questa volta le distinzioni sono anche interne, il seme della discordia è ancora il controllo
di fattibilità sul piano. Nei paragrafi precedenti abbiamo provato ad indicare alcuni itinerari, non i
più diffusi e nemmeno i più agevoli, proposti dalla
dottrina e dalla giurisprudenza anche di cassazione,
per conseguire da parte del tribunale lo scrutinio di
realizzabilità sul programma negoziale del debitore.
A questo punto, occorre dire che la “strada maestra” è quella che fa leva sull’utilizzo della categoriale concettuale, presa a prestito dalla teoria generale del contratto ed elaborata dalla Corte di cassa-
953
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zione con riferimento al procedimento di concordato: la “causa in astratto” del procedimento configura infatti l’attitudine della procedura concorsuale
a regolare e superare la crisi del debitore, quella in
“concreto” consiste nell’idoneità della stessa ad assicurare a ciascun creditore una soddisfazione pur
“minimale” “in tempi di realizzo ragionevolmente
contenuti”. In dottrina è subito sorto il problema
di armonizzare le indicazioni delle Sezioni Unite
nell’ambito del sistema concordato preventivo, dividendosi la dottrina, che si è interessata alla questione, tra coloro che non avrebbero riscontrato in
ciò particolari difficoltà, dal momento che avrebbe
consentito di evitare la moltiplicazione dei costi di
un concordato inutile (33) e coloro cui ciò avrebbe
procurato non pochi imbarazzi (34), forse anche
non superabili (35). Nell’intento allora di coniugare il concetto di “causa in concreto” con la nuova
veste assunta dal concordato preventivo a partire
dal 2005, o si afferma che “la proposta è il soddisfacimento offerto ai creditori non il percorso attuativo” (36), cosicché la “causa in astratto” del concordato è l’attitudine di quel concordato alla regolazione della crisi mediante la soddisfazione dei creditori, “nel senso che tutti i creditori devono ricevere la promessa e l’impegno a conseguire una utilità” (37). La “fattibilità” diviene allora una qualità
dell’“oggetto” del contratto di concordato, il quale,
come noto, deve essere non solo “possibile” giuridicamente, nel senso di prestazione “suscettibile di
essere effettuata per la insussistenza di impedimenti
originari di carattere materiale e giuridico che ostacolino il risultato cui essa era diretta”, ma anche
“determinato”, poiché “se il debitore offre la cessione dei beni in luogo del pagamento, deve essere
certo che sia attuabile, mentre se formula una proposta di pagamento con garanzia, l’obbligazione di
pagamento si identifica nella misura del soddisfacimento”. Tale dottrina propone, si badi, una lettura
della “fattibilità” idealmente disgiunta in quella
“giuridica” ed “economica”, così accogliendo l’interpretazione proposta dalla Corte di cassazione nel
2013, ma ripensata attraverso il ricorso alla categoria dogmatica degli elementi costitutivi del contratto, civilisticamente intesi, recuperando così la
“fattibilità giuridica” alla “possibilità” dell’oggetto
e la “fattibilità economica” alla “determinatezza”,
ma consentendo anche in tal modo di tenere ben
separati gli elementi costituivi del contratto (38).
Oppure occorre preservare al concetto di “fattibilità giuridica” una propria autonomia, pur senza ricorrere alla dogmatica della teoria generale del
contratto, pensandola, specularmente alla “fattibilità economica”, come la legittimità del percorso
attuativo del programma negoziale del debitore (39), ma anche proponendo, contemporaneamente, qualche ripensamento sulla causa del procedimento di concordato, che nella dottrina giuscommercialistica diventa però grave preoccupazione (40). Le conseguenze più rilevanti di tale distinzione non sono né la lettura del terzo comma dell’art. 173 l.fall. (41), ove viene disciplinata la revo-
(33) Cfr. F. De Santis, Causa, cit., 279-286; A. Didone, Le
Sezioni Unite, cit., 1 ss.; G. Lo Cascio, Concordato, cit., 530534; I. Pagni, Il controllo, cit., 286-290.
(34) Si vedano S. Ambrosini, Il concordato preventivo, cit.,
231-238; M. Fabiani, Concordato preventivo, cit., 51-60, 574577.
(35) È ancora una volta S. Ambrosini, Concordato preventivo, cit., 238-241, a rilevare come Agostino Gambino definisca
la “causa in concreto” proposta dalle Sezioni Unite della Corte
di cassazione un “concetto sfuggente” (239); Alessandro Nigro neghi che il concetto civilistico di causa possa avere una
sua collocazione nell’ambito del procedimento di concordato
preventivo (234-236); Paolo Montalenti non comprenda il senso della distinzione tra “causa in astratto” e “causa in concreto”(230-234); Vincenzo Calandra Buonaura sottolinei come il
riferimento alla “causa in concreto”, il quale assicuri una soddisfazione “minimale”, finisca per rendere evanescente ogni
distinzione tra il controllo del tribunale e la valutazione dei creditori, creando “i presupposti per una interpretazione in chiave
“ideologica” del pensiero della Suprema Corte (...)” (237).
(36) M. Fabiani, Concordato preventivo, cit., 517.
(37) Op. ult. cit., 60; contra G. B. Nardecchia, Cessione dei
beni e liquidazione: la ricerca di un difficile equilibrio tra autonomia privata e controllo giurisdizionale, in questa Rivista, 2012,
97.
(38) M. Fabiani, Concordato preventivo, cit., 575-577; conforme ci pare L. Balestra, Brevi riflessioni, cit., 383; I. Pagni,
Contratto e processo nel concordato preventivo e negli accordi
di ristrutturazione dei debiti, analogie e differenze, in A. Bassi V. Buonocore, (diretto da), Trattato di diritto fallimentare, Padova, 2010, 586-588.
(39) C. Alessi, Autonomia, cit., 451.
(40) Cfr. S. Ambrosini, Il concordato preventivo, cit., 231241, il quale con fascinoso transfert rinvia al dibattito pubblicato da Giurisprudenza commerciale nei primi mesi del 2014 (nn.
2, 35); nello stesso senso con autorevolezza G. Fauceglia, Diritto civile e concordato preventivo, una convivenza difficile, in
questa Rivista, 2015, 356-360.
(41) La definizione degli “atti di frode” di cui al primo comma dell’art. 173 l.fall., giustamente più diffusa è quella di F. Filocamo, L’art. 173 primo comma l.fall. nel “sistema” del nuovo
concordato preventivo, in questa Rivista 2009, 1467-1479:
“qualsiasi condotta, a contenuto sia patrimoniale che documentale, commissiva o omissiva, anche collocata in epoca
precedente la presentazione della domanda concordataria,
purché caratterizzata soggettivamente dall’intento fraudolento”; ma anche quella altrettanto puntuale suggerita da P. Pajardi - A. Paluchowski, Manuale, cit., 858; di diverso avviso, in
modo deciso, G. Fauceglia, Paternalismo giudiziario ed esigenze dei tutela dei creditori nel concordato preventivo, in Giur. it.,
I, 2008, 118. Inoltre, si veda G. Bersani, La rilevanza degli atti di
frode nel concordato preventivo nell’ambito del sub-procedimento previsto dall’art. 173 l.fall., in Dir. fall., 2015, I, 41-60; R.
Fava, Nuovi orientamenti in tema di revoca dell’ammissione alla
procedura di concordato preventivo: i poteri del Commissario
giudiziale e il regime di impugnazione dei provvedimenti, ivi,
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Giurisprudenza
Concordato preventivo
ca del concordato a seguito del venir meno dei requisiti di ammissibilità del concordato preventivo,
né il contenuto del giudizio di omologazione, né
infine l’ambito dello scrutinio del perito attestatore. A giudizio di quelle teoriche che riconducono
la “fattibilità giuridica” alle caratteristiche dell’“oggetto” del contratto del concordato, esse divengono cause di sopravvenuta inammissibilità della domanda, accertabili ai sensi dell’art. 173 l.fall., sicuramente scrutinabili anche in sede di omologa del
concordato, e ciò indipendentemente da opposizioni da parte di chicchessia, poiché l’inammissibilità
è comunque rilevabile d’ufficio (42), non essendo
inoltre ipotizzabile che il tribunale in sede di omologa sia destinatario di poteri di verifica minori rispetto a quelli che gli spettano in sede di ammissione (43). Inoltre, se la “fattibilità giuridica” conserva una propria identità concettuale, distinguibile rispetto alla causa del concordato, essa dovrà essere oggetto anche dell’analisi della relazione di attestazione (44). Infatti, il vero nodo da sciogliere
diventa allora quello dell’ammissibilità dell’“offerta
irrisoria” ai creditori chirografari, rispetto al quale
solo la svalutazione della categoria della “causa in
concreto” del concordato consente di propendere
per l’idea della sua ammissibilità, persino nell’ipotesi in cui la proposta non preveda alcuna utilità,
neppure per equivalente. Si badi che spesso il tema
dell’“offerta irrisoria” viene confuso con quello del
programma economico che non consente una soddisfazione “minimale”, dato che il primo attiene all’ammissibilità di una proposta in tal senso da parte
del debitore, mentre il secondo riguarda il risultato
della prognosi del tribunale (45).
Anche la giurisprudenza di merito e quella di legittimità sono divise. Quanto alla prima, pare nettamente prevalente la tesi, secondo la quale il tribunale possa vagliare la “fattibilità economica” nel
caso in cui si escluda o si dubiti della realizzazione
fattuale della “causa concreta” del concordato, e
cioè allorché, valutata la relazione dell’attestatore,
il tribunale si convinca che i creditori non potranno conseguire quanto è stato loro promesso (46).
La medesima discussione connota la giurisprudenza
2015, II, 212-221; con la consueta finezza, ancora prima che si
pronunciasse la Corte di cassazione nel 2011, M. Ferro, Il nuovo concordato preventivo; la privatizzazione delle procedure riorganizzative nelle prime esperienze, in Giur. mer., 2006, 770; G.
Giannelli, Concordato preventivo, accordi di ristrutturazione dei
debiti, piani di risanamento dell’impresa nella riforma delle procedure concorsuali. Prime riflessioni, in Dir. fall., 2005, I, 1158;
sempre suggestivo G. La Croce, La “confessio” salvifica degli
atti di frode ai creditori. Un equivoco pericoloso, denso di antinomie, contrasti costituzionali e violazioni CEDU, in questa Rivista, 2015, in particolare 310-316; F. Nieddu Arrica, Il sindacato
del tribunale in sede di revoca dell’ammissione a concordato
preventivo, in Giur. comm., 2014, II, 711-715; con riferimento
al concordato prenotativo, si veda E. Ricciardiello, Il ruolo del
commissario giudiziale nell’era “del fallimento del contrattualismo fallimentare”, ivi, 2015, I, 727-747.
(42) M. Fabiani, Concordato preventivo, cit., 348-356, 646656.
(43) S. Ambrosini, Il concordato preventivo, cit., 322, 357358; G. Ciervo, Ancora sul giudizio di fattibilità del piano di concordato preventivo, in Giur. comm., 2015, II, 58-79.
(44) Cfr. S. Ambrosini - A. Tron, I principi di attestazione dei
piani di risanamento approvati dal CNDCEC e il ruolo del professionista, in www.ilcaso.it., pubb. 8 marzo 2015; di diverso avviso non solo chi riconduce la “fattibilità giuridica” alla “causa in
concreto”, come A. Di Majo, Il percorso, cit. 292, ma anche
chi la assimila alla “possibilità dell’oggetto”, cfr. M. Fabiani,
Concordato preventivo, cit. 574-577, 282-286; conforme Trib.
Modena 7 aprile 2014, in www.ilfallimentarista.it, anche se attraverso un diverso ragionamento, sulla quale si veda G. Ciervo, Ancora, cit., 71.
(45) Come sempre chiarissimo M. Fabiani, Concordato preventivo, cit., 58; con non poche perplessità e solo in termini
del “minor inconveniente” S. Ambrosini, Il concordato preventivo, cit., 242-243; di diverso avviso il giurista torinese, ci pare,
dopo la novella dell’agosto del 2015, cfr. infatti S. Ambrosini, Il
nuovo diritto della crisi d’impresa: l. 132/15 e prossima riforma
organica, Bologna, 2016, 72; si veda inoltre D. Finardi, Limiti al
sindacato del tribunale sulla probabilità di successo del concordato in sede di omologa, in www.ilcaso.it, pubb. 22 settembre
2014, 2, quale nota completamente adesiva a Cass. 4 luglio
2014, n. 15345; A. Jorio, Il concordato preventivo: struttura e
fase introduttiva, in A. Jorio- M. Fabiani (a cura di), Il nuovo diritto fallimentare. Novità ed esperienze applicative a cinque anni
dalla riforma, Bologna, 2010; 974; C. Trentini, Fattibilità, cit.,
168-173, il quale sottolinea con particolare cura come il concordato non sia tenuto contemporaneamente a regolare la crisi e pagare i creditori chirografari, potendo esso prevedere o la
soddisfazione dei creditori, oppure la ristrutturazione dei crediti
non privilegiati, oppure che tali crediti siano in parte pagati e
in parte ristrutturati; ci pare però prevalente in dottrina la tesi
che nega l’ammissibilità di una “offerta irrisoria”, perlopiù a
partire dalla concezione della “causa in concreto”; si veda con
la consueta puntualità A. Penta, La revoca dell’ammissione alla
procedura di concordato preventivo e la risoluzione del concordato preventivo, L. Ghiai - C. Piccinini - F. Severini (diretto da),
Trattato delle procedure concorsuali, IV, Torino, 2011, 603; G.
Racugno, Concordato preventivo, accordi di ristrutturazione e
transazione fiscale, Profili di diritto sostanziale. in A. Bassi - V.
Buonocore, Trattato di diritto fallimentare, cit., 974; senza dubbio A. Rossi, Le proposte “indecenti” nel concordato preventivo,
in Giur. comm., 2015, I, in particolare 331-338; R. Valente, Il
carattere non vincolante della percentuale di soddisfacimento
dei crediti nel concordato preventivo con cessione dei beni.
L’obbligazione tipica dell’imprenditore e la necessaria distribuzione dell’intero ricavato della liquidazione, in Dir. fall., 2015, II,
190-202; evidentemente G. Zanichelli, I concordati giudiziali,
cit., 121; per la tesi favorevole, in giurisprudenza, cfr. Trib. La
Spezia 19 settembre 2013, in www.ilcaso.it; è però prevalente
l’orientamento contrario all’ammissibilità di una “offerta irrisoria”, si veda Trib. Modena 3 settembre 2014; Trib. Padova 6
marzo 2014; Trib. Rovigo 3 dicembre 2013, tutte in www.ilcaso.it.
(46) Si veda Trib. Bergamo 4 dicembre 2014, in www.ilfallimentarista.it; cit.; Trib. Modena 3 settembre 2014, cit.; Trib.
Prato 30 aprile 2014, in www.ilcaso.it; App. Ancona 26 marzo
2014; Trib. Padova 6 marzo 2014, cit.; Trib. Rovigo 3 dicembre
2013, cit.; Trib. Arezzo 12 novembre 2013, in Dir. fall., 2015, II,
159-172, con nota critica di L. Vecchione, La causa concreta
nel concordato preventivo; con riferimento alla durata della pro-
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di legittimità, con esiti forse più incerti, anche se
sempre più spesso la Corte di cassazione (47), perlopiù utilizzando la distinzione tra “causa in astratto” e “causa in concreto”, si fa promotrice della necessità di una valutazione diretta del piano da parte
del tribunale, poco rilevando, da questa prospettiva, che nella particolarità dei casi concreti essa risulti orientata a temperare valutazioni eccessivamente rigoristiche delle Corti di merito (48). In ultima analisi, si va affermando come prevalente l’idea che la disamina della sussistenza della causa
(concreta) autorizzi il tribunale a verificare le probabilità che il piano venga realizzato, quando invece le Sezioni Unite avevano prescritto un semplice
controllo “prima facie”, uno “scrutinio” in altri termini, che non abbisognasse di alcuna valutazione,
costituendo esso il risultato, per es., di una semplice sommatoria aritmetica. La verifica del tribunale
non può essere pertanto né un controllo di “secondo grado” sul piano, attraverso la rappresentazione
offerta dalla relazione di attestazione, poiché il programma negoziale va analizzato in relazione alla capacità d’informare i creditori, cosicché solo in questo senso ne può essere predicata la completezza e
la congruità; né una disamina che comporti delle
valutazioni e/o delle prognosi, diverse da ciò che,
ictu oculi, appaia del tutto inverosimile, pertanto
nessuna analisi prospettica degli elementi costituivi
del piano (49).
Il problema è effettivamente l’introduzione della
“causa in concreto” nell’ambito del procedimento
di concordato preventivo da parte delle Sezioni
Unite della Corte di cassazione (50), e ciò per almeno due ordini di ragioni (51), la prima di natura
estrinseca, la seconda intrinseca al concetto stesso
di “causa in concreto”. Se infatti condividiamo
l’affermazione che essa costituisce la ragione che
concretamente giustifica il particolare contratto alla luce delle specificità rilevanti che lo connotano (52), la quale si esprime nella relazione tra gli
interessi da soddisfare e i mezzi giuridici utilizzati
dalle parti, e consente di attribuire rilevanza causale ad ulteriori funzioni rispetto a quelle manifestate
nella “causa in astratto”, tanto che la “causa in
concreto” consente di ritrovare l’analogia tra il regolamento di interessi obbiettivato nel contratto e
lo schema astratto delineato dal legislatore nel tipo (53), risulta sicuro che essa va ricercata nell’intero procedimento di concordato. E non pertanto
nello schema ipostatizzato secondo la formula proposta-accettazione e declinato secondo le categorie
contrattualistiche, il quale, a tutto concedere, rappresenta solo un momento, pur anche cruciale, del
procedimento concorsuale (54). Esso, in quanto ta-
cedura, si veda Trib. Palermo 31 ottobre 2014, in questa Rivista, 2015, 823-825; Trib. Siracusa 15 novembre 2013, in
www.ilcaso.it, pubb. 4 dicembre 2013 (durata indeterminata);
Trib. Modena 13 giugno 2013, ivi, pubb. 13 giugno 2013 (durata di cinque anni); Trib. Bari 3 giugno 2013, ivi, pubb. 22 luglio
2013 (durata di nove anni).
(47) Si veda Cass. 22 maggio 2014, n. 11423, in www.cassazione.it, non così criticabile rispetto alla tesi proposta nel testo; Cass. 27 maggio 2013, n. 13083, in www.ilcaso.it; Cass. 9
maggio 2013, n. 11014, in Mass. Gius. civ., 2013; tutte criticate
da C. Trentini, Fattibilità, cit., 181, secondo il quale un conto è
la “possibilità dell’oggetto” che attiene al momento genetico,
un conto è l’adempimento della prestazione promessa il quale
riguarda il momento funzionale del rapporto; sul tema con notevole forza sistematica, M. Fabiani, Concordato preventivo,
cit., 568-577; tali arresti giurisprudenziali (anche Cass. 22 maggio 2014, n. 11423, cit.) sono considerati da P. Vella, La giurisprudenza, cit., 10-16, una inevitabile evoluzione delle indicazioni della nota sentenza della Corte di cassazione a Sezioni
Unite.
(48) Esemplare a tal proposito, Cass. 9 maggio 2013, n.
11014, cit., secondo la quale “l’esclusione dell’irrealizzabilità è
di per sé sufficiente, sotto il profilo logico, a collocare l’attuazione del piano nell’arco delle probabilità astrattamente attingibili dal giudizio di fattibilità”. Poco rileva infatti, ai fini del ragionamento proposto, che la Corte di cassazione il più delle volte
abbia cassato le sentenze delle Corti di merito, sulla base della
seguente considerazione: le censure del giudice di primo e/o
secondo grado sono errate, poiché non è comprovato che il
piano non sia realizzabile; infatti, a partire da un attenta disamina del piano, della perizia di attestazione e degli altri dati
messi a disposizione, si può concludere che il piano non è del
tutto irrealizzabile. il ragionamento è fragile, poiché alla valuta-
zione di merito dei Giudici di prime cure la Corte sovrappone
un diverso controllo, ma pur sempre di merito.
(49) Ci paiono invece, per quanto statisticamente minoritarie, non lontane dall’interpretazione proposta nel testo, Cass. 6
novembre 2013, n. 24970, in Giur. comm., 2015, 53-58, con
nota adesiva di G. Ciervo, Ancora, cit., 58-72; Cass. 4 luglio
2014, n. 15345, cit.; Trib. Rimini 10 settembre 2015, in
www.osservatorioociorg.it; App. Bologna 7 novembre 2013, in
www.ilcaso.it.
(50) L’affermazione è condivisa sia da S. Ambrosini Il concordato preventivo, cit., 231-241, sia da M. Fabiani, Concordato
preventivo, cit., 51-72, seppure l’evoluzione della loro dogmatica del concordato preventivo li abbia condotti verso esiti diversi. L’esistenza della “causa in concreto” nel nostro ordinamento ha avuto un primo importante riconoscimento giurisprudenziale con Cass. 8 maggio 2006, n. 10490, in Mass. Foro it.,
2006.
(51) Senza peraltro dare conto di quegli orientamenti che
predicano o l’inutilità e la pericolosità della “causa in concreto”, esemplare a tal proposito, P: Barcellona, L’uso alternativo
del diritto, Bari, 1974; G. Monateri, La sineddoche, Milano,
1984; oppure quelle teoriche, cosiddette “funzionaliste”, le
quali attribuiscono alla causa la nozione di funzione, rifiutando
però le connotazioni ideologiche che la delineano come funzione economico-sociale; si veda F. Galgano, Diritto civile e commerciale, V, II, Padova, 2010, 226; P. Rescigno, Manuale del
diritto privato italiano, Napoli, 1992, 333; P. Zatti - V. Colussi,
Lineamenti di diritto privato, Torino, 1993, 382.
(52) V. Roppo, Il contratto, in P. Rescigno (diretto da), Trattato di diritto privato, Milano, 2011, 377.
(53) Così A. Cataudella, I contratti in generale, Torino, 2000,
162.
(54) A. Di Majo, Il percorso, cit., 292; contra F. De Santis,
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Giurisprudenza
Concordato preventivo
le, va ricostruito in termini strettamente funzionalistici, in relazione all’obiettivo prefissato dal legislatore (per es., regolazione della propria crisi evitando la procedura concorsuale maggiore, facendo
conseguire ai creditori utilità non inferiori a quelle
che potrebbero loro derivare da una liquidazione
fallimentare, oppure loro assicurare il maggior soddisfacimento possibile). La funzione del procedimento è tipica, essa non pare consentire né una disamina né una ricerca dello scopo pratico individuale, che è divenuto comune nel programma negoziale predisposto dalle parti. È peraltro incompatibile con il modello procedimentale del concordato preventivo sia la ricerca della meritevolezza degli interessi perseguiti dalle parti sia l’adeguamento
del procedimento in relazione alle circostanza sopravvenute, potendo, se del caso, l’intento individuale delle parti avere una qualche rilevanza quale
canone ermeneutico del contenuto del procedimento (55). In altri termini, se la “causa in concreto” è intesa come l’interesse delle parti che ha preso forma nel contratto, essa non si concilia con il
concordato preventivo.
Ancora. Se è vero che “causa in astratto” e “causa
in concreto” sono espressioni che devono trovare
la loro sintesi nell’unitario concetto di causa, generando un unico controllo concreto ed effettivo (56), è evidente che, almeno così interpretata,
l’indicazione delle Sezioni Unite finisce per duplicare il concetto di causa (oppure l’accertamento
della causa), dal momento che essa prescrive prima
la verifica della idoneità della proposta alla “regolazione della crisi”, poi la soddisfazione dei diversi
crediti in misura pur “minimale” e “in tempi ragionevoli”. Ciò non ci pare la concretizzazione della
“causa astratta” nella singola operazione contrattuale, quanto la costituzione, accanto alla causa
del concordato preventivo, di un limite all’autonomia delle parti, attraverso una disposizione inderogabile dal contenuto indeterminato, in quanto
opaco e vago, la quale inoltre, così intesa, finisce
per sollevare ancora una volta quel quesito che accompagna la dottrina civilistica da almeno trent’anni: se sia configurabile un giudizio di meritevolezza da parte dell’ordinamento giuridico dell’interesse perseguito dalle parti contraenti ulteriore rispetto a quello di liceità, e ciò anche con riferimento ai contratti tipici (come il concordato),
quesito al quale le Sezioni Unite, così lette, danno
una risposta denominata “causa in concreto”. Posizione questa che corre il rischio di subire la critica
di ogni soluzione ideologica, almeno per chi ritiene
che nei contratti tipici, come il concordato, la valutazione di liceità e di meritevolezza l’avrebbe già
compiuta il legislatore (57).
Causa, cit., 276-289; M. Fabiani, Concordato preventivo, cit.,
55-81.
(55) R. Rolli, Causa in astratto e causa in concreto, Padova,
2008, 66-75.
(56) Op. ult. cit., 85.
(57) Si veda G. De Nova, Il tipo contrattuale, 1974, Napoli,
2014, 121-172.
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Accordi di ristrutturazione
Fondi comuni di investimento
Tribunale di Milano, Sez. II, 3 dicembre 2015, decr. - Pres. Paluchowski - Rel. Macripò
Accordo di ristrutturazione dei debiti - Fondo comune di investimento - Ammissibilità - Azioni esecutive e cautelari - Divieto di acquisire titoli di prelazione non concordati
(Legge fallimentare art. 182 bis)
Sussistono i presupposti per pervenire ad un accordo di ristrutturazione dei debiti nei confronti di una società
di gestione di un fondo immobiliare chiuso, con le maggioranze di cui al primo comma dell’art. 182 bis l.fall. e
le condizioni per il regolare pagamento dei creditori con i quali non sono in corso trattative o che hanno comunque negato la propria disponibilità a trattare. Pertanto può essere disposto il divieto di iniziare o proseguire azioni cautelari o esecutive o di acquisire titoli di prelazione non concordati nei confronti e a beneficio
del fondo medesimo.
Il Tribunale (omissis).
Vista
l’istanza di sospensione ai sensi dell’art. 182 bis comma
6 l.fall. depositata in data 30.9.15 dalla società (omissis).
SGR s.p.a., con sede in (omissis) e l’integrazione depositata in data 3.11.15;
Visto
il decreto in data 6.1 1.15 di convocazione della proponente e dei creditori all’udienza del 3.12.15;
Viste
le comunicazioni dell’istanza e della documentazione allegata, che la ricorrente ha inviato ai creditori;
Rilevato
che non sono state presentate opposizioni alla richiesta
di sospensione avanzata;
Ritenuto
che la documentazione prodotta dall’istante soddisfi i
requisiti di cui all’art. 182 bis comma 6 l.fall.:
tale norma, infatti, nel contemplare la possibilità di una
tutela anticipata del patrimonio dell’imprenditore in
crisi, gli consente di richiedere al Tribunale, nel corso
delle trattative che precedono l’accordo ex art. 182
bis, la pronuncia di un provvedimento che vieti ai creditori di iniziare o proseguire le azioni cautelari o esecutive di cui al terzo comma di tale norma, allegando al
ricorso, oltre alla documentazione di cui all’art. 161
commi 1 e 2 l.fall., altresì una proposta di accordo corredata dall’autocertifìcazione dell’imprenditore attestante che sulla proposta sono in corso trattative con i creditori che rappresentano almeno il 60% dei crediti e da
una dichiarazione di un professionista in possesso dei requisiti di cui all’articolo 67 comma 3 lett. d) l.fall. circa
l’idoneità della proposta, se accettata, ad assicurare il regolare pagamento dei creditori con i quali non sono in
corso trattative; orbene, nella fattispecie in esame, la
958
società ricorrente ha allegato all’istanza di sospensiva
tutta la prescritta documentazione, comprovante anzitutto la sua qualità imprenditoriale e il suo stato di crisi,
derivante dalla crisi del fondo immobiliare chiuso denominato Fondo (omissis) dalla medesima gestito, nonché
un’autocertificazione (v. doc. n. 26) e una dichiarazione
di un professionista in possesso dei requisiti di cui all’art. 67 comma 3 lett. d) l.fall. (v. doc. n. 25), attestanti - sulla scorta di una documentazione contabile che
l’attestatore afferma veritiera - che sulla proposta di accordo di ristrutturazione dei debiti ai sensi dell’art. 182
bis sono in corso trattative con i creditori del Fondo
(omissis) che rappresentano oltre il 60% dei crediti e
che la proposta di accordo è idonea ad assicurare il regolare pagamento dei creditori con i quali non sono in
corso trattative;
che, dunque, dalla documentazione prodotta emerga quanto meno secondo una mera delibazione incidentale
degli atti, che in questa sede è la sola consentita alla luce della sommarietà del procedimento e dell’attuale stato delle conoscenze - la sussistenza dei presupposti per
pervenire ad un accordo di ristrutturazione dei debiti
con le maggioranze di cui al primo comma dell’art. 182
bis e delle condizioni per il regolare pagamento dei creditori con i quali non sono in corso trattative o che
hanno comunque negato la propria disponibilità a trattare; letto l’art. 182 bis comma 7 l.fall.
P.Q.M.
1) dispone - nei confronti e a beneficio del Fondo
(omissis) gestito dalla società (omissis) SGR s.p.a., con
sede in il divieto per i creditori e per i terzi di iniziare o
proseguire azioni cautelari o esecutive sui suoi beni o di
acquisire titoli di prelazione se non concordati;
2) assegna il termine dell’1.2.16 per il deposito dell’accordo di ristrutturazione e della relazione del professionista di cui all’art. 182 bis comma 1 l.fall.;
Si comunichi via PEC alla società ricorrente e, a cura
di questa, ai creditori tutti.
(omissis).
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Accordi di ristrutturazione
Accordi di ristrutturazione dei debiti e fondi comuni
di investimento: una possibile “diversa” lettura?
di Elena Grigò (*)
Il decreto annotato offre all’autore lo spunto per una riflessione sull’applicabilità degli strumenti
di composizione della crisi di impresa alla peculiare fattispecie dei fondi comuni di investimento,
nonché, anche alla luce degli ultimi interventi normativi interni e comunitari, sulla natura degli
accordi di ristrutturazione dei debiti quale procedura concorsuale “negoziata”.
Il decreto del Tribunale di Milano
del 3 dicembre 2015
Il decreto del Trib. Milano, II Sez. civ., 3 dicembre
2015 (1) affronta alcune questioni di particolare
interesse sottese alla possibilità di applicazione degli accordi di ristrutturazione dei debiti anche ai
fondi comuni di investimento.
Il provvedimento in esame, emesso ad esito dell’udienza di cui all’art. 182 bis, comma 6, l.fall. una
volta “riscontrata la sussistenza dei presupposti per
pervenire ad un accordo di ristrutturazione dei debiti con le maggioranze di cui al [l’art. 182 bis] primo comma e delle condizioni per l’integrale pagamento dei creditori con i quali non sono in corso
trattative o che hanno negato la disponibilità a
trattare”, ha nello specifico accolto l’istanza ex art.
182 bis, comma 7, l.fall. presentata da una società
di gestione del risparmio nell’interesse del fondo
comune di investimento (immobiliare) da quest’ultima gestito, disponendo pertanto “nei confronti e
a beneficio del fondo” il divieto per i creditori e
per i terzi di iniziare o proseguire azioni cautelari o
esecutive e di acquisire titoli di prelazione se non
concordati.
Il decreto in esame appare di peculiare rilevanza
per le statuizioni in esso contenute in merito all’applicabilità della disciplina della crisi di impresa (2) anche ai fondi comuni di investimento e, al
contempo, per un riesame della natura degli accor(*) Il contributo è stato sottoposto, in forma anonima, alla
valutazione di un referee.
(1) L’ambito di applicazione dell’accordo di ristrutturazione
dei debiti a soggetti diversi dall’imprenditore (commerciale)
era già stato ampliato con l’art. 23, comma 43, D.L. 6 luglio
2011, n. 98 “Disposizioni urgenti per la stabilizzazione finanziaria”, convertito, con modificazioni, nella L. 15 luglio 2011, n.
111, in favore degli “imprenditori agricoli in stato di crisi o di
insolvenza” e “in attesa di una revisione complessiva della disciplina dell’imprenditore agricolo in crisi e del coordinamento
delle disposizioni in materia”.
(2) Sul “diritto della crisi di impresa”, si vedano, inter alios,
F. Di Marzio, Il diritto negoziale della crisi d’impresa, Milano,
2011; A. Nigro - D. Vattermoli, Diritto della crisi delle imprese,
Bologna, 2009; nonché il D.D.L. recante la “Delega al Governo
il Fallimento 8-9/2016
di di ristrutturazione dei debiti ex art. 182 bis l.fall.
alla luce degli importanti interventi normativi che
hanno interessato tale specifico istituto, ancora
“sospeso” tra negozio giuridico e procedura concorsuale “negoziata”.
Si evidenzia da subito che tale complessa duplice
analisi non può che svolgersi muovendo dai principi ispiratori del diritto dei mercati finanziari e da
quelli della disciplina concorsuale, nel tentativo di
rendere coerenti i diversi interessi tutelati e di conciliare le differenti finalità che tali normative perseguono. La complessità di disamina sembra trasparire dallo stesso provvedimento in commento, anche per via del contesto di riferimento che soffre
della sommarietà del procedimento disciplinato
dall’art. 182 bis, comma 7, l.fall. (3); le motivazioni
a supporto della delibazione (incidentale) effettuata dal Tribunale di Milano circa la sussistenza del
presupposto soggettivo ed oggettivo di cui all’art.
182 bis l.fall. (i.e. la natura di “imprenditore in stato di crisi”) appaiono infatti scarne, dando il Tribunale di Milano semplicemente atto del fatto che
“la società ricorrente ha allegato all’istanza di sospensiva tutta la prescritta documentazione, comprovante anzitutto la sua qualità imprenditoriale e
il suo stato di crisi, derivante dalla crisi del fondo
immobiliare chiuso (...) dalla medesima gestito”,
con conseguente difficoltà nell’interpretazione della ratio decidendi posta alla base del provvedimento.
per la riforma organica delle discipline della crisi e dell’insolvenza”, presentato alla Camera dei Deputati in data 11 marzo
2016, nei testi derivanti dallo stralcio deliberato dall’Assemblea della Camera dei Deputati in data 18 maggio 2016 ed ancora oggetto di esame.
(3) Sulla qualificazione del procedimento disciplinato dall’art. 182 bis, commi 6 e 7, l.fall., si vedano A. Didone, Gli accordi di ristrutturazione dei debiti (articolo 182 bis l.fall.) (presupposti, procedimento ed effetti della anticipazione delle misure
protettive dell’impresa in crisi), in Dir. fall., 2011, I, 25; M. Fabiani, L’ulteriore up-grade degli accordi di ristrutturazione e l’incentivo ai finanziamenti nelle soluzioni concordate, in questa Rivista,
2010, 898 ss.; P. Valensise, Gli accordi di ristrutturazione dei
debiti nella legge fallimentare, Torino, 2012, 178 ss.
959
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Accordi di ristrutturazione
Ad una prima lettura, il decreto in commento appare, nel riconoscere la sussistenza del presupposto
soggettivo e di quello oggettivo in capo alla società
di gestione del risparmio che ha presentato (nell’interesse del fondo comune di investimento da
quest’ultima gestito) il ricorso ex art. 182 bis l.fall.,
porsi in continuità con quanto già disposto dal Tribunale di Bologna nel proprio decreto del 17 novembre 2011 (4).
Quanto sopra, tuttavia, non esaurisce il punto sulla
sussistenza dei presupposti di cui all’art. 182 bis
l.fall., necessitando di un’ulteriore opera di coordinamento con quanto riportato nel dispositivo del
decreto ambrosiano, ove si prevede espressamente
che il c.d. automatic stay sia concesso “nei confronti e a beneficio” del fondo comune di investimento
gestito dalla società di gestione del risparmio ricorrente.
Al fine di tentare una riconciliazione di simili statuizioni, occorre richiamare, oltre alle argomentazioni addotte nell’istanza di cui all’art. 182 bis,
comma 6, l.fall. (5) (che, come si è avuto modo di
anticipare, è stata formalmente presentata dalla società di gestione del risparmio ma in qualità di gestore e nell’interesse del fondo comune di investimento immobiliare da quest’ultima gestito) a supporto della sussistenza del presupposto soggettivo,
alcune delle conclusioni cui sono giunte dottrina (6) e giurisprudenza in relazione alla natura dei
fondi comuni di investimento e ai rapporti intercorrenti tra la società di gestione del risparmio, il
fondo comune di investimento da quest’ultima gestito e i partecipanti al fondo medesimo (7).
In particolare, le interpretazioni fornite alla suddetta questione sono (pur con varianti di non poco
conto) essenzialmente quattro: (i) il fondo costituisce un patrimonio comune dei partecipanti, collettivamente intesi, da imputarsi direttamente in capo a questi ultimi, (ii) il fondo comune di investimento può configurarsi come un patrimonio senza
soggetto, (iii) il fondo costituisce un patrimonio
autonomo e, come tale, distinto dal patrimonio
della società di gestione del risparmio e da quello
dei partecipanti ovvero (iv) il fondo costituisce un
patrimonio destinato della società di gestione del
risparmio.
Con riferimento alla tesi del fondo quale comunione dei partecipanti (8), è stato osservato in dottrina (9) che già a livello di dato normativo (in particolare, l’art. 36, comma 4, T.U.F.) è espressamente
sancita l’autonomia del patrimonio del fondo rispetto sia al patrimonio della società di gestione
del risparmio sia a quello di ciascun partecipante al
fondo medesimo (nonché a quello degli altri fondi
gestiti dalla medesima società di gestione del risparmio, del depositario e del sub depositario) (10).
(4) Il decreto del Trib. Bologna del 17 novembre 2011, in
questa Rivista, 2012, 594 ss., si sofferma, tra le diverse questioni giuridiche oggetto di (particolarmente approfondita) analisi, anche sulla legittimazione a proporre un accordo di ristrutturazione dei debiti ex art. 182 bis l.fall. in capo ad un intermediario finanziario in amministrazione straordinaria, sancendo,
sul presupposto della natura privatistica dell’istituto, l’inapplicabilità del disposto di cui all’art. 80, comma 6, T.U.B. (richiamato dall’art. 57, comma 3, T.U.F.) in virtù del quale “le banche non sono soggette a procedure concorsuali diverse dalla
liquidazione coatta prevista dalle norme della presente sezione; per quanto non espressamente previsto si applicano, se
compatibili, le disposizioni della legge fallimentare”.
(5) L’istanza è disponibile sul sito www.studio-abaco.com.
(6) Sull’ampio dibattito dottrinale (non ancora del tutto sopito), si vedano, inter alios, L. Boggio, Fondi comuni di investimento, separazione patrimoniale, interessi protetti e intestazione
di beni immobili, in Giur. it., 2011, 331 ss.; P. Caliceti, Vecchie e
nuove questioni in tema di fondi comuni di investimento, in Riv.
dir. civ., 2012, 226 ss.; F. Gentiloni Silveri, Limiti di responsabilità patrimoniale nei fondi comuni di investimento. Novità recenti:
tra giurisprudenza e legislazione, in Banca, borsa, tit. cred.,
2011, II, 432 ss.; V. Lemma, Autonomia dei fondi comuni di investimento e regolazione della gestione collettiva del risparmio,
in Banca, borsa, tit. cred., 2011, II, 423 ss.; R. Sansone, La natura giuridica del fondo comune di investimento: una questione
superata?, in Società, 2011, 1058.
(7) Per una disamina della questione si rinvia a F. Annunziata, La disciplina del mercato mobiliare, Torino, 2015, 226; A.
Borgioli, La responsabilità per la gestione dei fondi comuni di investimento mobiliare, in Riv. Società, 1983, 919; P. Carrière, La
“crisi” nei fondi comuni di investimento: tra autonomia patrimoniale e soggettività, in Riv. dir. soc., 2014, 256; G.B. Ferri J.r.,
Patrimonio e gestione mobiliare. Spunti per una ricostruzione sistematica dei fondi comuni di investimento, in Riv. dir. comm.,
1992, I, 50; E. Gabrielli - R. Lener, Mercati, strumenti finanziari
e contratto di investimento dopo la MiFID, in E. Gabrielli - R. Lener (a cura di), I contratti del mercato finanziario, Torino, 2010,
33 ss.; F. Guerrera, Contratto di investimento e rapporto di gestione (riflessioni sulla proprietà delegata), in Riv. crit. dir. priv.,
1988, 750.
(8) La tesi (più risalente nel tempo) è stata sostenuta da T.
Ascarelli, Investment trust, in Banca, borsa, tit. cred., 1951, I,
178 ss.; B. Libonati, Holding e investment trust, Milano, 627;
F. Riolo, Prime note sui fondi comuni di investimento mobiliare,
in Riv. dir. fin., 1970, I, 269 ss.; G. Visintini, Riflessioni in tema
di fondi comuni di investimento con riferimento al disegno di
legge governativo, in Riv. Società, 1969, 1194. Si veda, altresì,
L. Bullo, Trust, destinazione patrimoniale ex art. 2545 ter c.c. e
fondi comuni d’investimento ex art. 36, comma 6 del t.u.f.: quale modello di segregazione patrimoniale?, in Riv. dir. civ., 2012,
535.
(9) Sul punto si veda, su tutti, F. Annunziata, La disciplina
del mercato mobiliare, cit., 226 ss. e la dottrina ivi citata, il quale sottolinea che i partecipanti al fondo comune di investimento non si trovano nella situazione propria del (com)proprietario,
non potendo né godere né disporre dei beni che compongono
il fondo medesimo in quanto destinati alle finalità (di investimento e non di godimento) proprie del fondo medesimo.
(10) Con riferimento alla tesi in esame è intervenuta anche
la costante giurisprudenza (su tutti la sentenza “cardine” in
materia della Cass. 15 luglio 2010, n. 16605, in Società, 2011,
Il presupposto soggettivo
960
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Accordi di ristrutturazione
Quanto all’opzione interpretativa che qualifica il
fondo comune di investimento come un patrimonio senza soggetto o “acefalo” (11), la dottrina e la
giurisprudenza della Corte di Cassazione, oltre ad
osservare che “l’ordinamento mal sopporta l’esistenza di un patrimonio privo di titolare”, hanno
criticato la suddetta impostazione in quanto la stessa non consentirebbe di fornire alcuna soluzione
pratica alla questione relativa all’imputazione del
patrimonio oggetto del fondo comune di investimento (12).
L’ulteriore interpretazione, propugnata dalla giurisprudenza costante della Corte di Cassazione e di
merito (13), oltre che da parte di alcuna dottrina (14), pur vagliando alcuni indici normativi e sistematici che parrebbero sostenere la diversa tesi
dell’autonoma soggettività giuridica in capo al fondo comune di investimento, ritiene che la stessa
sarebbe da escludere in quanto non (ancora) supportata da solidi agganci normativi. Ne consegue,
nel ragionamento della Corte di Cassazione, la
configurabilità del fondo comune di investimento
quale patrimonio separato della società di gestione,
dotato di una propria autonomia patrimoniale (15),
la cui titolarità formale spetterebbe alla società di
gestione del risparmio (sulla quale sarebbe posta
anche la legittimazione attiva e passiva ad agire in
giudizio), mentre la relativa titolarità “sostanziale”
sarebbe in capo ai partecipanti al fondo medesimo.
Altra dottrina (16), diversamente, ha sostenuto
che il fondo comune di investimento abbia (ovvero abbia assunto, nel corso del tempo, anche in ragione di una apparente “mutazione genetica” (17)
dei fondi comuni di investimento rispetto al relativo modello tradizionale) una soggettività giuridica
autonoma. In particolare, secondo tale inquadramento della fattispecie, la soggettività, individuabile come l’attitudine a porsi quale “centro di imputazione unitario” di rapporti giuridici (18), sarebbe
configurabile in virtù di un’interpretazione sistematica di alcune norme via via introdotte (forse in
maniera non del tutto organica) nell’ordinamento
giuridico (19). Partendo dall’assunto che il discrimine tra mera soggettività e personalità giuridica
tout court dipende dal grado di impermeabilità del
patrimonio del soggetto considerato rispetto a
quello di coloro da cui promana (20), anche lo
stesso art. 36, comma 4, T.U.F. (21) parrebbe potersi intendere come volto non solo a sancire la
perfetta autonomia patrimoniale del fondo comune
di investimento, ma anche, attribuendo rilevanza
al soggetto “fondo”, a rafforzare l’idea di sussistenza
46 ss.) la quale ha espressamente escluso che i partecipanti
possano qualificarsi come comproprietari dei beni del fondo in
ragione del fatto che questi ultimi hanno un mero diritto di credito nei confronti della società di gestione e non godono, invece, di un diritto reale né sulle quote del fondo né sui beni nello
stesso conferiti.
(11) Sul punto si veda P. Ferro Luzzi, Un problema di metodo: la natura giuridica dei fondi comuni di investimento, in Riv.
Società, 2012, 755.
(12) Si legga quanto precisato in Cass. 15 luglio 2010, n.
16605, cit., 48.
(13) Oltre alla più volte citata Cass. 15 luglio 2010, n.
16605, cit., 48, si vedano, inter alia, Cass. 20 maggio 2013, n.
12187, in www.ilcaso.it, Sez. Giur., 10685; Trib. Roma 20 maggio 2014, n. 11384, in www.ilcaso.it, Sez. Giur., 10595; Trib.
Roma 10 giugno 2015, n. 12674, in www.ilcaso.it; Trib. Milano
29 marzo 2012, n. 65566, in www.ilcaso.it, Sez. Giur., 10501,
che, ponendosi in continuità con la giurisprudenza della Corte
di Cassazione, arriva ad assimilare il fondo comune di investimento ad un trust (in cui la società di gestione del risparmio
opera alla stregua di un trustee revocabile dall’assemblea dei
partecipanti, quest’ultima a propria volta riconducibile - stante
il potere di sostituire la società di gestione del risparmio - alla
figura del guardiano), in cui i partecipanti al fondo comune di
investimento (essenzialmente configurabili come i disponenti
del trust) sarebbero sostanzialmente titolari dei diritti sui beni
conferiti nel fondo medesimo la cui titolarità formale, però, sarebbe posta in capo alla società di gestione del risparmio che
in tale momento gestisce il fondo.
(14) Si vedano F. Annunziata, La disciplina del mercato mobiliare, cit., 226 ss.; G.B. Ferri J.r, Patrimonio e gestione mobiliare. Spunti per una ricostruzione sistematica dei fondi comuni
di investimento, cit., 25 ss.; P.G. Jaeger, Sui fondi comuni di investimento, in Riv. Società, 1969, 1142; P. Spada, Persona giuridica e articolazione del patrimonio, in Riv. dir. civ., 2002, I,
837.
(15) Tra gli argomenti richiamati da Cass. 15 luglio 2010, n.
16605, cit., 48, a sostegno della propria ricostruzione, oltre all’assenza di indici normativi significativi di senso contrario, vi
sarebbe “l’assenza di una struttura organizzativa minima, di rilevanza anche esterna” in capo al fondo comune di investimento, nonché quanto indicato nell’art. 1, comma 1, lett. j),
T.U.F. (ossia la definizione di “fondo comune di investimento” come “l’OICR costituito in forma di patrimonio autonomo,
suddiviso in quote, istituito e gestito da un gestore”) e nell’art.
36, comma 4, T.U.F., dai quali parrebbe desumersi solamente
il grado di autonomia patrimoniale (perfetta) del fondo comune
di investimento e non anche la sussistenza di un’autonoma
soggettività in capo a quest’ultimo.
(16) Si vedano R. Costi, La struttura dei fondi comuni di investimento nell’ordinamento giuridico italiano e nello schema di
riforma delle società commerciali, in Riv. Società, 1968, 300 ss.;
P. Caliceti, Vecchie e nuove questioni in tema di fondi comuni
d’investimento, cit., 219; P. Carrière, Fondi comuni di investimento tra liquidazione giudiziale e soluzioni negoziali della crisi
d’impresa, in questa Rivista, 2014, 617 ss.; A. Nigro, I fondi comuni di investimento mobiliare: struttura e natura giuridica, in
Riv. trim. dir. proc. civ., 1969, 1617.
(17) La locuzione è di P. Carrière, Dove vanno i fondi comuni
di investimento (chiusi): spunti di riflessione su alcune recenti
tendenze in atto nel risparmio gestito, in AA.VV., Scritti giuridici
per P.G. Marchetti. Liber discipulorum, Milano, 2011, 171 ss.
(18) Sul punto, a contrariis, Cass. 15 luglio 2010, n. 16605,
cit., 48.
(19) Si veda Cons. Stato, Sez. III, 11 maggio 1999, parere
n. 608, in Foro amm., 2000, 2225.
(20) Sul punto, P. Caliceti, Vecchie e nuove questioni in tema di fondi comuni d’investimento, cit., 232.
(21) Si veda P. Carrière, La “crisi” nei fondi comuni di investimento: tra autonomia patrimoniale e soggettività, cit., 256.
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Accordi di ristrutturazione
di una distinzione soggettiva tra società di gestione
del risparmio e fondo comune di investimento.
Inoltre, criticando l’affermazione della Corte di
Cassazione di cui alla sentenza del 2010 secondo la
quale difetterebbe in capo al fondo un’organizzazione distinta da quella della società di gestione del
risparmio che gli consenta “di porsi direttamente
in relazione con i terzi ed abbisognando a tal fine
comunque dell’intervento della società di gestione”, i fautori della citata impostazione ermeneutica
evidenziano come, ai sensi dell’art. 37 T.U.F e del
Regolamento sulla gestione collettiva del risparmio
del 19 gennaio 2015 emanato da Banca d’Italia,
anche il fondo comune di investimento possa avere
un minimo di organizzazione (anche) gestoria interna. Sempre sotto tale profilo, è stato quindi rilevato che l’unica sostanziale differenza rispetto alle
società e ad altri enti è dovuta al fatto che l’organo
gestorio del fondo comune di investimento non è
interno al soggetto di diritto ma ad esso esterno (22), da individuarsi nell’ente necessariamente
qualificato, specializzato e vigilato, quale è la società di gestione del risparmio (23).
Questa sintetica disamina delle differenti interpretazioni fornite dalla dottrina e dalla giurisprudenza
circa la natura dei fondi comuni di investimento
appare necessaria al fine di verificare, per il profilo
che qui interessa, la configurabilità in capo al fondo comune di investimento (e non, pacificamente,
alla società di gestione del risparmio) della qualifica di imprenditore di cui al combinato disposto degli artt. 1 e 182 bis l.fall. Il quadro normativo attuale non sembra consentire un’adesione sic et simpliciter ad una o all’altra delle diverse impostazioni
ermeneutiche sopra riepilogate senza scontare lacune normative e/o incoerenze di sistema in ambiti
assai diversi del diritto (commerciale, fallimentare
e degli intermediari finanziari), peraltro di estrema
mutevolezza, con gravi ricadute in punto di certezza del diritto.
Nella consapevolezza delle ulteriori e diverse conseguenze sistematiche che derivano dall’accoglimento dell’una o dell’altra delle tesi menzionate,
assume particolare importanza per l’analisi in parola l’introduzione, nell’ambito della disciplina relativa alla liquidazione coatta amministrativa delle
S.I.M., delle società di gestione del risparmio, delle
S.I.C.A.V. e delle S.I.C.A.F., della procedura di liquidazione dei fondi comuni di investimento.
Prima dell’introduzione dell’art. 57, comma 3 bis,
T.U.F. relativo alla liquidazione (ovvero alla cessione) del fondo comune di investimento nell’ipotesi di apertura della procedura di liquidazione
coatta amministrativa in capo alla società di gestione del risparmio, la giurisprudenza era, infatti,
giunta ad applicare al fondo comune di investimento la disciplina prevista in ambito fallimentare
dall’art. 155 l.fall. per i patrimoni destinati (24). Il
legislatore è poi intervenuto nel corpo del menzionato art. 57 T.U.F. introducendo il comma 6 bis, finalizzato a disciplinare situazioni di “crisi” (25)
(rectius, “le situazioni in cui le attività del fondo o
del comparto non consentano di soddisfare le obbligazioni dello stesso e non sussistano ragionevoli
prospettive che tale situazione possa essere superata”) del fondo comune di investimento (o di un
suo comparto) anche a prescindere dall’apertura
della procedura di liquidazione coatta amministrativa in capo alla società di gestione del risparmio.
Come osservato da parte della dottrina (26), infatti, la previsione di una procedura di liquidazione
giudiziale ad hoc, applicabile esplicitamente al
fondo comune di investimento, consentirebbe anche ove si aderisca alla tesi che qualifica que-
(22) Si veda, P. Carrière, La “crisi” nei fondi comuni di investimento: tra autonomia patrimoniale e soggettività, cit., 256.
(23) Per una ricostruzione degli ulteriori indici normativi a
sostegno dell’imputabilità in capo al fondo comune di investimento di rapporti giuridici sia nella normativa primaria sia nella
normativa secondaria si rinvia a P. Barbanti Silva, Alcune riflessioni in merito alla natura dei fondi comuni d’investimento, in
Riv. dir. banc., marzo 2013. Con riferimento alla disciplina tributaria, si rinvia a P. Anello - L. Orlando, Esclusa la soggettività
giuridica dei fondi comuni di investimento?, in Corr. trib., 2016,
1023.
(24) Si veda Trib. Milano 29 marzo 2012, n. 65566, cit., il
quale ha ritenuto di applicare l’art. 155 l.fall. in ragione del rinvio effettuato dall’art. 57, comma 3, T.U.F. all’art. 80, comma
6, T.U.B. ove si dice che “per quanto non espressamente previsto si applicano, se compatibili, le disposizioni della legge fallimentare”. La disciplina introdotta nell’ambito dell’art. 57,
commi 3 bis e 6 bis, T.U.F. appare, tuttavia, in parte discostarsi
da quanto disposto dagli artt. 155 e 156 l.fall. in quanto, mentre nel primo caso il rinvio ai profili non espressamente disci-
plinati è operato alle norme proprie della liquidazione coatta
amministrativa previste dal testo unico bancario in quanto
compatibili, nel secondo caso il rinvio è alle regole della liquidazione delle società. Sul punto, occorre, altresì, accennare al
tema, emerso in dottrina prima dell’introduzione nell’ambito
della legge fallimentare dell’art. 156 l.fall., circa la fallibilità
autonoma del singolo patrimonio destinato, sul quale si rinvia
a E. Frascaroli Santi, Il diritto fallimentare e delle procedure
concorsuali, Padova, Lavis (TN), 2016, 468 ss.
(25) Per un’estesa analisi dello “stato di crisi”, N. Rocco Di
Torrepadula, La crisi dell’imprenditore, in Giur. comm., 2009, I,
216 ss.; L. Stanghellini, Le crisi di impresa fra diritto ed economia. Le procedure di insolvenza, Bologna, 2007, 117 ss.
(26) Si vedano, in particolare, S. Bonfatti, La disciplina particolare della liquidazione coatta amministrativa delle SGR. La liquidazione giudiziale del fondo o del comparto insolvente, in
Riv. dir. banc., settembre 2013; P. Carrière, Fondi comuni di investimento tra liquidazione giudiziale e soluzioni negoziali di
composizione della crisi, cit., 617; ancora S. Bonfatti, “Accordo
di ristrutturazione” ex art. 182 - bis l.fall. e fondi comuni di inve-
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Accordi di ristrutturazione
Come noto, l’ulteriore presupposto richiesto dall’art. 182 bis l.fall. ai fini dell’accesso allo strumento di composizione della crisi ivi disciplinato è la
sussistenza, in capo al soggetto ricorrente, dello stato di crisi.
Al di là delle diverse prospettazioni dottrinali (29)
in merito al significato da attribuire, in assenza di
una definizione normativa esplicita, allo “stato di
crisi”, nonché alla configurabilità pratica, oltre che
teorica, di una situazione di indebitamento in capo
ai fondi comuni di investimento (30), si è avuto
modo di vedere che la situazione della “crisi” (irreversibile) in capo al fondo ha trovato una propria
collocazione normativa nell’ambito delle disposi-
zioni sulla liquidazione giudiziale del fondo comune
di investimento di cui all’art. 57, comma 6 bis,
T.U.F.
In coerenza con le teorie sopra richiamate, l’istanza
ex art. 182 bis, comma 6, l.fall. presentata nel caso
sottoposto all’esame del Tribunale di Milano riferisce lo stato di crisi in primo luogo (e soprattutto)
al fondo comune di investimento e, solo in via
prospettica (31) e derivata, in capo alla società di
gestione del risparmio (come conseguenza del mancato incasso da parte di quest’ultima delle commissioni per la gestione del fondo comune di investimento).
Anche sotto tale profilo il decreto in commento
non appare del tutto chiaro e coerente con la relativa istanza, laddove il Tribunale appare riferire lo
stato di crisi alla società ricorrente (e, quindi, la
società di gestione del risparmio) e non al fondo
comune di investimento.
Dalle suddette premesse (ossia dalla sussistenza del
presupposto oggettivo in capo alla società di gestione del risparmio) dovrebbe conseguire che l’accordo di ristrutturazione dei debiti (e la percentuale
del 60% di creditori aderenti) debba riguardare tutti i creditori della società di gestione del risparmio
e non solamente i creditori del fondo comune di
investimento. Ove, diversamente (32), si prospettasse la sussistenza dei presupposti soggettivo ed oggettivo (presupposti che, dalla lettura dell’art. 182
bis l.fall., non paiono “scindibili”) in capo al fondo
comune di investimento, l’accordo di ristrutturazione dei debiti ed i relativi effetti potrebbero ben
riguardare i soli creditori del fondo comune di investimento; a questo punto, tuttavia, non parrebbe
più coerente quanto si legge nel corpo del decreto
sul fatto che “la società ricorrente ha allegato all’istanza di sospensiva tutta la prescritta documentazione, comprovante anzitutto la sua qualità imprenditoriale e il suo stato di crisi, derivante dalla
crisi del fondo immobiliare chiuso (...) dalla medesima gestito”.
stimento immobiliari, in Riv. dir. banc., novembre 2015. Sul
punto, in giurisprudenza, si menziona la sentenza del Trib. Roma 30 marzo 2015, n. 6974, in www.unijuris.it, nell’ambito della quale si fa riferimento alla dichiarazione di “liquidazione
coatta amministrativa” del fondo comune di investimento immobiliare di tipo chiuso.
(27) Così P. Carrière, Fondi comuni di investimento tra liquidazione giudiziale e soluzioni negoziali di composizione della crisi, cit., 617.
(28) Sul punto S. Bonfatti, La disciplina particolare della liquidazione coatta amministrativa delle SGR. La liquidazione giudiziale del fondo o del comparto insolvente, cit.
(29) Per un esame del presupposto oggettivo delle procedure concorsuali, si veda E. Frascaroli Santi, Il diritto fallimentare e delle procedure concorsuali, cit., 31 ss.
(30) Su cui si rinvia a P. Carrière, La “crisi” nei fondi comuni
di investimento: tra autonomia patrimoniale e soggettività, cit.,
256.
(31) Sull’insolvenza prospettica, si veda V. Colesanti, Crisi
d’impresa, accordi di ristrutturazione e insolvenza (“prospettica”), in Corr. giur., 2010, 122.
(32) Sul punto si veda S. Bonfatti, “Accordo di ristrutturazione” ex art. 182-bis l.fall. e fondi comuni di investimento immobiliari, cit.
st’ultimo quale patrimonio destinato della società
di gestione del risparmio - (anche) al fondo comune di investimento di avvalersi dello strumento di
cui all’art. 182 bis l.fall. (rectius, di superare, almeno in parte, le criticità nel configurare il presupposto soggettivo di cui all’art. 182 bis l.fall. in capo a quest’ultimo) in ragione del fatto che, diversamente, verrebbe a crearsi una lacuna normativa
per le situazioni di crisi che dovessero presentarsi
in capo al fondo comune di investimento e che
non fossero sussumibili nell’ipotesi disciplinata
dall’art. 57, comma 6 bis T.U.F. A tale conclusione si perviene attraverso un articolato percorso
logico-argomentativo, volto ad una ricostruzione
di un quadro normativo (esaustivo) applicabile alle ipotesi di insolvenza irreversibile, di insolvenza
reversibile e di crisi del fondo comune di investimento: nel primo caso, attraverso la procedura di
liquidazione giudiziale del fondo (alla quale vengono riconosciuti connotati di concorsualità mediante un’interpretazione estensiva del richiamo
formulato dall’art. 57, comma 6 bis, T.U.F al comma 3 (27) ovvero 3 bis (28) del medesimo articolo) e, negli altri casi, attraverso l’accesso agli strumenti di composizione negoziale della crisi che
non abbiano natura concorsuale.
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L’ultima questione sottesa al decreto del Tribunale
di Milano in commento riguarda l’ammissibilità
del ricorso da parte di una società di gestione del
risparmio (ed, eventualmente, del fondo comune
di investimento) allo strumento di composizione
della crisi di impresa disciplinato dall’art. 182 bis
l.fall. in ragione dell’esclusione prevista, in virtù
del richiamo operato dall’art. 57, comma 3, T.U.F.,
dall’art. 80, comma 6, T.U.B. a mente del quale
“le banche non sono soggette a procedure concorsuali diverse dalla liquidazione coatta prevista dalla
presente sezione; per quanto non espressamente
previsto si applicano, se compatibili, le disposizioni
della legge fallimentare”.
Ove, pertanto, si qualificassero gli accordi di ristrutturazione dei debiti come procedura concorsuale gli stessi rientrerebbero nell’ambito di applicazione dell’art. 80, comma 6, T.U.B. e dell’art.
57, comma 3, T.U.F., con conseguente inapplicabilità dell’istituto de quo a banche, S.I.M., società di
gestione del risparmio, S.I.C.A.V., S.I.C.A.F. e
fondi comuni di investimento. Si giungerebbe a
conclusioni opposte ove, invece, si partisse, con la
dottrina e la giurisprudenza maggioritarie (33), dall’assunto della natura privatistica dell’istituto disciplinato dall’art. 182 bis l.fall.; alla fattispecie, infatti, risulterebbe inapplicabile il disposto di cui
all’80, comma 6, T.U.B. (richiamato dall’art. 57,
comma 3, T.U.F.) in quanto riferito solamente alle
“procedure concorsuali”, con conseguente possibilità di ricorso, anche per le banche e gli intermediari
finanziari sopra citati, agli accordi di ristrutturazione dei debiti.
Il nodo centrale della questione in esame pare,
quindi, riconducibile alla possibilità di qualificare
l’accordo di ristrutturazione dei debiti come “procedura concorsuale”.
Con riferimento all’istituto de quo si è, in particolare, osservato che lo stesso presenta una “innaturale complessità duale” in quanto fattispecie normativamente “a metà del guado” tra il contratto
(che, ai sensi dell’art. 1372 c.c., ha forza di legge
tra le parti) e il controllo giurisdizionale (che
usualmente risulta estraneo all’efficacia del contratto) (34). Tale peculiare situazione di “contratto
calato nel processo” (35), unitamente ad una disciplina che, nel succedersi degli interventi normativi, è risultata spesso frammentata (e, a volte incoerente), hanno determinato una forte incertezza in
merito alla fisionomia degli accordi di ristrutturazione dei debiti.
Alla luce della “vicinanza normativa” tra gli accordi di ristrutturazione dei debiti e il concordato preventivo una prima impostazione dottrinale, sostenuta in particolar modo nella prima fase successiva
all’introduzione dell’istituto e tornata in auge a seguito delle ultime riforme della legge fallimentare,
ha qualificato gli accordi di ristrutturazione dei debiti quale modalità di attuazione del concordato
preventivo, caratterizzata da una accelerazione della fase negoziale e da un procedimento semplificato, arrivando a costruire tra i due istituti un rapporto di specie a genere (36).
Tale tesi, tuttavia, è rimasta minoritaria a favore di
un progressivo consolidarsi della diversa teoria,
quasi unanimemente recepita dalla giurisprudenza
di merito (37), che qualifica gli accordi di ristrutturazione quale istituto autonomo rispetto al concor-
(33) Sul punto si vedano, tuttavia, S. Bonfatti, “Accordo di
ristrutturazione” ex art. 182-bis l.fall. e fondi comuni di investimento immobiliari, cit.; P. Carrière, Fondi comuni di investimento tra liquidazione giudiziale e soluzioni negoziali della crisi d’impresa, cit., 617 ss. In giurisprudenza, oltre a Trib. Milano 3 dicembre 2015, decr., in esame, le (interessanti ed esaustive) argomentazioni addotte, anche in virtù della qualificazione dell’accordo di ristrutturazione dei debiti quale strumento privatistico di composizione della crisi di impresa, da Trib. Bologna
17 novembre 2011, decr., cit., 594 ss., in merito alla proponibilità da parte di un intermediario finanziario (peraltro in amministrazione straordinaria) dell’accordo di ristrutturazione dei debiti ex art. 182 bis l.fall.
(34) Le definizioni sono di M. Fabiani, L’ulteriore up-grade
degli accordi di ristrutturazione e l’incentivo ai finanziamenti nelle soluzioni concordate, cit., 898 ss.
(35) Per F. Di Marzio, Il diritto negoziale della crisi d’impresa,
cit., 140, diversamente, negli accordi di ristrutturazione “il procedimento si presenta come sovrastruttura avvolgente” del
contratto, con la conseguenza che “i due ingredienti vanno tenuti separati, rinunciando a ogni tentazione di sintesi: sia nel
senso di una ‘procedura concorsuale’ sia nel senso di un mero
contratto concluso sul mercato”. Per E. Gabrielli, Accordi di ristrutturazione del debito e tipicità dell’operazione economica, in
F. Di Marzio - F. Macario (a cura di), Autonomia negoziale e crisi d’impresa, Milano, 2010, 277, l’accordo di ristrutturazione
“in sé considerato si estrinseca dunque in un atto di autonomia privata inserito in un procedimento giurisdizionale”.
(36) Si vedano, inter alios, A. Castiello D’Antonio, Riforma
della legge fallimentare e imprese soggette a procedure concorsuali speciali, in Dir. fall., 2005, I, 921 ss.; A. Pezzano, Gli accordi di ristrutturazione dei debiti ex articolo 182 bis legge fallimentare: una occasione da non perdere, in Dir. fall., 2006, II, 674; C.
Trentini, Gli accordi di ristrutturazione dei debiti, Milano, 2012,
1 ss.; P. Valensise, Gli accordi di ristrutturazione dei debiti nella
legge fallimentare, cit., 103 ss. In giurisprudenza, si veda Trib.
Milano 15 dicembre 2005, decr., in Dir. fall., 2006, II, 674.
(37) Si vedano, ex aliis, Trib. Bari 21 novembre 2005, decr.,
in questa Rivista, 2005, 169 ss. con nota di G. Presti, L’articolo
182 bis al primo vaglio giurisprudenziale, in Foro it., 2006, I,
263 ss., con nota di M. Fabiani, Accordi di ristrutturazione dei
debiti: l’incerta via italiana alla “reorganization” e in Dir. fall.,
2006, II, 536, con nota di A. Caiafa, Accordi di ristrutturazione
dei debiti: natura giuridica e giudizio di omologazione; Trib. Mi-
L’accordo di ristrutturazione dei debiti
quale procedura concorsuale “negoziata”
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dato preventivo e avente natura prettamente negoziale e privatistica (38).
Secondo i sostenitori della predetta tesi, il contratto ha assoluta preminenza, anche interpretativa,
sulla fase procedimentale individuata dall’art. 182
bis l.fall. Occorre, tuttavia, osservare che alcune
delle argomentazioni addotte a sostegno della predetta impostazione ermeneutica sembrano presupporre la natura contrattuale dell’istituto de quo per
arrivare ad inferirne l’autonomia dal concordato
preventivo. In realtà, appare più corretto distinguere i due piani: da un lato, è necessario rispondere
al quesito relativo all’autonomia degli accordi di ristrutturazione dei debiti rispetto al concordato preventivo e, dall’altro lato, è opportuno verificare se
negli stessi sono presenti o meno le caratteristiche
tipiche delle procedure concorsuali (39).
Con riferimento all’autonomia tra l’istituto de quo
dal concordato preventivo, in contrapposizione
agli argomenti letterali evidenziati a sostegno della
tesi “unitaria”, si adducono motivi di natura testuale aventi ad oggetto sia l’irrilevanza della collocazione dell’art. 182 bis l.fall. nell’ambito delle disposizioni del concordato preventivo sia il riferimento
ai due istituti in maniera distinta nell’ambito di
numerose disposizioni normative (i.e. gli artt. 67,
comma 3, lett. d, 182 ter, 182 quater, 182 quinquies
182 sexies e 217 bis l.fall., nonché l’art. 49, comma
1, lett. b, n. 1, punti (i) e (ii) del “Regolamento di
attuazione del decreto legislativo 24 febbraio 1998,
n. 58, concernente la disciplina degli emittenti”).
Alla luce di tale differenziazione, parte della dottrina, evidenziando la comune matrice negoziale del
concordato preventivo e dell’accordo di ristruttura-
zione dei debiti, ha concluso che quest’ultimo debba essere qualificato, proprio perché differente dal
concordato preventivo, come un contratto di diritto privato da raggiungersi “con la maggioranza [dei
creditori] ma non a maggioranza” (40).
La ricostruzione ermeneutica sopra riportata, tuttavia, per quanto condivisibile nella parte in cui reputa che l’istituto in esame debba considerarsi
autonomo dal concordato preventivo, pare non tenere conto del fatto che, da un lato, il contratto
costituisce un presupposto, per quanto indefettibile, di un più ampio procedimento (analogamente a
quanto accade nel concordato preventivo ove l’esercizio dell’autonomia, in questo caso negoziale,
costituisce uno dei presupposti di tale istituto) e,
dall’altro lato, che i rilevanti effetti (41), di carattere marcatamente concorsuale, discendono non
dal contratto ma dal procedimento medesimo e
dalla relativa omologazione.
Sotto tale ultimo profilo, la teoria “contrattualista”
ritiene che tali effetti siano stati introdotti dal legislatore solamente al fine di agevolare la conclusione del contratto “accordo di ristrutturazione dei
debiti” e non varrebbero a sussumere l’istituto in
oggetto nella categoria delle procedure concorsuali.
Pur concordando con una lettura della riforma fallimentare finalizzata ad assicurare un maggior favor
alle soluzioni negoziali della crisi di impresa, la
stessa pare essere riduttiva se confrontata con le
conseguenze derivanti dal procedimento previsto
dall’art. 182 bis l.fall. e dal relativo provvedimento
di omologazione, giacché questi ultimi attribuiscono al contratto un’efficacia che travalica i poteri
dei contraenti, non potendo, ad esempio, l’inope-
lano 21 dicembre 2005, decr. e Trib. Brescia 22 febbraio 2006,
decr., in questa Rivista, 2006, 669, con nota di G.B. Nardecchia, Gli accordi di ristrutturazione dei debiti; Trib. Roma 16 ottobre 2006, decr., in questa Rivista, 2007, 187, con nota di C.
Proto, Accordi di ristrutturazione dei debiti, tutela dei soggetti
coinvolti nella crisi d’impresa e ruolo del giudice; Trib. Bologna
17 novembre 2011, decr., cit., 594 ss., con nota di S. Bonfatti,
Pluralità di parti ed oggetto dell’accertamento del tribunale nell’accordo di ristrutturazione di debiti ex articolo 182 bis l.fall. (e
nel concordato preventivo).
(38) Nel senso dell’autonomia dei due istituti e della natura
prettamente contrattuale degli stessi, si vedano, inter alios, S.
Ambrosini, Il concordato preventivo e gli accordi di ristrutturazione, in G. Cottino, Trattato di diritto commerciale, XI, Padova,
2008, 172 ss.; G. Fauceglia, Prime osservazioni sugli accordi di
ristrutturazione dei debiti, in Dir. fall., 2005, I, 842 ss.; E. Gabrielli, Accordi di ristrutturazione del debito e tipicità dell’operazione economica, cit., 277 ss.; B. Inzitari, Gli accordi di ristrutturazione ex articolo 182 bis legge fallim.: natura, profili funzionali
e limiti dell’opposizione degli estranei e dei terzi, in Dir. fall.,
2012, I, 13 ss.; G. Lo Cascio, La nuova legge fallimentare: dal
progetto di legge delega alla miniriforma per decreto legge, in
questa Rivista, 2005, 362 ss.; G.B. Nardecchia, Crisi d’impresa,
autonomia privata e controllo giurisdizionale, Milano, 2007, 26
ss.; G. Presti, Gli accordi di ristrutturazione dei debiti, ovvero la
sindrome del teleobiettivo, in S. Ambrosini, La riforma della legge fallimentare. Profili della nuova disciplina, Bologna, 2006,
379 ss.; L. Stanghellini, Finanziamenti-ponte e finanziamenti alla
ristrutturazione, in questa Rivista, 2010, 1346 ss.; G. Tarzia, La
nuova tutela del debitore e dei finanziatori negli strumenti di prevenzione del fallimento, in Dir. fall., 2010, I, 543 ss.
(39) Sul punto si rinvia a A. Bonsignori, Il Fallimento, in F.
Galgano (diretto da), Trattato di diritto commerciale e di diritto
pubblico dell’economia, IX, Padova, 1986, 98.
(40) Si vedano F. Di Marzio, Il diritto negoziale della crisi
d’impresa, cit., 1 ss.; G. Scarselli, Le sistemazioni stragiudiziali
(ovvero gli accordi di ristrutturazione dei debiti e i piani di risanamento delle esposizioni debitorie), in E. Bertacchini - L. Gualandi - S. Pacchi - G. Pacchi - G. Scarselli, Manuale di diritto fallimentare, Milano, 2011, 534 ss.
(41) Tra cui le disposizioni relative all’esenzione dall’azione
revocatoria, alla protezione anticipata del patrimonio nella fase
delle trattative, all’esenzione dai reati fallimentari, al trattamento delle sopravvenienze attive, alla deducibilità delle perdite, alla proponibilità della transazione fiscale e alla prededucibilità
dei crediti.
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ratività della revocatoria, né tantomeno l’esenzione penale, essere disposta per volontà delle parti (42).
Tra gli ulteriori molteplici argomenti portati dai
fautori della tesi “contrattualista” a sostegno della
propria interpretazione (43), occorre quindi soffermarsi sull’asserita assenza, nell’ambito dello strumento di cui all’art. 182 bis l.fall., del necessario rispetto del principio di concorsualità e del principio
della par condicio creditorum (44) quale elemento
immanente delle procedure concorsuali (45).
Tale ultimo principio, ritenuto da sempre elemento cardine del diritto fallimentare, si fonda, come
noto, sull’art. 2741 c.c., il quale sancisce l’”eguale”
diritto dei creditori di soddisfarsi sui beni del debitore, indipendentemente dalla causa e dal momento in cui è sorto il diritto di credito (46), fatte in
ogni caso salve le cause legittime di prelazione. La
norma richiamata può, pertanto, essere intesa nel
senso che l’esecuzione sui beni del debitore non
può essere causa di alterazione della graduazione
dei rapporti creditori, come disciplinati dal diritto
sostanziale (47). Secondo tale impostazione, il
principio della par condicio creditorum parrebbe costituire solo una “regola-mezzo” di attuazione della
concorsualità e non anche una “regola-fine” del diritto fallimentare (48). Riconducendo in tal modo
tale ultimo principio ad una regola di conflitto (49), pertanto, lo stesso non troverebbe applicazione nei casi in cui l’imprenditore addivenga ad
un accordo con i propri creditori. In questo senso,
l’esplicazione del principio di concorsualità (50)
nelle procedure concorsuali in generale, e in quelle
negoziali e alternative al fallimento in particolare
(ivi incluso, ove così inquadrato il principio, l’accordo di ristrutturazione dei debiti), sarebbe diversamente rappresentata dal fatto che tutti i creditori
subiscono gli effetti “negativi” della procedura, come dimostrato, in particolare, dal divieto per i creditori di agire in executivis, nonché dal divieto di
costituire titoli di prelazione che non siano concordati e portati a conoscenza degli altri creditori.
Seguendo tale linea di pensiero non può non rilevarsi che la protezione automatica del patrimonio
dell’imprenditore dalle azioni cautelari ed esecutive
promosse dai creditori, nonché la possibilità per
l’imprenditore di richiedere che tale divieto operi
anche anticipatamente nella fase delle trattative,
costituiscono un elemento di indubbia concorsualità (51) in quanto, da un lato, determinano il coinvolgimento di tutti i creditori (si rammenta, in tale
ottica, che il decreto emesso dal tribunale ai sensi
dell’art. 182 bis, comma 7, l.fall. deve essere notificato, unitamente a tutta la documentazione di cui
all’art. 182 bis, comma 6, l.fall., a tutti i creditori)
e, dall’altro lato, sono volti a garantire, in un’ottica
marcatamente pubblicistica, l’interesse collettivo
alla conservazione dei valori aziendali in vista del
soddisfacimento di tutti i creditori (52).
(42) Si veda E. Frascaroli Santi, Gli accordi di ristrutturazione
dei debiti. Un nuovo procedimento concorsuale, Padova, 2009,
175.
(43) Per un approfondito esame delle argomentazioni a
supporto della teoria contrattualista, si rinvia a P. Valensise, Gli
accordi di ristrutturazione dei debiti nella legge fallimentare, cit.,
109 ss.
(44) Sulla diversità tra i menzionati principi si veda V. Roppo, La responsabilità patrimoniale del debitore, in P. Rescigno
(a cura di), Trattato di Diritto Privato, XIX, Torino, 1997, 408 il
quale ritiene che la par condicio creditorum sia solamente uno
dei modi di attuazione del concorso tra creditori, alternativo alla regola riassunta dal brocardo “prior in tempore potior in jure”. Si veda, altresì, L. Guglielmucci, Diritto fallimentare, Torino,
2012, 18 ss. il quale ritiene che la par condicio creditorum abbia, in realtà, un valore residuale in quanto applicabile solo all’interno di ciascuna categoria omogenea di creditori, mentre
nel rapporto tra categorie diverse vige il principio “di preferenza”. Diversamente U. Breccia, Le obbligazioni, in G. Iudica, P.
Zatti (a cura di), Trattato di diritto privato, XXIV, Milano, 1991,
61 il quale colloca il principio della par condicio creditorum tra i
principi generali dell’ordinamento in quanto discenderebbe da
principi di equità e di giustizia distributiva.
(45) Sullo “svuotamento” del principio della par condicio
creditorum, si veda, inter alios, V. Colesanti, Mito e realtà della
“par condicio”, in questa Rivista, 1984, 32 ss.; M. Fabiani, La
giustificazione delle classi nei concordati e il superamento della par condicio creditorum, in Riv. dir. civ., 2009, II, 716 ss.
(46) Si veda C.M. Bianca, Diritto civile, V, Milano, 1994,
414.
(47) Si veda F.P. Luiso, Istituzioni di diritto processuale civile,
Torino, 2006, 230 ss. Per la teoria che riporta il principio in
esame al diritto sostanziale, si veda, inter alios, R. Nicolò, Della
responsabilità patrimoniale, Sub articoli 2740 - 2899, in A. Scialoja - G. Branca (a cura di), Commentario del codice civile, Bologna - Roma, 1970, 4.
(48) Si veda P. Pajardi - A. Paluchowski, Manuale di diritto
fallimentare, Milano, 2008, 23 ss. per cui la finalità primaria e
imprescindibile del processo fallimentare rimane, anche e nonostante la riforma, quella di garantire il soddisfacimento proporzionale delle ragioni dei creditori.
(49) Si veda A. Munari, Crisi di impresa e autonomia contrattuale nei piani attestati e negli accordi di ristrutturazione, Milano,
2012, 6 e 267 ss.
(50) Sul punto, P. Vella, Postergazione e finanziamenti societari nella crisi si impresa, Milano, 2012, 124, secondo la quale
la concorsualità è connotata da un unico aspetto sostanziale
e, cioè, la “necessaria - e non spontaneistica - partecipazione
di tutti i creditori alla definizione, più o meno concordata, della
crisi di impresa”.
(51) Si veda G. Tarzia, Quale tutela per gli accordi con il finanziatore nella ristrutturazione dei debiti?, in questa Rivista,
2009, 55, il quale osserva che non si potrebbe “neanche immaginare una siffatta limitazione al diritto di difesa e di azione
dei creditori in conseguenza di un accordo privatistico raggiunto inter alios”.
(52) Si veda G. Terranova, Conflitti di interesse e giudizio di
merito nelle soluzioni concordate delle crisi di impresa, in S. For-
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Accordi di ristrutturazione
Ad ulteriore sostegno della tesi che pare condurre
ad un inquadramento degli accordi di ristrutturazione dei debiti nell’ambito delle procedure concorsuali, oltre ad una progressiva assimilazione del
dettato normativo degli accordi di ristrutturazione
dei debiti e del concordato preventivo (53), è necessario segnalare che gli accordi di ristrutturazione
dei debiti sono, inoltre, caratterizzati da un non
marginale intervento dell’autorità giudiziaria, sia
nella necessaria fase giudiziale di omologazione dell’accordo di ristrutturazione dei debiti sia nelle fasi
incidentali ed eventuali connesse alla proposizione
di un’istanza ai sensi dell’art. 182 bis, comma 6,
l.fall. ovvero di una richiesta di autorizzazione ai
sensi dell’art. 182 quinquies l.fall. Sotto tale aspetto
è stato altresì evidenziato il parallelismo tra gli accordi di ristrutturazione dei debiti, nei quali è prevista una forma di “ordinata strutturazione del contatto tra imprenditore in crisi e creditori in un
contesto nel quale è coinvolta l’autorità giudiziaria”, e il concordato preventivo che costituisce, secondo una condivisibile dottrina, “una forma di organizzazione del consenso dei creditori caratterizzato dalla vigilanza dell’autorità giudiziaria” (54).
Con riguardo a quanto disposto dal citato art. 182
quinquies l.fall., poi, non si può non sottolineare
come appaia quantomeno ambiguo il riferimento
all’autorizzazione al pagamento di crediti anche anteriori e relativi a prestazioni decisive per la prosecuzione dell’attività, se un professionista avente i
requisiti di cui all’art. 67, comma 3, lett. d), l.fall.
attesti che tali prestazioni “sono essenziali per la
prosecuzione della attività di impresa e funzionali
ad assicurare la migliore soddisfazione dei creditori” (55).
Quanto sopra evidenziato assume particolare rilievo se posto in relazione con l’introduzione della facoltà, prevista, rispettivamente, dagli artt. 182 bis,
comma 8, e 161, comma 6, l.fall., di “passaggio”
dalla fase cautelare ex art. 182 bis, comma 6, l.fall.,
strumentale all’instaurazione di una procedura di
omologazione degli accordi di ristrutturazione dei
debiti, a quella di concordato preventivo e viceversa. L’introduzione di tale “passerella” (56) non può
che essere il risultato della ritenuta sostanziale
omogeneità tra le due richiamate procedure, soprattutto in considerazione del fatto che, secondo
la dottrina maggioritaria (57), il procedimento di
cui all’art. 182 bis, commi 6 e 7, l.fall. avrebbe natura di procedimento cautelare atipico ante causam il quale, secondo gli artt. 669 bis ss. c.p.c., è
strumentalmente collegato all’instaurazione del relativo giudizio di merito (costituito, in questo caso,
indifferentemente dalla domanda di omologazione
dell’accordo di ristrutturazione dei debiti ovvero da
quella di ammissione al concordato preventivo).
Occorre, poi, esaminare l’ulteriore argomento sostenuto dalla tesi “contrattualista” secondo il quale
gli accordi di ristrutturazione dei debiti non potrebbero ricondursi al novero delle procedure concorsuali in quanto non produrrebbero effetti nei
confronti dei creditori non aderenti.
Sul punto occorre all’opposto segnalare che l’istituto disciplinato dall’art. 182 bis l.fall. produce effetti, anche sfavorevoli, sia diretti che indiretti, sui
terzi (rectius, non aderenti) (58). In particolare, è
stato osservato (59) che, avendo quale presupposto
tunato - G. Giannelli - F. Guerrera - M. Perrino (a cura di), La riforma della legge fallimentare, Milano, 2011, 221.
(53) Si veda, da ultimo, quanto attualmente previsto dall’art. 5, comma 1, lett. c) e d) del citato D.D.L. recante la “Delega al Governo per la riforma organica delle discipline della
crisi e dell’insolvenza” in merito all’assimilazione della disciplina delle misure protettive degli accordi di ristrutturazione dei
debiti a quella prevista per la procedura di concordato preventivo, in quanto compatibile, e all’estensione, analogamente a
quanto avviene per il concordato preventivo, degli effetti dell’accordo di ristrutturazione dei debiti ai soci illimitatamente responsabili.
(54) Si veda P. Valensise, Gli accordi di ristrutturazione dei
debiti ex articolo 182-bis l.fall.: spunti per una prosecuzione del
dibattito sull’inquadramento, in AA.V.V., Studi in onore di Umberto Belviso, II, Bari, 2011, 1485 ss.
(55) Secondo S. Delle Monache, Profili dei “nuovi” accordi
di ristrutturazione dei debiti, in Riv. dir. civ., 2013, 543, anche
negli accordi di ristrutturazione dei debiti è configurabile il
principio di universalità nell’idoneità dello stesso a comprendere l’intero patrimonio del debitore in vista della soddisfazione
della totalità dei creditori. Diversamente, tra gli altri, A. Maffei
Alberti, Sub articolo 182 quinquies, in A. Maffei Alberti (diretto
da), Commentario breve alla legge fallimentare, Padova, 2013,
1289 ss. ritiene che l’autorizzazione di cui all’art. 182 quinquies
l.fall. abbia il solo effetto di garantire l’esenzione dall’azione revocatoria dei pagamenti dei crediti anteriori.
(56) Si rinvia a M. Fabiani, La “passerella” reciproca fra accordi di ristrutturazione e concordato preventivo, in www.ilcaso.it, II, 335/2013.
(57) Si veda M. Fabiani, L’ulteriore up-grade degli accordi di
ristrutturazione e l’incentivo ai finanziamenti nelle soluzioni concordate, cit., 898 ss. il quale qualifica il procedimento previsto
dall’art. 182 bis, commi 6 e 7, l.fall., come “subprocedimento
cautelare atipico”.
(58) Si rinvia alle riflessioni di P. Valensise, Gli accordi di ristrutturazione dei debiti nella legge fallimentare, cit., 146 ss. Per
la diversa impostazione, secondo la quale il contratto, ai sensi
dell’art. 1372, comma 2, c.c., può produrre effetti, anche sfavorevoli, nei confronti dei terzi nei casi previsti dalla legge purché connessi ad effetti favorevoli, si veda I.L. Nocera, Riflessioni civilistiche sull’omologa degli accordi di ristrutturazione dei
debiti, in Corr. giur., 2013, 1571 ss.
(59) Si vedano sul punto le conclusioni di A. Gentili, Accordi
di ristrutturazione e tutela dei terzi, in F. Di Marzio - F. Macario
(a cura di), Autonomia negoziale e crisi di impresa, Milano,
2010, 309.
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l’intangibilità della sfera giuridica dei terzi (e la
conseguente non applicazione del principio di concorsualità), la produzione di effetti sfavorevoli nei
confronti dei creditori non aderenti (quali, indubbiamente, l’introduzione di una dilazione ex lege di
centoventi giorni per il pagamento dei relativi crediti) potrebbe ritenersi legittima solo nel caso in
cui sia (giudizialmente) accertato il carattere complessivamente favorevole dell’operazione di ristrutturazione rispetto alle alternative concretamente
praticabili. Se ne deduce che, applicando il predetto ragionamento alla luce della normativa attualmente in vigore, delle due l’una: o si ritiene di essere nell’ambito di una procedura concorsuale che
coinvolge l’universalità dei creditori, anche non
aderenti (con conseguente applicazione del principio di concorsualità), in quanto il relativo diritto
di azione subisce, in forza della procedura stessa (e
non, evidentemente, del contratto), effetti sfavorevoli ovvero si ritiene che il giudice dell’omologazione debba, analogamente a quanto previsto per il
concordato preventivo, porre in essere una valutazione (non prevista dalla normativa né ipotizzabile
in virtù dell’applicazione dell’analogia legis) di “miglior soddisfacimento” dei creditori non aderenti
rispetto alle alternative concretamente praticabili.
Con riferimento agli effetti indiretti vale la pena,
inoltre, ricordare che le prededuzioni di cui agli
artt. 182 quater e 182 quinquies l.fall., nonché l’esenzione dalle azioni revocatorie di cui all’art. 67,
comma 3, lett. e), l.fall. e dai reati penali di cui all’art. 217 bis l.fall., incidono direttamente sulla
massa attiva da ripartire nell’eventuale successivo
fallimento (60) e costituiscono ex se un ulteriore
chiaro sintomo di “concorsualità” degli accordi di
ristrutturazione dei debiti.
Occorre, infine, ricordare che i creditori non aderenti sono legittimati attivi alla presentazione dell’opposizione all’omologazione dell’accordo di ristrutturazione dei debiti, elemento dal quale si può
dedurre che il legislatore abbia effettuato una preventiva valutazione circa la sussistenza in capo agli
stessi di un “potenziale” interesse ad agire.
Sotto tale ultimo profilo appare opportuno, altresì,
accennare all’introduzione, avvenuta con il D.L.
27 giugno 2015, n. 83, convertito con modificazioni, nella L. 6 agosto 2015, n. 132, dell’art. 182 septies l.fall., recante la disciplina dell’”Accordo di ri-
strutturazione con intermediari finanziari e convenzione di moratoria”. Tale istituto, che costituisce un sub-procedimento degli accordi di ristrutturazione dei debiti ex art. 182 bis l.fall. (61), consente all’impresa che abbia debiti verso banche e intermediari finanziari, in misura non inferiore alla
metà dell’indebitamento complessivo, di richiedere
che - in deroga agli artt. 1372 e 1411 c.c. - gli effetti dell’accordo vengano estesi anche ai creditori
(banche e intermediari finanziari) non aderenti appartenenti alla medesima categoria (da formarsi secondo “posizione giuridica e interessi economici
omogenei” tra creditori), purché tutti i creditori
della categoria siano stati informati dell’avvio delle
trattative e siano stati messi in condizione di parteciparvi in buona fede e i crediti delle banche e degli intermediari finanziari aderenti rappresentino
almeno il 75% dei crediti della categoria. Sul punto, pur con tutte le riserve del caso in considerazione della novità dell’istituto, appare appena il caso
di rilevare una certa “assonanza” di dette previsioni
con quelle del concordato preventivo con classi.
Alla luce degli argomenti esposti, pare potersi concludere che gli accordi di ristrutturazione dei debiti
rientrino tra le procedure concorsuali, ma che si
differenzino dal concordato preventivo, e per questo costituiscano un istituto autonomo, in ragione
di una diversa modalità procedimentale, nonché di
un diverso esplicarsi dell’autonomia privata che
negli accordi di ristrutturazione dei debiti è esterna
ed antecedente al procedimento, mentre nel concordato preventivo è esercitata nell’ambito stesso
della procedura (62).
Tale impostazione sembrerebbe trovare ulteriore
conferma nell’inserimento degli accordi di ristrutturazione dei debiti ex art. 182 bis l.fall. nell’allegato A) del Reg. (UE) n. 2015/848 del Parlamento
europeo e del Consiglio del 20 maggio 2015 relativo alle procedure d’insolvenza (rifusione), pubblicato nella G.U. dell’UE, L 141 del 5 giugno 2015,
che riporta per ciascuno Stato membro l’elenco
tassativo delle procedure di insolvenza cui lo stesso
risulta applicabile.
Secondo l’impostazione prospettata circa la natura
concorsuale degli accordi di ristrutturazione dei debiti, pertanto, gli stessi rientrerebbero nell’ambito
di applicazione dell’art. 80, comma 6, T.U.B. e dell’art. 57, comma 3, T.U.F., con conseguente inap-
(60) Con riferimento al “progressivo ridimensionamento
dell’universalità della responsabilità patrimoniale”, C. Granelli,
La responsabilità patrimoniale del debitore fra disciplina codicistica e riforma in itinere del diritto societario, in Riv. dir. soc.,
2002, II, 512 ss.
(61) Si veda E. Frascaroli Santi, Il diritto fallimentare e delle
procedure concorsuali, cit., 820.
(62) Sulle diverse modalità di esplicazione dell’autonomia
privata nell’ambito del diritto della crisi di impresa si veda F. Di
Marzio, Il diritto negoziale della crisi d’impresa, cit., 1 ss.
968
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Giurisprudenza
Accordi di ristrutturazione
plicabilità dell’istituto de quo a banche, S.I.M., società di gestione del risparmio, S.I.C.A.V.,
S.I.C.A.F. e fondi comuni di investimento.
Conclusioni
Pur con tutte le criticità e le difficoltà interpretative
che si è cercato di riepilogare, appare in ogni caso
opportuno lo sforzo del Tribunale di Milano di procedere ad un’interpretazione (estensiva) delle norme
richiamate volta a favorire una gestione della crisi
di impresa (e, in particolare, di quella delle società
di gestione del risparmio e dei fondi comuni di investimento) al di fuori delle, più “ingombranti”,
procedure concorsuali “amministrative” (amministrazione straordinaria e liquidazione coatta amministrativa). Per quanto, infatti, le finalità, soprattutto
con riferimento all’amministrazione straordinaria,
possano in parte coincidere con quelle perseguibili
il Fallimento 8-9/2016
attraverso lo strumento disciplinato dall’art. 182 bis
l.fall., tale ultimo strumento appare sicuramente
maggiormente duttile e meno oneroso.
In attesa di un auspicabile intervento normativo di
coordinamento tra la normativa concorsuale e quella
degli intermediari finanziari che risulti chiarificatore
dei molteplici punti critici tuttora rilevabili, il quadro sopra delineato, tuttavia, necessiterà di essere ulteriormente indagato anche alla luce dei nuovi strumenti di prevenzione e di risoluzione della crisi delle
banche e degli intermediari finanziari introdotti nell’ordinamento con i DD.Lgss. 16 novembre 2015,
nn. 180 e 181 di attuazione della Dir. 2014/59/UE, i
quali sembrano, almeno ad una primissima impressione, voler coprire, con una normativa ad hoc, anche spazi che parrebbero di “competenza” degli strumenti di composizione della crisi di impresa.
969
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Amministrazione straordinaria
Azioni esecutive individuali
Tribunale di Roma, Sez. VI, 9 luglio 2015, ord. - Pres. Norelli - Est. Imposimato - M. Business
S.r.l. in Amministrazione Straordinaria c. Beni Immobili S.r.l.
Amministrazione straordinaria - Effetti per i creditori - Sospensione delle azioni esecutive individuali - Procedimento per
convalida di sfratto - Ordinanza provvisoria di rilascio - Improcedibilità - Rilascio dell’immobile locato - Attrazione al giudizio di accertamento dello stato passivo - Necessità - Sussistenza
(D.Lgs. 8 luglio 1999, n. 270 artt. 48, 50 e 51; D.L. 23 dicembre 2003, n. 347 artt. 2 e 8; legge fallimentare artt. 51, 72,
93 e 103; cod. proc. civ. art. 665)
Poiché l’ordinanza di rilascio ai sensi dell’art. 665 c.p.c. ha natura di decisione provvisoria allo stato degli atti,
destinata ad essere in ogni caso superata ed assorbita dalla sentenza che, all’esito del giudizio di merito, statuisce con attitudine al giudicato sul diritto in contesa (e, quindi, sul diritto dell’intimante ad ottenere il rilascio dell’immobile per effetto della risoluzione del contratto locativo, che costituisce titolo della detenzione
della parte intimata), deve affermarsi che la sopravvenuta improcedibilità dell’azione personale di restituzione
(rilascio) svolta dal locatore nell’intimazione di sfratto, per l’ammissione in corso di lite del conduttore intimato alla procedura di amministrazione straordinaria ai sensi del D.L. 23 dicembre 2003, n. 347, produca ex se sia
la sopravvenuta ineseguibilità dell’ordinanza di rilascio resa in danno del debitore quando ancora era in bonis,
sia l’attrazione della domanda di restituzione (rilascio) dell’immobile alla sede concorsuale nelle forme dell’istanza di ammissione al passivo sensi degli artt. 93 e 103 l.fall.
Il Tribunale (omissis).
1. Fatti controversi
Con atto di citazione ritualmente notificato, la M. Business S.r.l. proponeva opposizione, ex art. 615 c.p.c., al
precetto per rilascio notificatole, dalla Beni Immobili
S.r.l., in forza di ordinanza di rilascio del 5.1.2015, ottenuta, ex art. 665 c.p.c., nell’ambito di un procedimento
per convalida di sfratto introdotto innanzi al tribunale,
ed iscritto al n. 77883/2014 r.g.
L’opponente chiedeva, in via preliminare all’accoglimento dell’opposizione, di sospendere l’efficacia esecutiva del titolo giudiziale di cui preannunziata l’esecuzione,
ed adduceva che:
- in data 19 gennaio 2015, in pendenza della procedura
per intimazione di sfratto, introdotta in suo danno dalla
Beni Immobili S.r.l., aveva presentato ricorso prenotativo di concordato preventivo ex art. 161 l.fall., al Tribunale di Bologna;
- tale ricorso era stato pubblicato, in pari data, presso il
Registro delle Imprese, e il Tribunale Sez. Fallimentare
di Bologna, con provvedimento del 19 gennaio 2015,
aveva ammesso l’istante alla procedura, assegnando termine sino al 15 maggio 2015 per la presentazione della
proposta definitiva di concordato, e per la produzione
di tutta la documentazione prescritta dall’art. 161 l.fall.;
- a decorrere dalla data di pubblicazione del ricorso prenotativo di concordato preventivo, nel Registro delle
Imprese (19.1.2015) l’ordinanza di rilascio già ottenuta
dalla Beni Immobili S.r.l. non avrebbe potuto più essere
portata in esecuzione, essendo ciò vietato dall’art. 168
l.fall.
Fissata l’udienza di comparizione delle parti, per l’esame
dell’istanza di sospensione, innanzi al tribunale investito
dell’opposizione ex art. 615 c.p.c., l’odierna reclamante
allegava, altresì, che:
970
- nelle more del processo, il Ministro dello Sviluppo
Economico, accertando la sussistenza dei requisiti di cui
al D.L. n. 347/2003 (recante “Misure urgenti per la ristrutturazione industriale di grandi imprese in stato di insolvenza”; c.d. Legge Marzano), con decreto in data 7 aprile 2015 aveva ammesso la M. Business S.r.l. alla procedura di amministrazione straordinaria, nominando commissari straordinari nelle persone di V. T., E. S. e S. C.;
- il tribunale di Bologna, Sez. Fallimentare, con sentenza n. 68/2015 del 10 aprile 2015, aveva dichiarato lo
stato d’insolvenza della M. Business S.r.l., assegnando
termine fino al 30 settembre 2015 ai “creditori e ai terzi
che vantano diritti reali immobiliari su cose in possesso dell’imprenditore, per la presentazione di domande d’insinuazione” al passivo della procedura concorsuale;
- che all’esito della sentenza dichiarativa dello stato
d’insolvenza e dell’apertura della procedura di amministrazione straordinaria, anche le pretese restitutorie della Beni Immobili S.r.l. avrebbero dovuto essere rivolte
al tribunale fallimentare, e soggette alla verifica stabilita
per l’accertamento dello stato passivo (artt. 93 e ss.
l.fall.), in virtù del richiamo contenuto, nella c.d. Legge
Marzano (D.L. n. 347/2003, art. 4 ter), all’art. 53 del D.
Lgs.vo n. 270/1999 (recante “Nuova disciplina dell’amministrazione straordinaria delle grandi imprese in stato di insolvenza”; c.d. Legge Prodi bis), a sua volta richiamante
le disposizioni degli artt. 93 e ss. della Legge Fallimentare;
- che conseguentemente l’ordinanza di rilascio già ottenuta dall’intimante-creditore procedente Beni Immobili
S.r.l. non avrebbe potuto più essere portata in esecuzione, a ciò ostando il combinato disposto degli artt. 2
bis del D.L. n. 347/2003, 48 D. Lgs.vo n. 270/1999, 51
l.fall.
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Per tali ragioni insisteva nell’istanza di sospensione dell’efficacia esecutiva dell’ordinanza notificata unitamente
al precetto opposto.
La Beni Immobili S.r.l. si costituiva innanzi al giudice
investito dell’opposizione ex art. 615 c.p.c., confutando
le domande della controparte, ed adducendo - in sintesi
- che il divieto di azioni esecutive individuali posto sia
dalla Legge Fallimentare (art. 51) che dal D. Lgs.vo n.
270/1999 (art. 48), non contemplava le azioni intese ad
ottenere il rilascio di beni non in proprietà dell’imprenditore fallito/ammesso alla procedura di amministrazione
straordinaria, sì da persistere il diritto di procedere ad
esecuzione forzata in virtù del titolo ottenuto nei riguardi della società in bonis.
Con l’ordinanza impugnata il tribunale, in composizione monocratica, respingeva l’istanza di sospensione, a
motivo del fatto che l’improseguibilità delle azioni esecutive individuali, posta dalle disposizioni sopra richiamate, non avrebbe potuto inibire le esecuzioni intese al
rilascio di beni non in proprietà dell’imprenditore insolvente.
Con reclamo depositato in data 26 maggio 2015, oggi
in decisione, la ricorrente, nel riproporre tutte le richieste e difese già esposte al giudice di prime cure, ha richiesto l’emissione del provvedimento, lato sensu cautelare, denegato in prima fase, lamentando, a motivo
d’impugnazione:
- che il tribunale aveva erroneamente ritenuto che il divieto di assoggettamento ad azioni esecutive individuali,
posto dall’art. 48 del D. Lgs.vo n. 270/1999, fosse esclusivamente riferito ai beni in proprietà dell’imprenditore
in stato d’insolvenza, allorché, invece, dal complesso
delle disposizioni in materia di amministrazione straordinaria, come ricavabili, in primo luogo, dal D.L. n.
347/2003 e, per quanto non diversamente regolato, dal
D. Lgs.vo n. 270/1999 (v. l’art. 8 del D.L. n. 347/2003),
a sua volta contenente norma di rinvio alle disposizioni
in materia di fallimento (art. 18), si traeva il principio,
opposto, di sottrazione integrale di tutti i beni componenti l’azienda già facente capo all’imprenditore, anche
se di proprietà di terzi, alle azioni esecutive individuali;
- che in virtù di quanto disposto dagli artt. 52 e 103
l.fall., come richiamati dall’art. 18 del D. Lgs.vo n.
270/1999, a sua volta applicabile alla procedura cui ammessa la reclamante, in forza dell’art. 8 del D.L. n.
347/2003, anche le azioni intese all’accertamento di un
diritto reale o personale, mobiliare o immobiliari, su beni già
in possesso dell’imprenditore insolvente, avrebbero dovuto essere necessariamente rivolte al Tribunale Fallimentare;
- che alle stesse conclusioni avrebbe dovuto giungersi
applicando gli artt. 51 e 93 e ss. l.fall. come richiamati
dall’art. 201 l.fall. (in materia di liquidazione coatta amministrativa), a sua volta richiamato dall’art. 36 del D.
Lgs.vo n. 270/1999, applicabile alla procedura di amministrazione cui ammessa la reclamante, in forza dell’art.
8 del D.L. n. 347/2003.
La parte resistente si costituiva nuovamente nella presente fase di reclamo; essa eccepiva:
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- che all’esito del provvedimento reclamato in questa
sede, con cui il tribunale aveva denegato la sospensione
dell’efficacia esecutiva del titolo precettato, aveva dato
avvio all’esecuzione forzata per rilascio, ai sensi degli
artt. 608 e ss. c.p.c., in danno della M. Business S.r.l.;
- che la M. Business S.r.l. in Amministrazione Straordinaria aveva proposto ricorso in opposizione all’esecuzione (art. 615 comma 2° c.p.c.), svolgendo istanza di sospensione della procedura, al giudice dell’esecuzione,
sulla base delle medesime ragioni già esposte a motivo
dell’opposizione al precetto;
- che il giudice dell’esecuzione, denegando il provvedimento di sospensione invocato inaudita altera parte, aveva fissato udienza per la comparizione delle parti, ai sensi del comb. disp. artt. 615 comma 2° e 624 c.p.c.
La Beni Immobili S.r.l. asseriva, dunque, che il reclamo
proposto, ex art. 669 terdecies c.p.c., avverso il provvedimento di rigetto dell’istanza di sospensione dell’efficacia
esecutiva del titolo, sarebbe divenuto improcedibile, essendo stata avviata l’esecuzione forzata per rilascio, e introdotto altro giudizio di opposizione all’esecuzione, ex
art. 615 comma 2° c.p.c., con la conseguente assegnazione, in via esclusiva, al giudice dell’esecuzione, di tutti i
poteri di inibitoria e di sospensione previsti dagli artt.
615 e 624 c.p.c.; nel merito, la parte resistente confutava le ragioni dell’impugnazione e della pretesa di controparte, chiedendone il rigetto, con il favore delle spese.
2. Questioni pregiudiziali
L’eccezione con cui la Beni Immobili S.r.l. ha sostenuto
l’improcedibilità del reclamo ora in decisione, proposto ex art. 669 terdecies c.p.c. - dalla M. Business S.r.l. in
Amministrazione Straordinaria, avverso il provvedimento denegativo dell’efficacia esecutiva del titolo (ordinanza di rilascio ex art. 665 c.p.c.) di cui preannunziata l’esecuzione con il precetto opposto dalla reclamante
(ex art. 615 comma 1° c.p.c.), è infondata e va respinta.
Infatti, il reclamo ex art. 669 terdecis c.p.c. si configura
come un rimedio a effetto interamente devolutivo (revisio prioris istantiae) della domanda di cautela già rivolta
al tribunale in composizione monocratica, come giudice
di prime cure; il tribunale, in composizione collegiale, è
quindi direttamente investito della originaria domanda
cautelare e delle ragioni che la sostengono, nei limiti in
cui riproposte in sede d’impugnazione (in questo caso,
la materia controversa è stata interamente devoluta al
giudice del reclamo, con i motivi d’impugnazione).
Quindi, si tratta di esaminare l’istanza di sospensione
dell’efficacia esecutiva del titolo notificato, dalla Beni
Immobili S.r.l., unitamente al precetto, opposto dal debitore esecutato ai sensi dell’art. 615 comma 1° c.p.c.,
in data anteriore all’inizio della procedura esecutiva
(per rilascio), poi avviata dal creditore-precettante.
Ciò detto, nessuna norma processuale fa conseguire, al
caso (ricorrente) che l’esecuzione forzata, solo preannunciata nel precetto opposto ex art. 615 comma 1°
c.p.c., venga poi avviata dal creditore precettante, ed
alla conseguente possibile contemporanea pendenza del
sub-procedimento cautelare vertente sull’istanza di sospensione dell’efficacia esecutiva del titolo (di cui prean-
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nunziata esecuzione), e del sub-procedimento cautelare
avente ad oggetto l’istanza di sospensione dell’esecuzione
forzata già iniziata, successivamente introdotto innanzi al
giudice dell’esecuzione ex artt. 615 comma 2° e 624
c.p.c., la perdita del potere-dovere del giudice dell’opposizione al precetto (ora del collegio, in fase di reclamo) di
provvedere sull’istanza di sospensione ex art. 615 comma 1° c.p.c.; piuttosto, laddove l’opposizione all’esecuzione presenti gli stessi elementi identificativi (personae,
petitum, causa petendi) dell’azione (di accertamento negativo) svolta dal debitore-esecutato in sede di opposizione al precetto, può semmai postularsi una relazione di
identità tra le predette cause, eventualmente proposte
due volte innanzi allo stesso ufficio giudiziario (art. 273
c.p.c.), tale per cui gli esiti del giudizio introdotto per
primo (opposizione al precetto) siano destinati ad inevitabilmente pregiudicare gli esiti del secondo (opposizione
all’esecuzione); allo stesso modo, pertanto, è semmai l’adozione del provvedimento invocato dall’opponente ex
art. 615 comma 1° c.p.c. (di sospensione dell’efficacia
esecutiva del titolo precettato), tale da pregiudicare e
da rendere superflua la lite (cautelare) introdotta davanti al giudice dell’esecuzione, ed intesa allo stesso
scopo (art. 624 c.p.c.; i n t al se nso v . C ass. n.
6235.1986; Cass. n.17037.2010), fermo restando il potere-dovere del giudice investito per primo di provvedere
sulle richieste lato sensu cautelari e preliminari, della
parte opponente.
3. Merito della lite
3.1 Il reclamo della M. Business S.r.l. in Amministrazione Straordinaria è fondato, e va dunque accolto, nei
termini di cui al dispositivo, per quanto di seguito considerato.
3.2 Occorre evidenziare che, nella fattispecie, il titolo
di cui preannunziata l’esecuzione (per rilascio) dalla Beni Immobili S.r.l., con il precetto opposto dalla M.
Business S.r.l. (ora in Amministrazione Straordinaria),
consiste in un’ordinanza provvisoria di rilascio “con riserva delle eccezioni del convenuto”, quale emessa, dal tribunale, ex art. 665 c.p.c. all’esito della fase sommaria
del procedimento per convalida di sfratto per morosità introdotto, dalla procedente, ai danni dell’odierna reclamante (v. gli all. 4, 5 e 6 al fascicolo della reclamante).
In quella sede il tribunale, scrutinando l’opposizione
dell’intimata M. Business S.r.l. - allora in bonis - “non
fondata su prova scritta” (v. l’art. 665 c.p.c.), ordinava alla medesima il rilascio del complesso immobiliare sito
in (omissis), fissando (art. 56 L. n. 392/1978) la data d’inizio dell’esecuzione.
3.3 Orbene, è noto che l’ordinanza “non impugnabile di
rilascio, con riserva delle eccezioni del convenuto”, di
cui all’art. 665 comma 1° c.p.c., costituisce un provvedimento di decisione provvisoria ed anticipata allo stato
degli atti, intrinsecamente inidoneo a statuire sul diritto
in contesa, e come tale privo di qualsiasi attitudine al
giudicato formale o sostanziale (trattasi di principio pacifico; v. tra le tante Cass. n. 12846.2014: “l’ordinanza
di rilascio ex art. 665 cod. proc. civ. non è impugnabile né
è idonea al giudicato poiché non ha carattere irrevocabile e
non statuisce in via definitiva sui diritti e sulle eccezioni delle
972
parti, la cui risoluzione è riservata invece alla successiva fase
di merito, in cui intimante ed intimato cristallizzano il “thema decidendum”; conf. Cass. n. 10539.2014, che ribadisce che “l’ordinanza di rilascio dell’immobile ex art. 665
cod. proc. civ.” costituisce “provvedimento provvisorio inidoneo al giudicato”, destinato “a perdere efficacia qualora,
all’esito del giudizio che prosegua ai sensi dell’art. 667 cod.
proc. civ., oppure di un distinto processo promosso tra le
medesime parti ed avente ad oggetto il medesimo rapporto di
locazione, il giudice pronunci sentenza e fissi un diverso termine di rilascio”; nello stesso senso Cass. n. 15420.2011;
Cass. n. 16630.2008, che conseguentemente afferma: “il
ricorso straordinario per cassazione ai sensi dell’art. 111
Cost. contro i provvedimenti adottati con forma diversa dalla sentenza è consentito a condizione che essi abbiano la natura sostanziale di una sentenza, nel senso che, oltre ad incidere su diritti soggettivi di natura sostanziale delle parti,
abbiano attitudine al passaggio in giudicato formale e sostanziale. Ne consegue che non è impugnabile con detto ricorso
l’ordinanza di rilascio con riserva delle eccezioni di cui all’art. 665 c.p.c., che non definisce la causa, perché nel giudizio sul rilascio dell’immobile possono essere rimessi in discussione tutti i fatti che si assume siano stati trascurati dal
giudice dell’ordinanza”; Cass. n. 8221.2004: “in tema di locazioni, l’ordinanza di rilascio emessa ai sensi dell’art. 665
c.p.c. può produrre effetti anticipatori del corrispondente
accertamento positivo compiuto in sede di giudizio a
cognizione piena, ma non anche effetti a questo contrari, giacché la circostanza che ne legittima l’adozione (da
ravvisarsi nel risultare nel procedimento sommario già
fornita la prova da parte del locatore, a fronte di quella
viceversa costituenda in giudizio in ordine alle eccezioni sollevate dal conduttore) rimane superata all’esito
dell’emissione della sentenza a chiusura del giudizio da
cui, nel medesimo grado e all’esito del compiuto vaglio
anche di dette eccezioni, emerga l’insussistenza del diritto vantato dal locatore, secondo uno sviluppo non
già equiparabile a quello del procedimento per gradi
bensì sostanziantesi in una successione di accertamenti
con l’esito del venir meno del titolo in precedenza attribuito alla parte per l’anticipata realizzazione della sua
pretesa”; Cass. n. 12474.1999 e numerose altre).
In breve, con tale provvedimento il giudice delle locazioni, in base ad una valutazione (a cognizione sommaria e cioè) allo stato degli atti, anticipa in via provvisoria la pronuncia sulla domanda di rilascio (restituzione)
dell’immobile detenuto in locazione dal conduttore, domanda - quest’ultima - da qualificare in termini di azione restitutoria (art. 1458 c.c.), che compete generalmente all’attore in risoluzione ex art. 1453 c.c., e nella specie alla parte intimante, all’esito della (invocata) pronuncia
di risoluzione contrattuale (sulla qualificazione dell’intimazione di sfratto per morosità, in termini di azione di
risoluzione per inadempimento grave del conduttore, v. per
tutte Cass. n. 26508.2009: “la richiesta di convalida di
sfratto per morosità in relazione all’art. 1453 cod. civ. mira
ad una pronuncia costitutiva, poiché è diretta a sciogliere il
vincolo contrattuale, previo accertamento, da parte del giudice, della gravità o meno dell’inadempimento”; Cass. n.
8692.1995: “nell’intimazione di sfratto per morosità è impli-
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cita la domanda di risoluzione per inadempimento”; Cass. n.
5566.1983: “la domanda di risoluzione del contratto di locazione per inadempimento del conduttore, ancorché non sia
stata formulata espressamente del locatore, è implicitamente
contenuta e quindi tacitamente proposta con l’istanza di
convalida dello sfratto con la conseguenza che, in esito al
giudizio a cognizione ordinaria susseguito alla trasformazione
dell’originario procedimento per convalida, il giudice deve
statuire sulla domanda di risoluzione”).
Pertanto, poiché l’ordinanza ex art. 665 c.p.c. ha semplice natura di provvedimento di decisione provvisoria allo
stato degli atti, destinato ad essere in ogni caso superato
ed assorbito dalla sentenza che, all’esito del giudizio,
statuisce (con attitudine al giudicato) sul diritto in contesa (quindi, anche sul diritto dell’intimante - odierna reclamata - ad ottenere il rilascio dell’immobile per effetto della risoluzione del contratto locativo, che costituisce titolo della detenzione della parte intimata), deve
affermarsi che la sopravvenuta improcedibilità dell’azione
(personale) di restituzione (rilascio) svolta dal locatore
nell’intimazione di sfratto, per l’ammissione, in corso di
lite, del conduttore intimato (imprenditore insolvente)
alla procedura di amministrazione straordinaria ex D.L.
n. 347/2003, produca ex se la sopravvenuta ineseguibilità dell’ordinanza di rilascio già resa in danno del medesimo imprenditore quando ancora in bonis, non potendo
quella decisione (provvisoria) essere confermata, all’esito
della lite, da una pronuncia (di contenuto conforme)
che - statuendo sul diritto in contesa - accerti la fondatezza della pretesa restitutoria dell’intimante.
3.4 Tali conclusioni sono, in effetti, le uniche predicabili nella fattispecie devoluta alla cognizione del giudice
del reclamo, tenendo presente che:
- il D.L. n. 347/2003 (convertito con modificazioni in
L. n. 39/2004, recante “misure urgenti per la ristrutturazione industriale di grandi imprese in stato d’insolvenza”,
c.d. Legge Marzano), richiama - all’art. 8 - “per quanto
non disposto diversamente”, le disposizioni del D. Lgs.vo
n. 270/1999 (recante “nuova disciplina dell’amministrazione straordinaria delle grandi imprese in stato di insolvenza,
a norma dell’art. 1 della legge 30 luglio 1998, n. 274”, c.d.
Legge Prodi bis);
- alla procedura cui ammessa l’odierna reclamante debbono ritenersi applicabili, pertanto, gli artt. 50 e 51 del
D. Lgs.vo n. 270/1999, rispettivamente dettati in materia di “contratti in corso” (...alla data di ammissione alla
procedura di amministrazione straordinaria) ed in materia di “diritti dell’altro contraente”, non rinvenendosi disposizioni specifiche, né di contenuto diverso, nella L.
Marzano;
- secondo l’art. 50 del D. Lgs.vo n. 270/1999, “salvo
quanto disposto dal comma 4, il commissario straordinario
può sciogliersi dai contratti, anche ad esecuzione continuata
o periodica, ancora ineseguiti o non interamente eseguiti da
entrambe le parti alla data dell’apertura dell’amministrazione
straordinaria. Fino a quando la facoltà di scioglimento non è
esercitata, il contratto continua ad avere esecuzione.
Dopo che è stata autorizzata l’esecuzione del programma,
l’altro contraente può intimare per iscritto al commissario
straordinario di far conoscere le proprie determinazioni nel
il Fallimento 8-9/2016
termine di trenta giorni dalla ricezione dell’intimazione, decorso il quale il contratto si intende sciolto. Le disposizioni
del presente articolo non si applicano: a) ai contratti di lavoro subordinato, in rapporto ai quali restano ferme le disposizioni vigenti; b) se sottoposto ad amministrazione straordinaria è il locatore, ai contratti di locazione di immobili, nei
quali il commissario straordinario subentra, salvo patto contrario”;
- a sua volta, l’art. 51 del D. Lgs.vo n. 270/1999 testualmente sancisce (per quanto ora d’interesse): “i diritti
dell’altro contraente, nel caso di scioglimento o di subentro del commissario straordinario nei contratti ancora ineseguiti o non interamente eseguiti alla data di
apertura dell’amministrazione straordinaria, sono regolati dalle disposizioni della sezione IV del capo III del titolo II della legge fallimentare”;
- donde l’applicabilità, alla procedura di amministrazione straordinaria ex D.L. n. 347/2003, dell’art. 72 della
Legge Fallimentare, dedicato ai “apporti pendenti”, e contenuto nella sezione IV (“Degli effetti del fallimento sui
rapporti giuridici preesistenti”) del capo III (“Degli effetti
del fallimento”) della Legge Fallimentare.
Tale disposizione, per quanto ora d’interesse, stabilisce
testualmente, al 5° comma:
“L’azione di risoluzione del contratto, promossa prima del
fallimento, nei confronti della parte inadempiente, spiega i
suoi effetti nei confronti del curatore, fatta salva, nei casi
previsti, l’efficacia della trascrizione della domanda; se il
contraente intende ottenere, con la pronuncia di risoluzione,
la restituzione di una somma o di un bene, ovvero il risarcimento del danno, deve proporre la domanda secondo le disposizioni di cui al Capo V” ... capo, quest’ultimo, della
legge fallimentare, dedicato allo “Accertamento del passivo e
dei diritti reali mobiliari dei terzi” (artt. 92 e ss. l.fall.).
Pertanto, deve concludersi che la domanda di restituzione (rilascio) dell’immobile già svolta, dall’intimante Beni Immobili S.r.l., nell’intimazione di sfratto (per morosità) introduttiva della lite n. 77883/2014 r.g., sia divenuta improcedibile nel corso di (quel) giudizio (in cui
pronunciato il titolo giudiziale la cui esecutività è oggetto del contendere), per effetto dell’ammissione, in
pendenza di lite, della M. Business S.r.l. alla procedura
di amministrazione straordinaria secondo la L. Marzano
(D.L. n. 347/2003); dovendo quella domanda essere
coltivata, in sede concorsuale, con apposita istanza (di
ammissione al passivo) da proporre ai sensi dell’art. 93
della l.fall. (esplicitamente contemplante, al 1° comma,
le domande “di restituzione o rivendicazione di beni mobili
e immobili”), e dell’art. 103 l.fall. (interamente dedicato
a disciplinare i “procedimenti relativi a domande di revindica e restituzione” proposte in ambito concorsuale), ciò
anche in forza di quanto testualmente disposto dall’art.
52 l.fall., come richiamato dall’art. 18 del D. Lgs.vo n.
270/1999, è escluso che il provvedimento reso ex art.
665 c.p.c., all’esito dell’udienza di convalida, possa (potrà) essere confermato con una qualsivoglia sentenza
che, a definizione del merito di quella lite, accerti (con
attitudine al giudicato) il diritto dell’intimante di ottenere
il rilascio della “res locata”, non potendosi pervenire a ta-
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le decisum se non in sede di cognizione speciale concorsuale, secondo le disposizioni del rito fallimentare.
Essendo quindi, in ultima analisi, rimessa al giudice della procedura concorsuale la disamina dell’azione di restituzione (rilascio) già provvisoriamente accolta dal giudice delle locazioni (a mezzo del provvedimento che è
motivo del contendere), e potendo (in altri termini) l’azione di rilascio della odierna reclamata - Beni Immobili S.r.l. - essere coltivata solo seguendo le regole prescritte, dalla legge fallimentare, per l’accertamento dello stato passivo (artt. 93 e ss. l.fall., anche richiamati dall’art.
53 del D. Lgs.vo n. 270/1999, a sua volta richiamato
dall’art. 4 ter del D.L. n. 347/2003), si profilano sufficienti ragioni di (sopravvenuta) ineseguibilità dell’ordinanza di rilascio, tali da produrre la sospensione dell’efficacia esecutiva di quel titolo, come invocata dalla ricorrente.
Si provvede quindi come in dispositivo; la regolazione
delle spese è rimessa alla definizione del merito della li-
te di opposizione (proposta ex art. 615 comma 1°
c.p.c.).
P.Q.M.
Il Tribunale, pronunciando sul reclamo di cui in epigrafe, così decide:
- in accoglimento del reclamo proposto, dalla M. Business S.r.l. in Amministrazione Straordinaria, avverso
l’ordinanza emessa dal Tribunale in data 12 maggio
2015, nell’ambito della lite n. 12423/2015 r.g., ed in riforma dell’ordinanza impugnata, dispone la sospensione
dell’efficacia esecutiva dell’ordine di rilascio reso dal tribunale, ex art. 665 c.p.c., in favore della Beni Immobili
S.r.l. ed in danno della M. Business S.r.l. ora in Amministrazione Straordinaria, in data 5.1.2015 nel procedimento n. 77883/2014 r.g.;
- rimette la regolazione delle spese del presente procedimento alla definizione del merito della lite.
(omissis).
Ordinanza provvisoria di rilascio dell’immobile locato
e procedure concorsuali
di Marcello Gaboardi (*)
Il provvedimento del tribunale di Roma offre l’occasione per esaminare una significativa questione di natura processuale e fallimentare concernente l’estensione del divieto delle azioni esecutive individuali ai sensi dell’art. 51 l.fall. - applicabile, nella specie, ad una procedura di amministrazione straordinaria di cui al D.L. 23 dicembre 2003, n. 347 - a quelle iniziative giudiziali che,
al pari dell’intimazione di rilascio dell’immobile locato per morosità ex art. 665 c.p.c., mirano ad
ottenere il recupero della disponibilità materiale di beni in proprietà di terzi che siano, però, in
possesso o nella disponibilità della società fallita.
Premessa
L’ordinanza in commento merita indubbiamente
l’attenta considerazione dell’interprete, in ragione
delle numerose implicazioni che conseguono a talune delle sue statuizioni. In particolare, rivestono
grande importanza le prescrizioni in tema di rapporti tra procedimenti cautelari volti a inibire l’efficacia provvisoriamente esecutiva del titolo e
quelle in tema di rilevanza preclusiva di una tale
efficacia a seguito dell’apertura di una procedura
concorsuale.
Sono tematiche, queste, che assumono ovviamente
valore non solo sul piano pratico-operativo, per la
frequenza con la quale tali questioni vengono evocate in giudizio, ma anche sul piano teorico e dogmatico, per il coinvolgimento delle categorie gene-
rali dell’ordinamento processuale; categorie che
trovano in parte qua applicazioni peculiari e foriere,
a loro volta, di feconde implicazioni e di numerosi
interrogativi.
Ciò emerge - come sempre - dallo stesso sostrato
fattuale che è alla base della pronuncia in esame e
che ha visto, in particolare, una società ammessa
al concordato preventivo con riserva, dapprima,
opporsi al precetto per rilascio che le era stato notificato dalla società locatrice sulla base di un’ordinanza di rilascio ex art. 665 c.p.c. e, successivamente, opporsi all’esecuzione che la locatrice aveva intrapreso a seguito dell’ordinanza con cui il tribunale in composizione monocratica aveva rigettato l’istanza di sospensione dell’efficacia esecutiva
del titolo; istanza, quest’ultima, che la debitrice,
(*) Il contributo è stato sottoposto, in forma anonima, alla
valutazione di un referee.
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ammessa nel frattempo alla procedura di amministrazione straordinaria e dichiarata altresì insolvente, aveva proposto in occasione dell’opposizione al
precetto. Sennonché, a dispetto dell’avvio dell’azione esecutiva promossa nei suoi confronti, la società conduttrice ha reclamato ex art. 669 terdecies
c.p.c. l’intervenuta ordinanza cautelare dinanzi al
tribunale in composizione collegiale, il quale è stato così chiamato a pronunciarsi, mediante il provvedimento in esame, sulla medesima richiesta di
sospensione dell’efficacia esecutiva dell’ordinanza
di rilascio che la debitrice aveva già rinnovato (sub
specie di istanza sospensiva della procedura) in occasione della presentazione dell’opposizione all’esecuzione.
Due, pertanto, sono le questioni che il collegio ha
dovuto esaminare con l’ordinanza in commento e
che conviene qui, per chiarezza, sinteticamente
enucleare. Da un lato, si è posto il quesito se la
pendenza di un procedimento in punto di sospensione dell’esecuzione per rilascio, intrapresa in base
al provvedimento provvisoriamente esecutivo di
cui all’art. 665 c.p.c., implichi una improcedibilità
del procedimento di reclamo ex art. 669 terdecies
c.p.c. sulla medesima questione della sospensione
dell’efficacia provvisoriamente esecutiva del titolo
per il rilascio dell’immobile locato. Dall’altro lato,
si è posto l’interrogativo, anch’esso di rilevanza
schiettamente processuale, se la predetta ordinanza
di rilascio ex art. 665 c.p.c. sia destinata a subire la
preclusione di ogni effetto (anche solo provvisoriamente esecutivo) in conseguenza dell’avvio di una
procedura concorsuale nei confronti del conduttore
moroso e del consolidamento - ad esso connaturato
- dell’effetto impeditivo delle azioni esecutive (e
cautelari) individuali.
Si tratta di interrogativi che, a ben vedere, non
paiono tra loro del tutto scollegati nemmeno in
un’ottica puramente teorica, solo che si consideri
come la finalità liquidatoria, che è comune alle
procedure concorsuali, comporti, in luogo della vera e propria preclusione delle iniziative esecutive individuali, una mera trasformazione dell’azione esecutiva, la quale, a seguito dell’apertura del concorso, diviene inammissibile o improcedibile nelle sue
forme originarie, pur restando un’azione proponibile o proseguibile alla stregua delle regole che go-
vernano il sopravvenuto regime esecutivo concorsuale (1). Ecco, dunque, che il fondamento dell’efficacia esecutiva assume rilevanza fondamentale vieppiù quando tale efficacia si produce soltanto in
via provvisoria - al fine di comprendere come si
esplica, ed entro quali limiti, il divieto delle azioni
esecutive individuali a seguito dell’avvio di una
procedura concorsuale.
In questa sede, però, è d’obbligo limitarsi ad un
esame critico dei profili più strettamente legati alla
vicenda concorsuale, dando conto invece brevemente della soluzione adottata dal tribunale di Roma con riguardo alla questione pregiudiziale sulla
sorte dell’istanza sospensiva dell’esecuzione presentata unitamente all’opposizione ex art. 615, comma
2, c.p.c. A tal proposito, e per meglio comprendere
le argomentazioni svolte dal tribunale, sarà sufficiente ricordare che, secondo l’ordinanza in commento, l’istanza sospensiva dell’esecuzione non può
essere esaminata e decisa, in virtù delle regole che
governano la litispendenza (art. 39, commi 1 e 3,
c.p.c.), allorché la questione della persistenza o
meno dell’efficacia esecutiva del titolo costituisca
già oggetto di un’ordinanza cautelare di rigetto
emessa dal giudice dell’opposizione a precetto (art.
615, comma 1, c.p.c.) e reclamata dinanzi al giudice
superiore sulla scorta della previsione di cui all’art.
669 terdecies c.p.c. (2).
(1) Di una “trasformazione” dell’azione esecutiva individuale in azione esecutiva fallimentare discorre, infatti, la giurisprudenza (cfr., espressamente, Cass. 19 luglio 1999, n. 7661, in
Mass. Giust. civ., 1999, 1666), la quale ne trae la conseguenza
che il termine prescrizionale delle azioni creditorie non viene
sospeso o interrotto dalla sopravvenienza della dichiarazione
di fallimento, rilevando invece, “con effetti permanenti fino alla
chiusura della procedura”, la presentazione delle domande di
ammissione al passivo (così già Cass. 22 novembre 1990, n.
11269, in questa Rivista, 1991, 456 ss.).
(2) Sul punto si rinvia alle argomentazioni svolte dal tribunale nel par. 2 dell’ordinanza in commento.
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Ordinanza provvisoria di rilascio
e procedure concorsuali
Ben altri problemi sorgono, invece, mutando angolo visuale, passando cioè a considerare la principale
questione sottoposta al vaglio del tribunale di Roma. Tale questione concerne - come detto - l’applicabilità del divieto delle azioni esecutive individuali - conseguente all’apertura di procedure concorsuali - in rapporto a quelle iniziative esecutive
che siano basate su titoli dotati di efficacia soltanto
provvisoriamente esecutiva.
Più precisamente, le tematiche che sono state sottoposte al tribunale romano si concentrano sui seguenti profili problematici: (i) stabilire se il divieto
delle azioni esecutive individuali debba trovare applicazione con riguardo all’espropriazione dei soli
beni in proprietà dell’imprenditore oppure possa
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estendersi anche ai cespiti aziendali in proprietà di
terzi; (ii) stabilire se l’apertura di una procedura
concorsuale, nel momento in cui preclude l’avvio
delle azioni esecutive individuali, impedisca anche
la prosecuzione del procedimento (a cognizione
piena) volto ad assicurare la definitività del titolo
provvisoriamente esecutivo emesso al termine della
fase sommaria del procedimento stesso.
Si tratta, ancora una volta, di questioni che sono
solo apparentemente slegate tra loro e che invece,
ad uno sguardo più attento, si rivelano strettamente connesse; ciò appare evidente anche nel caso in
esame se si considera che il secondo quesito sopra
menzionato è stato affrontato dal tribunale romano
con riguardo ad una ordinanza provvisoria ex art.
665 c.p.c. e, pertanto, ad un provvedimento non
definitivo che determina un effetto restitutorio in
favore, per l’appunto, del terzo proprietario-locatore.
Procediamo allora con ordine ed esaminiamo, anzitutto, la natura del provvedimento la cui efficacia
provvisoriamente esecutiva (rectius: la sua persistenza nonostante la proposizione dell’opposizione
a precetto e la contestuale istanza sospensiva) è
stata oggetto di cognizione da parte del tribunale
romano. Orbene, è fuor di dubbio che l’ordinanza
con cui il giudice civile, dopo aver accertato che
l’opposizione svolta dal debitore intimato non si
fonda su prova scritta e che non sussistono “gravi
motivi in contrario”, dispone l’immediato rilascio
dell’immobile “con riserva delle eccezioni del convenuto” (art. 665, comma 1, c.p.c.) costituisce un
provvedimento che mira a bilanciare contrapposti
interessi di parte. Trovano così un adeguato contemperamento:
- da un lato, il diritto del creditore-intimante a
conseguire immediatamente un risultato pratico-satisfattivo a fronte di un’opposizione del debitore che
prefigura soltanto in nuce i motivi di contestazione
ed esige, per contro, un più congruo e specifico approfondimento istruttorio, e
- dall’altro lato, il diritto del debitore-intimato a
conseguire una revoca del provvedimento di rilascio a
seguito dello scioglimento, in sede di cognizione piena, delle eccezioni riservate.
La formazione dell’ordinanza provvisoria di rilascio
si sviluppa, dunque, secondo due momenti distinti:
anzitutto, la fase sommaria del procedimento locatizio che culmina, per l’appunto, nel riconoscimen-
to dell’immediata esecutività della ordinanza e,
poi, la fase a cognizione piena che si risolve, invece, nella pronuncia definitiva sul diritto del creditore al rilascio dell’immobile (3). Due momenti
che, di regola, si ricompongono dinanzi al giudice
delle locazioni proprio con la celebrazione della fase cognitoria piena del procedimento locatizio, dalla quale può scaturire alternativamente la stabilizzazione dell’efficacia provvisoria dell’ordinanza oppure la sua revoca definitiva; al contrario, la fase
sommaria del procedimento e quella a cognizione
piena sono destinate a svolgersi secondo percorsi
differenti ogni qualvolta la stabilizzazione del titolo
in conformità al rito locatizio sia impedita dall’apertura di una procedura concorsuale nei confronti
del debitore-intimato.
Così è accaduto nella vicenda oggetto del provvedimento in commento, nella quale la società debitrice, successivamente all’intimazione di rilascio
dell’immobile sulla scorta dell’ordinanza ex art. 665
c.p.c., veniva dapprima ammessa alla procedura di
concordato preventivo in accoglimento di una domanda prenotativa - tempestivamente pubblicata
nel registro delle imprese - con riserva di depositare la proposta definitiva entro il termine assegnato
dal tribunale fallimentare (art. 161, comma 6,
l.fall.); e poi, una volta promossa l’opposizione al
precetto, che era stato medio tempore notificato dalla società creditrice unitamente all’ordinanza esecutiva, veniva ammessa alla procedura di amministrazione straordinaria di cui al D.L. 23 dicembre
2003, n. 347 (con contestuale nomina dei commissari straordinari) e, poco dopo, veniva dichiarata
insolvente dal tribunale fallimentare con fissazione
del termine per l’insinuazione allo stato passivo
della debitrice.
Ecco però il punctum dolens di tutta la vicenda: il
giudice dell’opposizione al precetto, investito della
questione relativa alla sospensione dell’efficacia
provvisoriamente esecutiva dell’ordinanza di rilascio, negava - come detto - l’immediata esecutorietà del titolo e, in accoglimento delle difese svolte
dalla creditrice-opposta, statuiva una sostanziale
inapplicabilità del divieto di agire esecutivamente
ex art. 51 l.fall. all’azione che fosse volta ad ottenere il rilascio di beni non in proprietà dell’imprenditore (com’era il caso, per l’appunto, dell’immobile
condotto in locazione dalla debitrice morosa).
(3) Sul punto v., per tutti, G. Trisorio Liuzzi, Tutela giurisdizionale delle locazioni, Napoli, 2005, passim; Id., Procedimenti in
materia di locazione, in Dig. disc. priv., Sez. civ., XIV, Torino,
1996, 490 ss. In giurisprudenza, cfr. Cass. 5 marzo 2009, n.
5356, in Giust. civ., 2009, I, 1252 ss.
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A tal proposito, giova ricordare che quello dell’art.
51 l.fall. è un divieto che, pur essendo tracciato
nella disciplina degli effetti che l’apertura del fallimento determina nei confronti dei creditori, trova
riconoscimento in ogni procedura che abbia una
vocazione concorsuale: è l’art. 168 l.fall. a ribadirlo
espressamente con riguardo al concordato preventivo; ed è un intreccio di rinvii normativi che ne
consente altresì l’applicazione all’amministrazione
straordinaria. In particolare, allorché la “grande
impresa”, che versi nelle condizioni prescritte dalla
legge (4), venga ammessa a recuperare l’“equilibrio
economico delle attività imprenditoriali” mediante
una procedura di “ristrutturazione economica e finanziaria” ovvero di “cessione dei complessi aziendali” (art. 27, comma 2, lett. a e b, D.Lgs. 8 luglio
1999, n. 270), è l’art. 2, comma 2 bis, D.L. n.
347/2003 a sancire che il decreto ministeriale di
ammissione alla procedura comporta, per il tramite
del rinvio all’art. 48, D.Lgs. n. 270/1999, il divieto
di azioni esecutive individuali “sui beni dei soggetti
ammessi alla procedura”.
Ma questo intreccio normativo si palesa ben presto
insufficiente per sciogliere il nodo interpretativo
che la società debitrice ha inteso sottoporre al vaglio del tribunale. Ed infatti, per sostenere che la
legge dovrebbe essere interpretata restrittivamente
in parte qua (ovverosia: che il generico richiamo
contenuto nell’art. 48, D.Lgs. n. 270/1999 ai “beni
dei soggetti ammessi alla procedura di amministrazione straordinaria” sarebbe da intendersi come relativo soltanto a quei beni di cui l’imprenditore si
possa affermare proprietario) non è sufficiente limitarsi al puro dato letterale dell’art. 48 (5), ma è invece necessario volgere lo sguardo alle disposizioni
sull’accertamento dello stato passivo conseguente
alla dichiarazione di insolvenza dell’imprenditore.
Correttamente, dunque, il giudice del reclamo cautelare ha prestato scrupolosa attenzione a tali disposizioni e, in accoglimento dell’impostazione
espressa dalla società debitrice, ha richiamato, in
particolare, la previsione dell’art. 18, D.Lgs. n.
270/1999 (applicabile alla procedura di amministrazione straordinaria speciale in virtù del richiamo contenuto nell’art. 8, D.L. n. 347/2003) che
estende anche alla “grande impresa” insolvente le
regole della soddisfazione in sede concorsuale dei
diritti reali e personali su cose in possesso o nella disponibilità dell’imprenditore (art. 52 l.fall.).
Ma l’interpretazione offerta dal tribunale romano
non si ferma neppure a quest’ulteriore dato normativo; allo scopo di assicurare una motivazione più
ampia a sostegno della conclusione secondo cui anche i diritti (reali o) personali di godimento in capo a terzi soggiacciono al regime del concorso, il
tribunale si sofferma, infatti, sulla natura dell’intimazione di sfratto per morosità.
Ed invero, ciò che impedisce di promuovere un’esecuzione individuale (anche) sui beni aziendali in
proprietà di terzi non è soltanto la riconducibilità alla lex concursus dei diritti (reali o) personali di godimento sui beni imprenditoriali (rectius: sui beni
che sono nel possesso o nella disponibilità dell’imprenditore); ciò che preclude una simile iniziativa
è anche la struttura che finisce per assumere l’azione volta all’accertamento di tali diritti allorché
venga esercitata nelle forme del rito locatizio. Vi è
da considerare, infatti, che l’intimazione di sfratto
per morosità mira a ottenere un effetto - il rilascio
dell’immobile locato da parte del conduttore - che
costituisce una peculiare declinazione del generale
effetto restitutorio conseguente alla risoluzione del
contratto per inadempimento (art. 1458 c.c.); di
talché il rilascio dell’immobile per intimazione di
sfratto viene a costituire un effetto che appartiene
al genus delle restituzioni delle prestazioni eseguite
in adempimento di un contratto risolto.
Ecco, allora, che l’attenzione dell’interprete deve
rivolgersi - come ha fatto il tribunale nell’ordinanza in commento - anche alle disposizioni sulla sorte
dei contratti pendenti alla data di apertura della
procedura, essendo questa la sedes materiae in cui
rinvenire la disciplina dell’effetto lato sensu restitutorio del bene locato da parte dell’imprenditore in-
(4) Come noto, sono ammesse alla procedura di amministrazione straordinaria di cui al D.L. n. 347/2003 le imprese
soggette alle disposizioni sul fallimento in stato di insolvenza
che intendano valersi di una delle procedure di recupero dell’equilibrio economico di cui all’art. 27, comma 2, lett. a) e b),
D.Lgs. n. 270/1999 (v. infra nel testo) allorché possiedano congiuntamente i seguenti requisiti dimensionali: (i) un numero di
lavoratori subordinati (anche ammessi al trattamento di integrazione guadagni) non inferiore a cinquecento da almeno un
anno, (ii) un esposizione debitoria complessiva (derivante anche da garanzie rilasciate) non inferiore a trecento milioni di
euro (art. 1, D.L. n. 347/2003). Cfr., sul punto, M. Fabiani - M.
Ferro, Dai tribunali ai ministeri: prove tecniche di degiurisdizionalizzazione della gestione della crisi d’impresa, in questa Rivista, 2004, 132 ss.; M. Montanari, L’amministrazione straordinaria delle grandissime imprese in stato di insolvenza (c.d. legge
Marzano): profili problematici del procedimento di apertura e relativi effetti, in Dir. fall., 2005, I, 290 ss.
(5) Su cui v. A. Coppola, Gli effetti dell’ammissione alla procedura di amministrazione straordinaria, in AA.VV., L’amministrazione straordinaria delle grandi imprese in stato di insolvenza, a cura di C. Costa, Torino, 2008, 356 ss. ove ampi riferimenti.
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solvente. Ed infatti, la regola dell’art. 72 l.fall. che trova applicazione nell’amministrazione straordinaria in ragione del rinvio contenuto nell’art.
51, D.Lgs. n. 270/1999 (e, per il tramite dell’art. 8,
D.L. n. 347/2003, anche nella procedura amministrativa speciale) (6) - impone al contraente non
inadempiente di svolgere l’istanza per la “restituzione (...) di un bene”, conseguente alla risoluzione
giudiziale del vincolo contrattuale, nelle forme imperative dell’insinuazione allo stato passivo (art.
72, comma 5, l.fall.). Ne consegue una assoluta improcedibilità della domanda di rilascio dell’immobile
a seguito dell’ammissione del debitore alla procedura di amministrazione straordinaria (o, in genere,
ad una procedura concorsuale); in particolare, per
quanto concerne la trattazione della domanda restitutoria (accessoria e dipendente rispetto a quella
per la risoluzione del contratto) (7), essa non può
trovare compimento secondo le forme del rito ordinario, ma viene attratta alla competenza esclusiva
del giudice delegato e alle forme dell’accertamento
dello stato passivo.
Il ragionamento non cambia se la trattazione della
domanda restitutoria si svolge secondo le forme
dell’intimazione di sfratto per morosità: la domanda di intimazione mira, infatti, all’accertamento di
quello stesso diritto al rilascio del bene locato a cui
ambisce la domanda di restituzione che sia stata
proposta in via accessoria rispetto alla domanda di
risoluzione del contratto ex art. 1453 c.c. Ed infatti, posto che il rilascio rappresenta null’altro che la
forma restitutoria del bene immobile, vi è da rilevare come la domanda di intimazione (del rilascio)
condivida lo stesso titolo e il medesimo oggetto della
domanda di restituzione del bene che era stato
consegnato alla parte inadempiente: per entrambe
le domande assume rilevanza l’inadempimento
contrattuale (rectius: lo scioglimento del vincolo
contrattuale che consegue all’inadempimento) ed
entrambe mirano altresì alla condanna del debitore
per il rilascio dell’immobile. Ciò che muta è costituito, semmai, dal fatto che la domanda di risoluzione è esplicita e si cumula a quella (dipendente)
di restituzione del bene, mentre l’istanza per lo
scioglimento del vincolo contrattuale può ritenersi
soltanto implicita (e, per così dire, presupposta)
nella domanda di intimazione al rilascio della res
locata (8). Si deve, quindi, concludere che anche il
rilascio dell’immobile che sia stato intimato nelle
forme del rito locatizio non possa svolgersi secondo
le regole del procedimento originario ogni qualvolta sopravvenga l’apertura di una procedura concorsuale nei confronti del debitore; l’attrazione della
domanda di intimazione alla competenza del giudice concorsuale e la sua conseguente improcedibilità nelle forme originarie impediscono, pertanto, la
prosecuzione del giudizio secondo il rito locatizio e,
specialmente, precludono la fase a cognizione piena che è destinata allo svolgimento delle eccezioni
riservate dall’intimato quando la sua opposizione
non sia stata fondata su prova scritta. In particolare, va rilevato che una tale improcedibilità permane nonostante la pronuncia di un’ordinanza provvisoria di rilascio, la quale, mentre assicura il conseguimento di un titolo per la (eventuale) temporanea soddisfazione in sede esecutiva della pretesa restitutoria, non statuisce definitivamente sul diritto
alla restituzione creditore.
(6) L’art. 8, D.L. n. 347/2003 contiene, infatti, una clausola
generale di rinvio alle norme (compatibili) dettate dal D.Lgs. n.
270/1999 per quanto non disposto diversamente dalla lex specialis: cfr. M. Montanari, L’amministrazione straordinaria delle
grandissime imprese in stato di insolvenza (c.d. legge Marzano),
cit., 324 ss.; D. Manente, La procedura di ristrutturazione industriale di grandi imprese in stato di insolvenza, in L’amministrazione straordinaria delle grandi imprese in stato di insolvenza,
cit., 741, testo e nt. 71.
(7) Nel senso che l’azione di restituzione dipenda dal venir
meno - anche giudiziale - del titolo in base al quale l’istante deteneva la res, v., ex multis, Cass. 4 luglio 2005, n. 14135, in
Mass. Giust. civ., 2005, 6; Cass. 19 febbraio 2002, n. 2392, ivi,
Mass., 2002, 257; da ultimo cfr. anche Cass., SS.UU., 28 marzo 2014, n. 7305, in Foro it., 2014, I, 3241 ss.
(8) Che la domanda di risoluzione sia da considerare impli-
citamente espressa nella domanda di rilascio dell’immobile è
una conclusione ampiamente condivisa nella giurisprudenza come rammentato anche dal tribunale di Roma nel provvedimento in esame (cfr. paragrafo 3.3) - sulla scorta della considerazione che, a seguito dell’opposizione dell’intimato, l’originaria domanda di intimazione, anziché essere decisa secondo
il procedimento speciale, si trasforma in un’ordinaria azione di
risoluzione per inadempimento: in questi termini, oltre alle pronunce menzionate nel provvedimento in esame, v. espressamente Cass. 16 novembre 2007, n. 23819, in Mass. Giust. civ.,
2007, 11; Cass. 11 febbraio 2005, n. 2853, in Arch. loc. cond.,
2005, 570 ss.; Cass. 25 agosto 2003, n. 12435, in Rass. loc.
cond., 2004, 149 ss., nonché già Cass. 5 novembre 1968, n.
3655, in F. Lazzaro - R. Preden, Codice delle locazioni annotato
con la giurisprudenza6, 2008, Milano, 1566.
978
Improcedibilità del giudizio di rilascio e
ineseguibilità dell’ordinanza ex art. 665 c.p.c.
Detto questo, si deve subito andare oltre, e chiedersi quali implicazioni comporta la predetta improcedibilità della domanda di intimazione rispetto
all’ordinanza provvisoria di rilascio. A tale quesito
il tribunale di Roma ha risposto in termini di ineseguibilità del provvedimento; e ciò non tanto sulla
scorta della validità del divieto ex art. 51 l.fall. nei
confronti (anche) delle azioni esecutive individuali
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su beni in proprietà (non dell’imprenditore, ma) di
terzi (9), bensì sulla scorta dell’efficacia soltanto
provvisoria di cui è dotata l’ordinanza di rilascio ex
art. 665 c.p.c. Qualora, infatti, la pronuncia sul diritto al rilascio sia riservata ex lege al giudice concorsuale secondo le forme dell’accertamento del
passivo, non basta osservare che l’iniziativa giudiziale per la risoluzione del contratto di locazione e
cumulativamente la restituzione del bene al proprietario-locatore, benché eventualmente intrapresa
dinanzi al giudice ordinario, deve essere coltivata
ex novo in sede concorsuale (10); vi è altresì da capire quale sorte sia riservata al provvedimento con
cui sia stato anticipato - in via provvisoria - l’effetto della condanna del debitore alla restituzione del
bene ogni qualvolta la domanda restitutoria sia stata promossa nelle forme dell’intimazione di sfratto
per morosità (art. 658 c.p.c.) (11) e abbia dato luogo, malgrado l’opposizione dell’intimato, ad una
“ordinanza non impugnabile di rilascio, con riserva
delle eccezioni del convenuto” (art. 665, comma 1,
c.p.c.).
Orbene: che la sorte sia quella della ineseguibilità
dell’ordinanza pare assolutamente fuor di dubbio
solo che si consideri come l’efficacia provvisoriamente esecutiva di tale provvedimento abbia la
sua ragione giustificatrice non solo nella sussistenza
di quei presupposti di legge che si riassumono, icasticamente, nella categoria del fumus boni iuris
(che, qui, traspare soprattutto attraverso il requisito della insussistenza di “gravi motivi in contrario”:
art. 665, comma 1, c.p.c.) (12), ma anche nel fatto
che tale ordinanza è proiettata, di per sé (ovverosia: proprio in ragione della sua natura provviso-
(9) Non sembra davvero possibile dubitare (né sembra dubitare, a tal proposito, neppure l’ordinanza in commento) della
assoggettabilità dell’azione esecutiva per rilascio all’ambito applicativo dell’art. 51 l.fall. Tale preclusione è diretta, infatti, a
impedire l’esercizio delle azioni esecutive individuali in quanto
destinate a incidere negativamente sulla soddisfazione concorsuale di coloro che vantano una situazione soggettiva relativa
(diritto di credito o diritto personale di godimento) e di coloro
che si affermano titolari di una situazione soggettiva assoluta
(diritto reale) nei confronti del patrimonio fallimentare (v., per
tutti, L. Guglielmucci, Diritto fallimentare4, Torino, 2011, 189;
B. Inzitari, Sub art. 51, in Commentario Scialoja-Branca. La legge fallimentare, a cura di F. Bricola - F. Galgano - G. Santini,
Bologna-Roma, 1988, 18; da ultimo, per ulteriori richiami anche alla dottrina più risalente, F. Autelitano, Responsabilità patrimoniale del debitore ed esecuzione per rilascio di cose immobili nei confronti del fallito, in Giur. comm., 2006, I, 880 ss., in
part. 890-891; in giurisprudenza, v. Trib. Monza 26 novembre
1992, in questa Rivista, 1993, 661 ss.). D’altra parte, non è certo questa la sede per esaminare la tesi secondo cui l’esecuzione in forma specifica sarebbe destinata alla soddisfazione di
quelle sole situazioni soggettive che siano contraddistinte da
una natura assoluta (o lato sensu finale), con conseguente
esclusione di quelle posizioni che siano legate, invece, a rapporti di obbligazione, rispetto alle quali l’attuazione coattiva si
otterrebbe soltanto con l’espropriazione e in rapporto al principio dell’art. 2740 c.c., di talché solo per quelle situazioni che
sono suscettibili di esecuzione forzata in forma generica potrebbe trovare applicazione il divieto dell’art. 51 l.fall. (in questo senso S. Satta, Istituzioni di diritto fallimentare 6 , Roma,
1966, 164 e, soprattutto, Id., L’esecuzione forzata, Torino,
1952, 237 ss.): per l’affermazione - ancor oggi assolutamente
prevalente - del principio di effettività della tutela esecutiva e
della sua propensione a soddisfare il diritto del creditore nel rispetto della sua specifica natura, v. comunque C. Mandrioli,
L’esecuzione forzata in forma specifica, Milano, 1953, passim.
(10) Ed infatti, l’azione di risoluzione del contratto, se può
essere iniziata o proseguita nei confronti della curatela anche
dinanzi al tribunale ordinario [nel senso che l’azione di risoluzione, introdotta prima del fallimento, resta assegnata al giudice ordinario competente per il giudizio di cognizione, con la
conseguenza che le ulteriori istanze restitutorie (o risarcitorie)
sarebbero da proporre in sede di verifica del passivo, v., ex
multis, Trib. Verona 28 ottobre 2013, in questa Rivista, 2014,
440; Trib. Salerno 1° febbraio 2013, ivi, 2013, 1391, viene invece attratta (rectius: dev’essere trasferita) alla competenza funzionale del tribunale fallimentare quando sia proposta cumula-
tivamente all’azione restitutoria: cfr., in particolare, Trib. Torino
17 maggio 2014, in Dir. fall., 2015, 204 ss.; Trib. Saluzzo 24
maggio 2012, in questa Rivista, 2012, 1256; Trib. Udine 16
marzo 2012, ivi, 2012, 1004, ove si evidenzia come la connessione per pregiudizialità-dipendenza (art. 34 c.p.c.) o accessorietà (art. 31 c.p.c.) tra le due domande giustifichi una trattazione unitaria delle relative cause e, pertanto, il loro trasferimento in sede fallimentare, agevolando così la concentrazione
processuale ed evitando, per contro, la sospensione delle
istanze restitutorie (o risarcitorie) in attesa del giudizio sulla risoluzione. Sul punto, si osserva, inoltre, in dottrina, che il giudice fallimentare è comunque chiamato a conoscere in via
principale anche di quei diritti (ivi compresi quelli potestativi)
che si pongono in rapporto di pregiudizialità rispetto a quelli
che fondano le istanze di tutela concorsuale, cfr. L. Guglielmucci, Sub art. 72, in AA.VV., Il nuovo diritto fallimentare, I, diretto da A. Jorio e coordinato da M. Fabiani, Bologna, 2006,
1129 ss.; M. Montanari, Sulla translatio in sede di verifica del
passivo dell’azione contrattuale pendente alla data del fallimento, in questa Rivista, 2013, 1394 ss.; V. Zanichelli, La nuova disciplina del fallimento e delle altre procedure concorsuali, Torino, 2008, 162. Tale conclusione sembra valere, allora, a fortiori
quando la domanda risolutiva sia addirittura implicita in quella
restitutoria, come accade, per l’appunto, nel caso in cui sia richiesta al giudice ordinario l’intimazione al rilascio dell’immobile locato, di talché l’attrazione al tribunale fallimentare dell’azione di intimazione comporta l’attrazione anche dell’azione di
scioglimento del vincolo contrattuale.
(11) Nel senso che l’intimazione di sfratto per morosità costituisce l’esercizio in forma speciale dell’azione costitutiva di
risoluzione per inadempimento e di quella di condanna al rilascio della res, v., in giurisprudenza, Cass. 8 agosto 1995, n.
8692, in Mass. Giust. civ., 1995, 1498; Cass. 3 febbraio 1987,
n. 962, ivi, Mass., 1987, 2; in dottrina, cfr. R. Preden, Sfratto
(procedimento per la convalida di), in Enc. dir., XLII, Milano,
1990, 429 ss., in part. 435, ove ulteriori riferimenti.
(12) Sulla natura cautelare dell’ordinanza provvisoria di rilascio, v. isolatamente R. Giordano, Sub art. 665, in Commentario del codice di procedura civile, a cura di S. Chiarloni, Bologna, 2015, 238 ss., 260 ss. Prevale, invece, l’opinione contraria, per la quale v. C. Consolo, Spiegazioni di diritto processuale
civile7, I, Torino, 2010, 259-260, secondo cui l’ordinanza “non
contiene alcun accertamento idoneo a stabilizzarsi”; v. già Id.,
Ancora sulla sopravvivenza (questa volta esclusa) dell’ordinanza
di rilascio ex art. 665 c.p.c. alla mancata riassunzione - e conseguente estinzione - del processo, in Giur. it., 1987, I, 2, 115 ss.
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ria), verso la pronuncia di quell’ulteriore e distinto
provvedimento con cui, al termine di una fase a
cognizione piena, viene riconosciuto (o disconosciuto) definitivamente il diritto della parte intimante ad ottenere il rilascio dell’immobile.
Risulta chiaro a questo punto come e perché l’improcedibilità della domanda di intimazione al rilascio nelle forme del rito locatizio non determini
soltanto l’obbligo di svolgere in sede concorsuale
l’attività cognitoria piena del diritto al rilascio dell’immobile (artt. 93 ss. l.fall.), ma comporti altresì
l’assoluta impossibilità di dare esecuzione all’ordinanza provvisoria di rilascio: un tale provvedimento, infatti, non potrebbe essere confermato o revocato - secondo le forme del rito locatizio - da una
pronuncia definitiva sulla fondatezza del diritto al
rilascio della res locata, e non potrebbe, d’altra parte, neppure influenzare lo svolgimento della cognizione autonoma e speciale del diritto al rilascio
che si celebra in sede di accertamento dello stato
passivo.
Ed infatti, va osservato che un’ordinanza come
quella dell’art. 665 c.p.c., se è dotata sì di un’efficacia immediatamente esecutiva, non può sopravvivere
- e, con essa, la sua provvisoria efficacia - ad una
chiusura del procedimento di intimazione che, al
pari di quella conseguente alla improcedibilità della domanda di intimazione per apertura della procedura concorsuale, prescinda totalmente dallo
svolgimento della cognizione piena del merito della lite; una pienezza, quest’ultima, che non è data
soltanto dalla possibilità per l’intimato di esercitare, nella pienezza appunto del contraddittorio, i poteri processuali concessi dal rito speciale laburistico
(ex artt. 447 bis e 667 c.p.c.) (13), ma anche - e soprattutto - dalla possibilità di svolgere (e, quindi,
di dimostrare) tutte le eccezioni, non fondate su
prova scritta, che l’intimato aveva proposto nel
corso dell’udienza di convalida (14). Valgono qui
allora le osservazioni svolte da dottrina e giurisprudenza (15) in punto di sopravvivenza dell’ordinanza provvisoria di rilascio in caso di estinzione del
giudizio di merito; è questo anzi, e a ben vedere, il
problema di fondo, soprattutto se si considera che,
da un lato, esso coinvolge direttamente l’indagine
sulla natura dell’ordinanza di rilascio e che, dall’altro lato, l’incidenza della procedura concorsuale
sull’esecuzione pendente (o sulla mera efficacia
esecutiva del titolo) si misura in termini di improcedibilità dell’esecuzione (o di ineseguibilità del titolo) e, dunque, alla stessa stregua della improseguibilità del processo per estinzione con conseguente inefficacia degli atti compiuti (16).
Non è certo questa la sede per esaminare una problematica così complessa e dibattuta; nondimeno,
è utile osservare che le varie ricostruzioni di tale tipologia di provvedimento, se individuano un tratto
sostanzialmente comune (ma non pienamente qualificante) nel carattere anticipatorio e provvisorio
della pronuncia (17), si distinguono tra loro per
l’affermazione di una natura decisoria dell’ordinanza, che da taluni viene riconosciuta (non senza, però, qualche contraddizione) e da altri sicuramente
negata. Così, una prima autorevole opinione, ampiamente condivisa in giurisprudenza, assegna all’ordinanza di rilascio un carattere provvisoriamente decisorio perché come è propensa ad incidere
sul diritto del locatore ad ottenere il rilascio della
res locata, così è inidonea al conseguimento della
definitività (essendo destinata, in ogni caso, a rifluire nella decisione di merito) e al passaggio in
giudicato (18); a questa impostazione si sono venu-
(13) Va rammentato che la prosecuzione del giudizio di
convalida, a seguito dell’ordinanza di mutamento del rito ex
art. 667 c.p.c. in ragione dell’opposizione dell’intimato, si svolge nelle forme del rito speciale locatizio, al quale l’art. 447 bis
c.p.c. estende le norme del rito del lavoro soltanto “in quanto
applicabili”: per un’applicazione v. Cass. 9 giugno 2010, n.
13834, in Foro it., 2010, I, 2359 ss.
(14) Nel senso che l’instaurazione del procedimento ordinario consente al conduttore di dedurre nuove eccezioni e domande riconvenzionali e al locatore di chiedere la risoluzione
per inadempimento in relazione al mancato pagamento di canoni od oneri condominiali non considerati nel ricorso per convalida di sfratto, v., ex multis, Cass. 5 marzo 2009, n. 5356,
cit.; Cass. 19 giugno 2008, n. 16635, in Giust. civ., 2009, I, 385
ss.; Cass. 29 settembre 2006, n. 21242, ivi, 2007, I, 404 ss.
(15) Per una ricostruzione del dibattito e ampi riferimenti v.,
per tutti, R. Giordano, Sub art. 665, cit., 226 ss., in part. 253
ss.
(16) Le cause estintive del processo sanciscono, infatti,
l’impossibilità di addivenire alla pronuncia sul merito della lite,
così come l’improcedibilità dell’esecuzione (o l’ineseguibilità
del titolo) conseguente all’apertura del concorso preclude sia
la soddisfazione coattiva (ma individuale) del diritto al rilascio,
sia l’accertamento definitivo di tale diritto in sede di opposizione all’ordinanza di rilascio. Differenti sono, invece, le ripercussioni sul piano degli effetti sostanziali degli atti compiuti, atteso che mentre l’estinzione del processo non conserva gli effetti
sostanziali della domanda in caso di riproposizione (come accade, invero, anche per la domanda di intimazione proposta
nelle forme della domanda di insinuazione ex artt. 96 e 103
l.fall.), l’improcedibilità dell’esecuzione fa salvi gli effetti sostanziali del pignoramento e, in genere, degli atti esecutivi medio tempore compiuti in favore della massa dei creditori (v.
Cass. 30 luglio 2015, n. 16158, in Mass. Giust. civ., 2015, 8;
Cass. 2 dicembre 2010, n. 24442, in questa Rivista, 2011, 424
ss.).
(17) Per ampi richiami di dottrina e giurisprudenza v., recentemente, R. Giordano - F. Tallaro, Il processo delle locazioni, Padova, 2014, 264 ss.
(18) Nel senso di riconoscere un carattere provvisoriamente
decisorio all’ordinanza de qua v., per tutti, E. Garbagnati, I procedimenti d’ingiunzione e per convalida di sfratto 5 , Milano,
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te, poi, contrapponendo altre letture, non meno
autorevoli, che variamente sottraggono l’ordinanza
di rilascio al novero dei provvedimenti di merito,
assegnandole piuttosto una natura meramente processuale che si esplica attraverso l’anticipazione di
taluni degli effetti (id est: gli effetti restitutori della
res locata) conseguenti alla sentenza di merito e
aventi carattere provvisoriamente esecutivo (19). Il
provvedimento in esame, sebbene non affronti direttamente la questione della natura decisoria o
meno dell’ordinanza di rilascio, non sembra condividerne - sul piano ricostruttivo della fattispecie una lettura in termini di attitudine ad esplicare effetti decisori e, dunque, incidenti sul diritto soggettivo dell’intimante: se è vero, infatti, che al provvedimento viene riconosciuta una natura genericamente decisoria, nondimeno un tale riconoscimento è fatto soltanto allo scopo di specificare la portata provvisoria e anticipata di taluni degli effetti
della sentenza di merito e, comunque, precisando
che il provvedimento resta “intrinsecamente inidoneo
a statuire sul diritto in contesa” (20). In questa prospettiva, offrono indirettamente una conferma del
riconoscimento della natura processuale dell’ordinanza di rilascio i richiami - diffusi anche nella
pronuncia in commento - a quella giurisprudenza
di legittimità che discorre dell’ordinanza de qua alla
stregua di un provvedimento inidoneo al giudicato
e, soprattutto, insuscettibile del ricorso per cassazione ai sensi dell’art. 111, comma 7, Cost. (21).
Ed infatti, la censurabilità di un provvedimento,
avente forma diversa da quella della sentenza, mediante ricorso straordinario per cassazione postula
proprio quel requisito - ormai consolidato nell’interpretazione della stessa giurisprudenza di legittimità (22) - che sembra difettare nell’ordinanza di
rilascio: si tratta del requisito della decisorietà, inteso come idoneità del provvedimento ad incidere
con efficacia di giudicato sull’esistenza (o sul modo
di essere) di una situazione giuridica soggettiva (23). Ed è, per l’appunto, il requisito della decisorietà che sembra difettare in un provvedimento
come quello in esame, solo che si consideri come
l’attitudine ad incidere direttamente sulla sfera giuridica delle parti (disponendo la cessazione o risoluzione del contratto di locazione e, conseguente-
1979, 336 ss.; più recentemente cfr. G. Scarselli, La condanna
con riserva, Milano, 1989, 336 ss., ove emerge l’inquadramento dell’ordinanza di rilascio nel novero dei provvedimenti di
condanna con riserva delle eccezioni del convenuto. In giurisprudenza l’orientamento è consolidato a partire da Cass. 27
gennaio 1949, n. 120, in Foro it., Rep. 1949, voce Sfratto, 54 e
Cass. 21 ottobre 1954, n. 3953, in Giust. civ., 1954, I, 2597 ss.:
v., ex multis, Cass. 19 luglio 1996, n. 6522, ivi, Mass., 1996,
1019; Cass. 29 marzo 1995, n. 3730, ivi, Mass., 1995, 720;
Cass. 30 marzo 1990, n. 2619, in Foro it., 1991, I, 2180 ss.,
con nota di P. D’Ascola, Ordinanza di rilascio ed estinzione del
processo. Secondo Cass. 23 gennaio 2006, n. 1223, in Mass.
Giust. civ., 2006, 1, il fatto che gli effetti dell’ordinanza di rilascio siano destinati in ogni caso a rifluire e a essere interamente assorbiti dalla sentenza di merito comporta la preclusione,
in sede di appello, di qualsiasi questione relativa alla validità
dell’ordinanza di rilascio.
(19) Più variegato è, invece, il panorama dottrinale che
esclude una natura propriamente decisoria dell’ordinanza di rilascio (per una ricostruzione delle varie posizioni v., recentemente, R. Giordano, Sub art. 665, cit., 226 ss., in part. 236
ss.): accanto a chi - condivisibilmente - ne ammette sì una natura provvisoria e anticipatoria (di taluni effetti della decisione
di merito) ma, escludendo il supporto di un accertamento del
diritto alla cessazione o risoluzione del contratto e di quello
conseguente al rilascio dell’immobile, ne limita l’incidenza al
solo piano processuale (espressamente: E. Fazzalari, Istituzioni
di diritto processuale8, Padova, 1996, 180; G. Monteleone, Manuale di diritto processuale civile 6 , II, Padova, 2012, 352; E.
Merlin, L’ordinanza di pagamento delle somme non contestate
(dall’art. 423 all’art. 186-bis cod. proc. civ.), in Riv. dir. proc.,
1994, 1030 ss., in part. 1037; in giurisprudenza v. Cass. 10 novembre 1999, n. 12474, in Mass. Giust. civ., 1999, 2218; Cass.
4 marzo 1997, n. 1917, ivi, Mass., 1997, 343), vi è l’opinione di
chi ricostruisce l’ordinanza di rilascio alla stregua di un provvedimento sommario a contenuto anticipatorio (della sentenza di
merito), privo di natura cautelare ma funzionale alla prevenzione di un abuso del diritto difensivo del convenuto [così A. Proto Pisani, Il procedimento per convalida di sfratto, in Riv. trim.
dir. proc. civ., 1988, 1354 ss., in part. 1363 (ora in Le tutele giurisdizionali dei diritti, Napoli, 2003, 423 ss.); v. anche G. Trisorio
Liuzzi, Tutela giurisdizionale delle locazioni, in P. Perlingeri (a
cura di), Trattato di diritto civile del Consiglio nazionale del notariato, Napoli, 2005, 394 ss.
(20) Così, espressamente, Cass. 6 giugno 2014, n. 12846,
in Arch. loc. cond., 2014, 448 (citata nell’ordinanza in commento al par. 3.3; il corsivo è nostro).
(21) In punto di inidoneità al passaggio in giudicato cfr., oltre alla pronuncia di cui alla nota precedente, Cass. 14 maggio
2014, n. 10539, in Arch. loc. cond., 2015, 326; Cass. 22 maggio 2008, n. 13194, in Mass. Giust. civ., 2008, 788; Cass. 13 luglio 2011, n. 15420, ivi, Mass., 2011, 1202; Cass. 20 febbraio
2002, n. 2468, ivi, Mass., 2002, 262; Cass. 1° ottobre 1996, n.
8595, ivi, Mass., 1996, 1351 (in tali pronunce - si badi - l’esclusione di una propensione al giudicato è affermata a prescindere da una valutazione in merito alla decisorietà stricto sensu
del provvedimento). In punto di inimpugnabilità ex art. 111,
comma 7, Cost., invece, cfr. Cass. 6 giugno 2014, n. 12846,
cit.; Cass. 8 maggio 2010, n. 11243, in Giust. civ., 2011, 1013
ss.; Cass. 19 giugno 2008, n. 16630, ivi, Mass., 2008, 981;
Cass. 3 giugno 1998, n. 514, ivi, Mass., 1998, 1201; Cass. 4
marzo 1997, n. 1917, cit.
(22) L’esperibilità del ricorso straordinario per cassazione
avverso provvedimenti decisori (e definitivi: v. la nota successiva) aventi la forma dell’ordinanza (o del decreto) è una conclusione unanime nella giurisprudenza di legittimità a decorrere
da Cass. 30 luglio 1953, n. 2593, in Foro it., 1953, I, 1248 ss.:
da ultimo v., ex multis, Cass. 23 maggio 2006, n. 12115, in
Mass. Giust. civ., 2006, 5.
(23) Oltre alla decisorietà del provvedimento, la ricorribilità
per cassazione ex art. 111, comma 7, Cost. esige - in ossequio
al menzionato indirizzo ermeneutico - la definitività dell’ordinanza o del decreto, che è ravvisabile allorché il provvedimento “pronunci - o venga comunque ad incidere - irrevocabilmente e senza possibilità di impugnazioni su diritti soggettivi” (così,
da ultimo, Cass. 12 novembre 2014, n. 24155, in Mass. Giust.
civ., 2014, 365: il corsivo è nostro).
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tore al rilascio dell’immobile; ma anche (e prim’ancora) perché l’inidoneità dell’ordinanza ad incidere sul piano sostanziale esclude che la sua efficacia provvisoriamente esecutiva possa in qualche
misura permanere (e, dunque, continuare a legittimare un’esecuzione forzata) di fronte all’impossibilità che si svolga il procedimento ordinario, volto
proprio a consolidare l’ordinanza e, pertanto, a incidere sul diritto del creditore (alla cessazione o risoluzione del contratto e) alla restituzione della res
locata.
mente, condannando al rilascio dell’immobile locato) sia difficilmente attribuibile di fronte alla
sommarietà della cognizione che ne precede la pronuncia e, ancor più, alla provvisorietà a cui il provvedimento è destinato per legge. L’ordinanza di rilascio non può ambire alla definitività o ad altro
grado di stabilità (24), ma soltanto all’attribuzione
di un titolo provvisorio per agire immediatamente
in executivis allo scopo di salvaguardare indirettamente (id est: nella misura in cui sarà stato riconosciuto esistente al termine del procedimento a cognizione piena e, dunque, con una sentenza di merito) il diritto del creditore intimante alla liberazione dal vincolo contrattuale e alla conseguente restituzione della res locata. La concessione di un titolo immediatamente esecutivo costituisce, a ben
vedere, non soltanto il risultato di una cognizione
della domanda di intimazione condotta allo stato
degli atti, ma soprattutto il risultato di un giudizio
di bilanciamento - imposto dal richiesto accertamento della insussistenza di “gravi motivi in contrario”
(art. 665, comma 1, c.p.c.) - tra gli opposti interessi delle parti all’anticipazione o meno dell’esecuzione forzata (25).
Il disconoscimento di una natura decisoria dell’ordinanza di rilascio impone di trarre rigorose implicazioni in punto di sopravvivenza di tale provvedimento alla sopravvenuta estinzione del processo di
merito nel quale avrebbe dovuto completarsi la cognizione sommaria svolta nella prima fase del procedimento e, in particolare, l’esame delle eccezioni
riservate del debitore opponente avverso l’intimazione di sfratto. Se così stanno le cose, sembra allora legittimo concludere che, di fronte ad una qualificazione in termini di provvedimento anticipatorio privo di un contenuto sostanziale, il tribunale di
Roma ben ha fatto a concludere nel senso della
ineseguibilità dell’ordinanza di rilascio anche nel
caso sottoposto al suo esame. E ciò, non solo perché - come rilevato dal tribunale - la natura provvisoria dell’ordinanza (26) e la sua conseguente instabilità sul piano effettuale richiedono che l’eseguibilità del titolo - provvisoriamente anticipata ex
art. 665 c.p.c. - sia stabilizzata mediante la conferma di una sentenza che accerti il diritto del credi-
A questo punto, non è difficile tirare le fila delle
osservazioni sin qui brevemente esposte: la natura
anticipatoria e non definitiva dell’ordinanza ex art.
665 c.p.c. induce ad escludere sia l’attuazione forzosa del provvedimento nelle forme dell’esecuzione
individuale, sia la proseguibilità del giudizio ordinario di merito nelle forme del rito del lavoro.
Resta soltanto da chiedersi se la cognizione assicurata dal rito del lavoro offra alle parti garanzie
maggiori rispetto a quelle imposte dall’accertamento dello stato passivo, nel cui alveo - come detto si deve ricondurre anche la domanda per il rilascio
dell’immobile locato a seguito dell’apertura del
concorso sul patrimonio del debitore insolvente.
Ed infatti, va osservato come sia l’estinzione del
processo di merito che l’attrazione della domanda
di rilascio alla competenza del giudice delegato siano effetti omogenei che precludono parimenti la
conversione della fase sommaria del processo di rilascio in un giudizio ordinario (ovvero, se la conversione si è già verificata, il completamento di
quest’ultimo fino alla pronuncia della sentenza di
merito) e, pertanto, impediscono ogni stabilizzazione dell’ordinanza di rilascio che sia stata provvisoriamente assunta al termine della fase sommaria.
Nondimeno, va aggiunto che mentre l’estinzione
del processo comporta l’assoluta impossibilità di recuperare il giudizio ordinario e, con esso, la stabilizzazione dal titolo provvisorio ex art. 665 c.p.c.,
l’attrazione della domanda di rilascio alla competenza del giudice delegato consente una prosecuzio-
(24) Nel senso che la fase a cognizione piena del procedimento per la convalida dello sfratto costituisca “uno sviluppo
non già equiparabile a quello del procedimento per gradi bensì
sostanziantesi in una successione di accertamenti” v. già Cass.
29 aprile 2004, n. 8221, in Riv. giur. edil., 2004, I, 1913 ss. (richiamata anche nell’ordinanza in commento al par. 3.3).
(25) Così, espressamente, S. Chiarloni - C. Consolo, Passato
e futuro del libro IV del c.p.c. sui “procedimenti speciali”, in
Giur. it., 2006, 641 ss., in part. 643.
(26) Un discorso diverso va fatto, invece, per il profilo della
inidoneità dell’ordinanza a passare in giudicato, posto che tale
profilo, se è consequenziale al riconoscimento di una natura
meramente processuale del provvedimento, mal si concilia di
per sé con l’attribuzione di una natura (provvisoriamente) decisoria nel merito; e questo, benché che una tale contraddizione
sia, per così dire, sopportata da quella dottrina che - come visto - non rinuncia alla natura decisoria dell’ordinanza di rilascio.
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Conclusioni
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ne del giudizio sebbene in forme diverse da quella
ordinaria prescritta per il rito locatizio.
È opportuno, quindi, operare un breve raffronto tra
la cognizione della domanda di rilascio imposta
dalla vis attractiva concursus e la cognizione prevista, invece, dal rito lavoristico, allo scopo di valutare se tali cognizioni presentano caratteri equivalenti ed offrono, pertanto, equivalenti forme di tutela ovvero se, al contrario, presentano differenze
tali da determinare una riduzione della tutela per
la parte intimante. Orbene, un simile raffronto
sembra evidenziare la presenza di alcune peculiarità
nel giudizio di accertamento dello stato passivo
che finiscono per comprimere la sfera giuridica delle parti e, specialmente, della parte intimante il rilascio della res locata. Se è vero, infatti, che lo
svolgimento delle attività processuali segue un iter
sommario e accelerato che è sostanzialmente analogo nei due giudizi (ancorché inevitabilmente più
incalzante dinanzi al giudice delegato) e se è vero
altresì che, in entrambi i giudizi, spiccano ampi poteri istruttori officiosi in capo all’organo giurisdizionale (27), non è meno vero che la cognizione della
domanda di restituzione del bene svolta in sede di
accertamento dello stato passivo fallimentare è destinata anch’essa a culminare in una pronuncia
giurisdizionale che - come noto - si contraddistingue per una efficacia preclusiva esclusivamente endofallimentare (art. 96, comma 5, l.fall.). Non è
certo questa la sede per esaminare una problematica così dibattuta e complessa; nondimeno, vi è da
osservare che la condizione di ritrattabilità in sede
extraconcorsuale dell’accertamento operato dal giudice delegato (o dal tribunale in sede impugnatoria
ex artt. 98-99 l.fall.), se non ostacola la soddisfazione del diritto di credito accertato in sede di riparto
(posto che, anzi, la preclusione endofallimentare
mira proprio a prevenire qualsiasi esclusione del
credito accertato dal piano di riparto) (28), mal si
concilia, invece, con la propensione dell’accertamento del diritto (personale) alla restituzione del
bene ad assumere una rilevanza non solo nei ri-
guardi della procedura fallimentare (rectius: della
curatela e del ceto creditorio), ma addirittura e necessariamente erga omnes (29).
A questo punto, il discorso supera evidentemente i
confini della presente trattazione. È giusto però rilevare che può parlarsi propriamente di efficacia erga omnes solo per il provvedimento con cui il giudice delegato, accogliendo la domanda di rivendica
nelle forme di cui agli artt. 93 e 103 l.fall., abbia
accertato il diritto di proprietà del ricorrente. Ed infatti, l’affermazione dell’esistenza di un diritto assoluto - soprattutto quando riguardi un bene immobile e sia, quindi, soggetta alle regole della trascrizione - non può assumere valore, con ogni evidenza,
soltanto ai fini del concorso, ma deve necessariamente valere anche fuori di esso, poiché l’accertamento dell’esistenza di un diritto reale è destinato,
di per sé, a fornire un grado di certezza che ingenera affidamento ben al di là del ceto creditorio.
Nondimeno, a me pare che anche quando la domanda di insinuazione mira alla condanna del debitore alla restituzione della res locata e, pertanto,
all’accertamento (non di un diritto reale, ma) di un
diritto personale al rilascio del bene (30), è possibile
apprezzare un’esigenza non dissimile da quella sopra esposta; ed invero, l’accertamento del diritto
del locatore ad ottenere la restituzione della res, se
non assume rilevanza in punto di proprietà del bene, crea comunque affidamento circa la legittima disponibilità materiale e giuridica della cosa da parte di
colui che l’ha precedentemente concessa in locazione (31). Di talché, la declaratoria del diritto alla
restituzione della res finisce per operare un accertamento che deve poter valere anche al di fuori della
procedura concorsuale, non essendo funzionale - al
pari della declaratoria di un diritto reale - ad assicurare la partecipazione del titolare al concorso dei
creditori, ma bensì ad attestare l’esistenza di un diritto (sia esso reale o personale al godimento di
una res) prevalente rispetto a quello vantato dalla
curatela sul medesimo bene. Di qui, allora, la cennata perplessità circa la persistenza del vincolo del-
(27) Sulla natura contenziosa e cognitoria (non ordinaria)
del giudizio di accertamento dello stato passivo v., per tutti,
G.U. Tedeschi, L’accertamento del passivo, in A. Didone (a cura
di), Le riforme della legge fallimentare, I, Torino, 2009, 887 ss.;
M. Fabiani, Diritto fallimentare. Un profilo organico, Bologna,
2011, 387 ss.
(28) Cfr. Cass. 11 marzo 2003, n. 3550, in questa Rivista,
2003, 1295 ss.; Cass. 16 marzo 2001, n. 3830, in Giust. civ.,
2001, I, 1815 ss.
(29) Sul punto, con riguardo però all’azione di rivendica, v.
recentemente S. Chimenti, L’accertamento del passivo e dei diritti reali e personali dei terzi, in V. Vitalone - S. Chimenti - R.
Riedi, Il diritto processuale del fallimento2, Torino, 2010, 223
ss., in part. 225 ss. Cfr. anche G.U. Tedeschi, L’accertamento
del passivo, in A. Didone (a cura di), Le riforme della legge fallimentare, I, Torino, 2009, 887 ss., in part. 949 ss.
(30) Sulla natura personale e non reale dell’azione di restituzione, in contrasto con l’azione di rivendicazione, v. recentemente Cass. SS.UU., 28 marzo 2014, n. 7305, cit.
(31) Sul punto, v. G. Bozza, L’accertamento dei diritti mobiliari dei terzi, in Il fallimento e le altre procedure concorsuali, diretto da L. Panzani, III, Torino, 2000, 451 ss.; G.U. Tedeschi,
L’accertamento del passivo, cit., 951-952, testo e nt. 211. In
giurisprudenza, seppur con riguardo ad una domanda di rivendicazione, cfr. Cass. 9 luglio 2004, n. 12684, Giust. civ., 2004,
I, 1941 ss.
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la endoconcorsualità in rapporto a quella parte della
decisione sullo stato passivo che concerne la verifica di un diritto reale o personale di godimento su
un bene in possesso o nella disponibilità del fallito.
A questa conclusione, del resto, sembra possibile
pervenire anche considerando la natura immobiliare
del bene rilasciato; se è vero, infatti, che la natura
personale del diritto vantato dall’intimante riduce
l’esigenza di un’affermazione giurisdizionale che
travalichi i confini temporali e soggettivi della procedura concorsuale, è altrettanto vero, io credo,
che, quanto meno nei casi in cui l’oggetto della
domanda restitutoria sia costituito da un immobile,
debba prevalere quel carattere dell’azione restitutoria che consiste nella sua attinenza ad una res e
che, in questo senso, ne assimila il trattamento più
a quello delle azioni reali che a quello delle azioni
di credito. E questo dato ricostruttivo sembra tanto
più vero in rapporto alle azioni restitutorie immobiliari, se solo si considera come la perdita della disponibilità materiale della res da parte del curatore
fallimentare, che l’avesse già acquisita all’attivo
della procedura, non precluda al terzo la possibilità
di agire per il recupero del bene in luogo del suo
controvalore economico (v. art. 103, comma 1,
l.fall.) (32).
(32) Per l’inapplicabilità ai diritti su beni immobili della previsione dell’art. 103, comma 1, l.fall. in punto di convertibilità
del diritto reale o personale di godimento in diritto di credito al
controvalore (da soddisfarsi, peraltro, in prededuzione avendo
titolo in un fatto posteriore alla dichiarazione di fallimento), v.
L. Guglielmucci, Diritto fallimentare, cit., 232; G. Cavalli, L’ac-
certamento del passivo, in S. Ambrosini - G. Cavalli - A. Jorio, Il
fallimento, in Trattato di diritto commerciale, diretto da G. Cottino, Padova, 2009, 561; P.L. Pellegrino, L’insinuazione al passivo. La domanda di ammissione al passivo, in Trattato di diritto
delle procedure concorsuali, II, diretto e coordinato da U. Apice, Torino, 2010, 126.
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Itinerari della giurisprudenza
I crediti prededucibili
a cura di Marco Spadaro
L’istituto della prededuzione nelle procedure concorsuali è, tutt’oggi, uno dei più controversi. L’Autore ripercorre le vicende normative ed ermeneutiche che hanno caratterizzato il fenomeno, soffermandosi sulle questioni e sui casi che hanno maggiormente animato il dibattito giurisprudenziale.
Prededuzione
L’evoluzione normativa
Tra gli itinerari giurisprudenziali, quello concernente i crediti prededucibili appare indubbiamente uno dei più tortuosi, avendo subito - nel recente passato - l’istituto della prededuzione una continua evoluzione normativa che, se da un lato ha determinato un rilevante ampliamento del perimetro di applicazione dello stesso istituto nel dichiarato e condivisile intento di favorire il risanamento dell’impresa in crisi, dall’altro, ha reso certamente
non agevole l’attività dell’interprete, stante la frequenza degli interventi legislativi, che ha
impedito il giusto sedimentarsi delle norme, la stratificazione dei precetti, la infelice formulazione di taluni disposizioni e la mancanza di un preciso coordinamento normativo.
Il risultato finale è stato un proliferare di crediti prededucibili (oggi si contano almeno 15
diversi casi di prededuzione, ivi compresa quella c.d. fattuale), che possono incidere significativamente sul soddisfacimento della massa dei crediti concorsuali, nonché di
orientamenti giurisprudenziali spesso contrastanti e, comunque, non sempre uniformi
(digitando il lemma “prededuzione” in una qualsiasi banca dati o nei principali motori di
ricerca vengono estratti centinaia di provvedimenti sulle ben note questioni che la caratterizzano), con un quadro di generale incertezza circa l’applicabilità dell’istituto che, paradossalmente, disincentiva la auspicata soluzione della crisi mediante l’apporto di terzi,
siano essi istituti di credito, finanziatori di altra natura, fornitori e finanche professionisti.
Forse per questo, tra i criteri direttivi fissati nello schema di disegno di legge recante
“Delega al Governo per la riforma organica delle discipline della crisi di impresa e dell’insolvenza” elaborato dalla Commissione Rordorf, vi è espressamente quello di “ridurre la durata ed i costi delle procedure concorsuali, anche attraverso misure di responsabilizzazione degli organi di gestione e di contenimento delle ipotesi di prededuzione, ivi comprese
quelle riguardanti i compensi dei professionisti, al fine di evitare che il pagamento dei
crediti prededucibili assorba in misura rilevante l’attivo delle procedure” nonché quello
di “riformulare le disposizioni che hanno originato contrasti interpretativi, al fine di favorirne il superamento”.
I crediti prededucibili nella disciplina anteriore al D.Lgs. n. 5/2006
Come è noto, nell’originario impianto della legge fallimentare, il fenomeno della prededuzione era regolato - in via generale - dall’art. 111 l.fall. che, al comma 1, stabiliva l’ordine
di distribuzione delle somme ricavate dalla liquidazione dell’attivo, assicurando la priorità
al pagamento delle spese e dei debiti contratti per l’amministrazione del fallimento e per
la continuazione dell’esercizio dell’impresa, se questo veniva autorizzato.
Altre disposizioni regolavano, in modo più specifico, fattispecie particolari (così: l’art. 34
l.fall. relativo a quanto necessario per spese di giustizia e di amministrazione; l’art. 73
l.fall. relativo al prezzo della vendita a termine, l’art. 109, comma 2, l.fall. relativo all’anticipo del compenso al curatore sulle somme ricavate da una vendita immobiliare).
In assenza di una precisa definizione normativa ex art. 111 l.fall., la giurisprudenza elaborò dei criteri per l’individuazione dei crediti prededucibili, dando rilievo al momento della
loro insorgenza (Cass. 27 ottobre 1966, n. 567, in Mass. Giust. civ., 1966, 1507), alla riferibilità di essi agli organi fallimentari (Cass. 16 novembre 1981, n. 6056, in Mass. Giust.
civ., 1981, 11) e alla strumentalità per la gestione della procedura (Cass. 27 ottobre
1966, n. 2367, Dir. fall., 1967; Cass., SS.UU., 14 ottobre 1977, n. 4370, in www.pluriscedam.utetgiuridica.it).
Venivano, così, considerati prededucibili i crediti sorti dopo l’apertura del fallimento e
per effetto di obbligazioni assunte dai suoi organi o comunque a questi riconducibili, funzionali alla acquisizione, amministrazione e liquidazione del patrimonio del fallito (Cass.
11 novembre 1998, n. 11379, in questa Rivista, 1999, 6, 635; Cass. 1° novembre 1994,
n. 9423, in Dir. fall., 1995, II, 606).
In tale contesto, beneficiavano della prededuzione i crediti derivanti dalla continuazione
dell’attività aziendale (Cass. 9 gennaio 1987, n. 71, in Giur. comm., 1987, II, 562), i credi-
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Itinerari della giurisprudenza
ti per contributi assicurativi e previdenziali relativi a rapporti di lavoro cessati in costanza
di fallimento (Cass. 6 febbraio 1986, n. 719, in Dir. fall., 1986, II, 522), i crediti relativi a
contratti non scioltisi per effetto del fallimento e proseguiti dal curatore (Cass. 4 febbraio
1993, n. 1397, in Giur. it., 1993, I, 1, 2169), le spese generali di amministrazione della
procedura fallimentare (Cass. 3 febbraio 1987, n. 952, in questa Rivista, 1987, 600).
Nel silenzio dell’art. 111 l.fall., la giurisprudenza avvertì ben presto la necessità di assecondare la prededuzione anche ai crediti sorti nel corso di una procedura concorsuale
minore, poi sfociata nel fallimento.
Interpretando estensivamente il previgente art. 111, comma 1, n. 1, l.fall. (Cass.,
SS.UU., 14 ottobre 1977, n. 4370, cit.; Cass. 16 giugno 1994, n. 5821, in Dir. fall.,
1995, II, 346), si ammise, quindi, la prededucibilità dei crediti sorti nel corso dell’amministrazione controllata che aveva preceduto il fallimento, in considerazione del fatto che la
gestione dell’impresa era resa possibile proprio grazie al credito che in tale fase le veniva
concesso, e che tale gestione era sottesa comunque ad accrescere o quanto meno conservare il valore economico dell’impresa nell’interesse dei creditori. La prededuzione poteva essere riconosciuta a condizione che gli stessi crediti fossero stati contratti secondo
le regole e per le finalità proprie della procedura minore e che se si fosse accertata la
sussistenza del duplice nesso della consecutività cronologica e dell’interdipendenza dell’una con l’altra procedura, per il perdurare e l’evolversi, nel corso di esse, di un’identica
crisi economico-finanziaria (Cass. 29 luglio 1999, n. 8164, in questa Rivista, 2000, 860).
L’esigenza di una apertura era, peraltro, chiara già da tempo e la Corte costituzionale l’aveva rappresentata efficacemente nella necessità di “riequilibrare la condizione di maggior rischio contrattuale in cui tali crediti sono concessi e ad incentivarne così l’erogazione in funzione del positivo esito della procedura, nell’interesse di tutti i creditori” (Corte
cost. 27 gennaio 1995, n. 32, in Giur. it., 1995, I, 241).
Non altrettanto avveniva, però, per i crediti sorti nel concordato preventivo, avendo questo una finalità sostanzialmente satisfattiva e liquidatoria alla quale era, di regola, estraneo l’esercizio dell’impresa (Cass. 5 maggio 1988, n. 3325, in Dir. fall., 1988, II, 848;
Cass. 16 giugno 1994, n. 5821, cit.; Cass. 27 ottobre 1995, n. 11216, in Nuova giur. civ.
comm., 1996, I, 467; Cass. 5 agosto 1996, 7140, in questa Rivista, 3, 269). Unica eccezione erano i crediti sorti per obbligazioni contratte dalla stessa procedura, per il compenso del commissario giudiziale o del liquidatore giudiziale (Cass. 3 ottobre 1983, n.
5753, in Giur. it., 1984, 691) nonché i crediti sorti per effetto della continuazione dell’attività d’impresa, quando la stessa fosse stata modalità essenziale della proposta di concordato, ammessa dal tribunale, approvata dai creditori e omologata (Cass. 11 novembre 2003, n. 16915, in Dir. prat. soc., 2004, 11, 89; Cass. 2 agosto 2002, n. 11580, in
Giur. it., 2003, 603; Cass. 5 agosto 1996, n. 7140, in Giust. civ., 1997, I, 1029).
Sulla base di detti principi, si negava - per orientamento pressoché unanime - la prededuzione ai crediti dei professionisti che avessero assistito il debitore, tanto nell’amministrazione controllata quanto nel concordato preventivo, precedenti il fallimento (Cass. 15 novembre 1974, n. 3628, in Giust. civ., 1975, I, 405; Cass. 16 maggio 1983, n. 3369, Giur. it.,
1984, I, 1, 521; Cass. 16 giugno 1994, n. 5821, cit.). E ciò fino alla nota pronunzia (Cass. 8
aprile 2013, n. 8534, in questa Rivista, 2014, 1, 111) con la quale il Supremo Collegio, mutando il precedente orientamento, ritenne che potesse riconoscersi la collocazione in prededuzione, allorquando le prestazioni professionali fossero state in rapporto di adeguatezza
funzionale con le necessità risanatorie dell’impresa e, nel concreto, utili per i creditori, per
aver consentito una sia pur contenuta realizzazione dei rispettivi crediti.
L’esigenza di apertura e la necessità di un intervento chiarificatore, che trasparivano dalla lettura dei numerosi precedenti giurisprudenziali, venivano percepite dal legislatore
che, in occasione della riforma della disciplina delle grandi imprese in stato di insolvenza,
stabiliva che i crediti sorti per la continuazione dell’esercizio dell’impresa e la gestione
del patrimonio del debitore dopo la dichiarazione dello stato di insolvenza potessero essere soddisfatti in prededuzione, a norma dell’art. 111 l.fall., tanto nella procedura (art.
20 del D.Lgs. n. 270/1999), quanto nel successivo fallimento che ad essa avesse fatto
seguito (art. 52 del D.Lgs. n. 270/1999).
L’ulteriore significativa modifica avveniva con la integrale riformulazione dell’art. 111
l.fall. ad opera del D.Lgs. n. 5/2006 e del D.Lgs. n. 169/2007.
I crediti prededucibili nella disciplina post riforma
Con il duplice intervento di cui all’art. 99 del D.Lgs. n. 5/2006 ed all’art. 8 del D.Lgs. n.
169/2007, il legislatore ha introdotto una specifica definizione normativa dei crediti prededucibili, ampliandone il perimetro con la definitiva inclusione anche di quelli sorti nell’ambito delle procedure concorsuali minori che hanno preceduto il fallimento.
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Itinerari della giurisprudenza
Ai sensi del novellato art. 111, comma 2, l.fall., sono, oggi, “considerati crediti prededucibili quelli così qualificati da una specifica disposizione di legge, e quelli sorti in occasione o in funzione delle procedure concorsuali di cui alla presente legge”.
Come presto evidenziato dalla giurisprudenza (Cass. 6 agosto 2010, n. 18437, in questa
Rivista, 2011, 1, 30; Cass. 14 marzo 2014, n. 6031, in questa Rivista, 2014, 5, 516) “si è
preso atto legislativamente della continuità delle procedure consecutive, il che impone,
essendo tali procedure volte ad affrontare la medesima crisi - ritenuta in un primo momento suscettibile di regolazione attraverso un accordo con i creditori e successivamente risultata tale da condurre alla liquidazione fallimentare - di valutare in maniera unitaria
determinati aspetti della disciplina fallimentare”.
È stato, inoltre, definitivamente superato il ricordato precedente orientamento che negava la prededuzione ai crediti nascenti da obbligazioni contratte nel corso della procedura
di concordato preventivo, in caso di successivo fallimento (così Cass. 24 gennaio 2014,
n. 1513, in Giur. it., 2014, 7, 1652).
Nella nuova formulazione della norma, quindi, il legislatore ha esplicitamente indicato
quali crediti possono essere soddisfatti in prededuzione, riconducendoli a due categorie:
una tipizzata, costituita da “quelli così qualificati da una specifica disposizione di legge”,
e una atipica, costituita da “quelli sorti in occasione o in funzione delle procedure concorsuali di cui alla presente legge”.
La individuazione dei crediti della prima categoria, quella tipizzata, è sostanzialmente
agevole, perché il legislatore ha indicato il criterio legale e, cioè, la previsione espressa
da parte di una norma di legge, anche mediante rinvio all’art. 111 l.fall.
La individuazione dei crediti della seconda categoria, quella atipica, è invece meno agevole, perché affidata ad un criterio sussidiario e di chiusura: la sussistenza di condizioni
(il collegamento occasionale o funzionale) rimesse all’apprezzamento del giudice della
procedura fallimentare, con verifica da compiersi secondo le modalità delineate dall’art.
111 bis l.fall. (Cass. 5 marzo 2014, n. 5098, in Giur. it., 2014, 7, 1650).
Le vicende normative, ed ancor più quelle ermeneutiche, della prededuzione sono state
segnate, per come si dirà meglio infra, anche dalla vigenza, seppur per un breve periodo,
del comma 4 dell’art. 182 quater l.fall. (introdotto dalla L. n. 120/2010 e abrogato dal
D.L. n. 83/2012 conv. in L. n. 134/2012) destinato a regolare la prededucibilità dei compensi spettanti al professionista incaricato di predisporre la relazione di cui agli artt. 161,
comma 3 e 182 bis l.fall., e - da ultimo - dell’art. 11, comma 3 quater, D.L. n. 145/2013
conv. dalla L. n. 9/2014 (abrogato dal D.L. n. 91/2014 conv. dalla L. n. 116/2014) che intepretava “autenticamente” (secondo Cass. 10 settembre 2014, n. 19013, in questa Rivista, 2015, 12, 1348) l’art. 111, comma 2, l.fall. nel senso che i crediti sorti in occasione
o in funzione della procedura di concordato preventivo aperta ai sensi dell’art. 161, comma 6, l.fall. si consideravano prededucibili alla condizione che la proposta, il piano e la
documentazione fossero presentati entro il termine, eventualmente prorogato, fissato
dal giudice e che la procedura fosse stata aperta ai sensi dell’art. 163 l.fall. senza soluzione di continuità rispetto alla presentazione della domanda ai sensi del citato art. 161,
comma 6, l.fall.
Gli orientamenti
della giurisprudenza
L’occasionalità
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I crediti sorti “in occasione o in funzione”
Dopo un primo contrastante approccio ermeneutico, tra chi sembrava ravvisare una sorta di endiadi nella locuzione “in occasione o in funzione” (cfr. Trib. Firenze 26 marzo
2008, in Foro toscano - Toscana Giur., 2008, 2, 168; Trib. Pordenone 8 ottobre 2009, in
www.unijuris.it; Trib. Bari 17 maggio 2010, in Dir. fall., 2012, 1, 2, 29) e chi, invece, considerava occasionalità e funzionalità due concetti distinti ed indipendenti (Trib. Milano
18 giugno 2009, in www.novaraius.it; Trib. Terni 13 giugno 2011, in Dir. fall., 2012, 1,
2, 49), la giurisprudenza di legittimità ha avuto modo di precisare che “i due criteri, quello cronologico (‘in occasione’) e quello teleologico (‘in funzione’), risultano chiaramente
considerati dalla norma come autonomi ed alternativi, in tal senso dovendo interpretarsi
la disgiuntiva ‘o’” (così testualmente Cass. 5 marzo 2014, n. 5098, cit. ed ancor prima
cfr. Cass. 5 marzo 2012, n. 3402, in questa Rivista, 2013, 1, 123). Chiarendo, ulteriormente, che la funzionalità alle esigenze della procedura non costituisce un criterio integrativo di quello cronologico, poiché tale funzionalità è autonomamente considerata come causa della prededucibilità dei crediti (Cass. 24 gennaio 2014, n. 1513, cit.).
Sancita l’autonomia del criterio della funzionalità rispetto a quello della occasionalità, lo
sforzo ermeneutico non si è esaurito, permanendo dubbi circa l’esatto significato da attribuire alle suddette due locuzioni “in occasione” e “in funzione”.
Il concetto di occasionalità sembra testualmente esprimere un mero dato cronologico e
cioè il sorgere del credito nel corso della procedura concorsuale, sia essa il fallimento o
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la liquidazione coatta amministrativa, così come il concordato preventivo, che hanno
preceduto il fallimento.
In un primo arresto, tuttavia, la giurisprudenza della S.C. ha ritenuto di dover precisare
che, al di fuori dell’ipotesi in cui il credito si riferisca ad obbligazioni contratte direttamente dagli organi della procedura per gli scopi della procedura stessa, il collegamento occasionale o funzionale con la procedura concorsuale va inteso non soltanto con riferimento
al nesso tra l’insorgere del credito e gli scopi della procedura, ma anche con riguardo alla circostanza che il pagamento del credito, ancorché avente natura concorsuale, rientri
negli interessi della massa e dunque risponda agli scopi della procedura stessa, in quanto utile alla gestione fallimentare. In questa prospettiva, secondo la Corte di cassazione,
la prededuzione attua un meccanismo satisfattorio destinato a regolare non solo le obbligazioni della massa sorte al suo interno, ma anche tutte quelle che interferiscono con
l’amministrazione fallimentare ed influiscono sugli interessi dell’intero ceto creditorio
(Cass. 13 febbraio 2012, n. 3402, in Giust. civ., 2012, I, 1271). Si è affermato così che
beneficia della prededuzione il credito per costi di bonifica di beni immobili acquisiti alla
massa attiva, eseguiti dal Ministero dell’Ambiente dopo la dichiarazione di fallimento
(Cass. 7 marzo 2013, n. 5705, in questa Rivista, 2013, 11, 1402).
In un successivo arresto, la stessa Corte di cassazione sembra aggiungere un ulteriore
presupposto al criterio della occasionalità, rispetto al noto dato letterale della norma, affermando che i crediti sorti in occasione di una procedura concorsuale sono quelli riferibili all’attività degli organi della procedura. Il requisito cronologico dell’occasionalità deve, infatti, essere integrato con l’implicito elemento soggettivo della riferibilità del credito
all’attività degli organi della procedura poiché, diversamente, porterebbe a considerare
come prededucibili, per il solo fatto di essere sorti in occasione della procedura, crediti
conseguenti ad attività del debitore non anche funzionali alla stessa (Cass. 24 gennaio
2014, n. 1513, cit.). Si è precisato così che, mentre in virtù del primo criterio (quello cronologico) l’attività degli organi della procedura dà luogo a crediti prededucibili e ciò indipendentemente dalla verifica in concreto della funzionalità rispetto alle esigenze della
procedura, l’attività del debitore dà luogo a prededuzione in virtù del secondo criterio
(quello teleologico) e cioè quando sia funzionale alle predette esigenze (Nella specie, si
riconosceva la prededucibilità al credito del proprietario di locali occupati senza titolo da
beni ceduti ai creditori nell’ambito di una procedura di concordato preventivo e non liberati dal liquidatore giudiziale nel periodo successivo all’inizio della procedura).
La funzionalità
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La perifrasi preposizionale “in funzione di”, anche nel suo significato equivalente “in vista di”, “allo scopo di” o “al fine di”, sembra invece esprimere l’obiettivo, il fine cui un’azione è mirata. È stato, quindi, presto osservato che, in questa accezione, l’espressione
potrebbe ritenersi sinonimica anche di strumentalità (Trib. Treviso 16 giugno 2008, in
questa Rivista, 2008, 10, 1209; Trib. Milano 18 giugno 2009, in www.novaraius.it; Trib.
Forlì 22 ottobre 2014, in www.ilcaso.it; Trib. Rimini 10 dicembre 2014, in www.dejure.it) concetto che, per un verso, evoca il criterio elaborato nel regime previgente per assecondare la prededuzione ai quei crediti che avessero la funzione di rendere possibile
l’acquisizione, l’amministrazione e la liquidazione dei beni del fallito (cfr. Cass. 27 ottobre 1966, n. 2367, cit.; Cass., SS.UU., 14 ottobre 1977, n. 4370, cit.) e, per altro verso,
è utilizzato dal legislatore della riforma per esentare da revocatoria i pagamenti eseguiti
dal fallito per ottenere la prestazione di servizi necessari all’accesso alle procedure concorsuali, con il significato - quindi - di mezzo per il conseguimento di un fine.
Di diverso avviso altra parte della giurisprudenza di merito che ha distinto, invece, tra
crediti strumentali e crediti funzionali, in ragione del momento della loro insorgenza: anteriormente all’apertura della procedura quelli strumentali, successivamente alla apertura
della procedura quelli funzionali (Trib. Udine 15 ottobre 2008, in questa Rivista, 2009,
1415).
L’esegesi dell’espressione “in funzione” è stata condizionata anche dalla avvertita esigenza di evitare che un’interpretazione estensiva finisse per rimettere l’attribuzione della
natura prededucibile di un credito alla discrezionalità del debitore e desse accesso, quindi, ad una innumerevole serie di crediti, senza alcun filtro giudiziale ed a scapito della
massa dei creditori concorsuali (Trib. Udine 15 ottobre 2008, cit.; Trib. Terni 13 giugno 2011, cit.; Trib. Roma 2 aprile 2013, in questa Rivista, 2014, 1, 70).
Il dibattito sulla funzionalità si è, incentrato, quindi, anche sulla necessità o meno della
apertura della procedura concorsuale cui il credito ineriva, ritenendosi da parte di alcuni
tribunali che solo in tal modo e in quel momento poteva sottoporsi al vaglio giudiziario la
effettiva funzionalità del credito alla procedura (Trib. Bari 17 maggio 2010, cit., 1304;
Trib. Terni 22 marzo 2012, in questa Rivista, 10, 1250) intesa come rispondenza dello
stesso oltre che all’interesse del debitore, anche a quello dei creditori concorsuali (Trib.
Milano 26 maggio 2011, in questa Rivista, 2011, 11, 1337). Secondo alcuni, poi, ai fini
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della effettiva funzionalità del credito era necessario che la procedura concorsuale minore avesse anche buon esito, con l’omologazione (Trib. Roma 2 aprile 2013, cit.) ritenendosi che il cattivo risultato era esso stesso prova della inutilità della prestazione cui il credito ineriva (Trib. Vicenza 28 maggio 2010, in www.ilcaso.it). Secondo altri tribunali, invece, era sufficiente solo l’apertura della procedura, rimanendo irrilevanti le vicende successive (Trib. Milano 20 agosto 2009, in questa Rivista, 2009, 12, 1413).
Tale opzione ermeneutica restrittiva ha trovato conforto anche nel citato art. 182 quater
l.fall. Si è ritenuto, infatti, che, con la introduzione di detta norma, il legislatore avesse inteso limitare il perimetro di applicazione dell’art. 111 l.fall., escludendo il beneficio della
prededuzione nel fallimento per tutti quei crediti, sorti in funzione di procedure concorsuali minori, diversi da quelli espressamente indicati nello stesso art. 182 quater l.fall., e
sancito la necessità del vaglio del Tribunale sulla funzionalità, con il provvedimento di
ammissione, (Trib. Milano 26 maggio 2011, cit.; Trib. Terni 13 giugno 2011, cit.; Trib.
Padova 11 febbraio 2013, in www.ilcaso.it).
Quest’ultimo orientamento è stato, però, ritenuto immotivatamente restrittivo della disposizione generale fissata nel citato art. 111 l.fall. (tale cioè da annullarne sostanzialmente la portata) e contrastante con la lettera della legge e con l’intenzione del legislatore di favorire il ricorso alle procedure concorsuali diverse da quella liquidatoria del fallimento (Cass. 8 aprile 2013, n. 8533, in Giur. it., 2013, 8-9, 1821; Cass. 17 aprile 2013,
n. 9316; Cass. 13 maggio 2015, n. 9845 e Cass. 8 settembre 2015, n. 17821 tutte in
www.pluris-cedam.utetgiuridica.it).
Le prime pronunce del Supremo Collegio denotano, anch’esse, non poche difficolta interpretative. La funzionalità è stata genericamente ricondotta al nesso teleologico tra l’insorgere del credito e gli scopi della procedura, con la introduzione - in via interpretativa di condizioni ulteriori rispetto a quelle testualmente indicate dall’art. 111 l.fall., ravvisate
nella necessità che il pagamento in prededuzione del credito, ancorché avente natura
concorsuale, rientrasse negli interessi della massa e dunque rispondesse agli scopi della
procedura (Cass. 5 marzo 2012, n. 3402, cit.; Cass. 7 marzo 2013, n. 5705, cit.) o, addirittura, che la relativa prestazione apportasse un risultato utile e concreto per il ceto creditorio (Cass. 10 maggio 2012, n. 7166; in www.ilcaso.it; Cass. 8 aprile 2013, n. 8534,
cit.; Cass. 13 dicembre 2013, n. 27926, in questa Rivista, 2014, 5, 537). È stata negata,
così, la prededuzione al credito del professionista per le prestazioni svolte nelle procedure di amministrazione controllata e di concordato preventivo antecedenti la dichiarazione
di fallimento, delle quali non era stata provata l’utilità per la massa (cfr. Cass. 13 dicembre 2013, n. 27926, cit.).
Nella più recenti decisioni sul tema, invece, la Corte di cassazione sembra avere assunto
una posizione marcatamente più decisa, ravvisando espressamente il nesso funzionale
nella “strumentalità” del credito (o, per meglio dire, dell’attività dalla quale esso trae origine) rispetto alla procedura concorsuale (Cass. 5 marzo 2014, n. 5098, cit.) e “dovendosi, quindi, intendere l’enunciato ‘strumentale a’ come sinonimo di ‘funzionale’” (Cass. 14
marzo 2014, n. 6031, cit.).
Definendo “inequivoca” tale interpretazione dell’art. 111 l.fall., il Giudice di legittimità ne
ha sottolineato, ancora una volta, la ricordata ratio (di favorire l’accesso alle procedure
concorsuali) accomunandola a quella dell’art. 67, comma 3, lett. g), l.fall. che sottrae alla
revocatoria fallimentare i pagamenti dei debiti liquidi ed esigibili eseguiti dall’imprenditore alla scadenza per ottenere la prestazione di servizi strumentali all’accesso alla procedura di concordato preventivo. Secondo la Corte “la comunanza di ratio tra tale norma e
quella dell’art. 111, comma 2, induce dunque a ritenere che nella strumentalità di tali
prestazioni rispetto all’accesso alla procedura il legislatore ravvisa quel nesso funzionale
che, in caso di mancato pagamento, giustifica la prededucibilità dei crediti derivanti dalle
prestazioni stesse, pur se sorti prima dell’inizio della procedura” (Cass. 5 marzo 2014, n.
5098, cit.; Cass. 14 marzo 2014, n. 6031, cit., Cass. 9 maggio 2014, n. 10110, in
www.ilcaso.it).
Circa il vaglio giurisdizionale, il Supremo Collegio ha precisato che il controllo sulla funzionalità non sfugge al giudice, ma deve essere esercitato a posteriori - come specificato
dall’art. 111 bis l.fall. - dal giudice delegato nella sede propria del riconoscimento della
prededuzione, che è quella concorsuale dell’accertamento del passivo (Cass. 5 marzo
2014, n. 5098, cit.; Cass. 10 settembre 2014, n. 19013, cit.).
Controversa sembra rimanere la necessità o meno del ricordato presupposto (di matrice
giurisprudenziale) della “utilità” per i creditori dell’attività che ha dato origine al credito
prededucibile (Cass. 8 aprile 2013, n. 8534, cit.) Se, infatti, alcune decisioni continuano
a considerare indispensabile la verifica circa la congruità e la utilità concreta della prestazione (cfr. Cass. 10 settembre 2014, n. 19013, cit.) altre pronunce sembrano escluderla
implicitamente (cfr. Cass. 5 marzo 2014, n. 5098, cit.) ovvero esplicitamente, affermando (in fattispecie relativa a crediti del professionista derivanti dall’attività di consulenza
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ed assistenza prestata al debitore per l’accesso alla procedura di concordato preventivo)
che non deve essere verificato “il risultato delle prestazioni - certamente strumentali all’accesso alla procedura minore - da questi svolte, ovvero la loro concreta utilità per la
massa”. Con la precisazione che una diversa lettura della norma, nel senso che, ai fini
dell’ammissione in prededuzione, la nozione di funzionalità implicherebbe comunque la
valutazione dell’inerenza delle prestazioni alle necessità risanatorie dell’impresa ed all’esistenza di un vantaggio per i creditori, finirebbe con lo svuotare la norma di significato,
atteso che dalla sopravvenuta dichiarazione di fallimento si dovrebbe necessariamente
presumere la mancanza di utilità per la massa di attività svolte in funzione dell’ammissione al concordato preventivo e ricondurrebbe la fattispecie entro i medesimi ambiti interpretativi ed applicativi cui, proprio per l’assenza di un’espressa previsione regolatrice,
sottostava nel vigore della precedente disciplina (Cass. 6 febbraio 2015, n. 2264, in
www.pluris-cedam.utetgiuridica.it; Cass. 5 marzo 2015, n. 4486, in Dir. fall., 2015, 5, 534;
cfr. anche Cass. 4 novembre 2015, n. 22450, entrambe in www.pluris-cedam.utetgiuridica.it).
Di recente, il significato attribuito dalla Suprema Corte alla locuzione “in funzione di” è
stato rimesso in discussione (Trib. Rovigo 14 maggio 2015, in www.ilcaso it) “non condividendosi la coincidenza semantica tra strumentalità e funzionalità, in quanto la funzionalità presuppone la strumentalità ma non si esaurisce in essa.” Si è osservato, così, che
funzionale è ciò che risponde o tende a rispondere alla funzione cui è assegnato e, quindi (nel caso delle prestazioni professionali) quella attività idonea alla ammissione concordataria, ritenuta presupposto indefettibile del utilità dei creditori.
I crediti prededucibili “così qualificati da una specifica disposizione di
legge”
Nonostante, come si è detto, la individuazione dei crediti prededucibili “così qualificati
da una specifica disposizione di legge” sia più facile, perché il riferimento è ad una previsione espressa da parte del legislatore, anche mediante rinvio all’art. 111 l.fall., non poche sono le difficoltà interpretative emerse intorno a talune fattispecie di recente introduzione.
Le disposizioni che, in particolare, hanno animato il dibattito giurisprudenziale sono l’art.
161, comma 7, l.fall., che definisce prededucibili i crediti sorti per effetto degli atti legalmente compiuti dal debitore nel periodo cd. di preconcordato, nonché gli artt. 182 quater e 182 quinquies l.fall. che regolano la sorte dei crediti derivanti da finanziamenti contratti dal debitore in crisi che accede ad una procedura di concordato preventivo ovvero
ad un accordo di ristrutturazione omologato ex art. 182 bis l.fall., attribuendo a detti crediti il beneficio della prededuzione alla ricorrenza di determinate condizioni.
Crediti derivanti da atti
legalmente compiuti
nel periodo
di preconcordato
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L’art. 161, comma 7, l.fall. (introdotto dal D.L. n. 83/2012 conv. dalla L. n. 134/2012 e
successivamente modificato dal D.L. n. 69/2013 conv. dalla L. n. 98/2013) stabilisce che,
dopo il deposito del ricorso cd. in bianco e fino al decreto di cui all’art. 163 l.fall., il debitore può compiere gli atti urgenti di straordinaria amministrazione previa autorizzazione
del tribunale, il quale può assumere sommarie informazioni e deve acquisire il parere del
commissario giudiziale, se nominato. Nello stesso periodo e a decorrere dallo stesso termine il debitore può altresì compiere gli atti di ordinaria amministrazione. I crediti di terzi
eventualmente sorti per effetto degli atti legalmente compiuti dal debitore sono prededucibili ai sensi dell’art. 111 l.fall.
La disposizione ha l’evidente scopo di favorire i rapporti con l’impresa in crisi in quel lasso di tempo che va dal deposito del ricorso in bianco sino alla apertura della procedura,
riequilibrando (con il riconoscimento della prededuzione) quella condizione di maggior rischio contrattuale cui tali crediti sono esposti e favorendone così l’erogazione per il possibile buon esito della procedura (come già evidenziato da Corte cost. 27 gennaio 1995,
n. 32, cit.).
Circa la operatività della norma è stato osservato che il riconoscimento della prededuzione non è espressamente condizionato all’effettivo deposito della proposta di concordato
preventivo completa nel termine assegnato dal tribunale e che, dei due riferimenti temporali indicati nell’art. 161, comma 7, l.fall. (deposito del ricorso in bianco e decreto di
apertura del concordato), solo il primo rappresenta anche una condizione per il riconoscimento della prededuzione, mentre il secondo non costituisce altro che uno spartiacque tra la fase ante ammissione e la fase post ammissione che, ai fini della efficacia degli atti compiuti dal debitore proponente, da quel momento è regolata dall’art. 167 l.fall.
(cfr. Trib. Terni 17 gennaio 2014, in www.ilcaso.it).
Significative le considerazioni di detto tribunale che, in relazione alla ricordata ratio della
norma, evidenzia come una condotta omissiva del debitore (per mancato deposito della
proposta) “verrebbe ad incidere negativamente (e retroattivamente) non già sul debitore
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medesimo, bensì sui terzi che incolpevolmente avevano fatto affidamento sulla prededucibilità riconosciuta dalla legge ai loro crediti ... con conseguente pregiudizio alla certezza dei rapporti giuridici e depotenziamento della fiducia nel modulo pre-concordatario,
su cui il legislatore delle riforme ha invece fatto leva per il rilancio delle soluzioni concordate della crisi di impresa” (cfr. Trib. Terni 17 gennaio 2014, cit.).
Le sorti della prededuzione maturata nel periodo di preconcordato sembrano, quindi,
prescindere dalla evoluzione, anche infausta, del procedimento (cfr. Trib. Rimini 26 novembre 2013, in www.ilfallimentarista.it; Trib. La Spezia 18 luglio 2013, in www.osservatorio-oci.org; contra cfr. App. Genova 9 gennaio 2014, in www.ilcaso.it, che sembra limitare il riconoscimento della prededuzione ai soli crediti da finanziamento ex art. 182
quater l.fall., escludendo che i crediti sorti nel corso di una procedura non andata a buon
fine possano conseguire la prededucibilità in altra analoga proposta successivamente).
Quanto alla distinzione tra atti di ordinaria amministrazione e atti di straordinaria amministrazione, la giurisprudenza di merito (Trib. Terni 28 dicembre 2012, in www.ilcaso.it) si
è attestata sulle posizioni già espresse dal Giudice di Legittimità ante riforma, secondo
cui sono atti di straordinaria amministrazione quelli idonei ad incidere negativamente sul
patrimonio del debitore, pregiudicandone la consistenza o compromettendone la capacità a soddisfare le ragioni dei creditori, in quanto ne determinano la riduzione ovvero lo
gravano di vincoli e di pesi cui non corrisponde l’acquisizione di utilità reali prevalenti su
questi (Cass. 20 ottobre 2005, n. 20291, in questa Rivista, 2006, 6, 723).
Si ritiene, così, che costituiscano atti di ordinaria gestione dell’azienda quelli strettamente aderenti alle finalità e alle dimensioni del suo patrimonio e quelli che - ancorché comportanti una spesa elevata - lo migliorino o anche solo lo conservino (Cass. 25 giugno
2002, n. 9262, in Dir. Fall., 2003, 2, 181).
Costituiscono, inoltre, atti di ordinaria amministrazione quelli relativi alla prosecuzione
dei rapporti negoziali pendenti, ove inerenti alla gestione caratteristica dell’impresa e
non incidenti in modo innovativo sul suo patrimonio (Trib. Milano 11 dicembre 2012 e
Trib. Prato 14 giugno 2012, in www.ilcaso.it) con conseguente prededucibilità dei crediti generati dalla prosecuzione degli stessi rapporti, senza necessità di autorizzazioni giudiziali (Trib. Terni 12 ottobre 2012, in www.osservatorio-oci.org; contra Cass. 16 maggio 2016, n. 9995, in www.pluris-cedam.utetgiuridica.it, che nega la prededuzione ai canoni dovuti dalla conduttrice in forza di contratti di leasing stipulati prima della sua ammissione al concordato preventivo e maturati successivamente nel corso della procedura, ritenendo necessaria sempre la dimostrazione della funzionalità degli stessi, da escludersi, peraltro, quest’ultima in difetto di una loro espressa previsione nell’ambito dei cd.
oneri concordatari, all’interno del piano originariamente proposto dalla società debitrice
e poi sottoposto, unitamente alla proposta, all’approvazione dei creditori).
Costituiscono atti ordinaria amministrazione e si sottraggono alla preventiva autorizzazione ex art. 161, comma 7, l.fall., generando crediti prededucibili, anche i conferimenti di
incarichi professionali per la redazione del piano e della proposta di concordato preventivo, della relazione attestata e per la assistenza e la consulenza del debitore proponente
in tutte le fasi procedurali, in quanto necessari per lo svolgimento della procedura, salvo
che essi, per una sproporzionata incidenza sul patrimonio del debitore, finiscano per inciderne oltremisura l’integrità (App. L’Aquila 9 dicembre 2015 e Trib. Siracusa 26 marzo
2015, entrambe in www.osservatorio-oci.org; Trib. Piacenza 26 aprile 2013, in www.ilcaso.it; Trib. Terni 28 dicembre 2012, cit.).
Ed ancora sono stati ritenuti atti di ordinaria amministrazione il licenziamento collettivo
avviato nel periodo di preconcordato (Trib. Cosenza 6 marzo 2013, in www.osservatorio-oci.org) e la messa in mobilità dei lavoratori (Trib. Milano 23 novembre 2012, in
www.osservatorio-oci.org), con prededuzione per i crediti (anche di assistenza professionale) che da tali atti sono generati.
Crediti derivanti da
finanziamenti
il Fallimento 8-9/2016
La disciplina dei crediti derivanti da finanziamenti contratti dal debitore in crisi che accede ad una procedura di concordato preventivo ovvero ad un accordo di ristrutturazione
omologato ex art. 182 bis l.fall., è dettata dagli artt. 182 quater e 182 quinquies l.fall. che
attribuiscono a detti crediti il beneficio della prededuzione alla ricorrenza di determinate
condizioni.
Le due disposizioni, nel testo attualmente vigente, sono il risultato di una serie di interventi normativi e segnatamente del D.L. n. 78/2010 conv. con modif. dalla L. n. 122/2010
(che ha introdotto l’art. 182 quater), del D.L. n. 83/2012 conv. con modif. dalla L. n.
134/2012 (che ha introdotto l’art. 182 quinquies ed ha modificato il precedente testo dell’art. 182 quater) e, da ultimo, del D.L. n. 83/2015 conv. con modif. dalla L. n. 132/2015
(che ha modificato l’art. 182 quinquies ed ha introdotto la nuova disciplina del finanziamento interinale urgente).
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In considerazione del complesso quadro normativo, la giurisprudenza (Trib. Modena 16
dicembre 2014 e Trib. Bolzano 5 aprile 2016, entrambe in www.ilcaso.it) ha distinto i
vari tipi di finanziamenti prededucibili in ragione del momento in cui essi sono stati contratti o erogati e della loro funzione. Si discute, così, di finanziamenti prededucibili: a)
erogati in funzione della presentazione della domanda di ammissione alla procedura di
concordato preventivo o di omologazione dell’accordo di ristrutturazione, ex art. 182
quater commi secondo e terzo l.fall.; b) contratti successivamente alla presentazione della domanda di ammissione al concordato o di omologazione di un accordo di ristrutturazione, ex art. 182 quinquies comma 1, l.fall.; c) contratti, ex art. 182 quinquies, comma
3, successivamente alla presentazione della domanda di ammissione al concordato o di
omologazione di un accordo o di una proposta di accordo e funzionali a urgenti necessità relative all’esercizio dell’attività aziendale fino alla scadenza del termine fissato dal tribunale ai sensi dell’art. 161, comma 6, l.fall., o all’udienza di omologazione di cui all’art.
182 bis, comma 4, l.fall., o alla scadenza del termine di cui all’art. 182 bis, comma 7,
l.fall.; d) effettuati in esecuzione di un concordato preventivo ovvero di un accordo di ristrutturazione omologato, ex art. 182 quater commi 1 e 3, l.fall.
Crediti derivanti da
finanziamenti in
funzione
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Relativamente ai crediti prededucibili derivanti da finanziamenti funzionali alla presentazione della domanda di ammissione alla procedura di concordato preventivo o della domanda di omologazione dell’accordo di ristrutturazione dei debiti, va ricordato che la
giurisprudenza, in relazione alla originaria formulazione della norma (che si riferiva ai finanziamenti “effettuati” e limitava la operatività della disposizione ai soli crediti concessi
da banche ed intermediari finanziari) ebbe modo, sin da subito, di chiarire che i finanziamenti godevano della prededuzione solo se erogati anteriormente alla apertura della relativa procedura (Trib. Pistoia 24 ottobre 2011, in www.ilcaso.it; Trib. Milano 27 ottobre 2011, in www.deiure.it; Trib. Terni 6 febbraio 2012, in questa Rivista, 2012, 7, 823)
e che la disposizione non era suscettibile di applicazione estensiva o analogica ai crediti
derivanti da finanziamenti non ancora erogati ovvero a quelli derivanti da finanziamenti
effettuati dai soci (Trib. Terni 6 febbraio 2012, cit.; Trib. Bari 2 luglio 2012, in Dir. fall.,
2013, 4, 2, 367).
Le prime criticità evidenziate dai giudici di merito furono prontamente recepite dal legislatore che, con il citato D.L. n. 83/2012 conv. con modif. dalla L. n. 134/2012, ridefiniva
l’ambito di operativa dell’182 quater l.fall.
Per l’effetto, oggi, i crediti derivanti da finanziamenti da chiunque erogati in funzione alla
presentazione della domanda di ammissione alla procedura di concordato o della domanda di omologazione dell’accordo di ristrutturazione sono prededucibili qualora i finanziamenti siano previsti dal piano di cui all’art. 160 l.fall. o dall’accordo di ristrutturazione e purché la prededuzione sia espressamente disposta nel provvedimento con cui il
tribunale accoglie la domanda di ammissione al concordato preventivo ovvero l’accordo
sia omologato. Ai sensi dell’art. 182 quater, comma 3, l.fall. beneficiano della prededuzione anche i finanziamenti effettuati dai soci, ma fino alla concorrenza dell’80% del loro
ammontare, e le disposizioni trovano applicazione anche se il finanziatore è divenuto socio in esecuzione del concordato o dell’accordo di ristrutturazione.
Con riferimento ai crediti derivanti da finanziamenti erogati in funzione di un accordo di
ristrutturazione dei debiti è stato precisato che l’erogazione può essere anche contestuale al deposito della domanda di omologa (cfr. Trib. Piacenza 17 maggio 2013, in
www.ilcaso.it).
È stato osservato, circa la funzionalità di tali finanziamenti (cd ponte), che essi devono
essere strumentali rispetto alla presentazione della domanda di ammissione alla procedura di concordato preventivo (o della domanda di omologazione dell’accordo di ristrutturazione) e tali si considerano quelli relativi al pagamento delle spese necessarie per la
presentazione della domanda (Trib. S. Maria Capua Vetere 2 agosto 2013, in
www.deiure.it), ovvero quelle relative al deposito per spese di procedura disposto dal Tribunale (Trib. Rimini 17 ottobre 2014, in www.ilcaso.it). Taluno, però, ha negato la prededuzione al credito del finanziatore che, consapevolmente, ha prestato denaro al debitore affinché - prima della domanda o del decreto di ammissione ex art.163 l.fall. - pagasse i professionisti incaricati della preparazione del concordato, determinando così
un’inammissibile anticipazione dell’effetto protettivo voluto dalla legge, i cui presupposti
non sono ancora riscontrabili all’atto del pagamento Trib. Vicenza 11 marzo 2014, in
www.ilcaso.it).
Secondo questo orientamento, inoltre, il finanziamento ponte è un mutuo di scopo, cosicché il finanziatore ha l’onere di precisare, nello stesso contratto di mutuo, l’effettiva
destinazione del finanziamento, il quale non può perciò essere utilizzato per fini diversi
da quelli per cui fu erogato, pena il mancato riconoscimento della prededuzione (Trib.
Vicenza 11 marzo 2014, cit.).
il Fallimento 8-9/2016
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Itinerari della giurisprudenza
Qualora la prededuzione non fosse stata riconosciuta con il decreto di ammissione, si ritiene che la stessa possa essere avallata con il provvedimento di omologazione (Trib. Firenze 9 maggio 2012, in www.ilcaso.it).
Crediti derivanti da
finanziamenti interinali
il Fallimento 8-9/2016
A norma dell’art. 182 quinquies commi primo e secondo l.fall. sono prededucibili i finanziamenti, individuati anche solo per tipologia ed entità e non ancora oggetto di trattative,
autorizzati dal tribunale su istanza del debitore che abbia presentato, anche ai sensi dell’art. 161, comma 6, l.fall., una domanda di ammissione al concordato preventivo o una
domanda di omologazione di un accordo di ristrutturazione dei debiti ai sensi dell’art.
182 bis, comma 1, l.fall., o una proposta di accordo ai sensi dell’art. 182 bis, comma 6,
l.fall. In ragione del momento in cui vengono chiesti, tali finanziamenti vengono definiti
“interinali” (cfr. Trib. Modena 16 dicembre 2014, cit.).
La norma, introdotta nel 2012, interviene a regolare un’ipotesi frequente di finanziamento dell’imprenditore in crisi che, in assenza di una precisa disciplina, veniva attuata ricorrendo all’autorizzazione ex art. 167 l.fall. e, per la prededuzione, ai criteri generali stabiliti
dall’art. 111 l.fall. (cfr. Trib. Prato 22 aprile 2014, Trib. Terni 26 aprile 2012, Trib. Milano 28 ottobre 2011, tutte in www.osservatorio-oci.org). Per l’effetto, secondo alcuni tribunali, l’autorizzazione a contrarre finanziamenti prededucibili in epoca successiva al decreto di ammissione e prima dell’omologazione del concordato può ormai essere conseguita esclusivamente ai sensi dell’art. 182 quinquies, comma 1, l.fall., producendo l’apposita attestazione ivi richiesta, e non più ai sensi dell’art. 167 l.fall. in quanto quest’ultima norma deve ritenersi derogata dalla prima (Trib. Modena 16 dicembre 2014, cit.;
cfr. anche Trib. Milano 26 febbraio 2013, in questa Rivista, 2013, 5, 624).
Dubitandosi della possibilità di autorizzare i finanziamenti durante la fase del preconcordato, per la mancanza, in quel periodo, della proposta e del piano, (cfr. Trib. Treviso 16
ottobre 2012 e Trib. Lecce 17 novembre 2012, in www.ilfallimentarista.it; Trib. Terni 16
gennaio 2013, in questa Rivista, 2013, 1463) il legislatore è intervenuto, con il citato D.L.
n. 83/2015 conv. con modif. dalla L. n. 132/2015, chiarendo che il debitore può essere
autorizzato a contrarre finanziamenti interinali prededucibili “anche prima del deposito
della documentazione di cui all’art. 161, commi secondo e terzo”.
L’autorizzazione del tribunale è concessa, assunte se del caso sommarie informazioni, se
un professionista designato dal debitore in possesso dei requisiti di cui all’art. 67, comma 3, lettera d), verificato il complessivo fabbisogno finanziario dell’impresa sino all’omologazione, attesta che tali finanziamenti sono funzionali alla migliore soddisfazione
dei creditori.
L’istanza di autorizzazione è ritenuta un atto giuridicamente distinto ed autonomo dalla
domanda principale e, come tale, può essere presentata separatamente dall’atto introduttivo della procedura (cfr. Trib. Milano 18 dicembre 2012, verbale ex art. 47 ord.
giud., in www.tribunale.milano.it).
Circa il contenuto della attestazione del professionista incaricato dal proponente, la giurisprudenza sembra ritenere necessaria anche l’attestazione di veridicità dei dati aziendali,
costituendo questa un presupposto logico della valutazione dell’incidenza delle operazioni, che il debitore intende porre in essere con la nuova finanza, sul valore del patrimonio
aziendale, prodromica all’espressione del giudizio circa la loro funzionalità alla migliore
soddisfazione dei creditori (cfr. Trib. Bergamo 26 giugno 2014, in www.ilcaso.it; Trib.
Terni 16 gennaio 2013, cit.). Il livello di approfondimento e di completezza della attestazione sulla veridicità dei dati aziendali deve, tuttavia, essere proporzionale allo stato di
avanzamento della procedura al momento della richiesta formulata ex art. 182 quinquies l.fall. (Trib. Terni 16 gennaio 2013, cit.).
Relativamente, poi, alla attestazione di funzionalità dei finanziamenti alla migliore soddisfazione dei creditori, si è precisato che “oltre ad una più circostanziata indagine comparativa, idonea a proporre una adeguata proiezione, anche numerica, degli scenari praticabili, ciò che occorre soprattutto attestare è che, nella prospettiva alternativa a quella
voluta dal debitore, i creditori riceverebbero una soddisfazione inferiore; ma, per far ciò,
l’attestatore deve ovviamente considerare anche il peso finanziario della prededuzione
spettante agli istituti di credito, specie a fronte di erogazioni di tanto elevato importo,
che potrebbero in ipotesi precludere o ridurre grandemente la soddisfazione degli altri
creditori, magari più di quanto non avverrebbe con una ordinaria cessione liquidatoria”
(così testualmente Trib. Terni 16 gennaio 2013, cit.). Vi è, poi, chi distingue tra finanziamento interinale nell’ambito di una procedura di concordato preventivo (ove si richiede
all’attestatore di attestare “la convenienza per la massa dei creditori del finanziamento e
dell’eventuale concessione della garanzia del finanziamento stesso, laddove per convenienza va intesa una prospettiva di soddisfacimento secondo percentuali più favorevoli,
rispetto a quelle che potrebbe essere assicurate senza il finanziamento garantito oggetto
della domanda”) e finanziamento interinale nell’ambito di un accordo di ristrutturazione
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Itinerari della giurisprudenza
(ove l’attestazione di “funzionalità alla miglior soddisfazione dei creditori non è affatto
ancorata alla comparazione, con ipotesi alternative, del soddisfacimento assicurato dal
piano assistito dai finanziamenti prededucibili ma si risolve, al contrario, nel considerare
che il piano sottostante agli accordi, imperniato sulla prosecuzione dell’impresa, non
può prescindere dai finanziamenti esterni e dalle relative garanzie reali oggetto della domanda”) (cfr. Trib. Bergamo 26 giugno 2014, cit.).
È controverso se possano essere autorizzati (così godendo della prededucibilità) i finanziamenti effettuati dai soci, non essendo riproposta nell’art. 182 quinquies l.fall. la speciale deroga all’art. 2467 c.c. stabilita nell’art. 182 quater l.fall. Così, secondo una parte della giurisprudenza di merito i finanziamenti interinali dei soci, in mancanza di espresse limitazioni da parte del legislatore nell’art. 182 quinquies l.fall., possono essere autorizzati
e beneficiare integralmente della prededuzione, considerato che gli artt. 182 quater e
182 quinquies l.fall. si pongono come norme speciali rispetto alla regola generale dettata
dall’art. 2467 c.c. e che, a differenza dei finanziamenti disciplinati dall’art. 182 quater,
quelli previsti dall’art. 182 quinquies sono oggetto dell’attestazione di funzionalità alla miglior soddisfazione dell’interesse dei creditori da parte di un professionista (cfr. Trib. Prato 22 aprile 2014, cit.). Di diverso avviso altra parte della giurisprudenza, secondo cui lo
speciale regime previsto in favore dei soci dall’art. 182 quater l.fall., non è applicabile alla
fattispecie dei finanziamenti di cui all’art. 182 quinquies l.fall. non potendosi dar corso
nemmeno all’applicazione analogica del comma terzo dell’art. 182 quater l.fall. (Trib. Rimini 13 maggio 2013, cit.). Non necessita di autorizzazione ai sensi dell’art. 182 quinquies l.fall. invece, il finanziamento del socio che accetti la postergazione (Trib. Busto
Arsizio 11 febbraio 2013, in www.ilcaso.it).
Crediti derivanti
da finanziamenti
interinali urgenti
994
Ai sensi del comma 3 dell’art. 182 quinquies l.fall., introdotto dal ricordato D.L. n.
83/2015 conv. con modif. dalla L. n. 132/2015, il debitore che presenta una domanda di
ammissione al concordato preventivo ai sensi dell’art. 161, comma 6, l.fall., anche in assenza del piano, o una domanda di omologazione di un accordo di ristrutturazione dei
debiti o una proposta di accordo ai sensi dell’art. 182 bis, comma 6, l.fall., può chiedere
al tribunale di essere autorizzato in via d’urgenza a contrarre finanziamenti, prededucibili
ai sensi dell’art. 111 l.fall., funzionali a urgenti necessità relative all’esercizio dell’attività
aziendale fino alla scadenza del termine fissato dal tribunale ai sensi dell’art. 161, comma 6, l.fall., o all’udienza di omologazione di cui all’art. 182 bis, comma 4, o alla scadenza del termine di cui all’art. 182 bis, comma 7, l.fall.
Il ricorso deve specificare la destinazione dei finanziamenti, che il debitore non è in grado
di reperire altrimenti tali finanziamenti e che, in assenza di tali finanziamenti, deriverebbe
un pregiudizio imminente ed irreparabile all’azienda. La richiesta può avere ad oggetto
anche il mantenimento di linee di credito autoliquidanti in essere al momento del deposito della domanda.
Il tribunale, assunte sommarie informazioni sul piano e sulla proposta in corso di elaborazione, sentito il commissario giudiziale se nominato, e, se del caso, sentiti senza formalità i principali creditori, decide in camera di consiglio con decreto motivato, entro dieci giorni dal deposito dell’istanza di autorizzazione.
Le prime esperienze giurisprudenziali hanno subito evidenziato le differenze sostanziali
tra la disciplina dei finanziamenti interinali autorizzati ai sensi del comma 1 dell’art. 182
quinquies l.fall. e quella dei finanziamenti interinali urgenti autorizzati a norma del comma 3 della stessa disposizione (cfr. Trib. Benevento 4 febbraio 2016, in www.osservatorio-oci.org).
L’ambito di operatività della nuova disposizione è, infatti, limitato al breve periodo che intercorre tra il deposito della domanda di concordato in bianco o della domanda di omologazione di un accordo di ristrutturazione o della proposta di accordo e il termine fissato
dal tribunale ai sensi dell’art. 161, comma 6, l.fall., o l’udienza di omologazione di cui all’art. 182 bis, comma 4, l.fall., o la scadenza del termine di cui all’art. 182 bis, comma 7,
l.fall.
I finanziamenti urgenti sono destinati a coprire le esigenze dell’impresa in crisi nel suddetto breve periodo, diversamente da quelli autorizzati ai sensi del comma primo che sono, invece, funzionali a coprire il fabbisogno dell’impresa sino all’omologazione.
Diversa è la funzionalità dei finanziamenti: quelli autorizzati ai sensi del comma terzo devono essere funzionali a urgenti necessità relative all’esercizio dell’attività aziendale;
quelli autorizzati a norma del comma primo, invece, devono essere funzionali al miglior
soddisfacimento dei creditori.
Per i finanziamenti interinali urgenti non è necessaria l’attestazione del professionista nominato ex art. 67, comma 3, lett. d) l.fall., ma la specifica indicazione da parte del proponente circa la destinazione dei finanziamenti, la impossibilità di reperire altrimenti tali fi-
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Itinerari della giurisprudenza
nanziamenti e la allegazione di un pregiudizio imminente ed irreparabile all’azienda, in
assenza di detti finanziamenti.
La necessità di specificare la destinazione del finanziamento sembra dare conforto alla
tesi, su richiamata, secondo cui il finanziamento è in questi casi un mutuo di scopo, cosicché l’importo erogato non può essere utilizzato per fini diversi da quelli per cui fu contratto, pena il mancato riconoscimento della prededuzione o addirittura l’avvio di un procedimento ex art. 173 l.fall. (Trib. Vicenza 11 marzo 2014, cit.).
Nei primi precedenti noti, sono stati autorizzati finanziamenti interinali urgenti destinati al
pagamento dei debiti correnti dell’impresa in crisi (Trib. Benevento 4 febbraio 2016,
cit.) quali, ad esempio, la manodopera e le materie prime necessarie per la ultimazione
di commesse in corso (Trib. Firenze 9 settembre 2015, in www.fallimentiesocieta.it).
L’impossibilità di reperire altrimenti tali finanziamenti è stata ravvisata nella indisponibilità dei soci (Trib. Benevento 4 febbraio 2016, cit.) ovvero dei familiari dell’imprenditore
in crisi ad erogare finanza (Trib. Firenze 9 settembre 2015, cit.).
Il pregiudizio imminente ed irreparabile all’azienda è stato individuato nella impossibilità
di portare a termine l’esecuzione dei contratti in corso, con conseguente impossibilità di
riscuotere i corrispettivi maturati ed addebito di penali e somme a titolo di risarcimento
danni (Trib. Firenze 9 settembre 2015, cit.) ovvero nella interruzione delle forniture e
nella compromissione della continuità aziendale (Trib. Benevento 4 febbraio 2016, cit.).
Al fine di attuare un compiuto controllo sulla destinazione dei finanziamenti erogati, si è
ritenuto opportuno stabilire a carico del debitore proponente precisi obblighi informativi
(Trib. Benevento 4 febbraio 2016, cit.).
Crediti derivanti
da finanziamenti
in esecuzione
Il comma 1 dell’art. 182 quater l.fall. stabilisce la prededucibilità dei crediti derivanti da finanziamenti in qualsiasi forma effettuati in esecuzione di un concordato preventivo ovvero di un accordo di ristrutturazione dei debiti omologato ai sensi dell’art. 182 bis l.fall.
Sebbene non espressamente sancito dalla norma, la giurisprudenza ha precisato che ai
fini del riconoscimento della prededuzione è necessario che i finanziamenti stessi siano
dettagliatamente previsti dal piano, con specificazione, per ciascuno di essi, dell’ammontare dell’importo da erogare, dei criteri di computo degli accessori, delle ulteriori condizioni del rapporto creditizio e delle modalità di impiego (Trib. L’Aquila 17 novembre
2010, in www.osservatorio-oci.org; Trib. Milano, 23 settembre 2013, in www.dejure.it).
Crediti derivanti
da contratti sciolti
ex art. 169 bis l.fall.
L’art. 169 bis, comma 2, l.fall., come modificato dal D.L. n. 83/2015 conv. con modif. dalla L. n. 132/2015, sancisce la prededucibilità dei crediti relativi a prestazioni inerenti contratti pendenti, sciolti su autorizzazione del giudice, eseguite legalmente e in conformità
agli accordi o agli usi negoziali dopo la pubblicazione della domanda ai sensi dell’art.
161 l.fall.
La nuova disposizione riprende quell’orientamento giurisprudenziale che già riteneva
prededucibili, in quanto sorti per effetto di atti di ordinaria amministrazione legalmente
compiuti dal debitore, i crediti maturati in virtù di un contratto pendente al momento del
deposito della domanda di concordato e poi sciolto su autorizzazione del giudice ex art.
169 bis l.fall. (Trib. Terni 27 dicembre 2013, in www.ilcaso.it), chiarendo che lo speciale
statuto compete a tutti i crediti sorti dopo la pubblicazione della domanda.
La prededuzione nel concordato preventivo
Stante il mancato richiamo dell’art. 111 l.fall. nell’art. 169 l.fall., si discute se le regole
sulla prededuzione operino anche all’interno della procedura di concordato preventivo, a
prescindere ed ancor prima, quindi, dell’eventuale successivo fallimento del debitore
proponente.
Il riferimento è a quelle passività che sorgono in funzione o in occasione dello stesso
concordato, ma anche a quelle sono qualificate prededucibili da specifiche norme di legge e, in particolare, dal citato art. 161, comma 7, l.fall. che definisce prededucibili i crediti sorti per effetto degli atti legalmente compiuti dal debitore nel periodo cd. della riserva,
dal nuovo art. 169 bis, comma 2, l.fall. che sancisce la prededucibilità dei crediti relativi
a contratti sciolti su autorizzazione del giudice, per le prestazioni eseguite legalmente e
in conformità agli accordi o agli usi negoziali dopo la pubblicazione della domanda ai
sensi dell’art. 161 l.fall., dai ricordati artt. 182 quater e 182 quinquies l.fall. che attribuiscono lo statuto speciale ai crediti per finanziamenti.
La collocazione di tali ultime disposizioni (tra le norme che regolano il concordato preventivo), il tenore delle stesse e l’espressa indicazione nella rubrica dell’art. 182 quater
l.fall. (che si tratta di “Disposizioni in tema di prededucibilità dei crediti nel concordato
preventivo”), sembrano deporre per la esistenza di una prededuzione endoconcordataria.
La questione è, tuttavia, controversa.
il Fallimento 8-9/2016
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Itinerari della giurisprudenza
I pochi precedenti giurisprudenziali noti si riferiscono a crediti maturati in procedure di
concordato preventivo non andate a buon fine, per mancato deposito della proposta e
del piano (Trib. Terni 17 gennaio 2014, cit.), ovvero perché rinunziate (Trib. La Spezia
18 luglio 2013, cit.; Trib. Siracusa 28 luglio 2014, in www.osservatorio-oci.org; App.
Genova 9 gennaio 2014, cit.) o respinte per inammissibilità (Trib. Rimini 26 novembre
2013, cit.), seguite poi dal deposito di nuove proposte.
In tutte le richiamate decisioni sembra riconoscersi pacificamente il diritto alla prededuzione all’interno del concordato per i crediti sorti ex art. 161, comma 7, l.fall. (cfr. Trib.
Terni 17 gennaio 2014, cit.; Trib. La Spezia 18 luglio 2013, cit.; Trib. Rimini 26 novembre 2013, cit.), per quelli sorti in funzione (nella specie, compensi spettanti ai professionisti che avevano assistito il debitore per l’accesso alla procedura, cfr. Trib. La Spezia
18 luglio 2013, cit.; Trib. Siracusa 28 luglio 2014, cit.) e per quelli sorti in occasione della procedura (nella specie, compenso del commissario giudiziale, cfr. Trib. Siracusa 28
luglio 2014, cit.). Analogo trattamento sembra implicitamente riconoscersi da parte di
quella giurisprudenza che ritiene che il rango prededucibile all’interno di una procedura
di concordato preventivo competa solo nei casi tipicamente previsti dalla legge e non in
ogni altro caso (cfr. Trib. Rimini 13 maggio 2013, in questa Rivista, 2013, 1276).
Di diverso avviso altra parte della giurisprudenza che sembra, invece, escludere la prededuzione nell’ambito del concordato preventivo, ritenendo (nella fattispecie concreta) con
riferimento ai compensi del commissario giudiziale e dello stimatore, nominati dal tribunale nella precedente procedura abortita, che essi non beneficino della prededuzione,
ma di una collocazione preferenziale ex art. 2755 e 2770 c.c. (cfr. Trib. Isernia 11 ottobre 2013, in www.ilcaso.it; cfr. anche App. Genova 9 gennaio 2014, cit., che sembra limitare il riconoscimento della prededuzione ai soli crediti da finanziamento ex art. 182
quater l.fall.).
La consecuzione di più
procedure di concordato
996
Una parte della giurisprudenza ha ritenuto, inoltre, la ultrattività della prededuzione maturata nell’ambito della procedura di concordato preventivo, affermando che essa permane e va riconosciuta anche nella procedura di concordato avviata dal medesimo debitore successivamente a quella non andata a buon fine, finanche con soluzione di continuità, se destinata a regolare la stessa crisi (Trib. La Spezia 18 luglio 2013, cit.; Trib. Rimini 26 novembre 2013, cit.; Trib. Terni 17 gennaio 2014, cit.; Trib. Siracusa 28 luglio
2014, cit.).
Si è affermato, in particolare, che i consolidati principi dettati in tema di consecuzione
tra fallimento e precedente procedura concorsuale minore trovano applicazione anche in
caso di consecuzione tra procedimenti di concordato preventivo, determinando così il fenomeno della prededuzione endoconcordataria, non esclusa dalla circostanza che tra le
procedure sia intercorsa una soluzione di continuità, atteso che quest’ultima non si risolve in un mero dato temporale ma in una consecuzione di procedimenti destinati a regolare la stessa crisi (cfr. Trib. Siracusa 28 luglio 2014, cit.; contra Trib. Forlì 3 novembre
2015, in Quotidiano Giuridico, 2015, 12 e cfr. anche Tribunale di Asti 30 ottobre 2014,
in www.ilcaso.it).
L’orientamento richiamato si fonda anche sulla ritenuta necessità di tutelare l’affidamento di chi contrae con il debitore proponente confidando sulla prededuzione del relativo
credito (cfr. Trib. Rimini 26 novembre 2013, cit.) e, così, garantire certezza e stabilità ai
rapporti giuridici (cfr. Trib. Terni 17 gennaio 2014, cit.) che verrebbero compromessi
ove la prededucibilità del credito venisse meno per fatto del debitore (rinunzia o mancato
deposito di proposta e piano) ovvero per un esito infausto (mancata ammissione o approvazione o omologazione) non prevedibile a priori. È stato evidenziato, a sostegno di
tale esegesi, che principi sostanzialmente analoghi sorreggono la conservazione degli effetti degli atti legalmente compiuti dagli organi fallimentari, in caso di revoca della sentenza di fallimento (cfr. Trib. Terni 17 gennaio 2014, cit.).
Altra parte della giurisprudenza sembra, invece, negare la prededucibilità tra procedure
concorsuali dello stesso tipo succedutesi nel tempo, specie quando vi sia stata soluzione
di continuità tra le stesse (cfr. App. Genova 9 gennaio 2014, cit.).
In tale contesto si è inserito il citato art. 11, comma 3, quater del D.L. n. 145/2013 conv.
dalla L. n. 9/2014 (in vigore dal 22 febbraio 2014 al 24 giugno 2014), secondo cui l’art.
111, comma 2, l.fall. andava interpretato nel senso che i crediti sorti in occasione o in
funzione della procedura di concordato preventivo aperta ai sensi dell’art. 161, comma
6, l.fall., fossero prededucibili alla condizione che la proposta, il piano e la documentazione di cui ai commi secondo e terzo venissero presentati entro il termine, eventualmente
prorogato, fissato dal giudice e che la procedura fosse stata aperta ai sensi dell’art. 163
l.fall. senza soluzione di continuità rispetto alla presentazione della domanda ai sensi del
citato art. 161, comma 6.
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Itinerari della giurisprudenza
La disposizione, che come si è già detto è stata definita di interpretazione “autentica”
(cfr. Cass. 10 settembre 2014, n. 19013, cit.; Cass. 21 aprile 2016, n. 8091, in Fisco,
2016, 20, 1995), nonostante il breve periodo di sua vigenza, ha dato conforto a quell’orientamento giurisprudenziale che nega la prededucibilità del credito del professionista
che ha assistito il debitore per l’accesso alla procedura di concordato preventivo, mediante ricorso in bianco cui non ha fatto poi seguito il deposito della proposta, del piano
e della documentazione (Cass. 18 dicembre 2015, n. 25589, in www.pluris-cedam.utetgiuridica.it).
La prededucibilità dei crediti dei professionisti
La più controversa tra le prededuzioni è, indubbiamente, quella invocata dai professionisti per i crediti derivanti dall’attività di assistenza, consulenza e difesa, giudiziale e stragiudiziale, prestata al debitore che fa accesso a una procedura concorsuale.
Nel vigore della disciplina ante riforma, si è già detto, la giurisprudenza negava la prededuzione ai crediti dei professionisti che avessero assistito il debitore nelle fasi precedenti
il fallimento (Cass. 25 luglio 2007, n. 16426, in questa Rivista, 2008, 433; Cass. 25 giugno 2002, n. 9262, in Foro it., 2002, I, 3074; Cass. 16 maggio 1983, n. 3369, Giur. it.,
1984, I, 1, 521).
Dopo la riforma, la giurisprudenza di merito si è nettamente divisa, in ragione del diverso
significato attribuito dai giudici alla espressione “in occasione o in funzione di”, cui è ancorato il riconoscimento della prededuzione eventualmente spettante al professionista.
Al pensiero di chi negava la prededuzione al credito del professionista, pur ravvisandone
la funzionalità, perché sorto anteriormente alla procedura (Trib. Udine 15 ottobre 2008,
cit.), si contrapponeva l’orientamento di chi coglieva, invece, da subito, l’autonomia dei
due criteri (cronologico e teleologico) stabiliti dall’art. 111 l.fall. e individuava il nesso
funzionale nella strumentalità dell’attività professionale rispetto all’accesso della procedura, riconoscendo così la prededuzione al credito del professionista, pur avendo questo
la sua genesi in un momento anteriore all’apertura della procedura cui ineriva (Trib. Treviso 16 giugno 2008, cit.; Trib. Milano 18 giugno 2009, cit.).
Tra questi ultimi si distingueva, poi, tra coloro che ritenevano necessaria la sola apertura
della procedura, così da potere esercitare in quella sede il controllo sulla effettiva funzionalità, (Trib. Milano 20 agosto 2009, cit.; Trib. Bari 17 maggio 2010, cit.; Trib. Terni 22
marzo 2012, cit.) e coloro che ritenevano, invece, necessario anche il buon esito della
stessa, con l’omologazione (Trib. Roma 2 aprile 2013, cit.).
Condizionava, peraltro, gli arresti giurisprudenziali la vigenza (dal 2010 al 2012) dell’art.
182 quater, comma 4, l.fall. che, dettando una specifica disciplina per la prededuzione
dei compensi del professionista attestatore ex art. 161, comma 3, l.fall. o ex art. 182
bis l.fall., sembrava escluderla per tutti gli altri (Trib. Milano 26 maggio 2011, cit.; Trib.
Terni 13 giugno 2011, cit.).
Decretata definitivamente dalla S.C. l’indipendenza del criterio teleologico della funzionalità da quello cronologico della occasionalità (cfr. Cass. 5 marzo 2014, n. 5098, cit.), venuto meno l’art.182 quater, comma 4, l.fall., la cui interpretazione era stata peraltro ritenuta immotivatamente restrittiva e contra legem (Cass. 8 aprile 2013, n. 8533, cit.), stabilito che il controllo del giudice va esercitato a posteriori ai sensi dell’art. 111 bis l.fall.
(Cass. 10 settembre 2014, n. 19013, cit.), il riconoscimento della prededuzione sembra
ruotare, oggi, attorno al concetto di funzionalità da intendersi come sinonimo di strumentalità (Cass. 14 marzo 2014, n. 6031, cit.) implementato (cfr. Cass. 10 settembre
2014, n. 19013, cit.) o meno (cfr. Cass. 6 febbraio 2015, n. 2264, cit.) dall’ulteriore presupposto di matrice giurisprudenziale (Cass. 13 dicembre 2013, n. 27926, cit.) della utilità concreta per i creditori dell’attività professionale.
In questo quadro variegato, gli arresti più recenti del Supremo Collegio sembrano avere
assunto una certa uniformità di indirizzo, distinguendo - peraltro - tra la natura delle prestazioni ed il momento di conferimento dell’incarico.
Crediti derivanti da
prestazioni per l’accesso
al concordato preventivo
il Fallimento 8-9/2016
Relativamente ai crediti derivanti dall’attività di assistenza, consulenza e difesa prestata
al debitore ammesso al concordato preventivo, la S.C. sembra orientata nel senso di ritenere detti crediti prededucibili nel consecutivo fallimento, in quanto essi rientrano de plano tra quelli sorti “in funzione” ai sensi del novellato art. 111, comma 2, l.fall. (Cass. 21
aprile 2016, n. 8091, in Fisco, 2016, 20, 1995; Cass. 15 aprile 2016, n. 7579, in
www.pluris-cedam.utetgiuridica.it; Cass. 13 maggio 2015, n. 9845, cit.; Cass. 10 settembre 2014, n. 19013, cit.), perché certamente strumentali all’accesso alla procedura
minore, senza che debba verificarsi il “risultato” delle prestazioni eseguite dal professionista ovvero la loro concreta utilità per la massa (Cass. 4 novembre 2015, n. 22450, cit.;
Cass. 5 marzo 2015, n. 4486, cit.; Cass. 6 febbraio 2015, n. 2264, cit.).
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Su tale ultimo aspetto, le decisioni più recenti hanno evidenziato che l’art. 111 l.fall.
non richiede che, ai fini della collocazione in prededuzione dei crediti derivanti da tali
prestazioni, debba essere dimostrata l’utilità concreta delle stesse per la massa, avendo peraltro come parametro di riferimento la procedura di fallimento: da un lato, infatti, non spetta più al giudice la valutazione della convenienza della proposta; dall’altro,
ove detta utilità dovesse essere verificata ex post, ovvero tenendo conto dei risultati
raggiunti, la norma risulterebbe priva di senso, in quanto non potrebbe mai trovare applicazione nel fallimento consecutivo al concordato (Cass. 4 novembre 2015, n.
22450, cit.).
È stato, peraltro, anche osservato che l’attività professionale svolta è, in questi casi, “in
re ipsa” a favore della massa fallimentare (Cass. 8 settembre 2015, n. 17821, in
www.pluris-cedam.utetgiuridica.it) e quella del professionista attestatore ex art. 161,
comma 3, l.fall. è addirittura essenziale e necessaria (Cass. 30 gennaio 2015, n. 1765, in
Foro it., 2015, 9, 1, 2845; Cass. 11 luglio 2014, n. 16035, in www.pluris-cedam.utetgiuridica.it). Parimenti è stata ritenuta funzionale e meritevole del beneficio della prededuzione l’attività del professionista incaricato di predisporre lo stato analitico ed estimativo
delle attività che, a norma dell’art. 161, comma 2, lett. b), l.fall., deve accompagnare la
proposta di concordato (Cass. 28 luglio 2015, n. 15950, in www.pluris-cedam.utetgiuridica.it).
L’eccezione
di inadempimento
Attenta giurisprudenza di merito, però, ha - di recente - osservato che, ferma la presunzione di funzionalità della prestazione del professionista derivante dall’ammissione
del debitore alla procedura di concordato preventivo, nel caso di successiva apertura
del fallimento detta presunzione di funzionalità può essere inficiata dalla dimostrazione, da parte del curatore, dell’esistenza di manifesta inutilità ed anzi di dannosità del
concordato per i creditori, per esempio, per la scoperta di atti di frode che il curatore
dimostri essere conosciuti, o conoscibili con l’ordinaria diligenza, dal professionista ovvero in tutti i casi in cui si è registrata una erosione del patrimonio a disposizione della
massa, causata da una rovinosa continuazione dell’attività di impresa, senza alcun
vantaggio concreto dalla retrodatazione del periodo sospetto derivante dalla consecuzione delle procedure.
In tali ipotesi verrebbe, addirittura, meno non solo la prededuzione, ma ancor prima, l’esistenza stessa del credito del professionista, per inadempimento rispetto al modello legale di concordato (Trib. Rimini 10 dicembre 2014, in www.ilcaso.it; cfr. Trib. Monza 4
novembre 2014, in questa Rivista, 2015, 5, 615).
E stato ancora precisato che “contestare la funzionalità della prestazione, perché la stessa, in concreto, non ha arrecato alcun contributo eziologico utile al dipanarsi della procedura concorsuale, si sostanzia nell’affermare che la prestazione è stata resa in modo inadeguato, e quindi integrando un inadempimento qualitativo. Il che significa che nella
contestazione della funzionalità basata sui profili “qualitativi” della prestazione, esclusione della funzionalità (ai fini del riconoscimento della prededuzione) ed exceptio inadimpleti contractus (ai fini del riconoscimento del corrispettivo anche solo al chirografo) si
compenetrano inscindibilmente (Trib. Milano 25 febbraio 2016, in www.pluris-cedam.utetgiuridica.it).
Crediti derivanti
da giudizi pendenti
al momento
della ammissione
al concordato
Il credito del professionista per prestazioni rese in giudizi già pendenti al momento della
domanda di ammissione al concordato preventivo, in virtù di incarichi precedentemente
conferiti e riguardanti crediti poi fatti valere nei confronti della società fallita va soddisfatto in prededuzione nel successivo fallimento, ove ne emerga l’adeguatezza funzionale
agli interessi della massa (Cass. 15 aprile 2016, n. 7579, cit.). È innegabile, infatti, il beneficio che quest’ultima può trarre da azioni giudiziarie eventualmente intraprese per il
recupero di beni o di crediti dell’imprenditore o dalla difesa in giudizio nei confronti di
azioni intentate da terzi, i cui vantaggi, in termini di accrescimento dell’attivo o di salvaguardia della sua integrità, possono ben costituire oggetto di valutazione, nell’ambito
dell’accertamento del passivo (Cass. 17 aprile 2014, n. 8958, in Giur. it., 2014, 7, 1649).
Relativamente all’attività giudiziale svolta in favore dell’imprenditore ammesso al concordato, se ne deve presumere l’occasionale funzionalità alla procedura, a meno che non se
ne dimostri la concreta dannosità per i creditori, o perché destinata a favorire un illecito
interesse personale del debitore, in conflitto appunto con i creditori, o perché inadempiente ai doveri di diligenza nei confronti dello stesso debitore assistito. Analogamente
deve ritenersi per l’attività stragiudiziale, in particolare quando si tratti della stipulazione
di contratti destinati alla lecita gestione dei beni del debitore concordatario (Cass. 10
settembre 2015, n. 17907, Fisco, 2015, 36, 3497).
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Crediti derivanti
da incarichi conferiti
in pendenza
di concordato preventivo
Gli incarichi conferiti in corso di procedura generano crediti prededucibili ex art. 161,
comma 7, l.fall. o 167 l.fall., (cfr. App. L’Aquila 9 dicembre 2015, cit.; Trib. Siracusa 26
marzo 2015, cit.; Trib. Piacenza 26 aprile 2013, cit.; Trib. Terni 28 dicembre 2012,
cit.).
Se l’atto è di straordinaria amministrazione, per la sua opponibilità alla massa dei creditori del successivo fallimento, esso richiede la preventiva autorizzazione del giudice.
Circa la distinzione tra atti di ordinaria amministrazione e atti di straordinaria amministrazione, già nel vigore della vecchia disciplina, la S.C. aveva indicato i criteri, precisando
che “a) escluso che criterio discretivo utile sia quello del rapporto proporzionale tra spese e condizioni dell’impresa, viene in evidenza il solo criterio per cui è atto di ordinaria
amministrazione quello connotato dalla pertinenza e idoneità dell’incarico stesso - anche
se di costo elevato - allo scopo di conservare e/o risanare l’impresa; b) il criterio di proporzionalità, che pertanto non va ridotto al vaglio della crisi aziendale (che, anzi, a grave
crisi ben può correlarsi, come necessario, un radicale intervento disegnato da elevata
competenza tecnico-legale), deve invece riferirsi al merito della prestazione, in termini di
rapporto di adeguatezza funzionale (o non eccedenza) della stessa alle necessità risanatorie dell’azienda e con giudizio da formulare “ex ante”; c) si deve escludere comunque
l’ammissione tra le passività concorsuali le volte in cui l’incarico sia conferito per esigenze personali e dilatorie dell’impresa (auspicante il mero allontanamento della dichiarazione di fallimento) (Cass. 21 ottobre 2011, n. 21924, in questa Rivista, 2012, 298; Cass. 8
novembre 2006, n. 23796, in questa Rivista, 2007, 723).
Crediti relativi ad attività
inerenti la dichiarazione
di fallimento
La funzionalità della prestazione, ai sensi dell’art. 111 l.fall., è riferita a tutte le procedure
concorsuali, ivi compreso - quindi - il fallimento.
Si ritiene, pertanto, che possa essere riconosciuta la prededuzione anche al professionista che abbia assistito il debitore nella preparazione della documentazione necessaria
per l’istanza di fallimento, sebbene sia attività che possa essere svolta in proprio da quest’ultimo, ma che questo abbia scelto, per ragioni di opportunità o di convenienza, di affidare a un esperto di settore (Cass. 9 settembre 2014, n. 18922, in questa Rivista,
2015, 7, 855; Trib. Prato 24 giugno 2011, in www.ilcaso.it).
Parimenti è stato ritenuto funzionale alla procedura e, come tale, prededucibile il credito
per spese legali sostenute dal creditore istante per il fallimento (Trib. Terni 22 marzo
2012, cit.).
È stata esclusa, invece, la prededucibilità del credito per l’attività professionale prestata
ai fini dell’impugnazione della sentenza dichiarativa di fallimento, perché insorto in epoca
successiva all’apertura della procedura concorsuale, e relativo a prestazione di cui beneficia esclusivamente il debitore fallito (Cass. 18 dicembre 2015, n. 25589, cit.).
I crediti del subappaltore di opere pubbliche
Altrettanto controversa è la sorte del credito del subappaltatore di opere pubbliche per le
prestazioni eseguite a beneficio dell’appaltatore fallito.
Come è noto, a norma dell’art. 118, comma 3, D.Lgs. n. 163/2006 (c.d. codice degli appalti, ormai non più vigente e sostanzialmente sostituito dagli artt. 105 e 174 del D.Lgs.
n. 50/2016), il bando di gara poteva prevedere il pagamento diretto da parte della stazione appaltante del corrispettivo dovuto ai subappaltatori per le prestazioni da essi eseguite, ovvero l’obbligo per l’appaltatore di trasmettere copia delle fatture quietanzate dei pagamenti eseguiti in favore dei subappaltatori, con sospensione del successivo pagamento dovuto all’appaltatore in caso di inadempimento di tale obbligo.
Sul rilievo che il mancato pagamento del subappaltatore impediva (e si poneva, così,
quale “condizione” di esigibilità per) l’incasso del credito a sua volta vantato dal fallimento dell’appaltatore nei confronti del committente, la Suprema Corte ammetteva il detto
credito del subappaltatore al beneficio della prededuzione, ravvisandone la funzionalità
rispetto agli interessi della procedura, anche in termini di utilità concreta, per la possibilità di riscuotere, in tal modo, il residuo credito vantato nei confronti della stazione appaltante a beneficio dei creditori concorsuali (Cass. 5 marzo 2012, n. 3402, cit.)
Di diverso avviso, invece, i giudici merito, che hanno sempre negato il riconoscimento
della natura prededucibile del credito del subappaltatore, sul rilievo che la normativa di
cui al codice degli appalti si riferisce ai rapporti tra ente pubblico e appaltatore che continui o sia in grado di continuare la propria attività (cfr. Trib. di Bolzano 25 febbraio 2014,
in www.ilcaso.it) e, quindi, in bonis (cfr. Trib. Pavia 26 febbraio 2014, in www.unijuris.it).
In caso di fallimento, però, il contratto fra questo e la stazione appaltante si scioglie di diritto, quand’anche fosse autorizzato l’esercizio provvisorio, (cfr. Trib. Bolzano 8 novembre 2013, in www.ilcaso.it) e non trova più applicazione la ricordata disciplina che condiziona la esigibilità del credito dell’appaltatore fallito al previo pagamento di quello del su-
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bappaltatore, con esclusione, pertanto, del ritenuto nesso di strumentalità agli scopi della procedura (Trib. Milano 5 settembre 2014, in www.ilcaso.it).
Nella più recente delle decisioni note, la Corte di cassazione ha ribadito il suo precedente
orientamento, precisando ulteriormente che il credito del subappaltatore può beneficiare
della prededuzione solo se e in quanto esso comporti, per la procedura concorsuale, un
sicuro ed indubbio vantaggio conseguente al pagamento del committente, il quale subordini il suo pagamento di una maggior somma alla quietanza del subappaltatore in ordine al proprio credito (Cass. 16 febbraio 2016, n. 3003, in www pluris-cedam.utetgiuridica.it).
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Fisco e Fallimento
Rassegna
Osservatorio tributario
a cura di Enrico Stasi
PRASSI
TASSABILITÀ AI FINI IRAP DELLE PLUSVALENZE
NEL CONCORDATO
Agenzia delle Entrate - Risposta a interpello n. 904211/2016
Con la risposta all’istanza di interpello 904-211/2016, l’Amministrazione finanziaria ha ribadito che le sopravvenienze
attive derivanti dalla falcidia concordataria dei debiti verso i
creditori non concorrono alla formazione della base imponibile IRAP. Si tratta della conferma dell’orientamento già
manifestato dall’Agenzia delle Entrate con la risposta all’interpello n. 954-688/2013. Si rammenta che, in ambito di
accordi di ristrutturazione ex art. 182 bis, l.fall., in modo
conforme si era espressa la Direzione Regionale Entrate
Marche, in risposta all’interpello n. 910-78/2015.
In sintesi, a seguito delle modifiche apportate dalla L. 24
dicembre 2007, n. 244 al D.Lgs. 15 dicembre 1997, n. 446
(decreto IRAP), i componenti positivi e negativi seguono il
principio di derivazione delle voci rilevanti del conto economico espresso dall’art. 5, comma 4, del decreto IRAP. Il
successivo comma 5 della disposizione in esame dispone
che i componenti positivi e negativi del valore della produzione vengano individuati in base alla corretta applicazione
dei principi contabili. Il principio contabile OIC n. 6 prevede
che laddove nella procedura di ristrutturazione del debito vi
sia la rinuncia di una parte del credito, il debitore iscrive un
ammontare corrispondente a tale rinuncia tra i proventi
straordinari del conto economico, nella voce E 20 denominata “Proventi straordinari”. Di conseguenza, le stesse non
concorrono alla formazione della base imponibile IRAP.
L’Agenzia delle Entrate soggiunge, inoltre, che nella fattispecie di cui trattasi non opera il principio di correlazione
contenuto nell’art. 5, comma 4, D.Lgs. n. 446/1997, la cui
applicazione deve essere esclusa quando i componenti di
reddito derivano dalla rettifica di un credito o di un debito
conseguente ad una valutazione (come quella operata in
sede di concordato preventivo), riguardante l’aspetto meramente finanziario della capacità di adempiere all’obbligazione.
CHIARIMENTI INTERPRETATIVI RELATIVI A QUESITI POSTI IN
OCCASIONE DI EVENTI IN VIDEOCONFERENZA ORGANIZZATI
DALLA STAMPA SPECIALIZZATA
Agenzia delle Entrate - Circolare n. 12/E/2016
La circ. n. 12/E del 2016 del 8 aprile 2016 dell’Agenzia delle Entrate contiene la sintesi delle numerose risposte e dei
chiarimenti forniti durante incontri di inizio anno con la
stampa specializzata.
Come noto, tra le novità della legge di stabilità 2016 vi è
l’integrale riscrittura dell’art. 26 del d.P.R. n. 633/1972 in
tema di note di variazione Iva. Nel documento di prassi in
commento, l’Agenzia delle Entrate ribadisce che la proce-
il Fallimento 8-9/2016
dura non è tenuta al versamento dell’imposta indicata nelle
note di variazione ricevute ai sensi dell’art. 26, comma 4,
del Decreto IVA, che stabilisce che la nota di variazione in
diminuzione può essere emessa dal cedente o prestatore,
in caso di mancato pagamento, a partire dalla data della
sentenza che dichiara il fallimento del debitore, o dalla data
del decreto che omologa un accordo di ristrutturazione dei
debiti, di cui all’art. 182 bis l.fall., o dalla data di pubblicazione nel registro delle imprese di un piano attestato ai
sensi dell’art. 67, comma 3, lett. d), l.fall. L’Agenzia rammenta altresì che, ai sensi del successivo comma 5, non
sussiste, in caso di procedura concorsuale, l’obbligo di registrazione della variazione in aumento a fronte della variazione in diminuzione effettuata dal creditore. Infine, il richiamo alle sole procedure concorsuali di cui al comma 4,
lett. a), dell’art. 26 del d.P.R. n. 633/1972 (vale a dire fallimento, liquidazione coatta amministrativa e amministrazione straordinaria delle grandi imprese in crisi) comporta che
nell’ipotesi di accordo di ristrutturazione dei debiti ex art.
182 bis l.fall. ovvero di piano attestato ai sensi dell’art. 67,
comma 3, lett. d), l.fall., permane invece l’obbligo di registrare la nota di variazione e di versare all’Erario la relativa
imposta.
Un altro tema di rilievo affrontato dalla circ. n. 12 riguarda
la responsabilità solidale tra cedente e cessionario nella
cessione di azienda. L’art. 14 del D.Lgs. n. 472/1997 limita
la responsabilità solidale del cessionario al valore dell’azienda stessa nei limiti del debito risultante, alla data del
trasferimento, dagli atti degli Uffici finanziari o di altri Enti
creditori, fatte salve le ipotesi di cessione in frode ai crediti
tributari. Il cessionario è liberato dalla responsabilità qualora richieda un certificato che attesti l’inesistenza di contestazioni in corso o già definite per le quali i debiti non sono
stati ancora soddisfatti alla data della richiesta. L’art. 16,
comma 1, lett. g), D.Lgs. n. 158/2015, ha introdotto il comma 5 bis dell’art. 14 del D.Lgs. n. 472/1997 che, a partire
dal 1° gennaio 2016 esclude la responsabilità solidale del
cessionario quando la cessione avviene nell’ambito di una
procedura concorsuale, di un accordo di ristrutturazione
dei debiti di cui all’art. 182 bis l.fall., di un piano attestato
ai sensi dell’art. 67, comma 3, lett. d), l.fall. o di un procedimento di composizione della crisi da sovraindebitamento o
di liquidazione del patrimonio. L’Agenzia delle Entrate precisa al riguardo che laddove la cessione di azienda avvenga nell’ambito delle procedure richiamate nell’art. 14, comma 5 bis, D.Lgs. n. 472 del 1997 il cessionario possa non
richiedere il certificato dei carichi fiscali pendenti, mentre
tale esonero non concerne le ipotesi di liquidazione ordinaria volontaria.
Tra gli altri chiarimenti contenuti nella circolare in commento, si segnala, in sintesi, quanto segue.
i) Acquisto prima casa. L’Agenzia ha precisato che il credito d’imposta per l’acquisto di prima casa spetta anche al
contribuente che, dopo aver venduto l’abitazione comprata
con l’agevolazione prima casa, acquista entro un anno
un’altra prima casa, nonché nel caso di nuovo acquisto a
titolo gratuito, con impegno dell’acquirente di alienare la
casa preposseduta entro un anno. L’estensione dell’agevo-
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lazione prima casa di cui all’art. 1, comma 55, della legge
di Stabilità esplica effetti anche ai fini dell’applicazione dell’aliquota agevolata IVA del 4%. Per gli atti conclusi prima
del 1° gennaio 2016, data di entrata in vigore della legge di
Stabilità, non può essere richiesto il rimborso delle eventuali maggiori imposte versate rispetto a quelle che sarebbero state dovute in applicazione delle nuove disposizioni
né può essere riconosciuto un credito d’imposta.
ii) Cedolare secca. È escluso dal regime della cedolare
secca il contratto di locazione stipulato con conduttori
che operano nell’esercizio di attività di impresa o di lavoro
autonomo, non potendosi estendere l’ambito applicativo
in via interpretativa, avendo il legislatore individuato in
maniera puntuale le ipotesi e definito le condizioni di applicabilità.
iii) Avvisi d’accertamento. A seguito delle sentenze della
Cass. 9 novembre 2015, nn. 22800, 22803 e 22810, che
hanno posto a carico dell’Agenzia delle Entrate l’onere di
provare in giudizio la corretta attribuzione della delega alla
sottoscrizione degli avvisi di accertamento da parte del titolare dell’Ufficio, sul sito internet dell’Agenzia delle Entrate, nella sezione “Amministrazione trasparente”, è stato
pubblicato l’elenco degli estremi degli atti di conferimento
di incarico dirigenziale nonché l’elenco dei funzionari incaricati di funzioni dirigenziali, cessati dal 26 marzo 2015.
iv) Certificazione Unica e modello 770. La trasmissione all’Agenzia delle Entrate della Certificazione Unica e quella
del modello 770 non possono essere considerate alternative; ciò anche in virtù del fatto che le informazioni contenute nella Certificazione Unica trasmesse all’Agenzia delle
Entrate autonomamente non sono più ricomprese nel modello 770, che a partire dal 2016 è composto dei soli quadri
riepilogativi (ST, SV, SX, SY) e non contiene più i dati di
dettaglio delle singole certificazioni uniche.
v) Maxiammortamenti. L’Agenzia delle Entrate precisa
che dal tenore letterale dell’art. 1, comma 91, della legge
di Stabilità della norma si evince che l’applicazione della
stessa riguarda soltanto le imposte sui redditi e non produce effetti ai fini dell’IRAP, soggiungendo che la disposizione in esame non produce effetti neanche nei confronti
dei soggetti che determinano la base imponibile del tributo regionale secondo i criteri stabiliti per le imposte sui
redditi, come ad esempio i soggetti che applicano le disposizioni di cui all’art. 5 bis del D.Lgs. n. 446 del 1997.
Per quanto riguarda il profilo temporale, atteso che la norma prevede che la maggiorazione del 40% del costo di
acquisizione compete per gli investimenti effettuati in beni materiali strumentali nuovi “dal 15 ottobre 2015 al 31
dicembre 2016, l’Amministrazione finanziaria è dell’avviso
che l’imputazione degli investimenti al periodo di vigenza
dell’agevolazione segua le regole generali della competenza previste dall’art. 109, commi 1 e 2, TUIR. Inoltre, la
maggiorazione può essere dedotta secondo l’AdE, conformemente al dettato dell’art. 102, comma 1, del TUIR, solo
a partire dall’esercizio di entrata in funzione del bene. Per
i beni il cui costo unitario non èÌ superiore a euro 516,46,
la possibilità di deduzione integrale nell’esercizio non viene meno neanche nell’ipotesi in cui il costo del bene superi euro 516,46 per effetto della maggiorazione del 40%.
vi) Nuovo regime sanzionatorio. Per effetto di quanto previsto dall’art. 1, comma 33, della Legge di Stabilità 2016,
che ha modificato l’art. 32 del D.Lgs. n. 158, gli effetti delle
modifiche normative in commento decorrono dal 1° gennaio 2016. L’Amministrazione finanziaria precisa che per le
violazioni contestate in atti notificati prima di tale data, a
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condizione che non siano divenuti definitivi, le modifiche
delle disposizioni sanzionatorie aventi effetti per il contribuente più favorevoli rispetto alla previgente disciplina sono applicate a violazioni commesse anche prima del 1°
gennaio 2016, in applicazione del principio di legalità (c.d.
favor rei) contenuto nell’art. 3 del D.Lgs. 18 dicembre
1997, n. 472. Anche in sede di ravvedimento operoso le
misure più favorevoli al contribuente trovano applicazione
in relazione alle violazioni commesse prima del 1° gennaio
2016.
vii) Ravvedimento operoso. L’esercizio dello strumento del
ravvedimento operoso da parte del contribuente non è precluso dal ricevimento della prima comunicazione inviata
dagli uffici per avviare i controlli formali (ex art. 36 ter del
d.P.R. 600 del 1973), purché lo stesso avvenga prima della
ricezione della comunicazione degli esiti del controllo.
viii) Contenzioso e riscossione. In risposta ad un quesito
circa il conteggio degli interessi in caso di mediazione tributaria o di conciliazione di una controversia tributaria,
l’Agenzia delle Entrate evidenzia che qualora la conciliazione giudiziale o la mediazione tributaria riguardino la restituzione di tributi indebitamente versati dal contribuente, spettano gli interessi per ritardato rimborso delle imposte di cui all’art. 1, D.M. 21 maggio 2009, da calcolarsi
con le medesime modalità, indipendentemente dal fatto
che il rimborso sia riconosciuto da un provvedimento amministrativo, da un accordo conciliativo o da una sentenza. Qualora invece si verta nell’ipotesi di interessi per ritardato pagamento dei tributi dovuti dal contribuente a
seguito di attività di controllo e liquidazione da parte dell’Amministrazione finanziaria, si applica il successivo art.
6 dello stesso decreto.
ix) Mediazione e conciliazione giudiziale. L’amministrazione
finanziaria segnala che già nel vigore della precedente formulazione dell’art. 12, comma 8, D.Lgs. n. 472/1997, gli uffici irrogavano la sanzione, anche nella fase di conciliazione
e di mediazione, applicando separatamente il cumulo giuridico per ciascun tributo e per ciascun periodo d’imposta,
poiché una differente interpretazione avrebbe comportato
un effetto distorsivo del sistema, in quanto l’applicazione
del cumulo giuridico per più tributi e per diversi anni d’imposta avrebbe potuto generare un beneficio maggiore di
quello riconosciuto nella fase, antecedente, dell’accertamento con adesione.
x) Definizione agevolata delle sanzioni. A parere dell’Amministrazione finanziaria non opera l’estensione del lieve inadempimento a fattispecie ulteriori rispetto a quelle enunciate nell’art. 15 ter del d.P.R. n. 602/1973, introdotto dall’art. 3, comma 1, D.Lgs. n. 159/2015 (rateazioni disposte a
seguito delle comunicazioni degli esiti derivanti da controllo automatizzato o formale ovvero dell’accertamento con
adesione e degli altri istituti a questo assimilabili, quali la
definizione per omessa impugnazione, la mediazione e la
conciliazione giudiziale.
xi) Rateazione e sanzioni rimborsabili. L’art. 1, comma 134,
della legge di stabilità 2016 prevede che, nelle ipotesi di
adesione o di omessa impugnazione degli accertamenti, i
contribuenti decaduti dal beneficio della rateazione nei
trentasei mesi antecedenti al 15 ottobre 2015 sono riammessi al piano di rateazione inizialmente concesso, limitatamente al versamento delle imposte dirette, a condizione
che entro il 31 maggio 2016 riprendano il versamento della
prima delle rate scadute. Alla luce della finalità della norma, che è quella di ripristinare l’originario piano di rateazione consentendo al contribuente di riprendere il pagamento
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Fisco e Fallimento
Rassegna
delle rate come se non si fosse mai verificata la decadenza,
l’Agenzia delle Entrate ritiene che, con riguardo alle sole
imposte dirette, venga meno la ratio della sanzione del
60%. Pertanto, nel caso in cui il contribuente abbia già eseguito dei pagamenti, l’Agenzia provvederà, in sede di rielaborazione del piano di ammortamento, a imputare alle rate
ancora dovute anche gli importi già pagati a titolo di sanzione. Non sono invece previsti rimborsi da parte dell’Agenzia di eventuali eccedenze.
xii) Rateazione per avvisi bonari. Secondo l’Agenzia delle
Entrate le somme dovute a seguito di comunicazione degli
esiti del controllo automatizzato e formale delle dichiarazioni dei redditi individuate nell’art. 15, comma 2, D.Lgs. n.
159/2015, possono essere dilazionate esclusivamente con
rate trimestrali di pari importo, avendo l’art. 2, comma 1,
D.Lgs. n. 159/2015, eliminato il comma 6 bis dell’art. 3 bis
del D.Lgs. n. 462/1997, che prevedeva che le rate potessero essere anche di importo decrescente, fermo restando il
numero massimo stabilito.
xiii) Ravvedimento operoso. In caso di lieve inadempimento, vale a dire versamento carente della rata oppure tardivo
pagamento della prima rata entro sette giorni, nonché in
caso di tardivo pagamento di una rata diversa dalla prima
entro il termine di pagamento della rata successiva, l’Ufficio procede all’iscrizione a ruolo dell’eventuale frazione
non pagata, della sanzione per ritardato o omesso versamento e dei relativi interessi. L’Agenzia precisa che la misura della sanzione sarà ridotta al 15% (rispetto all’ordinario 30%) per i versamenti effettuati con un ritardo non superiore a novanta giorni. È inoltre prevista una ulteriore riduzione a un quindicesimo per ciascun giorno di ritardo
per i versamenti effettuati con un ritardo non superiore a
quindici giorni. È facoltà del contribuente avvalersi del ravvedimento operoso di cui all’art. 13 del D.Lgs. n. 472/1997.
xiv) Valore nel ricorso contro la comunicazione di iscrizione
di fermo di beni mobili registrati o di ipoteca. In caso di impugnazione della comunicazione di iscrizione di fermo di
beni mobili o di ipoteca su immobili, il valore della controversia, da determinarsi con riferimento all’atto impugnato
deve essere calcolato, analogamente a quanto accade per
il contributo unificato, in base al valore dei crediti per tributi
al netto di interessi, sanzioni e altri oneri accessori. Le sanzioni debbono invece essere computate nel calcolo qualora
costituiscano una pretesa autonoma e non un accessorio
al tributo. Viene inoltre precisato dall’Agenzia che lo stesso
criterio deve essere utilizzato anche quando il ricorrente
contesti, oltre ai vizi propri del fermo o dell’ipoteca, anche i
crediti per i quali si procede. L’Amministrazione finanziaria
precisa che qualora il debitore impugni, con lo stesso ricorso, sia il fermo o l’ipoteca con valore della lite superiore a
euro 20.000 sia singole iscrizioni a ruolo di valore inferiore,
prevalga il rito ordinario di impugnazione su quello speciale
previsto per le controversie di valore fino a euro 20.000. Ne
consegue che se il valore complessivo dei crediti tributari
sottostanti al fermo o all’ipoteca supera la soglia di euro
20.000, la lite non è soggetta al procedimento di mediazione anche se le iscrizioni a ruolo contestate abbiano un valore inferiore alla predetta soglia. Ugualmente si applicano
tali criteri nel caso di impugnazione di una cartella di pagamento che cumula distinte iscrizioni a ruolo anche se eseguite da diversi enti creditori, se si contesta integralmente
la cartella per vizi propri, nonché le singole iscrizioni a ruolo
per vizi riferiti all’attività degli enti creditori.
il Fallimento 8-9/2016
APPLICAZIONE DEL FAVOR REI NELL’AMBITO
DELLA REVISIONE DELLE SANZIONI TRIBUTARIE NON
PENALI
Agenzia delle Entrate - Circolare n. 4/E/2016
L’Agenzia delle Entrate, nel documento in commento, ha
esaminato le modifiche al sistema sanzionatorio apportate
dal D.lgs. 24 settembre 2015. Anzitutto, essendo stato alleggerito il sistema sanzionatorio, trova applicazione il principio del favor rei nel caso di vertenze non ancora concluse
e di atto impositivo non definitivo. In queste fattispecie, a
seguito di presentazione di istanza da parte del contribuente, l’Agenzia delle Entrate precisa che gli uffici dovranno
verificare se il sistema sanzionatorio ora in vigore sia più
favorevole rispetto al precedente e, nel caso, rideterminare
le somme dovute. Il miglior trattamento sanzionatorio va
applicato sia quando la nuova sanzione sia di minore entità
rispetto al passato, sia in tutte le ipotesi in cui la legge sopravvenuta abbia eliminato un obbligo strumentale e quindi solo indirettamente la sanzione. È importante precisare
che l’istanza non sospende i termini per il ricorso e che il
contribuente mantiene il beneficio alla definizione al sesto
di cui all’art. 15, comma 2 bis, D.Lgs. 19 giugno 1997, n.
218, anche se la diminuzione della pretesa sia avvenuta
successivamente. Il documento di prassi precisa, ancora,
che per individuare la norma più favorevole al contribuente
l’Ufficio dovrà applicare, pur tenendo conto delle peculiarità del diritto tributario, i principi generali seguiti nel diritto
penale, raffrontando dunque le norme sanzionatorie in concreto e non in astratto, tenendo conto anche delle circostanze aggravanti e attenuanti o esimenti eventualmente
previste e verificando gli effetti della loro applicazione in
rapporto alle caratteristiche della violazione.
GIURISPRUDENZA
FALCIDIABILITÀ DELL’IVA NEL CONCORDATO PREVENTIVO
SENZA TRANSAZIONE FISCALE
Corte di Giustizia UE, 7 aprile 2016 causa C-546/2014
In data 7 aprile 2016 la Corte di Giustizia Europea si è
espressa nella causa C-546/2014, definitivamente chiarendo che “l’art. 4, paragrafo 3, TUE nonché gli articoli 2, 250,
paragrafo 1, e 273 della direttiva IVA non ostano ad una
normativa nazionale (...) interpretata nel senso che un imprenditore in stato di insolvenza può presentare a un giudice una domanda di apertura di una procedura di concordato preventivo, al fine di saldare i propri debiti mediante la liquidazione del suo patrimonio, con la quale proponga di
pagare solo parzialmente un debito IVA attestando, sulla
base dell’accertamento di un esperto indipendente, che tale debito non riceverebbe un trattamento migliore nel caso
di proprio fallimento”.
Benché la fattispecie esaminata nella sentenza in discorso
sia quella di un concordato preventivo di tipo liquidatorio, è
ragionevole pensare che il medesimo principio sia estensibile anche al concordato con continuità aziendale, posto
che l’art. 186 bis lo ammette nel solo caso in cui esso sia
suscettibile di assicurare il miglior soddisfacimento per i
creditori chirografari.
È chiaro che, così statuendo, la decisione in discorso ha
dato nuova linfa alla tesi di coloro i quali, sia pure con ac-
1003
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centi e sfumature non sempre coincidenti, hanno, da sempre, predicato la falcidiabilità dell’Iva al di fuori della transazione fiscale, alle condizioni dettate dal secondo comma
dell’art. 160 (si veda, a tal proposito, Trib. Livorno 13 aprile
2016).
Riferimenti e segnalazioni
Riferimenti e segnalazioni
GIUDIZIALE
Giurisprudenza - Cass. 4 novembre 2011, nn. 22931 e
22932, in Laleggeplus; Cass. 16 maggio 2012, n. 7667; ibidem, Cass. 30 aprile 2014, n. 9541.
Dottrina - Stasi, Sub art. 182-ter, in Lo Cascio (diretto da),
Codice commentato del fallimento, Milano, 2015; Fabiani,
La transazione fiscale alla luce dei più recenti orientamenti
giurisprudenziali e dell’Amministrazione finanziaria e la compensazione dei crediti commerciali verso la P.A. con i debiti
tributari e contributi iscritti a ruolo, in www.ilcaso.it; La Croce, La transazione fiscale, Milano, 2011.
Commissione Tributaria Regionale di Milano, n.
1532/6/2016
PAGAMENTO PARZIALE DI RITENUTE NEL CONCORDATO
Tribunale di Livorno 13 aprile 2016
Con decreto del 13 aprile 2016, dunque pochi giorni dopo
la pronuncia della Corte di Giustizia UE nella causa C546/2014, il Tribunale di Livorno ha omologato un concordato preventivo che prevede il pagamento parziale delle ritenute previdenziali, dopo avere accertato l’incapienza al
pagamento integrale del debito.
In particolare, una società di capitali aveva presentato una
proposta di concordato preventivo che prevedeva il pagamento dei crediti previdenziali, dell’IVA, IRES e IRAP nei limiti della capienza del patrimonio della società, mentre
con la nuova finanza veniva riconosciuta a detti crediti (unitamente ad altri crediti, anche chirografari) una ulteriore
percentuale di soddisfacimento.
Proponeva opposizione all’omologazione l’Agenzia delle
Entrate, ritenendo illegittima “la falcidia delle ritenute previdenziali, che si pone in contrasto con il disposto dell’art.
182-ter R.D. 16 marzo 1942 n. 267”, a mente del quale
“con riguardo all’imposta sul valore aggiunto e alle ritenute
operate e non versate, la proposta può prevedere esclusivamente la dilazione del pagamento”.
Si precisa che, tenuto conto che i contributi previdenziali
sono di pertinenza dell’Inps e non dell’Agenzia delle Entrate, pare evidente che i crediti di cui trattasi non possano
che essere le ritenute fiscali sulle retribuzioni operate e non
versate.
Il Tribunale ha respinto l’opposizione dell’Agenzia ed omologato la proposta di concordato, richiamando la nota sentenza della Corte di giustizia europea del 7 aprile 2016 in
tema di falcidiabilità dell’Iva nel concordato senza transazione fiscale.
I giudici toscani chiariscono che alla luce di tale pronuncia
è venuto meno l’argomento che aveva portato la S.C., con
la sent. n. 14447/2014, ad affermare che l’intangibilità dell’Iva è di interesse comunitario e quindi sottoposta a vincoli. Dal che discende che analoghe conclusioni debbono
trarsi anche per le ritenute di cui all’art. 182 ter l.fall., che
non rientrano peraltro neppure tra i crediti di interesse comunitario che avevano indotto i giudici di legittimità italiani
a escludere la falcidiabilità dell’Iva nella procedura di concordato preventivo. Conclude il Tribunale evidenziando che
“la non falcidiabilità di Iva e ritenute deve essere confinata
nell’ambito della transazione fiscale”, risultando invece legittima la falcidia in assenza di quest’ultima.
1004
Giurisprudenza - Corte di Giustizia Europea, causa C546/2014, in Laleggeplus.
DICHIARAZIONE DEI REDDITI IN CASO DI PIGNORAMENTO
Il contenzioso di cui trattasi scaturisce da un avviso di accertamento con cui l’Agenzia delle Entrate accertava, in capo a un contribuente, un maggiore imponibile scaturente
dall’omessa dichiarazione di redditi derivanti da locazione
di immobili.
Il contribuente impugnava l’atto impositivo, sostenendo
che i redditi contestati si riferiscono al periodo successivo
al pignoramento del bene, trascritto in Conservatoria, soggiungendo che i canoni locativi in questione erano stati riscossi dal custode giudiziario.
I giudici di primo grado accoglievano il ricorso, ritenendo
fondata la contestazione del contribuente.
Ricorreva in appello l’Agenzia delle Entrate, sostenendo
che il pignoramento e l’affidamento in custodia dell’immobile non comporta alcuna modifica del titolo di proprietà,
che avviene solo con la successiva aggiudicazione del bene.
La Commissione Tributaria Regionale della Lombardia respingeva il ricorso, citando dapprima la sent. n. 8821/2014
della Corte di cassazione, che in tema di redditi fondiari ha
stabilito che “presupposto della loro tassazione, alla stregua dell’art. 26 del d.P.R. 22 dicembre 1986, n. 917 (art. 23
della vecchia formulazione ed, in precedenza art. 32 del
d.P.R. 29 settembre 1973, n. 597) è la proprietà (o la titolarità di altro diritto reale) dei beni immobili, irrilevanti rimanendo, ai fini impositivi (nella specie I.R.P.E.G.) la materiale
disponibilità o l’effettivo godimento degli stessi”, per poi
abbracciare invece il principio affermato dalla stessa S.C.
con la sent. n. 23620/2011 della Corte di cassazione, a
mente della quale l’intestatario di un immobile soggetto a
sequestro giudiziario non può essere considerato titolare di
alcun reddito proveniente dall’immobile in questione, in
quanto sia i canoni che tutti gli altri frutti rimangono nella
materiale disponibilità del custode giudiziale ed inoltre l’art.
593 c.p.c. impone l’obbligo legale di rendiconto al custode,
dal che consegue l’esclusione di tutti i frutti rendicontati
dalla base imponibile Irpef dell’intestatario/debitore, in linea con l’art. 3, comma 1, TUIR. 23620/2011.
La soluzione della vertenza cui giunge la Commissione
Lombarda non pare condivisibile, in quanto la richiamata
sent. n. 23620/2011 riguarda la diversa fattispecie di custodia espletata nell’ambito dell’istituto del sequestro giudiziario disciplinato dall’art. 670 c.p.c., e non invece quella di
custodia giudiziaria nell’ambito della procedura di espropriazione immobiliare di cui agli artt. 555 ss. c.p.c. Al riguardo si rammenta come, nella procedura di espropriazione immobiliare (analogamente a quanto avviene nelle altre
procedure di espropriazione forzata), la custodia giudiziaria
sia strettamente connessa, sul piano funzionale, all’atto di
pignoramento, che individua i beni sui quali deve avvenire
l’esecuzione e vincola il bene di proprietà del debitore esecutato al soddisfacimento dei creditori. Inoltre, la funzione
della custodia, che ai sensi dell’art. 559 c.p.c. si estende
agli accessori, comprese le pertinenze ed i frutti, è quella di
realizzare effettivamente tale vincolo di indisponibilità. La
il Fallimento 8-9/2016
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custodia non determina dunque alcuna modifica della titolarità dei beni e dei frutti che ne sono oggetto, che rimangono di proprietà del debitore esecutato, che è soltanto privato del potere di disporre degli stessi, la cui sola gestione
(ordinaria) è affidata al custode. Tutto quanto precede ha
fatto concludere sia alla giurisprudenza di legittimità che
all’Amministrazione finanziaria che soggetto passivo d’imposta resta il debitore esecutato. A diverse conclusioni
giungono invece i Giudici della Cassazione e l’Agenzia delle
Entrate nel caso del sequestro giudiziario di cui all’art. 670
c.p.c., che a differenza dell’espropriazione immobiliare,
tende ad assicurare la conservazione della cosa intorno alla
quale è sorta una controversia mediante la sua custodia o
la sua gestione temporanea. Ne consegue che la titolarità
dei beni sequestrati non è certa e che tale situazione di incertezza si protrae sino alla chiusura della vicenda giurisdizionale, quando sarà individuato a titolo definitivo e con effetto retroattivo il soggetto titolare dei beni sequestrati, e
quindi l’effettivo soggetto passivo d’imposta. In questa fattispecie, dunque, la custodia non è volta a garantire la destinazione del bene del debitore al soddisfacimento dei creditori in pendenza di una procedura esecutiva, ma invece a
conservare provvisoriamente il bene, per conto di un soggetto non ancora individuato, in pendenza di giudizio. I beni sequestrati, in attesa della loro devoluzione al loro defini-
il Fallimento 8-9/2016
tivo titolare, si configurano come un patrimonio separato,
assimilabile per analogia all’istituto dell’eredità giacente,
dove soggetto passivo è, con effetto retroattivo, il chiamato che accetti l’asse ereditario. Da ciò discende l’applicazione, nel sequestro giudiziario disciplinato dall’art. 670
c.p.c., delle norme sull’eredità giacente dettate dall’art. 187
del T.U.I.R. e dall’art. 19 del d.P.R. 4 febbraio 1988, n. 42.
Si rammenta, per concludere, che secondo l’Amministrazione finanziaria le stesse norme sull’eredità giacente trovano applicazione anche nel c.d. “sequestro anti-mafia” di
cui alla L. 31 maggio 1965, n. 575, e successive modifiche,
in ordine al trattamento tributario dei redditi derivanti dai
beni sequestrati ai soggetti indiziati di appartenere ad associazioni di stampo mafioso. Anche in questo caso, infatti, i
beni sequestrati, in attesa della confisca o della restituzione
al proprietario, costituiscono un patrimonio assimilabile per
analogia all’eredità giacente.
Riferimenti e segnalazioni
Giurisprudenza - Cass. 25 settembre 2006, n. 20764, in Laleggeplus; Cass. 16 aprile 2014, 8821, ibidem; Cass. 11 novembre 2011, n. 23620, ibidem.
Prassi - Agenzia delle Entrate, risoluzione n. 158/E 11 novembre 2005, risoluzione n. 195/E del 13 ottobre 2003,
circ. n. 156 del 7 agosto 2000.
1005
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Giurisprudenza
Massimario di legittimità
LEGGE FALLIMENTARE
Art. 1
Cassazione Civile, Sez. I, 15 ottobre 2015, n. 20877 Pres. A. Ceccherini - Est. L. Nazzicone - P.M. A.M. Soldi
- Treda S.r.l. in liquidazione (avv. Picerno) c. Fallimento
Treda S.r.l. in liquidazione
Vedi Cass. 2 dicembre 2011, n. 25870
1. Ai fini della verifica del requisito di fallibilità previsto
dall’art. 1, comma 2, lett. c), l.fall., nel testo introdotto
dal D.Lgs. n. 169 del 2007, è necessario considerare, nell’esposizione debitoria rilevante, anche i crediti contestati, trattandosi di un dato oggettivo, che non può dipendere dall’atteggiamento o dall’opinione soggettiva
del debitore.
Art. 26
Cassazione Civile, Sez. I, 7 ottobre 2015, n. 20118 Pres. A. Ceccherini - Est. R.M Di Virgilio - P.M. U. De
Augustinis - B.M.G. (avv. Stara) c. R.P. (avv. Porru)
Vedi Cass. 25 febbraio 2011, n. 4698
1. In tema di reclamo endofallimentare avverso i decreti
del giudice delegato, ai sensi dell’art. 26 l.fall. (nel testo
vigente anteriormente al D.Lgs. n. 5 del 2006), il termine
iniziale di decorrenza per la presentazione coincide con
la comunicazione del decreto alla parte, da effettuarsi,
di regola, ai sensi degli artt. 136 ss. c.p.c., ovvero con
forme equipollenti in grado di assicurare l’effettiva ed
integrale conoscenza del contenuto del provvedimento
e la data in cui essa è avvenuta, sicché, in assenza di tali riscontri, opera soltanto il termine lungo annuale per
la proposizione del reclamo. (Nella specie, la S.C. ha
confermato il provvedimento del tribunale che, ai fini
della decorrenza del termine per la proposizione del reclamo, ha ritenuto equipollente alla comunicazione ex
art. 136 c.p.c. la notifica da parte dell’ufficiale giudiziario del decreto di trasferimento unitamente al precetto).
Art. 44
Cassazione Civile, Sez. I, 14 ottobre 2015, n. 20742 Pres. A. Ceccherini - P.M. A.M. Soldi - Poste italiane
S.p.a. (avv. Mele, Pistilli) c. Fallimento di D.A.G. (avv.
Costantini)
Vedi Cass. 14 ottobre 2010, n. 21246; Cass. 14 marzo
2011, n. 5994
1. L’azione promossa dal curatore, ai sensi dell’art. 44,
comma 2, l.fall., volta ad ottenere la dichiarazione d’inefficacia del pagamento effettuato in favore del fallito
dopo la dichiarazione di fallimento, ha natura autonoma rispetto al rapporto causale che ha determinato il
pagamento, sicché la prescrizione dei diritti relativi a tale rapporto (nella specie, il termine triennale di prescrizione previsto per l’azione giudiziaria contro l’amministrazione postale per i servizi di bancoposta dall’art. 20,
1006
comma 3, d.P.R. n. 156 del 1973) non si applica all’azione di inefficacia, che, trovando la sua “ratio” nella perdita, coeva al fallimento, del diritto di disporre da parte
del debitore, non è soggetta a prescrizione perché diretta a far dichiarare una nullità che si verifica di pieno diritto nei confronti del fallimento e dei creditori.
Art. 56
Cassazione Civile, Sez. III, 27 ottobre 2015, n. 21784 Pres. G.M. Berruti - Est. P. D’Amico - P.M. P. Pratis Fallimento Elettromeccanica (avv. Altamura) M. P. & C.
S.n.c. c. C.L. (avv. Vieli)
Vedi Cass. 13 gennaio 2009, n. 481; Cass. 20 gennaio
2015, n. 825
1. La compensazione nel fallimento è ammessa anche
quando il controcredito del debitore del fallimento divenga liquido e esigibile dopo il fallimento, purché il
fatto genetico della obbligazione sia anteriore alla relativa dichiarazione, mentre è irrilevante che la sentenza
di accertamento del controcredito intervenga successivamente alla dichiarazione di fallimento.
Art. 66
Cassazione Civile, Sez. III, 27 ottobre 2015, n. 21810 Pres. G.B. Petti - Est. A. Amendola - P.M. R. Fuzio D.G.G. (avv. Salvatore) c. Italfondiario Spa (avv. Malizia)
Vedi Cass. 17 dicembre 2008, n. 29420
1. Il principio secondo cui, una volta intervenuta la dichiarazione di fallimento dopo la proposizione dell’azione revocatoria ordinaria, ove il curatore subentri nel
giudizio, ai sensi dell’art. 66 l.fall., vengono meno la legittimazione e l’interesse ad agire dell’attore originario,
opera solo quando si tratti di azione revocatoria ordinaria proposta esclusivamente nei confronti del debitore
poi fallito, sicché, qualora l’originaria domanda sia stata
proposta anche nei confronti di un terzo, rispetto al
quale la curatela fallimentare non vanta alcuna pretesa,
il creditore che ha introdotto il giudizio è legittimato a
riassumerlo dopo l’interruzione conseguente alla dichiarazione di fallimento nei confronti del litisconsorte
non attinto dalla procedura.
Art. 67
Cassazione Civile, Sez. I, 20 ottobre 2015, n. 21273 Pres. A. Ceccherini - Est. A. Didone - P.M. L. Salvato S.M. (avv. Ruffolo) c. Fallimento Venice Fashion S.r.l.
(avv. Stivanello Gussoni)
Vedi Cass. 22 novembre 2013, n. 26215
1. Ai fini del computo a ritroso del termine di proponibilità dell’azione revocatoria fallimentare, che si calcola
ad anno completo e non a giorni, il “dies a quo” coincide non già con la data della deliberazione della decisione, ma con quella del deposito in cancelleria (pubblicazione) della sentenza dichiarativa di fallimento, dovendosi escludere tale giorno, ai sensi dell’art. 155, comma
il Fallimento 8-9/2016
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Giurisprudenza
1, c.p.c., mentre deve essere conteggiato, quale “dies
ad quem”, il giorno terminale del computo all’indietro.
Art. 67, comma 1
Cassazione Civile, Sez. I, 20 ottobre 2015, n. 21272 Pres. A. Ceccherini - P.M. L. Salvato - Fallimento della
ditta Eredi Del Cinque s.d.f. (avv. Cianci) c. Fide S.p.a.
(avv. D’Errico)
1. Il pagamento di un debito scaduto ed esigibile, effettuato da un terzo, in periodo sospetto, utilizzando il denaro proveniente da una vendita immobiliare di cui non
sia stata chiesta ed ottenuta la revoca, costituisce estinzione con mezzo diretto e normale del debito, sicché
non rientra nella previsione dell’art. 67, comma 1, n. 2,
l.fall.
Art. 78
Cassazione Civile, Sez. I, 13 ottobre 2015, n. 20558 Pres. S. Salvago - Est. G. Mercolino - P.M. U. De Augustinis - Istituto Autonomo per le case popolari di Messina (avv. Ciccotti, Guerrera) c. G.G.
Vedi Cass. 30 luglio 2010, n. 17926; Cass. 29 dicembre
2011, n. 29737
1. In tema di appalto di opere pubbliche stipulato da imprese riunite in associazione temporanea, ai sensi degli
artt. 23 e 25 del D.Lgs. n. 406 del 1991, la dichiarazione
di fallimento di una delle società mandanti, pur non
comportando lo scioglimento del contratto d’appalto,
alla cui esecuzione, a norma del comma 2 del citato art.
25, resta obbligata l’impresa capogruppo, determina, ex
art. 78 l.fall. (nel testo anteriore al D.Lgs. n. 5 del 2006,
applicabile “ratione temporis”), lo scioglimento del rapporto di mandato conferito a quest’ultima, sicché la
mandataria capogruppo non ha più la legittimazione ad
agire, in nome e per conto della mandante fallita, per
far valere i crediti dalla stessa vantati nei confronti dell’ente committente.
Art. 92
Cassazione Civile, Sez. VI - 1, 20 ottobre 2015, n.
21316, ord. - Pres. V. Ragonesi - Est. G. Bisogni - Banca
Italease S.p.a. (avv. Dalpiaz, Camerini) c. Fallimento
GAE.TRA S.p.a. (avv. Fabrizio)
Vedi Cass. 19 marzo 2012, n. 4310
1. Ai fini dell’ammissibilità della domanda tardiva di cui
all’ultimo comma dell’art. 101 l.fall. (c.d. supertardiva),
il mancato avviso al creditore da parte del curatore del
fallimento, previsto dall’art. 92 l.fall., integra la causa
non imputabile del ritardo da parte del creditore; peraltro, il curatore ha facoltà di provare, ai fini dell’inammissibilità della domanda, che, indipendentemente dalla ricezione dell’avviso, il creditore abbia avuto comunque notizia del fallimento. (Nella specie, la S.C. ha ritenuto ammissibile la domanda proposta dalla banca
istante, avendo quest’ultima ricevuto l’avviso ex art. 92
l.fall. allorquando non era ancora subentrata, a seguito
di fusione per incorporazione, all’originario creditore
della società fallita, non potendo ritenersi che il rapporto di controllo preesistente tra le due società implicasse
anche la trasmissione della conoscenza del fallimento).
il Fallimento 8-9/2016
Art. 98
Cassazione Civile, Sez. VI - 1, 9 ottobre 2015, n. 20385 Pres. V. Ragonesi - Est. A. Scaldaferri - Mps Gestione
Crediti Banca S.p.A. (avv. C. Scognamiglio - R. Scognamiglio) c. Curatela del fallimento n. (omissis) Grandi
Magazzini P. di M. V. & figli S.n.c. (avv. De Angelis,
Amendola)
Vedi Cass. 8 marzo 2012, n. 3672
1. In tema di opposizione allo stato passivo, l’individuazione del regime impugnatorio del provvedimento che
ha deciso la controversia dipende, in base al principio
di apparenza e affidabilità, dalla forma adottata dal giudice, purché la stessa sia frutto di una consapevole scelta, che può essere anche implicita e desumibile dalle
modalità con le quali si è svolto in concreto il relativo
procedimento. Ne deriva che, ove il giudizio sia stato
trattato secondo il rito vigente prima della riforma attuata con il D.Lgs. n. 5 del 2006 e, in coerenza con tale
scelta, sia stato deciso con sentenza, l’impugnazione
deve essere proposta con l’appello, sebbene l’opposizione riguardi un fallimento già assoggettato alla nuova
disciplina.
Cassazione Civile, Sez. I, 14 ottobre 2015, n. 20746 Pres. A. Ceccherini - Est. R.M. Di Virgilio - P.M. A.M.
Soldi - Fallimento Industria Laminazione Alluminio Ila
S.p.a. in liquidazione (avv. Marchese) c. Comital S.p.a.
(avv. Mannocchi, Ponzone)
Vedi Cass. 18 giugno 2007, n. 14061
2. In materia di opposizione allo stato passivo fallimentare, nel regime successivo al D.Lgs. n. 5 del 2006, il ricorrente si costituisce in giudizio con il deposito del ricorso e del fascicolo di parte, contenente i documenti
posti a fondamento della domanda. Tuttavia, mentre il
deposito del ricorso condiziona l’ammissibilità dell’opposizione, il tempestivo deposito del fascicolo di parte
e dei documenti ivi contenuti rileva unicamente al fine
della ritualità della relativa produzione, sicché ove sia
tardivo l’inammissibilità non investe l’intera opposizione ma solo i documenti prodotti insieme ad esso, salvo
che l’opponente non chieda di essere rimesso in termini
fornendo la prova di essere incorso nella decadenza per
causa a lui non imputabile. (Nella specie, la S.C. ha
escluso che integrasse la causa non imputabile la prassi
della cancelleria di limitarsi alla ricezione del solo ricorso e non anche dei documenti allegati, atteso che, in assenza di un formale rifiuto di ricezione, il mancato deposito doveva pur sempre ascriversi alla parte).
Art. 107
Cassazione Civile, Sez. III, 15 ottobre 2015, n. 20885 Pres. G. Salmè - Est. G.L. Barreca - P.M. A.M. Soldi Acciaierie Venete S.p.a. (avv. Manzi, Terrin) c. Consorzio Zona Industriale e Porto Fluviale Padova (avv. Bonaccorsi, Ferrata)
Vedi Cass. 17 dicembre 1980, n. 6517; Cass. 27 settembre 1997, n. 9508
1. In tema di espropriazione e assegnazione di terreni a
singole aziende, ai sensi della L. n. 739 del 1969 (modificativa della L. n. 158 del 1958, per la realizzazione di
1007
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Giurisprudenza
opere nella zona industriale e nel porto fluviale di Padova), il divieto di cessione a terzi delle aree, posto a carico dell’assegnatario se non preventivamente autorizzato dal Consorzio costituito per l’attuazione degli obiettivi di legge, non è riconducibile al divieto di alienazione
previsto dall’art. 1379 c.c., ma è fondato sulla pubblica
utilità delle opere di sviluppo della zona industriale e
portuale di Padova, concorrendo alla realizzazione dell’assetto urbanistico dell’area. Ne consegue che il divieto è opponibile anche agli acquirenti delle aree in sede
di procedura concorsuale, per la successione del curatore negli obblighi imposti all’originaria assegnataria poi
fallita.
Art. 135
Cassazione Civile, Sez. III, 27 ottobre 2015, n. 21810 Pres. G.B. Petti - Est. A. Amendola - P.M. R. Fuzio D.G.G. (avv. Salvatore) c. Italfondiario S.p.a. (avv. Malizia)
Vedi Cass. 7 novembre 1975, n. 3758; Cass. 9 gennaio
2008, n. 177
1. A norma dell’art. 135 l.fall., ed in deroga alla regola
generale secondo cui l’estinzione dell’obbligazione principale determina l’estinzione anche di quelle accessorie,
il concordato del fallito non giova ai suoi coobbligati,
sicché, ove il concordato intervenga e venga eseguito
nel corso di un giudizio per azione revocatoria esperita
verso il debitore ed il fideiussore, il creditore può proseguire il giudizio nei confronti di quest’ultimo, rimasto
obbligato per il pagamento dell’intero.
Art. 173
Cassazione Civile, Sez. VI - 1, 21 ottobre 2015, n.
21487, ord. - V. Pres. Ragonesi - Est. G. Bisogni - M.M.
(avv. Paganelli, Mai) c. Fallimento Tecnoclima S.a.s. di
M. M. & C.
Vedi Cass. 31 gennaio 2014, n. 2130
1. In caso di concordato preventivo proposto nel corso
di un procedimento prefallimentare nel quale si sia già
1008
instaurato il contraddittorio tra il creditore istante e il
debitore, socio accomandatario cessato a seguito della
trasformazione di una società in accomandita semplice
in società a responsabilità limitata, non occorre, ai fini
della revoca ex art. 173 l.fall. e della derivante dichiarazione di fallimento, ulteriormente convocare il debitore,
che nulla può dedurre sulla proposta di concordato formulata dalla società trasformata e il cui fallimento personale costituisce esito espressamente previsto dall’art.
147, comma 2, l.fall., anche nel caso di cessazione della
responsabilità illimitata.
LEGGI DIVERSE
Amministrazione straordinaria
Cassazione Civile, Sez. VI - 1, 6 ottobre 2015, n. 19960,
ord. - Pres. V. Ragonesi - Est. F.A. Genovese - Banco Popolare Società Cooperativa (avv. Gabrielli, Pavesi, Verzoni) c. It Holding S.p.a. in amministrazione straordinaria
Vedi Cass. 16 marzo 2001, n. 3830; Cass. 15 settembre
2006, n. 19940
1. In tema di opposizione allo stato passivo dell’amministrazione straordinaria, anche nella disciplina successiva al D.Lgs. n. 5 del 2006 è pienamente efficace la regola del giudicato endofallimentare ex art. 96 l.fall., sicché, ove il creditore abbia opposto il provvedimento di
parziale esclusione del diritto vantato dallo stato passivo, senza che, nel conseguente giudizio di opposizione,
il commissario straordinario si sia costituito ed abbia
contestato il difetto di legittimazione attiva, il giudice
dell’opposizione non può, “ex officio”, rivalutare la legittimazione del creditore ed escludere la qualità del
credito richiesta, in base ad una rivalutazione dei fatti
già oggetto di quel provvedimento e non contestata nei
termini e nelle forme di legge, in quanto coperta dal
predetto giudicato.
il Fallimento 8-9/2016
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Giurisprudenza
Massimario di merito
a cura di Federica Commisso e Edoardo Staunovo-Polacco
LEGGE FALLIMENTARE
Art. 67, comma 3
Trib. Reggio Emilia 13 maggio 2016 (data della decisione) in funzione di giudice unico - Est. Varotti - Fall. 3P
Plastic S.r.l. c. Banca Monte dei Paschi di Siena S.p.A.
1. In tema di azione revocatoria fallimentare delle rimesse bancarie, a seguito della riforma, non occorre
più verificare se la singola rimessa sia pervenuta su
conto passivo “scoperto”, ma occorre verificare se vi
sia stata una attività di riduzione del saldo passivo intervenuta in modo “durevole” e “consistente”, nel senso che la riduzione dell’esposizione debitoria deve essere stata progressiva, tendenzialmente unidirezionale e
di ammontare non trascurabile, avuto riguardo all’ammontare delle rimesse ed all’interesse della massa fallimentare al recupero delle somme andate a beneficio di
un solo creditore (banca), anziché di tutti.
Art. 146
Trib. Venezia 6 giugno 2016, ord. - Est. Marra - Fall. Alta
Padovana Trasporti S.r.l. (avv. Lo Presti)
1. La prosecuzione illegittima e non conservativa dell’attività sociale da parte degli amministratori della società fallita, successivamente alla perdita del capitale
sociale, può configurarsi se l’esercizio dell’impresa abbia provocato costi superiori ai ricavi, determinando un
danno al patrimonio sociale e dei terzi, il cui ammontare può essere quantificato, in considerazione della difficoltà di ricostruire le singole operazioni non conservative al netto degli eventuali ricavi, anche con il criterio
della differenza dei netti patrimoniali.
Art. 160
Trib. Rovigo 20 maggio 2016 (data della decisione),
decr. - Pres. D’Amico - Est. Martinelli - Grandi Molini
Italiani S.p.A.
1. I patti para-concordatari sono legittimi e rappresentano una integrazione della proposta concordataria che
tuttavia resta esclusa tout court dal piano, sicché la loro
concreta attuazione esula dal contenuto attuativo dello
stesso, in guisa da non consentire un sindacato del tribunale nei limiti della stretta legalità ed osservanza delle regole procedimentali che governano la par condicio
creditorum dei creditori non aderenti, senza che sia ammissibile una futura valutazione di corretto e puntuale
adempimento dei patti medesimi.
Art. 162
Trib. Catania 19 maggio 2016 - Pres. Puglisi - Est. Bellia
- Farmacia Felice S.a.s.
1. A seguito dell’improcedibilità della proposta di concordato per intervenuta rinuncia da parte del debitore,
depositata successivamente alla relazione ex art. 173
il Fallimento 8-9/2016
l.fall. del commissario, il tribunale può esaminare l’istanza di fallimento presentata dal P.M. nell’ambito del
sub procedimento finalizzato alla revoca del concordato
e dichiarare il fallimento del debitore, se sono stati concessi i termini per la difesa di cui all’art. 15 l.fall.
Trib. Firenze 11 maggio 2016, decr. - Pres. Governatori
- Est. Crolla
2. Il concordato preventivo definito dal proponente liquidatorio, ove con il piano si intenda realizzare un trasferimento di azienda, va qualificato “con continuità
aziendale indiretta” e la relativa domanda deve ritenersi inammissibile qualora manchi l’attestazione del professionista in ordine alla funzionalità della prosecuzione
dell’attività di impresa al migliore soddisfacimento dei
creditori (nel caso di specie, il Tribunale ha ritenuto che
la previsione di cessione singola dei beni - immobili,
mobili e avviamento - connessi all’esercizio di attività
alberghiera e di ristorazione realizzava in realtà l’intento di trasferire un’azienda funzionante ad un soggetto
interessato a conseguire la continuità aziendale).
Art. 163 bis
Trib. Bolzano 17 maggio 2016 - Pres. ed Est. Bortolotti S. S.r.l. ed L. S.r.l.
1. In tema di offerte concorrenti, qualora alla gara non
partecipi alcuno oppure le offerte depositate, compresa
quella dell’inziale offerente, risultino inefficaci in quanto
non conformi al decreto dei tribunale oppure condizionate, il bene va aggiudicato a colui che ha effettuato
l’offerta originaria.
Art. 167
Trib. Verona 23 febbraio 2015 in funzione di Giudice
unico - Est. Platania
1. La compensazione nel concordato preventivo è possibile a condizione che le rispettive ragioni di debito e
credito siano precedenti all’apertura della procedura,
mentre non sono compensabili qualora siano l’una o
l’altra relative a fatti sorti in epoche rispettivamente
precedenti e seguenti l’apertura del concordato; ne consegue che qualora la banca incassi dopo l’apertura della
procedura ed in forza di mandato in rem propriam crediti del debitore anticipati anteriormente all’avvio del
concordato, la compensazione non è ammissibile.
Art. 168
Trib. Cassino 27 maggio 2016 in funzione di giudice
unico, decr. - Est. Gualtieri
1. Nel concordato preventivo, anche con riserva, pur
non essendosi provveduto al versamento dei contributi
assicurativi e previdenziali concernenti il periodo anteriore all’apertura della procedura concorsuale, sussiste
in forza delle disposizioni vigenti (art. 3 d.m. 30 gennaio
2015) il diritto del debitore di ottenere dall’INPS il rila-
1009
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Giurisprudenza
scio del DURC (documento unico di regolarità contabile).
Art. 169 bis
Trib. Verona 23 febbraio 2015 in funzione di Giudice
unico - Est. Platania
1. In relazione ai contratti di anticipazione su effetti
commerciali, la possibilità di qualificarli come rapporti
ancora in corso ai fini dell’applicazione dell’art. 169-bis
l. fall. dipende dalla tipologia di concordato prescelta
dal debitore: in caso di concordato puramente liquidatorio tali rapporti non hanno più ragione di esistere, per
cui la proposta ne determina l’immediata cessazione,
mentre in caso di proposta con continuità aziendale lo
scioglimento può conseguire solo ad una specifica e diretta manifestazione di volontà del debitore concordatario (senza alcuna autorizzazione del tribunale in quanto il debitore, in forza delle ordinarie clausole contrattuali potrebbe autonomamente esercitare il recesso),
ovvero della stessa banca.
Art. 182
Trib. Padova 18 maggio 2016 (data della decisione),
decr. - Est. Maiolino
1. Nella fase esecutiva del concordato preventivo, il creditore che lamenti il mancato riconoscimento della natura privilegiata del suo credito, contemplato nel piano
come chirografario, deve far valere la propria pretesa a
mezzo di autonomo giudizio ordinario e non con reclamo proposto ex art. 36 l.fall.
1010
Art. 186
Trib. Forlì 3 febbraio 2016 (data della decisione), decr. Pres. ed Est. Pazzi
1. La legittimazione riconosciuta in modo indeterminato dall’art. 186 l. fall. “a ciascuno dei creditori” va correlata all’esistenza di un pregiudizio effettivamente subito dal singolo in relazione al proprio diritto di credito,
così come modificato a seguito del provvedimento di
omologa; pertanto, la richiesta di revoca del concordato
preventivo proposta da un creditore chirografario prima
della scadenza del termine previsto nel piano per la sua
soddisfazione, deve essere rigettata in quanto privo di
attuale interesse.
Trib. Modena 20 aprile 2016 (data della decisione),
decr. - Pres. Zanichelli - Est. Mirabelli
2. Anteriormente alla scadenza del termine finale di
esecuzione della proposta di concordato preventivo
può aversi inadempimento non irrilevante, tale da giustificare la risoluzione ai sensi dell’art. 186 l.fall., solo
qualora risulti certo, in ragione di significativi scostamenti rispetto al piano, che la proposta non potrà avere
esecuzione; a tal fine non può attribuirsi rilievo al mancato rispetto dei tempi di pagamento intermedi eventualmente indicati nella proposta omologata, dovendosi fare riferimento al solo termine finale di esecuzione
della stessa.
il Fallimento 8-9/2016
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Indici
Fallimento
INDICE DEGLI AUTORI
INDICE CRONOLOGICO
DELLA GIURISPRUDENZA (*)
Casa Federico
Avvocato in Vicenza
Le impercettibili correzioni della giurisprudenza della
corte di cassazione in tema di causa del concordato
preventivo ...................................................
Corte di Giustizia UE
7 aprile 2016 causa C-546/2014**......................
947
Commisso Federica
Avvocato in Milano
Massimario di merito ......................................
1009
De Vita Fabrizio
Ricercatore di diritto processuale civile presso il Dipartimento di Giurisprudenza Università Federico II
Il regime dei provvedimenti sulla risoluzione (e sull’annullamento) del concordato preventivo (e fallimentare) .....................................................
938
Dolmetta Aldo Angelo
Professore ordinario di diritto privato nella Facoltà di Giurisprudenza dell’Università Cattolica
Cessione di credito in garanzia e prelazione...........
931
Fabiani Massimo
Professore associato di diritto processuale civile presso
l’Università del Molise
Gli accordi di ristrutturazione nella cornice della tutela dei diritti e la rilevanza della fattispecie speciale di
cui all’art. 182-septies l.fall. in chiave di collettivizzazione della crisi .............................................
908
Gaboardi Marcello
Dottorando di ricerca in Diritto processuale civile presso
l’Università Bocconi di Milano e avvocato in Milano
Ordinanza provvisoria di rilascio dell’immobile locato
e procedure concorsuali ..................................
974
Grigò Elena
Avvocato in Milano
Accordi di ristrutturazione dei debiti e fondi comuni
di investimento: una possibile ‘‘diversa’’ lettura?.....
il Fallimento 8-9/2016
20 ottobre 2015, n. 21272* ..............................
15 ottobre 2015, n. 20885* ..............................
15 ottobre 2015, n. 20877* ..............................
14 ottobre 2015, n. 20746* ..............................
14 ottobre 2015, n. 20742* ..............................
13 ottobre 2015, n. 20558* ..............................
9 ottobre 2015, n. 20385*................................
7 ottobre 2015, n. 20118*................................
Indice delle pronunce pubblicate nella Rubrica
In Itinere
14 giugno 2016, n. 12261 ................................
13 giugno 2016, n. 12120 ................................
13 giugno 2016, n. 12117 ................................
13 giugno 2016, n. 12116 ................................
23 maggio 2016, n. 10632 ...............................
20 maggio 2016, n. 10507 ...............................
20 maggio 2016, n. 10526 ...............................
909
909
909
908
909
908
908
908
910
908
Firenze 2 novembre 2015 ................................
945
Tribunale
889
985
Cassino 27 maggio 2016*................................
Rovigo 20 maggio 2016* .................................
Catania 19 maggio 2016* ................................
Udine 19 maggio 2016....................................
Padova 18 maggio 2016* ................................
Bolzano 17 maggio 2016*................................
1001
Staunovo - Polacco Edoardo
Avvocato in Milano
Massimario di merito ......................................
20 ottobre 2015, n. 21316* ..............................
20 ottobre 2015, n. 21273* ..............................
Venezia 6 giugno 2016* ..................................
Stasi Enrico
Dottore Commercialista in Torino
Osservatorio tributario.....................................
27 ottobre 2015, n. 21810* ..............................
21 ottobre 2015, n. 21487* ..............................
911
930
937
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1006
1008
Corte d’Appello
959
Spadaro Marco
Avvocato in Siracusa
I crediti prededucibili ......................................
16 febbraio 2016, n. 2990 ................................
27 ottobre 2015, n. 21784* ..............................
27 ottobre 2015, n. 21810* ..............................
20 maggio 2016, n. 10525 ...............................
Ranalli Riccardo
Dottore commercialista in Torino
La convenzione di moratoria di cui all’art. 182septies
20 aprile 2016, n. 7958 ...................................
7 aprile 2016, n. 6759 .....................................
14 giugno 2016, n. 12275 ................................
14 giugno 2016, n. 12273 ................................
Ferro Massimo
Consigliere della Corte di Cassazione
In itinere .....................................................
Cassazione civile
6 ottobre 2015, n. 19960*................................
917
1003
1009
Reggio Emilia 13 maggio 2016* ........................
1009
1009
1009
1009
912
1010
1009
1009
(*) L’asterisco indica le pronunce segnalate nei massimari. Il doppio
asterisco indica le pronunce giurisprudenziali segnalate nell’osservatorio
tributario.
1011
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Indici
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Fallimento
Firenze 11 maggio 2016*.................................
Modena 20 aprile 2016* ..................................
Livorno 13 aprile 2016** .................................
Verona 23 febbraio 2015..................................
Milano 11 febbraio 2016* ................................
Forlı̀ 3 febbraio 2016 * ....................................
Milano 3 dicembre 2015 ..................................
Roma 9 luglio 2015 ........................................
Verona 23 febbraio 2016* ................................
1009
1010
1004
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914
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958
970
1009
Commissioni tributarie
Regionale di Milano, n. 1532/6/2016** ................
1004
Agenzia delle Entrate - Circolare n. 12/E/2016 ........
Agenzia delle Entrate - Circolare n. 4/E/2016..........
Estensione dell’accordo ai creditori non aderenti
914
Documentazione
Piano ed attestazione
912
Fondo comune di investimento
Ammissibilità
958
Tribunale
Decreto di omologazione
Diniego - Reclamo - Ricorribilità per cassazione - Rimessione della questione alle Sezioni unite
(Cass. 20 aprile 2016, n. 7958) ..........................
Amministrazione straordinaria
Accertamento del passivo
Opposizione
Ammissione parziale del credito - Disciplina succes-
1012
970
Causa in concreto - Fattibilità giuridica ed economica
(App. Firenze 2 novembre 2015) ........................
945
Rinuncia alla domanda - Iniziativa successiva al deposito della relazione ex art. 173 l.fall. - Trattazione
dell’istanza di fallimento depositata dal PM nel sub
procedimento ex art. 173 l.fall. - Concessione dei
termini ex art. 15 l.fall. - Ammissibilità
(Trib. Catania 19 maggio 2016)*
(art. 162 l.fall. n. 1) .........................................
1009
Proposta
Accordi di ristrutturazione con intermediari finanziari
Azioni esecutive e cautelari - Divieto di acquisire titoli di prelazione non concordati
(Trib. Milano 3 dicembre 2015) ..........................
Sospensione delle azioni esecutive individuali
Procedimento per convalida di sfratto - Ordinanza
provvisoria di rilascio - Improcedibilità - Rilascio dell’immobile locato - Attrazione al giudizio di accertamento dello stato passivo - Necessità - Sussistenza
(Trib. Roma 9 luglio 2015) ................................
Procedimento
1001
1001
1003
Accordo di ristrutturazione dei debiti
Pubblicazione sul registro delle imprese - Necessità
(Trib. Udine 19 maggio 2016) ............................
Effetti per i creditori
Ammissione
INDICE ANALITICO PER MATERIA
Condizioni
(Trib. Milano 11 febbraio 2016) ..........................
1008
Concordato preventivo
INDICE CRONOLOGICO
DELLA PRASSI
Agenzia delle Entrate - Risposta a interpello n. 904211/2016 ....................................................
siva al D.lgs. 5/2006 - Efficacia del giudicato fallimentare - Applicabilità - Difetto di legittimazione del
creditore - Eccezione del commissario straordinario Preclusione
(Cass. 6 ottobre 2015, n. 19960)*
(l.d. a.s.) .....................................................
911
Domanda con continuità aziendale - Attestazione del
professionista - Funzionalità alla migliore soddisfazione dei creditori - Mancanza - Inammissibilità
(Trib. Firenze 11 maggio 2016)*
(art. 162 l.fall. n. 2) .........................................
1009
Domanda con riserva - Rilascio del Durc Pagamento
integrale del debito previdenziale concorsuale Esclusione
(Trib. Cassino 27 maggio 2016)*
(art. 168 l.fall.) ..............................................
1009
Offerte concorrenti - Mancanza o inammissibilità Aggiudicazione dell’offerta originaria
(Trib. Bolzano 17 maggio 2016)*
(art. 163 bis l.fall.) ..........................................
1009
Proposta - Patti para-concordatari - Contenuto integrativo - Legittimità - Estraneità al piano - Valutazione del loro adempimento - Preclusione
(Trib. Rovigo 20 maggio 2016)*
(art. 160 l.fall.) ..............................................
1009
Revoca - Audizione del debitore nel procedimento
pre-fallimentare anteriore al concordato - Convocazione ulteriore del debitore - Necessità - Esclusione
(Cass. 21 ottobre 2016, n. 21487)*
(art. 173 l.fall.) ..............................................
1008
Annullamento e risoluzione
Istanza di risoluzione
Rigetto - Reclamo - Decreto confermativo - Ricorribilità ex art. 111 Cost. - Esclusione - Fondamento
(Cass. 16 febbraio 2016, n. 2990) .......................
937
il Fallimento 8-9/2016
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Indici
Fallimento
Effetti per i creditori
739 del 1969 - Realizzazione del porto fluviale di Padova - Divieto di cessione a terzi - Opponibilità agli
acquirenti in sede fallimentare - Configurabilità
(Cass. 15 ottobre 2015, n. 20885)*
(art. 107 l.fall.) ..............................................
Anticipazione di credito su ricevute bancarie
Incassi successivi alla domanda di concordato Compensabilità con il credito anticipato - Esclusione
(Trib. Verona 23 febbraio 2015)*
(art. 167 l.fall.)...............................................
1009
Cessazione
Effetti sui rapporti giuridici preesistenti
Concordato
Concordato liquidatorio
Esdebitazione del fallito - Estensione ai coobbligati Esclusione - Conseguenze
(Cass. 27 ottobre 2015, n. 21810)*
(art. 135 l.fall.) ..............................................
Contratti bancari di anticipazione - Applicabilità dell’art. 169 bis - Esclusione - Concordato in continuità Configurabilità
(Trib. Verona 23 febbraio 2015)*
(art. 169 bis l.fall. n. 1).....................................
1010
1008
Dichiarazione
Esecuzione
Presupposti
Accertamento della natura del credito
Insolvenza - Soglia di indebitamento - Crediti contestati - Rilevanza
(Cass. 15 ottobre 2015, n. 20877)*
(art. 1 l.fall.) .................................................
Reclamo ex art. 36 l.fall. - Esclusione - Esercizio dell’azione ordinaria
(Trib. Padova 18 maggio 2016)
(art. 182 l.fall.)...............................................
1007
1006
1010
Effetti per il debitore
Risoluzione
Atti inefficaci
Creditori
Pagamenti - Termine dell’azione - Imprescrittibilità
(Cass. 14 ottobre 2015, n. 20742)*
(art. 44 l. fall.) ...............................................
Inadempimento - Pendenza del termine - Certezza
dell’inadempimento - Ammissibilità della risoluzione
- Irrilevanza dei termini intermedi
(Trib. Forlı̀ 3 febbraio 2016)*
(art. 186 l.fall. n. 2) .........................................
Legittimazione - Istanza del creditore chirografario Pendenza del termine previsto nel piano per l’adempimento - Rigetto
(Trib. Forlı̀ 3 febbraio 2016)*
(art. 186 l.fall. n. 1) .........................................
1010
1010
Crediti verso il fallito - Esigibilità - Necessità - Esclusione
(Cass. 27 ottobre 2015, n. 21784)*
(art. 56 l.fall.) ................................................
Insinuazione tardiva di credito
Attivo
Liquidazione
Divieto di cessione di aree di pubblica utilità - Legge
il Fallimento 8-9/2016
930
1006
Effetti sugli atti pregiudizievoli ai creditori
Azione revocatoria fallimentare
1007
Opposizione
Sentenza - Impugnazione - Disciplina anteriore - Appello
(Cass. 9 ottobre 2015, n. 20385)*
(art. 98 l.fall. n. 1)...........................................
Cessione di credito in garanzia - Trasferimento della
titolarità del credito - Non configurabilità - Differenza
con il pegno di credito
(Cass. 7 aprile 2016, n. 6759)............................
Compensazione
Accertamento del passivo
Deposito del ricorso - Necessità - Deposito tardivo
del fascicolo - Regime successivo al D.Lgs. 5/2006 Inutilizzabilità dei documenti - Limiti
(Cass. 14 ottobre 2015, n. 20746)*
(art. 98 l.fall. n. 2)...........................................
Effetti per i creditori
Cessione di credito
Fallimento
Domanda supertardiva - Omesso avviso al creditore
- Causa non imputabile del ritardo - Configurabilità Limiti
(Cass. 20 ottobre 2015, n. 21316)*
(art. 92 l.fall.) ................................................
1006
1007
1007
Pagamenti - Provenienza dal terzo - Denaro derivante da vendita immobiliare - Mancata assoggettabilità
a revocatoria - Mezzo anormale di pagamento Esclusione
(Cass. 20 ottobre 2015, n. 21272)*
(art. 67, comma 1, l.fall.) ..................................
1007
Termine a ritroso - Computo ad anni e non a giorni Decorrenza
(Cass. 20 ottobre 2015, n. 21273)*
(art. 67 l.fall.) ................................................
1006
Versamenti in conto corrente bancario - Accertamento delle modalità di ciascuna rimessa - Esclusione - Mera verifica della riduzione dell’esposizione
debitoria - Accertamento della consistenza e durevolezza di ogni singola operazione
(Trib. Reggio Emilia 13 maggio 2016)*
(art. 67, terzo comma, l.fall.) .............................
1009
1013
Sinergie Grafiche - 3B2 v. 11.0.3108/W Unicode-x64 (Dec 17 2013) - {A_LEGALE}0808_16-FALL8-9/
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Indici
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Fallimento
Azione revocatoria ordinaria
Organi
Giudizio promosso dal creditore - Sopravvenienza
della procedura di fallimento - Interruzione - Riassunzione nei confronti del terzo non fallito - Ammissibilità
(Cass. 27 ottobre 2015, n. 21810)*
(art. 66 l.fall.) ................................................
Decreti - Reclamo al tribunale - Termine - Decorrenza
(Cass. 7 ottobre 2015, n. 20118)*
(art. 26 l.fall.) ................................................
Giudice delegato
1006
Soggetti
Effetti sui rapporti giuridici preesistenti
Associazione temporanea di imprese
Amministratori
Fallimento del mandante - Scioglimento del contratto - Conseguenze
(Cass. 13 ottobre 2015, n. 20558)*
(art. 78 l.fall.) ................................................
Responsabilità - Perdita del capitale - Prosecuzione
dell’attività sociale - Danno - Determinazione - Criteri
(Trib. Venezia 6 giugno 2016)*
(art. 146 l.fall.) ..............................................
1014
1006
1007
1009
il Fallimento 8-9/2016
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