La Guerra del Peloponneso
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La guerra del Peloponneso e la strategia di Pericle
"Tucidide descrisse la guerra tra Ateniesi e Peloponneso come combatterono tra di loro,
cominciando subito al suo sorgere e immaginandosi che sarebbe stata grande e la più importante
di tutte quelle avvenute fino allora. Lo immaginava deducendolo dal fatto che le due parti si
scontrarono quando entrambe erano al culmine di tutti i loro mezzi militali e vedendo che il resto
della Grecia si univa all'uno o all'altro dei contendenti, gli uni subito, e gli altri ne avevano
l'intenzione" (Tucidide, I,1). L’importanza della guerra dichiarata dagli Spartani e dai loro alleati
peloponnesiaci ad Atene (e perciò detta guerra del Peloponneso) deriva anzitutto dalla sua lunghezza
e dal suo esito decisivo e tragico. Pur intervallata da un breve periodo di pace, essa fu in realtà un
susseguirsi di conflitti feroci e di battaglie dall'esito alterno che si svolsero su un campo estremamente
vasto per l'epoca, che andava dalla Sicilia al Bosforo, dalla Ionia alla Tracia. In gioco non era soltanto
la supremazia di una città sull'altra; lo scontro riguardava anche il conflitto tra due opposte forme di
governo (l'oligarchia spartana e la democrazia ateniese), ossìa tra due sistemi politici antagonisti.
La guerra tra Sparta e Atene si colorò dunque di risvolti sociali e ideologici e fu combattuta anche
all'interno delle varie poleis tra fazioni opposte. Si trattava, per Sparta, di impedire che Atene
acquisisse il controllo su tutta la Grecia; Sparta si proclamava partigiana dell'autonomia delle
singole città, mentre Atene, in caso di vittoria, avrebbe portato a compimento un modello storico
nuovo: il passaggio dalla città-stato allo stato territoriale, che avrebbe riunito sotto un unico potere
tutte le poleis greche. Durò ventisette anni, dal 431 al 404 a.C, e si concluse con la disfatta totale di
Atene e la distruzione del suo impero. Il suo esito fu in qualche modo inatteso: Pericle, che indusse
consapevolmente gli Spartani alla guerra, l'aveva infatti intrapresa con una strategia geniale che, se
rispettata, avrebbe quanto meno reso impossibile il prevalere degli avversari. "Disse infatti che gli
Ateniesi avrebbero vinto se fossero rimasti tranquilli, si fossero curati della flotta, non avessero ampliato il
loro impero nel corso della guerra, e non avessero fatto correr pericoli alla città" (Tucidide, II, 65). Il
completamento delle Lunghe mura, voluto dallo stesso Pericle, aveva nei fatti reso Atene e il porto del
Pireo simili a un'isola, autosufficiente e imprendibile finché la città avesse mantenuto il dominio dei
mari, nonostante tutte le devastazioni che i nemici avrebbero potuto apportare nell'Attica. "Se verranno con
un esercito di terra contro il nostro paese, noi andremo con la flotta contro il loro, e il saccheggiare una
parte del Peloponneso non sarà più equivalente al saccheggiare tutta l’Attica, perché loro non potranno
prendere in sostituzione della loro un'altra terra senza combattere, mentre noi abbiamo molta terra nelle isole
e nel continente. (Tucidide, I, 143).
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Le "cause dichiarate" e il "motivo più vero"
Agli occhi dei contemporanei, la grande guerra fu scatenata a seguito dell'accensione di tre focolai
di crisi in tre luoghi "sensibili" del mondo greco, che chiamavano strettamente in causa i difficili
rapporti da sempre esistenti non tanto tra Sparta e Atene, quanto tra Atene e un'importante alleata di
Sparta, Corinto. La prima causa del contendere fu l'isola di Corcira (odierna Corfù), antica colonia
corinzia dello Ionio, entrata in guerra con la madrepatria per il controllo dell'antistante città di
Epidamno (odierna Durazzo), dove era scoppiata una guerra civile. Preoccupati per l'avanzata di
una flotta corinzia, i Corciresi chiesero agli Ateniesi di poter entrare nella loro alleanza. Così le
navi ateniesi combatterono in difesa di Corcira contro le navi corinzie (433 a.C.); la grande isola si
trova lungo la rotta che, nel Mar Ionio, conduceva in Magna Grecia e in Sicilia, e questa posizione
strategica spiega quale fosse la posta in gioco tra le due grandi rivali: l'espansione
nell'Occidente del Mediterraneo.
Anche Potidea, nella penisola Calcidica, era stata una fondazione corinzia, mentre al momento
faceva parte della lega delio-attica. Quando scoppiò la crisi a Corcira, gli Ateniesi, sospettando
della fedeltà dell'alleata, imposero alla città di spezzare ogni residuo legame con la madrepatria e di
consegnare ostaggi, rinviando inoltre in patria i magistrati che Corinto ancora vi inviava
annualmente. La città si ribellò, contando anche sull'appoggio del re di Macedonia, Perdicca, e ricevendo poi rinforzi di truppe provenienti da Corinto. Anche gli Ateniesi inviarono un loro
contingente, riprendendo il controllo della regione circostante e ponendo sotto assedio i ribelli (432
a.C.).
Fu a quel punto che Pericle decise di forzare ulteriormente la situazione, prendendo a pretesto
incidenti di frontiera per imporre un blocco commerciale ed economico contro la città dorica di
Megara, sull'istmo di Corinto.
Per tutte queste cose gli Spartani, riuniti a consiglio assieme agli alleati della lega peloponnesiaca,
pur tra molte incertezze, accettarono di scatenare la guerra contro Atene (431 a.C). A quel punto "i
Lacedemoni decretarono che il patto era stato rotto (il riferimento è alla pace "trentennale" con Atene
del 445 a.C.) e che la guerra era da farsi, non tanto perché erano persuasi dalle parole degli alleati,
quanto perché temevano che la potenza ateniese crescesse, vedendo che la maggior parte della Grecia era
ormai sottomessa (Tucidide, I, 88). Così Tucidide, nonostante la guerra fosse stata formalmente dichiarata dai Peloponnesi, ne individua il "motivo più vero" nel crescere della potenza ateniese e
nella paura che essa incuteva agli avversari.
I FASE: LA GUERRA ARCHIDAMICA (431-421 a.C.)
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GLI INIZI DELLA GUERRA E LA PESTE
Gli spartani e i loro alleati, che disponevano di un fortissimo esercito di terra, invasero l'Attica e la
devastarono; la popolazione dei campi fu allora evacuata dentro le mura di Atene, in difficilissime
condizioni di vita.
Il piano voluto da Pericle era di evitare a ogni costo una battaglia campale e di sfruttare il dominio del
mare, assicurato dalla flotta ateniese, per l'approvvigionamento della città e per incursioni contro il
territorio nemico, sino a logorare le forze dell'avversario; in effetti, la ricchezza di Atene non
dipendeva dalla sua campagna, che era povera e arida, ma dal mare, mentre per gli spartani, che
erano più deboli economicamente, il mantenimento della guerra sarebbe risultato a lungo andare
insostenibile.
Forse il piano di Pericle avrebbe potuto avere successo, ma dopo il primo anno di guerra, nel 430
a.C, scoppiò un'epidemia tra la popolazione che viveva in condizioni igieniche precarie, in una città
sovrappopolata dai profughi: «Mai a memoria d'uomo - scrive Tucidide - si ricordava un simile
flagello e una cosi grande strage di uomini. I medici non erano in grado di combatterla... e quante
suppliche nei templi, oracoli, preghiere: tutto fu inutile».
Moltissimi ateniesi morirono, e tra loro lo stesso Pericle (429 a.C). La sua scomparsa rappresentò
una grave perdita perché venne a mancare quella figura che per tanti anni aveva indirizzato con
successo la politica ateniese.
Dopo di lui, la guida del partito democratico fu presa da Cleone, fautore di una politica di guerra; egli
fu molto criticato dalle fonti dell'epoca per il suo atteggiamento spregiudicato, che faceva leva sugli
interessi più immediati del demos, ma non possedeva la lungimiranza e l'equilibrio della politica di
Pericle.
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LA PACE DI NICIA
Negli anni successivi, le operazioni militari si prolungarono senza grandi eventi: ogni estate l'esercito
spartano saccheggiava la campagna attica e poi si ritirava, mentre Atene conservava il dominio dei
mari.
Nel 425 a.C. gli ateniesi, sotto il diretto comando di Cleone, ottennero un importante successo:
riuscirono, infatti, a occupare Sfacteria, un'isola antistante la costa del Peloponneso, e a catturare il
contingente spartano che la presidiava: fu una vittoria che scosse notevolmente il prestigio di Sparta.
La città reagì mandando il suo migliore generale, Brasida, contro le colonie ateniesi della Grecia
settentrionale e in particolare modo contro la città di Anfipoli; egli riuscì a impadronirsene, ma nel
422 a.C. cadde contro l'esercito ateniese nella stessa battaglia in cui morì anche Cleone.
Eliminati i più accaniti sostenitori della guerra, si fece strada dalle due parti un atteggiamento più
conciliante: ad Atene, Nicia, capo del partito moderato, indusse l'ekklesia ad accettare finalmente la
pace, stipulata nel 421 a.C., dopo dieci anni di guerra.
II FASE: LA SPEDIZIONE IN SICILIA (415-413 a.C.)
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UNA "TREGUA ARMATA": L'OFFENSIVA CONTRO MELO
La pace fu in realtà una tregua armata, durante la quale le due città non rinunciarono ad affilare le
armi.
In Atene si riaccese dunque ben presto la febbre di guerra, eccitata dal partito democratico radicale:
vi fu cosi una serie di provocazioni contro Sparta. L'episodio più significativo fu la spedizione contro la
piccola isola di Melo che, benché fosse una colonia spartana, era rimasta neutrale nel corso del
conflitto. Gli ateniesi volevano che essa si schierasse dalla loro parte; quando i melii si rifiutarono e
si opposero con fermezza all'ultimatum ateniese, gli ateniesi espugnarono l'isola e massacrarono i
suoi abitanti oppure li fecero schiavi (415 a.C.).
Questo episodio brutale, che suscitò lo sdegno di tutta la Grecia, fu un segno del mutato clima
politico e culturale: la legge del più forte si avviava infatti a diventare, secondo le teorie dei sofisti,
l'unica norma di comportamento vigente nell'ambito delle contese internazionali, in spregio a
qualsiasi altra norma morale.
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ALCIBIADE E LA SPEDIZIONE IN SICILIA
Bloccate le ambizioni espansionistiche verso Sparta e la Persia, l'unica possibilità per Atene
rimaneva l'Occidente. Sostenitore di questa rinnovata fiammata d'imperialismo fu l'astro nascente
della politica ateniese, Alcibiade, un giovane parente di Pericle che divenne in quegli anni l'uomo
più autorevole del partito democratico.
Per certi aspetti Alcibiade fu un tipico prodotto della nuova generazione: sensibile all'influsso
culturale dei sofisti, intelligente, colto, energico, ma individualista e spregiudicato, portato a seguire
una politica di potere personale più che di interesse comune.
Nel 416 a.C. egli convinse l’ekklesia ad accogliere la richiesta di soccorso che era stata rivolta ad
Atene da Segesta, una città siciliana alleata ateniese e in lotta contro Siracusa (alleata di Sparta).
Gli ateniesi si lasciarono sedurre dalla prospettiva di trarre vantaggio dai conflitti tra le città
siciliane: Atene avrebbe cosi messo le mani sulle regioni più ricche di tutto il mondo greco e
avrebbe avuto le risorse necessarie per sconfiggere definitivamente Sparta.
Malgrado l'opposizione di Nicia e dei moderati, nel 415 a.C. fu dunque decisa la spedizione: da
Atene salparono 130 navi con 7000 soldati e migliaia di marinai, al comando di Nicia (che accettò
la nomina controvoglia), Alcibiade e Lamaco.
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LA DISFATTA ATENIESE
In Sicilia le operazioni militari si dimostrarono assai più difficili del previsto: Siracusa era una città
potente e ben difesa, determinata a resistere a ogni costo; inoltre, un episodio imprevisto tolse agli
ateniesi Alcibiade, il loro migliore generale. Infatti, pochi giorni prima della partenza molte
immagini sacre al dio Ermes, le cosiddette "erme", che sorgevano in ogni strada di Atene, furono
trovate mutilate; lo scandalo fu grande e tra la gente si diffuse la superstiziosa angoscia che questo
sacrilegio avrebbe attirato sulla città l'ira degli dèi.
Per di più, in un regime cosi sensibile alla fobia della congiura e che temeva sopra ogni altra cosa
gli intrighi degli oligarchi, l'evento apparve come la prova evidente di occulte trame
antidemocratiche.
Gli avversari politici di Alcibiade sfruttarono questa confusione e lo accusarono di essere stato tra
gli autori del sacrilegio; l'accusa trovò un certo credito e Alcibiade fu convocato dalla Sicilia a
discolparsi davanti al tribunale. Temendo di essere condannato, egli preferì disertare e si rifugiò
presso gli spartani.
Nel frattempo, l'assedio della città di Siracusa procedeva con lentezza sotto la guida cauta di Nicia
fino a quando, nel 414 a.C., gli ateniesi riuscirono a bloccare la città siciliana sia per terra sia per
mare. Sembrava ormai che la sorte di Siracusa fosse segnata ed erano anzi in corso le trattative per
la resa, quando un contingente spartano riuscì a penetrare in città e a rianimare la resistenza.
Una spedizione di soccorso ateniese non riuscì a modificare la situazione: anzi, i siracusani
passarono al contrattacco imbottigliando la flotta ateniese in un luogo dal quale era praticamente
impossibile prendere il largo.
A questo punto gli ateniesi, ormai esausti e a corto di viveri, tentarono di ritirarsi nella notte per via
di terra, abbandonando l'accampamento e i feriti. La ritirata fu disastrosa: a pochi chilometri da
Siracusa furono raggiunti e circondati dai nemici e costretti a gettare le armi (413 a.C.). Nicia
venne subito ucciso, gli altri furono imprigionati nelle cave di pietra siracusane, le Latomie, dove
furono trattati con grande durezza.
III FASE: LA GUERRA DECELEICA (413-404 a.C.)
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ATENE ASSEDIATA
La disfatta in Sicilia incoraggiò gli spartani a riprendere la guerra in vista di una vittoria che
sembrava ormai vicina. Su parere di Alcibiade, che conosceva bene i punti deboli di Atene e perciò
era diventato il consigliere militare degli spartani, questi fortificarono una località dell'Attica,
Decelea (413 a.C.), dove mantennero un presidio fisso: cosi Atene era tenuta ormai costantemente
sotto assedio. La fortificazione di Decelea fu un danno enorme per Atene: assai più delle invasioni
periodiche della prima fase della guerra, l'occupazione stabile da parte di Sparta privava Atene di ogni
risorsa proveniente dall'agricoltura, rendeva difficili le comunicazioni con l'Eubea e l'arrivo di
rifornimenti, aveva provocato la fuga di 23.000 schiavi e un aumento delle spese di guerra.
Cominciarono a manifestarsi segni di crisi del sistema: si stabilì di risparmiare nell'amministrazione
dello stato e di nominare una magistratura di anziani, i probuli, evidentemente destinati ad assumersi
alcune competenze della Boulé.
La disfatta di Sicilia determinò inoltre una grave crisi nell'impero: numerose città della Lega presero
contatto con Sparta per preparare la ribellione. Gli Spartani compresero che le rivolte andavano
sostenute e che Atene andava colpita nell'impero: a questa politica essi erano incoraggiati anche dal
satrapo persiano Tissaferne, che offriva loro finanziamenti per la guerra contro Atene. Poiché il
problema finanziario era molto pesante anche per gli Spartani, tanto più che si trattava di impegnarsi
costantemente nella Ionia ciò comportò l'inserimento nella guerra della Persia, non come forza
militare, ma diplomatica e finanziaria. Tra il 413/12 e il 411/10 le trattative fra Sparta e il re di
Persia, Dario II, portarono alla stesura di tre trattati successivi, accomunati dal riconoscimento dei
diritti della Persia sui Greci d'Asia. Sparta rinunciava così alla liberazione dei Greci, in nome della
quale era entrata in guerra: una decisione che ne metteva in discussione l'egemonia morale e che alcuni
esponenti della classe dirigente spartana accolsero malvolentieri.
In questa situazione disperata, gli ateniesi trovarono però la forza di reagire: il demos comprendeva
bene che la fine dell'impero ateniese sarebbe stata anche la fine del regime democratico e che, senza
i tributi degli alleati, il livello di vita delle masse popolari sarebbe stato gravemente compromesso.
Fu perciò la massa del popolo a volere a ogni costo la prosecuzione della guerra, mentre gli aristocratici avrebbero preferito un accordo con Sparta. Atene riuscì ad allestire una nuova flotta (per
equipaggiare la quale furono arruolati anche molti schiavi liberati) e a prolungare la resistenza.
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LA FINE DELLA GUERRA
Gli ultimi anni di guerra videro un confuso susseguirsi di eventi: nel 411 a.C. i conservatori presero
il potere ad Atene grazie a un colpo di stato e abolirono la costituzione democratica; il governo fu
affidato a un consiglio di quattrocento cittadini scelti (i "Quattrocento"), che aveva pieni poteri e
che decise un'immediata pace con Sparta. Tuttavia la democrazia fu presto restaurata grazie anche
all'intervento di Alcibiade, che nel frattempo si era rappacificato con il popolo ateniese. La guerra
con Sparta, sostenuta dall'oro persiano, era però sempre più difficile; ora gli spartani potevano
rivaleggiare con gli ateniesi anche sul mare e fu proprio sul mare che la guerra si decise.
Dapprima gli ateniesi sconfissero la flotta spartana in una battaglia navale presso le isole Arginuse
(406 a.C.), ma in seguito, per l'imprudenza degli ammiragli, la flotta ateniese fu intera mente
distrutta a Egospotami (405 a.C.). Il comandante spartano Lisandro bloccò Atene sia per terra sia
per mare e la città fu costretta a chiedere la resa (404 a.C.). I tebani e i corinzi, da sempre nemici
implacabili di Atene, ne avrebbero voluto la distruzione, ma gli spartani non vollero consentire alla
rovina della più splendida delle città greche, di cui ancora si ricordavano i meriti patriottici al tempo
delle guerre persiane.
Le condizioni di pace furono dure: Atene avrebbe dovuto abbattere le mura che collegavano la città
al Pireo, rinunciare alla flotta e all'impero, abolire la costituzione democratica ed entrare come stato
satellite nella Lega del Peloponneso. I patti furono giurati e Lisandro entrò da vincitore nel porto del
Pireo: la guerra era finita e con essa la grandezza di Atene.