Il viaggio filosofico di Levinas sui passi di Abramo

Il viaggio filosofico di Levinas sui passi di Abramo
Grazie alla originalità del pensiero di Levinas, di cui ricorre oggi il centenario della nascita, trovarono
cittadinanza nella filosofia occidentale concetti come quelli di città -rifugio, ospitalità, rito, profezia,
messianismo. Dalla Lituania approdò in Francia, dove introdusse la fenomenologia in anni in cui la critica
alla metafisica veniva maturando sullo sfondo del nazismo
di DONATELLA DI CESARE
(il manifesto, 12.01.2005)
L'annuncio della scomparsa di Emmanuel Levinas fu dato all'indomani della morte, il 25 dicembre
1995: Libération mise la sua foto in prima pagina, France 2 diede la notizia nelle «Ore Venti», il
New York Times gli dedicò un lungo articolo. La mattina del funerale al cimitero israelitico di
Pantin, a Parigi, davanti alla folla raccolta dei parenti, degli allievi, degli amici, dei lettori anonimi,
fu Jacques Derrida a pronunciare l'orazione funebre, confluita poi nel libro Addio a Emmanuel
Levinas. A cento anni dalla nascita è ancora difficile valutare l'influsso che la sua opera ha
esercitato sulla filosofia degli ultimi tre decenni. E si può essere d'accordo o no con le sue idee, le
sue intuizioni, le sue aspirazioni, o perfino con la sua impostazione. Certo è che, come pochi altri,
questo filosofo così insolito ed eccentrico lascia una traccia profonda, il segno dell'ebraismo nel
pensiero
occidentale.
Dalla
Lituania
a
Strasburgo
Eccentrico Emmanuel Levinas era già per la sua provenienza. Nato il 12 gennaio del 1906 (il 30
dicembre 1905 secondo il calendario giuliano allora vigente nell'impero russo) a Kaunas, città della
Lituania al confine tra l'occidente europeo e l'oriente russo, era cresciuto in una famiglia ebraica
ortodossa. Il padre Yehiel gestiva una libreria-cartoleria. La madre, Dvora Gurvitch, trasmise al
figlio la passione per la letteratura. Turghenev e PuÜkin, Lermontov, Tolstoj e Dostoevskij
costituirono una parte significativa nella sua formazione intellettuale. «Il romanzo russo è stato la
mia preparazione alla filosofia» - ammetterà in un'intervista. In casa d'altronde si parlava russo; ma
già a sei anni Levinas leggeva la Bibbia in ebraico. E studiò in seguito nelle scuole ebraiche della
città. A Kaunas convivevano tutte le correnti dell'ebraismo moderno: da quelle ortodosse,
testimoniate dalla presenza di importanti scuole talmudiche, a quelle illuministiche che si
richiamavano a Moses Mendelssohn, dai sionisti, che guardavano a Theodor Herzl, ai seguaci del
Bund, del movimento operaio ebraico. Per quanto possa essere sorprendente, nella città non c'erano
né ghetti né quartieri ebraici e di quegli anni Levinas non conservò ricordi di antisemitismo.
Nel 1923 lasciò la Lituania per trasferirsi a Strasburgo, città europea, ma a sua volta al confine, e
perciò più adatta a un esilio destinato a essere definitivo. La scena filosofica francese, allora molto
eclettica, era dominata da Henri Bergson la cui riflessione costituì per Levinas un primo punto di
riferimento. L'evento più significativo fu però l'incontro nel 1926 con Maurice Blanchot da cui
scaturì l'amicizia di una vita. Amicizia paradossale perché è difficile immaginare due personaggi
più distanti: l'uno immigrato russo, attratto dalla cultura europea ma fortemente legato alla
tradizione ebraica; l'altro proveniente da una famiglia della borghesia francese, nazionalista, molto
vicino agli ambienti di estrema destra. Negli anni trenta la rottura fu inevitabile. Mentre Blanchot
proclamava la sua avversione al parlamentarismo e alla democrazia, Levinas avvertiva che a essere
in gioco con Hitler non era più una determinata forma politica, ma l'umanità stessa. A partire dal
1938 mutarono però le posizioni di Blanchot che intitolò Aminadab - il nome del fratello minore di
Levinas - il suo secondo romanzo uscito nel 1942; in seguito, dopo aver aderito nel 1968 al
«Comitato degli scrittori e degli intellettuali», scrisse due testi che hanno Auschwitz come sfondo:
L'intrattenimento
infinito
e
La
scrittura
del
disastro.
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Tra il 1928 e il 1929 Levinas si recò per due semestri a Friburgo, in Germania. «Sono venuto per
vedere Husserl e ho incontrato Heidegger» - avrebbe scritto dopo. La costellazione della filosofia di
quegli anni è complessa: la critica alla metafisica occidentale viene delineandosi sullo sfondo del
nazismo. Levinas sapeva di trovarsi imprevedibilmente al centro di eventi epocali. Non tentò di
sottrarsi. Al contrario. Con la sua tesi del 1930 La teoria dell'intuizione nella fenomenologia di
Husserl e con la traduzione francese delle Meditazioni cartesiane di Husserl introdusse in Francia la
fenomenologia in tempo reale. E altrettanto rapidamente intuì che lo sviluppo della fenomenologia
passava anche per l'analitica esistenziale di Essere e tempo. Ma il rapporto che lo avrebbe legato a
Husserl
e
a
Heidegger
sarebbe
stato
del
tutto
diverso.
La
condanna
della
filosofia
occidentale
Restò fedele al metodo fenomenologico scelto come stile di pensiero - anche le sue letture
talmudiche furono interpretazioni fenomenologiche; radicalizzò però sin dall'inizio la
«intenzionalità» di Husserl che, guardata con «diffidenza», indica che la coscienza è sempre
coscienza di qualcosa, che il suo movimento intenzionale è dunque eccentrico, perché la spinge
fuori
dal
suo
centro
senza
ritorno.
La eccentricità, filo conduttore della sua filosofia, venne precisandosi attraverso la critica a
Heidegger documentata nel bellissimo saggio del 1935 Dell'evasione. Qui evasione non significa
fuga o disimpegno; piuttosto è un modo ebraico per dire il nostro «essere gettati» nel mondo,
secondo il linguaggio di Heidegger. Così Levinas compie un ribaltamento che tocca la filosofia di
Heidegger nel suo centro nevralgico. L'essere costituisce per Heidegger il luogo del senso ultimo; al
contrario, per Levinas dall'essere occorre evadere, allontanarsi, liberarsi. L'esistenza umana è
descritta nel suo urto contro l'essere che assume qui i contorni di una potenza neutra, spaventosa e
anonima. La prigione dell'essere è per Levinas la prigione dell'identità: «l'essere è». Così è
cominciata la filosofia occidentale, che sembra non riuscire ad andare più in là di questa brutale
affermazione dove l'esistenza è un assoluto che non richiede nient'altro. L'evasione è allora il
bisogno di uscire da sé, «di spezzare l'incatenamento più radicale, più irremissibile, il fatto cioè che
l'io è se stesso». Ma la condanna della filosofia occidentale non si ferma qui. «Ogni civiltà che
accetta l'essere, la disperazione tragica che comporta e i crimini che giustifica merita il nome di
barbara». Nel 1936, ancora trentenne, Le vinas pubblicò un breve saggio dal titolo Alcune riflessioni
sulla filosofia dell'hitlerismo - tentativo riuscito, come sottolinea Giorgio Agamben, di indicare nel
nazismo la possibilità estrema della barbarie del tutto contigua alla filosofia del novecento. Il
nazismo non è un incidente, la follia di qualche anno. Piuttosto scaturisce da una ontologia dove
l'uomo è pronto ad accettare il proprio modo d'essere che rischia di trasformarsi in una trappola.
Anche perché di qui a considerare l'eredità biologica come un destino storico il passo è breve.
Negli anni fra le due guerre Levinas si stabilì a Parigi. Dopo aver ottenuto la cittadinanza francese,
nel 1932 sposò Raissa Lévi, una sua vecchia compagna di Kaunas, dalla quale ebbe due figli. A
partire dal 1931 cominciò a lavorare presso la Scuola normale israelitica. Pur restando ai margini
della vita universitaria, incontrò Jacques Lacan, Maurice Merleau-Ponty, Raymond Aron e
partecipò
al
circolo
filosofico
organizzato
da
Gabriel
Marcel.
La
logica
che
portò
a
Auschwitz
Nel 1940 fu richiamato come interprete nell'esercito francese ma, preso prigioniero, fu internato nel
campo militare tedesco di Fallingsbotel dove restò fino al 1945. A questi anni risale in gran parte
l'opera Dall'esistenza all'esistente, uscita nel 1947, che si apre con un'epigrafe provocatoria: dove
non è questione di angoscia - un modo per denunciare l'esistenzialismo di Heidegger, ma anche
quello di Sartre, astrattamente lontano dalla condizione di coloro che sono rinchiusi nei campi di
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internamento o, peggio, di sterminio. All'indomani della Shoah - in cui perse i genitori e i due
fratelli, assassinati in Lituania - Levinas andò precisando la sua accusa rivolta a tutta la filosofia
occidentale attraverso un lungo ed intenso lavoro sfociato nell'opera forse più significativa Totalità
e infinito, pubblicata nel 1961. C'è un tratto violento nella coscienza filosofica ed è la volontà di
appropriarsi di ciò che è altro da sé, di inglobarlo, assimilarlo, totalizzarlo. Incapace di uscire da sé,
la coscienza filosofica occidentale persegue l'ideale dell'autonomia, indicato da Kant, e giunge
infine a realizzare il sogno dell'autocoincidenza proclamato da Hegel. La coscienza filosofica è
conciliata con il mondo, prima ancora che con se stessa, perché è a casa ovunque, anche in ciò che
a prima vista sembrava lontano e alieno. In questo sistema chiuso si realizza la totalità di un sapere
assoluto che presume di sapere tutto e invece afferma solo se stesso esercitando una violenza
totalizzante e totalitaria sull'altro. Attraverso la contrapposizione tra il medesimo e l'altro per la
prima volta la filosofia occidentale viene accusata a chiare lettere di un totalitarismo ego-centrico
sempre vittorioso sulle differenze altrui. Auschwitz non è che la conclusione «logica» di questa
filosofia della totalità dove il sapere si è sempre identificato con il potere: quello del soggetto che ha
preteso di essere il legislatore dell'universo, di istituirne il senso, di sistemarlo chiudendolo intorno
a
sé
ed
annientando
l'altro.
Pensare dopo Auschwitz vuol dire per Levinas uscire dall'egocentrismo della filosofia. Per
l'esistenza umana la meta è non tanto quella di essere altrimenti, di delinearsi in modo diverso,
quanto semmai quella di oltrepassare l'essere, di andare al di là - Altrimenti che essere, secondo il
titolo di una delle opere più famose di Levinas pubblicata nel 1974. Il passaggio dall'essere in
direzione dell'altro segna anche il passaggio dall'ontologia all'etica che diventa qui filosofia prima.
Sarebbe una grave banalizzazione credere che il discorso di Levinas sia un sermone edificante
sull'altruismo.
Etica è il movimento continuo dell'io, il suo passo in fuori verso l'altro, compiuto prima ancora di
chiedersi: come devo comportarmi, che cosa devo fare? Senza questa uscita da sé, verso l'altro, l'io
non esisterebbe neppure. L'inversione del cammino seguito dalla filosofia è una eversione che segna
la rottura «nell'asse dell'essere». È qui che Levinas fa agire l'ebraismo all'interno della tradizione
occidentale.
Una
via
alternativa
nella
filosofia
Ulisse e Abramo diventano le figure paradigmatiche di due modi del tutto diversi, e perfino opposti,
di esistere. Smanioso di vivere, avido di tutto, di gustare, di sentire, di provare, di esperire, Ulisse
non mette mai davvero a repentaglio la propria sicurezza. Dopo i suoi viaggi in terra straniera fa
ritorno a Itaca, a casa, presso di sé, presso i suoi. Il suo non è stato un esilio, ma un allontanamento
da sé per far ritorno a sé, un movimento dal proprio verso l'estraneo, per ritornare al proprio.
L'odissea dell'eroe non è che questo movimento di riappropriazione che contraddistinguerà la
tradizione eurocentrica e risponderà all'economia del ritorno. Al contrario, nel cammino di Abramo
non c'è ritorno. «Lechà! Va!» - gli comanda Dio sin dall'inizio. Chiamato all'erranza nomadica
Abramo, svuotato di ciò che possiede, muove verso la terra che è solo promessa, terra messianica
della giustizia - luogo non- luogo, al di là di Itaca, sempre ancora al di là. Il cammino di Abramo dal
sé all'altro, senza ritorno, traccia per Levinas una via alternativa nella filosofia. È la via verso
l'infinito dell'altro, che è tale, che è infinitamente altro, perché oltrepassa sempre la sfera del sé.
L'idea dell'infinito mantiene l'esteriorità inappropriabile dell'altro. Con una mossa radicale Levinas
fa apparire il «volto» dell'altro al centro della scena filosofica. Nella sua unicità irriducibile il volto
dell'altro, impedendo ogni progetto totalizzante, spinge l'io oltre sé, lo sottopone a una eteronomia.
E la direzione verso l'altro è senza ritorno perché il faccia-a-faccia non è una relazione di
reciprocità, di riconoscimento, d'amore. Piuttosto è una relazione sempre asimmetrica. Il volto
dell'altro non è circoscrivibile, non è afferrabile; è l'irruzione del nuovo che ci sorprende, che è al di
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là, che è trascendenza. Rispetto al paganesimo, che è «l'impotenza di uscire dal mondo», il compito
dell'ebraismo sarebbe poca cosa se si limitasse ad insegnare ai popoli il monoteismo. Privo di radici
definitive, tormentato da una sorda inquietudine, l'ebreo vive nel mondo sempre anche fuori dal
mondo, guardando alle tracce della sua provvisorietà. Questo guardare è anche un salvaguardare
l'erranza che porta sempre oltre. Per Levinas diventa necessario per un verso attingere alle fonti
ebraiche per rileggere criticamente la filosofia occidentale; ma per altro verso appare indispensabile
anche «tradurre in greco» il Talmud, leggerlo filosoficamente. Sta probabilmente qui più che
altrove l'originalità del suo pensiero. Nella filosofia occidentale trovano allora cittadinanza nuovi
concetti
come
quelli
di
città-rifugio,
ospitalità,
rito,
profezia,
messianismo.
Nel 1946 Levinas fu chiamato a dirigere la Scuola normale israelitica di Parigi, incarico che lasciò
solo nel 1979. Il suo impegno nella ricostruzione dell'ebraismo in Francia e in Europa si fece più
intenso e consapevole. Occorre dire che Levinas ebbe un maestro d'eccezione: il misterioso
Mordechai Chouchani, talmudista e matematico, di cui ancora oggi si ignora pressoché tutto,
l'origine, il luogo di nascita e perfino il vero nome. Dotato di una memoria fuori del comune e di
competenze vastissime, Chouchani viveva quasi come un clochard vagabondando da Strasburgo a
New York a Gerusalemme per insegnare Bibbia e Talmud in cambio di vitto e alloggio.
Dalla
saggezza
millenaria
del
Talmud
«L'incontro con quest'uomo - affermò Levinas in un'intervista - mi ha ridato fiducia nei libri». Che
cosa gli insegnò Chouchani? Non lo riportò alle sue origini, perché Levinas aveva sempre
considerato l'ebraismo come una parte di sé. E non lo distolse neppure dalla filosofia, perché in
quegli anni si fece anzi più stretto il rapporto con il filosofo Jean Wahl che gli aprì le porte della
carriera accademica - nel 1964 fu chiamato come professore di filosofia all'università di Poitiers,
poi a quella di Paris-Nanterre e dal 1973 alla Sorbona. Chouchani gli insegnò che il Talmud è il
contributo ebraico alla cultura universale. E dunque dal Talmud, rimasto per secoli patrimonio
esclusivo delle sfere intellettuali e rabbiniche nell'Europa dell'est o nel Magreb, bisognava ripartire
per leggerne i trattati alla luce della filosofia e per interrogare quella saggezza millenaria muovendo
dalle questioni attuali. Opere come Quattro letture talmudiche o L'al di là del versetto testimoniano
l'impresa di Levinas che riuscì a seguire la doppia ispirazione della sua vita portando la filosofia nel
Talmud,
il
Talmud
nella
filosofia.
SCHEDA
CONVEGNI
FUTURI
Per
aggiornare
un
dibattito
inaugurato
da
Derrida
Emmanuel Levinas è stato il filosofo del Novecento che con più coerenza ha riconsiderato la
tradizione occidentale dal punto di vista ebraico. Ma resta ancora difficile una valutazione
complessiva della sua opera. A inaugurare il dibattito è stato nel 1964 Jacques Derrida con il saggio
Violenza e metafisica, più tardi compreso nella raccolta La scrittura e la differenza. Con una critica
serrata Derrida - che per il filosofo e germanista Stéphane Mosès è «il solo che, molto presto, ha
capito tutto» di lui - mette in dubbio l'idea di una alterità assoluta che rende impossibile un rapporto
con quello straniero che è il prossimo. Si discute ancora sul ruolo svolto da questa critica nello
sviluppo del pensiero di Levinas. Di certo, il merito di avere introdotto la sua filosofia nell'orizzonte
contemporaneo, soprattutto in America, spetta a Derrida. All'inizio degli anni settanta nel numero
del Magazine littéraire dedicato ai filosofi francesi contemporanei mancava ancora il nome di
Levinas. Solo nel 1980 uscì la raccolta Textes pour Emmanuel Levinas in cui comparivano fra
l'altro saggi di Blanchot, Derrida, Jabès, Lyotard, Peperzak, Ricoeur. Forse anche per la singolarità
della sua scrittura, il riconoscimento è arrivato tardi. Ed è stato problematico. Malgrado Derrida, si
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è affermata una lettura confessionale sostenuta dagli ambienti cattolici. Levinas è stato così
strappato alla fenomenologia, ma anche al mondo ebraico. Il centenario della nascita è l'occasione
per ridiscutere con una prospettiva più critica l'immagine stereotipata del filosofo dell'etica.
Numerosissime sono le iniziative prese soprattutto nel mondo della filosofia. Dal 16 al 20 gennaio
avrà luogo alla Hebrew University di Gerusalemme un congresso internazionale intitolato Un
secolo con Levinas. Le risonanze della sua filosofia. Un altro importante convegno avrà luogo a
maggio alla Facoltà di Filosofia della Sapienza di Roma.
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BEL COLPO
di Rossana Rossanda, (il manifesto, 12 gennaio 2006)
Una volta accertato dalla magistratura che non esiste reato, non si capisce perché infuri su pagine e
pagine la campagna sulla temperatura morale e politica dei Ds. Oppure si capisce troppo: la destra
tenta lo slogan «siamo tutti ugualmente sporchi», la coalizione di centrosinistra tenta di ridurre il
peso interno dei Ds. A costo di perdere fiducia e voti. Mi permetto infatti di non essere d'accordo
quasi su niente. A partire dalle intercettazioni, sulle quali non mi persuadono né Parlato, né Pirani,
né Rodotà. E non solo perché nessuno, neanche un politico, è tenuto a essere ascoltato 24 ore su 24
senza saperlo ed essere quindi inevitabilmente passato ai giornali, ma perché non è molto decente
una giustizia che si mette la cuffia all'orecchio per captare indizi che non ha. Se li ha, usi quelli, e se
mai il telefono con relativo avviso di garanzia. Chiamatela omertà, io la chiamo libertà minima.
Non capisco poi l'errore morale e politico. Un leader della sinistra non deve telefonare a nessuno,
previo informarsi se non è sotto inchiesta? Non deve interessarsi a nessuna operazione che avviene
sulla piazza economica? Nei primi giorni s'è detto addirittura che la politica deve stare alla larga
dall'economia. Ma davvero? E la Commissione europea di che si occupa, di storia e filosofia? Ha
deciso, e per di più senza consultare le popolazioni cui cambiava lo statuto dei rapporti, di demolire
il modello sociale europeo e di imporre, come soli parametri della comunità, la competitività e la
concorrenza, perché l'ineguaglianza è motore della crescita. Così sono state decise le regole di
Maastricht e il Patto di stabilita (e ci si meraviglia se dalla gente arriva un sonoro No ai trattati). Il
governo e il parlamento erogano soldi alle imprese e decidono di fragilizzare il lavoro, spendere
meno in scuola, previdenza e sanità, esigendo e imponendo i fondi pensione come cassa per le
imprese. La politica è inseparabile dall'economia.
Ma, si dice, questa è economia, quelli sono affari. Quali? Se si tratta di malversazioni, si ricorre al
codice penale. Se no, non si dica che non è lecito a un politico o un gruppo politico di fare affari. Io
preferirei di no, ma fino ad oggi è sì, si permette a qualsiasi soggetto, purché dichiarato, salvo che ci
sia conflitto di interessi, perché alla Lega delle cooperative no? Ma, obiettano Scalfari e Ruffolo, la
sinistra non è la stessa cosa. Se sembra occuparsi di finanza, la sua gente entra in allarme e sospetto.
Certo non si può dire che Repubblica la rassicuri. Anzi ne accresce i timori che il solo
interessarsene la farebbe mancare alla sua fisionomia, perdere l'anima.
Qui ti voglio: alla sinistra è stato chiesto, pena l'accusa di arcaismo e irrealismo, di dismettere la sua
idea non dico di rivoluzione ma perfino riformista (la parola ha cambiato segno), di stare a un
sistema di rapporti di mercato basato sul profitto, sulla riduzione dei salari, sul trasferimento
incontrollato dei capitali, sull'erogazione a pioggia di denaro pubblico alle imprese, sulla tassazione
derisoria dei capital gains, sulle privatizzazioni, sulla speculazione edilizia - (salvo che ci si metta
gentucola come Ricucci) - e non ha sofferto molto ad adeguarvisi. Sono tutte misure che implicano
un passaggio o una redistribuzione di risorse ingenti, che arricchiscono gli uni e penalizzano gli
altri, quelli che a rigor di logica sarebbero la sua base? Tutto questo non fa problema né politico né
morale, mentre lo fa che Fassino abbia telefonato a Consorte, per sapere quello che, evidentemente,
non sapeva?
Non capisco perché chi ha fatto di tutto perché diventassimo «un paese normale», e si facesse
normale soprattutto l'ex Pci, cosa di cui D'Alema si è convinto, non ammette che le Coop che del
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Pci non sono mai state ma gli erano vicine, si comportino da soggetto economico normale, e magari
possano fa rsi una banca. Amato osservava che devono averne i mezzi e non stornarli da altri loro
compiti. Giusto. Ma se così fosse, perché non potrebbe esistere una banca di proprietà condivisa,
come i loro supermercati, cosa che con l'alternativa al capitalismo non c'entra affatto? Parlato pensa
che una finanza «rossa» non debba esistere, e così anche io. Ma lui ed io siamo due vecchi
comunisti, mentre i diesse non lo sono affatto, si vogliono clintoniani, e lo scandalizzato Ulivo
sostiene ardentemente la proprietà, finanziaria inclusa. Oppure la ex sinistra deve stare nello stesso
universo ma non competere? Se no perde l'anima? Gliene è stata chiesta una larghissima parte. L'ha
data. Sta al gioco. Fino a prova contraria non bara. A che mira dunque questo starnazzare? A non
disturbare qualche manovratore? A favorire la Margherita nella coalizione? A rischio di far
rivincere Berlusconi? Bel colpo.
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