Fondamento e linguaggio in Emanuele Severino 1. Immediatezza

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MARCO RISADELLI
Fondamento e linguaggio in Emanuele Severino
1. Immediatezza, identità, indeterminatezza
Secondo Severino, «La struttura originaria è l’essenza del fondamento»1
del sapere in quanto tale. Il fondamento è ciò che non può essere dimostrato, la qual cosa non implica la sua infondatezza ed arbitrarietà, bensì l’immediatezza. Propriamente, è impossibile una sua dimostrazione mediante altro, mentre è possibile, anzi necessario, mostrarne l’immediata evidenza. Il
fondamento, essendo il principio a cui si adegua tutto ciò che appare, non
concede che si dica qualcosa contro di esso, né al di fuori di esso. Data
questa impossibilità, tutte le espressioni che negano la struttura originaria
non sono altro che tentativi destinati al fallimento ed è compito dell’elenchos
confermare volta per volta, cioè contro ogni negazione che si fa innanzi al
pensiero2, questo assioma generale, mostrando come le negazioni del fondamento siano in realtà ammissione di quest’ultimo. La mera enunciazione
dell’insuperabilità del principio non è quindi sufficiente perché quest’ultimo appaia nella sua incontrovertibilità.
Tale è la definizione formale del sapere che caratterizza l’intero discorso
severiniano3, definizione da intendere nella concreta unità con il suo contenuto, poiché il fondamento non è semplice condizione di possibilità che attende dall’esterno (scienza, fede, prassi) il proprio oggetto. Il cosiddetto
contenuto del sapere originario è chiamato, secondo una terminologia utilizzata ne La struttura originaria ma abbandonata negli scritti successivi, «metafisica originaria»4. Anch’essa va considerata concretamente, cioè senza che la
si astragga dal suo nesso necessario con la forma della struttura. Metodo ed
E. SEVERINO, La struttura originaria, Adelphi, Milano 19812, p. 107.
Ivi, p. 269: «In generale: se un discorso aporetico mostra la necessità della negazione
dell’immediato o di un aspetto di questo, non è sufficiente togliere l’aporia adducendo
come motivo del toglimento il fatto stesso che essa è negazione dell’immediato, ma si deve
mostrare in che modo tale negazione dell’immediato non sussista come necessaria, e cioè si
deve mostrare il vizio logico che la fa apparire come necessaria».
3 Come si vedrà nell’ultima parte dell’articolo, fondato non è in realtà l’intero discorso di Severino, ma una sua parte, anche se quella più importante.
4 In E. SEVERINO, Ritornare a Parmenide, in ID., Essenza del nichilismo, Adelphi, Milano 19822,
il termine «metafisica» assume l’accezione negativa di «scienza che vorrebbe dimostrare l’immediato».
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Bollettino Filosofico 26 (2010): 308-324
ISBN 978-88-548-4673-9
ISSN 1593-7178-00026
DOI 10.4399/978885484673922
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oggetto5, pur essendo distinguibili, non sono perciò separabili, pena l’ammissione di una deficienza nell’Assoluto, dovuta alla possibilità di indicare
anche un singolo momento in cui la verità non sia conosciuta – non appaia –,
ed il sapere sia ancora solo un progetto6.
La struttura originaria si compone di due immediatezze, una fenomenologica e una logica, denominate F-immediatezza e L-immediatezza. La prima, riguardante l’apparire di tutto ciò che è e nel modo in cui è – non si
fonda su ragioni ad essa estranee soltanto se il manifestarsi dell’essere viene
accolto in quanto tale. Una volta accettata l’equazione propria dell’episteme7
classica tra verità ed incontrovertibilità, tutto ciò che va oltre l’apparire è
problematico o contraddittorio8. Nel problematico vi è sempre un’aporia in
cui l’affermazione e la negazione di un contenuto si presentano entrambe
possibili; nel contraddittorio si ha, invece, la mera enunciazione come vero
di qualcosa d’impossibile. Pur nella loro diversità, il falso e il problematico
sono entrambi non veri e perciò inaccettabili per l’impianto fenomenologico
severiniano, il quale tenta di essere il più possibile privo di ogni presupposizione di stampo naturalistico.
Il puro apparire è l’«io», la «coscienza», il «pensiero», ma tutti questi termini sono profondamente fuorvianti, perché rimandano sempre all’uomo inteso aproblematicamente come individuo che ha un io o coscienza, che pensa, e tutto questo fa in maniera libera. Ora, per Severino l’apparire va inteso
senza alcuna mediazione, poiché «Ciò che si manifesta è l’essere, e non la sua
immagine soggettiva e “fenomenica”, che rinvii alle cose come sono in se
stesse»9. È all’interno dell’apparire così puramente inteso che si dà qualcosa
5 Ne La struttura originaria, come già si può notare da queste poche righe, la presenza di
Hegel è imponente, per quanto lo stesso filosofo tedesco, secondo l’interpretazione severiniana della filosofia occidentale, sia comunque in errore. In particolare ritornano i concetti di «astratto» e «concreto». Sulla relazione tra la dialettica in Hegel e in Severino, ed
in particolare sul ruolo della contraddizione, cf. F. BERTO, La dialettica della struttura originaria, pref. di E. Severino, Il Poligrafo, Padova 2003.
6 E. SEVERINO, La struttura originaria, cit., p. 109: «Il sapere metafisico non è, rispetto al
fondamento, un’ulteriorità da conseguire, ma appartiene all’essenza stessa del fondamento. […] qualcosa come “punto di partenza” sussiste certamente, ma come momento astratto
della struttura originaria; sì che il viaggio è originariamente compiuto».
7 Negli scritti severiniani un’evoluzione analoga a quella che attraversa l’uso del termine «metafisica» si ritrova in riferimento ad «episteme». Infatti, mentre nei primi tre saggi
raccolti in Essenza del nichilismo indica la stabilità della struttura originaria, nelle opere successive Severino lo utilizza esclusivamente per nominare quella forma storica dell’alienazione della verità che pone gli immutabili come principio del divenire. Cf. ID., Ritornare a
Parmenide, in ID., Essenza del nichilismo, Adelphi, Milano 19822, p. 45, nota 6.
8 Si tenga presente che qualcosa può non apparire solo nel senso che non appare nella
sua concretezza o totalità, altrimenti non se ne potrebbe neanche parlare.
9 E. SEVERINO, Ritornare a Parmenide, cit., p. 26. Per Severino, il quale riconosce il suo
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come l’individuo umano dotato di facoltà pensante e di linguaggio. Ma l’uomo, concepito al di fuori della F-immediatezza è qualcosa che appare spontaneamente oppure è il contenuto di un’interpretazione? Severino tende per
l’idea che l’ente che di solito viene chiamato «uomo» – e ciò vale per quasi
ogni altro ente – non sia un dato fenomenico, bensì qualcosa che è oggetto
d’interpretazione e quindi non incontrovertibile, e quindi non vero.
La F-immediatezza si condensa nella proposizione immediata10 «l’essere
è». Questa proposizione parmenidea tuttavia, se considerata isolatamente,
non può essere vera, poiché sicuramente appare, viene alla presenza, ma ne
rimane nascosta l’incontrovertibilità. Per rilevare l’impossibilità della proposizione «il non essere è», o «l’essere non è», occorre far capo alla L-immediatezza, che ne mostra l’immediata impossibilità logica, e in questo senso
anch’essa ha valore fenomenologico, così come lo ha nella misura in cui essa
stessa è apparente. Suddetta immediatezza è l’unità concreta di non contraddittorietà ed identità dell’essere, laddove l’aggettivo «concreto» indica l’immediatezza dei cosiddetti principi aristotelici e la non priorità di uno dei due
rispetto all’altro. Se l’essere non fosse se stesso, non riuscirebbe a non essere
il suo opposto (sia esso inteso come contrario o come semplice contraddittorio) e, viceversa, se il non essere non apparisse immediatamente come significato che nega l’essere, quest’ultimo non sarebbe mai identico a sé.
Ora, sorgono due problemi rispetto alla molteplicità, strettamente connessi con il tema del linguaggio: il primo riguarda l’essere struttura del fondamento e la sua esposizione, il secondo la dicibilità dei singoli enti. La struttura originaria è una complessità semantica in contraddizione con il fatto che
«[…] il discorso non verte […] su di un segmento, ma su di un punto logico»11. Per
di più questo passo afferma l’esatto contrario di un altro più tardo, che recita: «[…] in quanto struttura, la Necessità non è punto semantico, ma relazione di ambiti semantici»12. Severino affronta questo problema nel primo capitolo de La struttura originaria. Se ente è tutto ciò che ha, o meglio, è un significato13, e dunque la domanda sul significato del significato può apparire solo
debito nei confronti della fenomenologia husserliana, anche quest’ultima si troverebbe pienamente in errore, perché non riconosce l’immutabilità dell’essere e, volendo guardare
solo ciò che appare senza alcun presupposto psicologista, scorge nel divenire, più o meno
consapevolmente, il passaggio delle cose dal nulla all’essere e viceversa.
10 E. SEVERINO, La terra e l’essenza dell’uomo, in ID., Essenza del nichilismo, cit., p. 237.
«L’affermare che questa lampada è accesa è lo stesso apparire del suo essere accesa. L’apparire dell’essere è il dire originario; e l’originariamente detto non forma una zona intermedia […] tra il dire e l’essere che appare».
11 E. SEVERINO, Avvertenza, in ID., La struttura originaria, cit., p. 105.
12 E. SEVERINO, Introduzione, in ID., La struttura originaria, cit., p. 16.
13 Cf. C. SCILIRONI, “Necessità del significato e destino del linguaggio in E. Severino”,
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all’interno della struttura dell’originario, allora non si dà l’insignificante in
quanto tale. Ma perché ciò resti sempre affermato, cioè non solo quando intenzionalmente ci s’impegna nella prassi filosofica, è necessario distinguere la
sempre presente manifestazione dell’originario dalla sua comunicazione. A
tal proposito Severino afferma che il giudizio originario, «Tutto ciò che, nel
modo in cui gli conviene, è immediatamente noto, è l’immediato»14, si differenzia dalla discorsività o comunicazione verbale. Questa, detta anche ordine
discorsivo in opposizione all’ordine logico, non può che essere diacronica e
svilupparsi come una serie. Ma l’ordine logico è la stessa automanifestazione
del giudizio originario che non può demandare ad altri, ad esempio ad un
Dio che rivela, il proprio apparire. Ciò che scade dalla sua unità e solidità
non è, dunque, né l’essere in quanto tale, né la sua presenza, bensì la linguisticità che non riesce mai a rendere (ad esprimere) appieno tutto ciò che appare veritativamente.
Questa discrasia tra sinteticità del pensiero e analiticità del linguaggio
mette in crisi la metafisica originaria severiniana, anche perché da essa è
escluso qualsiasi dualismo ontologico. Tuttavia Severino depotenzia la problematicità della discorsività, senza mai scadere in argomentazioni apofatiche, grazie alla distinzione tra il concetto concreto dell’astratto ed il concetto astratto dell’astratto. Se l’esposizione è analisi, e se la meta, ma anche l’inizio, è la sintesi come verità che nulla lascia fuori di sé, ogni proposizione non è che un’astrazione rispetto al Tutto cui tende. Ma l’astratto
può essere considerato astrattamente, e dunque in modo non veritativo, in
modo da contrapporre analisi e sintesi dell’originario, oppure concretamente, avendo cioè sempre in vista l’unità della struttura, secondo la quale
i suoi momenti non sono elementi differenti, ma «un’unità che si distingue
in sé»15. Il concetto concreto dell’astratto è tale perché sa di essere astratto
e perciò tiene presente l’eccedenza semantica del concreto simpliciter, che
lo informa e oltrepassa includendolo.
La stessa distinzione ritorna a riguardo del secondo problema, la dicibilità del molteplice. Quest’ultimo è un contenuto fenomenologicamente
innegabile, ossia appaiono una serie di significati diversi dall’essere formale, e la F-immediatezza consiste appunto nell’imprescindibilità dei nessi
che vengono alla presenza. Esattamente su questo punto Severino ritiene di
dover distinguere la verità dell’essere dal parmenidismo storico, richiaSapienza, 37 (1984), pp. 415-432, in cui l’autore ripercorre con estrema precisione il senso della «necessaria e naturale significanza» in opposizione alla convenzione linguaggio.
Ovviamente per «naturale» bisogna qui intendere «immediato».
14 E. SEVERINO, La struttura originaria, cit., p. 114.
15 Ivi, p. 116.
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mando quell’«unico approfondimento del senso dell’essere compiuto dalla
metafisica dopo Parmenide» che è il cosiddetto parricidio platonico16. L’essere, immutabile ed eterno, non si deve affermare solo del puro essere formale, ma di ogni singola cosa, perché ritenere come l’Eleate che le differenze siano solo un mero inganno implica il pensare ad una zona dell’essere che non sia. La contraddizione tra essere e determinazione singola,
che come tale non è l’essere, è superata grazie alla scoperta platonica dell’eteron, che permette di andare oltre lo stallo del parmenidismo.
Conseguenza del rilevamento dell’inadeguatezza di quest’ultimo è dunque l’ammissione della predicazione, nella misura in cui a manifestarsi non
sono soltanto le relazioni tra significati, come nel caso delle due immediatezze, ma anche immediate complessità semantiche. Ad esempio, un tavolo
(che è) rosso è un insieme tale per cui l’esistenza del «tavolo» e quella del
«rosso» potrebbero darsi separatamente solo per una teoria della predicazione alienata, che ha in Aristotele (De interpretatione) il proprio modello.
La nuova forma predicazionale, per quanto possa avere il carattere dell’espediente, si fonda invece sull’impossibilità di pensare un momento in
cui qualcosa di determinato, il tavolo rosso, non sia ciò che è. E non vale
sostenere che comunque il tavolo ed il rosso in sé non sono nulla, poiché è
del tavolo rosso come unità che non si può predicare la nullità, anche perché un altro modo di darsi del tavolo, ad esempio riverniciato di verde,
manifesterebbe un altro tavolo. Se «tavolo» e «rosso» (in generale soggetto
e predicato) sono considerati originariamente come dei noemi, allora la loro sintesi sarà l’impossibile negazione del dettato parmenideo17, perché
ogni risultato è frutto di un divenire attestante un momento in cui esso o
una sua parte è ancora nulla. Un’identità può dirsi «raggiunta» solo in base
al concetto astratto dell’astratto, che preventivamente separa i distinti
(«tavolo» e «rosso») e soltanto dopo li mette in relazione. Ma l’originarietà
di ogni giudizio, secondo Severino, non è costretta a convivere con il peso
della tradizione che ci ha consegnato quel modo alienato di esprimersi tramite la connessione di soggetto e predicato18, poiché una considerazione
16 Con questa espressione s’intende indicare l’interpretazione di Parmenide come terribile negatore dell’essere delle differenze. Queste, poiché non sono lo stesso che il significato «essere», non possono essere, nonostante la doxa affermi il contrario. Cf. PARMENIDE,
Peri Physeos, fr. VIII (38-39). La numerazione dei frammenti segue H. DIELS, W. KRANZ,
Die Fragmente der Vorsokratiker, Bd. I, Weidmannsche Verlagsbuchhandlung, Berlin 19526.
Cf. E. SEVERINO, Ritornare a Parmenide, cit., p. 28.
17 La portata della soluzione platonica è limitata alla considerazione noematica delle
determinatezze. E. SEVERINO, La struttura originaria, cit., p. 270: «[…] la soluzione platonica è insufficiente qualora l’aporia venga formulata dicendo che la connessione predicazionale tra due significati diversi è una contraddizione».
18 Si tenga presente che per Severino tutti i discorsi differenti dall’enunciativo si fon-
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concreta della struttura delle proposizioni è possibile, senza dover così scegliere tra verità logica (identità19) e fenomenologica (nessi). La considerazione concreta di ogni apofansi20, tale per cui l’identità con sé di ogni ente
possa apparire tale, si dispiega come segue: «dx è dy» è in realtà: (dx = dy)
= (dy = dx)21. Il tavolo è rosso non come semplice tavolo, bensì come tavolo-che-è-rosso, e d’altra parte il rosso è (inerisce) al tavolo in quanto
quel rosso-che-è-tavolo. Ciò significa che la sintesi tra tavolo e rosso, quei
noemi che valgono come tali solo se considerati tali rispetto all’apofansi
(concretezza), appartiene esclusivamente all’ordine discorsivo, ma soprattutto che le due identità sono identiche, ché altrimenti il discorso aporetico
verrebbe solo spostato ad un altro livello. Inoltre, resta fermo che ogni
proposizione, anche quella negativa, sottintende il giudizio esistenziale, per
cui si dirà che è il tavolo-che-è-ed-è-rosso ad essere e ad essere rosso.
Sulla base delle considerazioni svolte, anche il problema del rapporto
tra identità e molteplice è strettamente connesso con il tema del linguaggio
enunciativo, oltre che con il succitato «primo problema». A tal proposito
bisogna notare due cose. La prima, più generale, che la maggior parte delle
frasi componenti l’esposizione dell’originario appare in forma brachilogica,
che per la necessità di dare fluidità al discorso non viene quasi mai sciolta.
La seconda, più specifica ed interessante, che l’atteggiamento iniziale di
Severino nei confronti del linguaggio non è di condanna, infatti, il linguaggio, pur realizzandosi per lo più «come una connessione di determinazioni
distinte»22, non per questo è la causa della considerazione astratta dei giudizi. La comprensione erronea che isola il soggetto dal predicato non ha bisogno quindi di una lingua per realizzarsi, in quanto essa è già prima di ogni
espressione linguistica. Dunque il linguaggio – nello specifico la struttura
grammaticale greca – è «ingenuo» e non necessariamente «contaminato».
Come epifenomeno rispetto all’errore, il linguaggio è così definito «nulla
più che un’occasione al sorgere della considerazione astratta dei distinti»23.
dano, in ultima istanza, su di un’enunciazione.
19 In Severino il termine «identità» va letto sempre assieme al termine «incontraddittorietà».
20 Se la concretezza della predicazione vale per una proposizione sintetica, a fortiori vale per la tautologia, la quale se intesa astrattamente appare però ugualmente come contraddittoria, poiché in A = A i due elementi sono in qualche misura distinti. In questo senso, il problema del dire il molteplice investe anche il principio parmenideo e in generale
l’intera struttura originaria. Per tal motivo la soluzione del problema appartiene anch’esso
al fondamento come sua costante.
21 Cf. E. SEVERINO, La struttura originaria, cit., cap. VI. Si legga il simbolo “=” come
corrispondente a “è”.
22 E. SEVERINO, La struttura originaria, cit., p. 275.
23 Ibid.
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Il richiamo alla concretezza salva così il sistema, ponendosi come il modo veritativo in cui avviene il superamento della limitatezza del dire della
struttura originaria e del molteplice. Tuttavia suddetto richiamo è anche
fondazione di quell’infinita problematicità, in nessun modo linguistica, che
Severino chiama «contraddizione C»24. Un significato può essere sé a condizione che sia posto l’intero semantico: questo è ciò che Berto denomina
«principio fondamentale dell’olismo semantico». Ad esso è strettamente
legata la «relazione semantica fondamentale»25, per la quale ogni significato
è connesso a tutti gli altri dialetticamente, secondo un rapporto di opposizione contraddittoria in cui la posizione di a implica necessariamente quella
dell’intero non-a. L’insieme di a e non-a dà dunque il Tutto, perciò l’apparire di «tavolo» implica l’apparire di tutto ciò che non è tavolo. Ma ovviamente l’apparire, se vogliamo, l’esperienza, è finito, quindi assieme al
significato «tavolo» appaiono altri significati, dei quali solo alcuni sono necessariamente sempre apparenti, come nel caso delle costanti persintattiche26, tra le quali vi è appunto il Tutto. Quest’ultimo, perciò, appare
esclusivamente come significato formale. Conseguentemente appaiono
formalmente, cioè non interamente dispiegati nello loro portata, tutti i significati in quanto appartenenti all’intero semantico.
La contraddizione C non è l’impossibile autocontraddittorietà che ha
come suo contenuto l’immediatamente tolto, ma «consiste nella manifestazione finita del Tutto, ossia nel non essere, tale manifestazione, l’apparire del Tutto che d’altra parte, come significato formale, è manifesto
nel cerchio del destino [verità originaria] ed è il luogo semantico in cui appaiono tutte le determinazioni che appaiono […] Tuttavia il toglimento
della contraddizione della verità [contraddizione C] non è la negazione del
suo contenuto, ma è l’affermazione concreta di esso, ossia è l’apparire di
ciò che con la sua assenza provoca la contraddizione della verità»27.
La contraddizione C può via via essere ridotta28, ma mai eliminata, ché
l’apparire non può cessare di essere tale. Se essa ha cioè una portata infiniIvi, pp. 346-364.
F. BERTO, op. cit., pp. 24-25.
26 Per «costanti sintattiche illimitate» o «costanti persintattiche» Severino intende i significati senza i quali non apparirebbe nulla, motivo per cui non possono non essere sempre presenti. Tra questi ad esempio vi sono i significati «essere» e «nulla». Cf. E. SEVERINO, La struttura originaria, cit., pp. 444-449.
27 E. SEVERINO, La Gloria, hassa ouk elpontai: Risoluzione di «Destino della necessità», Adelphi, Milano 2001, p. 52.
28 La contraddizione C è perciò quantificabile, a differenza delle contraddizioni normali, poiché l’impossibile non conosce graduazione e processualità.
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ta, lo stesso va detto del graduale suo oltrepassamento29. L’assoluto, quindi, solo dal lato dell’essere immutabile è già da sempre tale, mentre nella
dimensione dell’essere che appare ogni identità, e in primis quella della
struttura originaria, è indeterminata. Tuttavia l’impossibilità di una completa attualità della saturazione del significato non implica il crollo del sistema severiniano, poiché la stessa contraddizione che affetta l’originario è
su di esso fondato. Infatti, è sulla base dell’originario che si riconosce la limitatezza del suo dire, in cui ciò che causa la contraddizione è il fatto che
non tutto venga (ancora) detto concretamente30.
2. Isolamento e interpretazione
Da Ritornare a Parmenide in poi la filosofia severiniana si biforca, presentando una pars costruens come approfondimento de La struttura originaria ed
una critica radicale dell’errore. È proprio di questo secondo lato che occorre
discutere per comprendere il ruolo che Severino assegna al linguaggio. La non
verità nel senso del concetto astratto dell’astratto, che si fonda sulla contraddizione C, si esplica in quanto «isolamento della terra». Con «terra» Severino intende tutto l’essere che si manifesta. Ovviamente tale manifestazione
avviene processualmente, quindi ciò che appare non è tutto l’essere, non è il
Tutto, e l’isolamento consiste nel non considerare la parte come tale, nella
«convinzione che la terra sia il tutto con cui noi abbiamo sicuramente a che fare»31. L’aspetto fenomenologico della verità viene perciò isolato da quello logico, il quale impone che tutto quello che non appare più o non appare ancora non sia preda del nulla, ma sia sempre sé, anche quando fuoriesce dall’orizzonte fenomenico. Conseguentemente l’ente è isolato da uno dei suoi predicati fondamentali32, l’essere come necessaria esistenza, la qual cosa consente di pensare la necessità dell’essere diluita nel (negata dal) tempo33. Infine l’ente viene isolato dal legame che lo relaziona a tutti gli altri enti e quindi al Tutto.
Questa è la struttura trascendentale della non verità, ma è il cosiddetto
«Occidente» ad essere l’espressione propriamente nichilistica dell’errore34.
29 Cf. E. SEVERINO, La struttura originaria, cit., p. 555. L’opera si chiude appunto con la
determinazione del compito originario come compito infinito.
30 Ivi, p. 364.
31 E. SEVERINO, La terra e l’essenza dell’uomo, cit., p. 203, c.m.
32 Propriamente tutti i predicati sono fondamentali.
33 Secondo Severino il passo ARISTOTELE, De Interpretatione, 19 a, 23-27, è esemplare
di come, dopo Parmenide, nessuno si sia accorto dell’assurdità di pensare un momento in
cui qualcosa non sia più.
34 E. SEVERINO, La filosofia futura. Oltre il dominio del divenire, BUR, Milano 2006, p. 363: «Il
nichilismo, cioè la fede nell’esistenza del divenire – e dunque l’intera storia dell’Occidente –
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L’Occidente nasce con il Poema di Parmenide, grazie al quale i significati di
«essere» e «nulla» appaiono nella loro assoluta alterità; tuttavia è esattamente l’opposizione tra essere e nulla che la successiva filosofia non riesce
a tenere ferma, percorrendo inconsciamente, a causa dell’interpretazione
ontologica del divenire come passaggio degli enti dal nulla all’essere a
dall’essere al nulla35, il sentiero della Notte. Il nichilismo, che oramai domina l’intera umanità grazie alla diffusione scienza moderna, non consiste
in un mero errore teorico, nonostante Severino tenda a leggere la storia a
partire dalla storia della filosofia. Infatti, ogni forma dell’umano, di organizzazione sociale, ecc., è occidentale, si fonda cioè sulla convinzione che
l’ente in quanto tale oscilli tra essere e nulla36. Ora, suddetta convinzione
se non è verità, tuttavia appare, anche se eternamente negata quanto al suo
contenuto. Per tal motivo essa è mera fede, ossia volontà che qualcosa che
si mostra come non vero sia invece l’unica verità inconfutabile.
Perciò la fede nel divenire è definita da Severino «volontà di potenza». Il
termine ha accezione negativa ed è collegato al «dominio», nel senso che
qualcosa può essere pensata come dominabile solo se la si isola dai nessi necessari che la uniscono agli altri enti e al suo essere. Il modo più proprio, dal
punto di vista dell’errore, in cui la volontà di dominare gli enti si dispiega è
la tecnica, la cui essenza è racchiusa dal seguente passo platonico, che Severino cita spesso: «Ogni causa, che faccia passare una qualsiasi cosa dal niente
all’essere è produzione»37. Tuttavia solo nell’epoca contemporanea, la tecnica, guidata dalla scienza sperimentale, diviene il rimedio principale contro
l’angoscia causata da quel divenire che è la stessa condizione della rassicurante volontà di potenza. Rispetto ai rimedi immutabili appartenenti all’episteme,
la tecnica è più conforme al senso alienato del divenire e perciò trionfa, rivelandosi come il rimedio più efficace, perché non riconduce il divenire a principi altri, ma, assecondandolo nella sua contingenza, ne guida la direzione,
aumentando così la propria potenza di creazione e di distruzione38.
Ma se Platone è il modello dell’Occidente, giacché ritiene che sia diano
non è l’unica forma possibile di negazione del destino, e tuttavia ne è la negazione dominante».
35 L’interpretazione ontologica sorge già con lo stesso Parmenide, il quale non dichiara
l’assurda convivenza di essere e nulla, ma, non affrontando il problema del divenire, si limita a negarlo, proprio perché lo pensa come passaggio dal nulla all’essere e viceversa.
36 Cf. E. SEVERINO, Destino della necessità. kata to chreon, Adelphi, Milano 1980, cap. I.
37 PLATONE, Convivium, 205 b-c. La traduzione italiana citata si trova in E. SEVERINO, Il
sentiero del Giorno, in ID., Essenza del nichilismo, cit., p. 146. Per Severino l’essenza della
tecnica è strumentale, perché concepita come l’infinita capacità di realizzare scopi.
38 Nell’interpretazione severiniana la tecnica non è semplicemente una fase, l’ultima,
della storia occidentale, ma è anzitutto il collante di Oriente (tutto ciò che non è Occidente) e Occidente e, in secondo luogo, il principio che guida l’intero sviluppo di suddetta
storia, come denuncia il termine «efficace».
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enti che in quanto tali non sono in grado di essere sempre, nella misura in
cui sono ricondotti ad altri enti privilegiati ed eterni, la volontà di alterare
le cose ha radici ben più profonde. Ancora prima della spiegazione mitica
del mondo, la volontà che qualcosa sia altro da sé si ritrova, infatti, nel linguaggio come tale, la cui essenza è il rimando. Nella non verità il linguaggio riveste una posizione privilegiata ed ambigua, perché da un lato è soltanto un aspetto dell’isolamento della terra, dall’altro è esso stesso origine
della volontà-fede di dominio dell’ente. Ciò che accomuna il linguaggio
con le altre forme dell’isolamento è la considerazione dell’identico come
altro, che si specifica attraverso il segno che indica la cosa (significato). Per
Severino l’indicare è perciò volontà d’identificazione, di assoggettamento
del significato da parte del linguaggio, che oltrepassa il piano puramente
fenomenologico. A tal proposito egli sostiene che la parola sia il piedestallo
del significato ed il linguaggio rispecchiamento della terra (isolata). La verità
appare, ma appare anche l’errore. Quella è condizione di questo, il quale si
dà soltanto come negato. Ciò nonostante, attualmente la negazione dell’errore non si dispiega totalmente, perciò appare il contrasto tra la verità
ed il suo isolamento. Il destino afferma la propria insuperabilità, dunque
l’impossibilità che il contenuto dell’errore sia, ma d’altra parte afferma anche l’esistenza dell’isolamento. Tutto questo Severino può sostenerlo soltanto attraverso la postulazione di una differenza tra il puro apparire e
l’apparire assieme alla propria immagine. «Il linguaggio, che con la terra
isolata s’inoltra nell’apparire del destino, è l’immagine della terra isolata.
Non appare più soltanto la terra isolata, ma anche la sua immagine»39. Il
termine «anche» indica che lo stesso linguaggio rimane presso il livello fenomenico, ma che in più è capace di dare a ciò di cui è immagine quello
spicco che la verità ancora non possiede40. Gli enti che la terra isolata vede
non sono quel che sono in verità; inoltre questi stessi enti si rispecchiano
nella propria immagine godendo così di un’immeritata «visibilità raddoppiata», la quale fa apparire l’eternità dell’ente in quanto ente come un assurdo. Il linguaggio è allora due volte lontano dal vero, e Severino è quindi
costretto, su quest’aspetto, a fare suo un indesiderato platonismo, che rimanda a sua volta al frammento VII di Parmenide41.
E. SEVERINO, Oltre il linguaggio, Adelphi, Milano 1992, p. 497, c.m.
Ibid.: «l’immagine stessa, in quanto tale, appare come il mettere in risalto ciò di cui è
immagine».
41 PARMENIDE, Peri Physeos, fr. VII (3-5): «né l’abitudine, nata da numerose esperienze,
su questa via ti forzi / a muovere l’occhio che non vede, l’orecchio che rimbomba / e la
lingua», c.m. La traduzione italiana cui faccio riferimento è quella curata da G. Reale, con
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In realtà il linguaggio, la cui potenza è solo creduta, in quanto ente non
può che appartenere al Tutto. Perciò la sua esistenza è necessaria. Dunque
l’immagine non può essere puro rispecchiamento dell’errore, infatti, la
lotta tra la verità e la sua negazione è già da sempre vinta dalla prima. Ma,
se anche il destino ha la propria immagine, esso rimane inconscio nella misura in cui rimane privo di quell’autorispecchiamento, dovuto al fatto che «la
persuasione che la terra è la regione sicura è insieme persuasione che
l’immagine sicura è l’immagine della terra»42. L’immagine dice – il destino
sa che l’immagine dice – non la semplice verità, né il semplice errore, ma
appunto la contesa tra verità e isolamento. Questo è l’unico modo in cui
Severino, individuando i distinti, può affermare senza contraddirsi che la
verità è il destino dell’apparire contro cui ogni negazione si mostra contraddittoria (immediatamente o mediatamente), ma che allo stesso tempo
è impotente. La qual cosa è aspetto della contraddizione originaria43.
La portata di questa potenza-impotenza è molto più ampia di quanto
non possa far pensare il termine «linguaggio», per almeno quattro motivi.
Il primo è l’estensione dell’immagine agli altri individui, grazie alla quale il
linguaggio appare indubitabilmente un fatto condiviso. Il linguaggio e la
comprensione creano certamente enormi problemi, e non solo a livello
teorico; tuttavia per l’isolamento come linguaggio sono dati inconfutabili la
pluralità e la comunione dei parlanti, che a loro volta rendono possibile lo
sviluppo di quell’opinione notevole che è la scienza.
Il secondo motivo riguarda l’ambiguità ed il privilegio del linguaggio richiamati precedentemente44. Una minima parte di luoghi delle opere severiniane lascia intendere che il linguaggio non sia soltanto una modalità, assai
rilevante, dell’isolamento, bensì il fondamento dell’isolamento, come sembra dimostrare il fatto che «La volontà di far diventar altro le cose si rivolge alle cose a cui il linguaggio ha dato spicco»45, perché «[…] è attraverso la
parola che il mortale è persuaso di dominare la cosa»46. Tuttavia Severino
un saggio introduttivo e il commentario di L. Ruggiu, Bompiani, Milano 2003.
42 E. SEVERINO, Destino della necessità, cit., p. 511.
43 E. SEVERINO, La struttura originaria, cit., cap. VIII.
44 Per chiarire ulteriormente: il secondo dei motivi per cui la potenza del linguaggio ha
un’ampia portata è identico al secondo lato dell’ambiguità che il linguaggio riveste nella filosofia di Severino.
45 E. SEVERINO, La Gloria, cit., p. 464. Cf. A. CARRERA, La consistenza del passato. Heidegger, Nietzsche, Severino, Medusa, Milano 2007: «L’antisemiotica di Severino si dispiega
compiutamente nel capitolo IV de La Gloria».
46 E. SEVERINO, Destino della necessità, cit., p. 500, c.m. Con «mortale» Severino intende
l’essenza dell’uomo come contrasto tra isolamento della terra e destino che ancora ignora.
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non sostiene esplicitamente che l’aggressione dell’ente in quanto tale dipenda dal linguaggio, tant’è che la prima delle due citazioni continua:
«D’altra parte il linguaggio che dà questo spicco è un modo di far diventare
altro le cose: il linguaggio è la volontà che certi eventi (certe cose […]) siano segni di certi significati (ossia di certe altre cose o enti)»47. Se da questa
frase si omettessero le parole «segni di» avremmo la definizione dell’isolamento simpliciter, ma Severino ritiene che solo quest’ultimo sia il trascendentale dell’errore, che perciò ha una sua necessità e conseguente deducibilità ed è distinto dalla volontà di potenza linguistica, il cui dominio è solo
fattuale, sia perché l’isolamento non necessita di esso, sia perché il linguaggio è mero strumento48. L’unica originarietà nell’errore che Severino assegna apertamente al linguaggio è quella di essere il primo49 rimedio contro
l’angoscia del divenire, nella misura in cui la parola, «una rete gettata sulla
cosa»50, stabilisce il senso del divenire, dando stabilità alle cose che poggiano sicure sul proprio piedestallo.
Il terzo motivo concerne la maggiore estensione che il termine «linguaggio» può assumere, se si tiene presente che l’immagine della terra isolata non
riguarda solo i segni linguistici, ma investe tutta la realtà che questi indicano.
Scrive a tal proposito Severino: «Linguaggio sono tutte le cose visibili, udibili, toccabili, della terra sicura: sono linguaggio, in quanto segno e aspetto
delle cose della terra sicura»51. In questo senso si ripresenta una situazione
analoga ed opposta a quella del ruolo che il significato assume nella speculazione severiniana. Infatti, tutto è significare, ma ciò «[…] non ha il significato ristretto per il quale, ad esempio, si parla del “significato di una parola” e
si distingue il significare della parola dalla cosa, o essente»52.
Strettamente connesso al terzo motivo è il quarto, il più importante, secondo il quale all’interno della terra isolata tutto è interpretazione. Questa
sembrerebbe, a prima vista, una tesi in consonanza con l’ermeneutica e le filosofie della cosiddetta linguistic turn. Se conoscere è trovare lo stesso come
47 E. SEVERINO, La Gloria, cit., p. 464-465, c.m. È curioso che anche la seguente frase
inizi come quella appena citata: «D’altra parte, la volontà di far diventare altro le cose si rivolge soprattutto alle cose che la volontà del linguaggio fa diventare altro» (ivi, p. 465), c.m.
48 In realtà lo strumento non è mai «mero», poiché prende parte attivamente alla definizione del fine.
49 Si tratta di un primato storico-temporale, poiché, ripeto, il linguaggio per Severino
non è la condizione di possibilità dell’errore.
50 E. SEVERINO, La Gloria, cit., p. 470. Secondo Severino la parola poetica non ha alcuno statuto particolare.
51 E. SEVERINO, Destino della necessità, cit., p. 534.
52 E. SEVERINO, Oltrepassare, Adelphi, Milano 2007, p. 366.
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stesso, ed interpretare è dire lo stesso come altro, allora la volontà di potenza è volontà interpretante. Affermare che tutto è interpretazione, e quest’interpretazione avviene innanzitutto linguisticamente, implica che il significato, dunque l’essere, di ogni cosa sia alterato. Il carattere totalizzante dell’interpretazione non permette di concepirla come un atto semplicemente
conoscitivo, giacché anche l’avere (essere) un corpo non è qualcosa di dato.
3. Conclusione
Il problema del linguaggio relaziona la pars construens e la pars destruens
del sistema severiniano: rilevando l’essere interpretazione di questa, quella
ne guadagna in purezza, mostrandosi sempre più come il dato innegabile.
In altri termini il sapere diviene sempre più assoluto, ma perde molto in
estensione, lasciando fuori di sé nell’indeterminatezza la storia.
A prevalere è la sola immagine della terra isolata; a dominare, cioè, in
quanto è convinta che possa darsi il dominio, è la volontà interpretante. Alla
terra isolata appartiene ovviamente l’autore Emanuele Severino, o meglio, la
testimonianza del destino, la quale è analoga, ma non identica, all’esposizione della struttura originaria. La differenza tra le due che qui interessa non
riguarda il contenuto, vale a dire l’esclusione nei testi più recenti di qualsiasi
forma di libertà e contingenza in quanto aspetto eminente dell’alienazione
della verità, ma la forma. L’esposizione dell’originario risente di una certa
problematicità, la quale però è attualmente risolvibile; la testimonianza del destino, invece, è attraversata da una problematicità raddoppiata, nella misura
in cui il linguaggio che la custodisce è visto come espressione del nichilismo.
Nei suoi scritti Severino elabora un proprio lessico, tuttavia non si
premura di escogitare nuove formule linguistiche53, tentando di torcere,
come ad esempio fa Heidegger, il linguaggio della tradizione filosofica,
perché ogni soluzione avrebbe comunque a che fare con una lingua malata.
Così Severino accetta in pieno l’inconveniens che la storia dell’alienazione
della verità da lui presentata non sia altro che interpretazione54. Tuttavia
egli sostiene che, ad esempio nel caso specifico dell’Occidente, la «sua» interpretazione non è mero arbitrio, perché fondata, anche se su una necessi53 E. SEVERINO, La struttura originaria, cit., p. 16. Una volta rilevata la malattia del linguaggio, ogni termine che tenta di dire l’originario sarebbe da virgolettare.
54 E. SEVERINO, La terra e l’essenza dell’uomo, cit., p. 251: «L’esistenza dell’alienazione è
un problema, in quanto venga intesa come alienazione dei popoli (giacché è innanzitutto un
problema l’esistenza dei popoli, come manifestazione corale dell’essere). Ma non è un
problema, in quanto alienazione dell’apparire attuale».
Fondamento e linguaggio in Emanuele Severino
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tà ipotetica. Infatti, se si accetta il contenuto non apparente che esistano dei
popoli, e che tra questi ci sia stato quello greco che ha filosofato per primo,
allora, seguendo queste regole, è necessario affermare che l’Occidente è la
fede nel divenire ontologico e così via55.
Anche quest’interpretazione è non verità, perciò può essere considerata
più plausibile di altre solo dal punto di vista dell’isolamento. Dunque Severino stesso svaluta la pars destruens della sua filosofia, quella che avrebbe dovuto
fare i conti con la storia, contravvenendo così al principio che «La storia del
fondamento è un elemento o momento essenziale del fondamento stesso»56.
Tale principio non indica che la verità vada cercata nella storia, come potrebbe far pensare l’ambigua formula «ritornare a Parmenide», ma che la
storia è importante nella misura in cui si caratterizza come presenziarsi delle
negazioni possibili della verità, che in tal modo può concretamente dispiegarsi come negazione necessaria ed eterna della propria negazione57. Se ogni
forma dell’isolamento della terra non ha determinatezza – in quanto affermata non perché appare, ma perché interpretata –, allora, in qualche misura,
la verità resta indeterminata, giacché dialetticamente le è necessaria l’errore.
Tuttavia l’indeterminatezza penetra anche, e in primo luogo, la pars
construens, al di là della contraddizione C, poiché la volontà di testimoniare
il destino è volontà di dire la verità, e quindi non verità. Ma la verità non è
identica alla sua testimonianza, perché parola e cosa indicata non sono
uguali. Se così fosse, se cioè si avesse a che fare solo con il linguaggio, allora
non avrebbe più senso parlare, mancando totalmente il referente (il quale
non deve necessariamente essere qualcosa di materiale). Sostenere che il
rimando al significato è indefinitamente rimandato, implica il venir meno
del linguaggio e del suo essere fedele al divenire, poiché in tal modo la
stessa parola sarebbe trattata come un immutabile, il puro significato58. Ciò
vuol dire che solo in un senso si può sostenere che laddove manca la parola
manca anche la cosa, perché il significato, ossia l’ente che è eterno ed innegabile, appare nella parola, ma non è la parola stessa. Il segno è la forma
– e in quanto ente anch’esso è eterno ed eterna la sua relazione con la cosa
Cf. E. SEVERINO, La filosofia futura, cit., parte quinta.
E. SEVERINO, La struttura originaria, cit., p. 110, c.m.
57 Ivi, p. 113: «In quanto il fondamento si impegna essenzialmente con la sua storia,
l’“eternarsi” del fondamento coincide col suo “storicizzarsi”. Se la storia del fondamento è
il concretarsi dell’universalità della sua negazione, è infatti in rapporto allo sviluppo della
negazione che il fondamento esercita il suo valore».
58 E. SEVERINO, Oltre il linguaggio, cit., p. 241: «Se il rinvio della parola alla cosa apparisse infinito, la cosa non sarebbe mai riagguantata, cioè non apparirebbe e quindi non apparirebbe nemmeno la parola».
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– mentre la cosa è il contenuto, che il sapere originario riesce a vedere,
nonostante l’intrinseca problematicità e mutevolezza del linguaggio.
Per Severino l’identità assoluta tra essere (Tutto, L-immediatezza) e
apparire (pensiero, F-immediatezza) è necessariamente negata, altrimenti
si ammetterebbe l’evidenza dell’impossibile divenire dell’essere. Analogamente impossibile è l’identificazione di apparire e linguaggio (interpretazione), poiché una pura semiosi, in cui colto sarebbe il solo rimandante,
eliminerebbe la possibilità di qualsiasi determinazione. In entrambi i casi il
rilevamento dell’oltre avviene all’interno della dimensione che sta al di qua
della trascendenza59, anche se solo del linguaggio Severino afferma l’intrinseca malattia. E, di fatto, ciò viene affermato di nuovo tramite delle parole, e delle parole di una lingua storica precisa, quindi non viene meno la discrasia tra destino e sviluppo incostante del linguaggio, se non altro con riferimento all’apparire finito60. Suddetto sviluppo, tuttavia, sembra riguardare esclusivamente la sintassi del destino, quindi la sola struttura formale
dell’originario, poiché, al di là delle costanti persintattiche, tutti gli altri significati sono necessariamente indeterminati, almeno attualmente, a causa
del loro apparire all’interno dell’interpretazione.
Risorge prepotentemente l’esigenza teoretica di determinazione dei
singoli enti, non tanto per dar conto della storicità e fatticità dell’esistenza
– esigenza pratica e troppo umana61 –, quanto per salvare l’identità degli
enti. Questi sono ridotti da Severino a meri nomi62, laddove l’aggettivo
59 Mentre andare oltre il linguaggio significa andare prima del linguaggio, nella dimensione del puro apparire – che è puro solo astraendo dal fatto che la parola accompagna
sempre la cosa –, per quanto concerne il rapporto essere e apparire, invece, non si può sostenere qualcosa di analogo, perché non appare nulla che non appare, ossia l’essere è sempre apparente. Si tenga conto che il titolo della prima opera teoricamente più importante
di Severino rimanda all’origine, mentre l’ultima all’oltrepassamento.
60 E. SEVERINO, Oltre il linguaggio, cit., p. 244: «[L’infinito] oltrepassa la parola e non è
mai oltrepassato da essa. E a differenza della forma finita del destino, che oltrepassa la parola, ma ne è anche raggiunta, la forma infinita del destino, come pura luce del significato,
lascia eternamente dietro di sé la parola», c.m.
61 Questa esigenza solo in parte preoccupa Severino. Diverso atteggiamento si rivela in
C. SCILIRONI, Ontologia e storia nel pensiero di Emanuele Severino, Padova, Francisci, 1980, p.
21: «È interessante notare in proposito come di fatto nell’analisi di Severino, eccetto ciò
che riguarda il “sapere ontologico originario”, che è poi l’opposizione assoluta di positivo e
negativo, tutto il resto sia fede, di cui, tolto ciò che è falso, il rimanente è problema. Nella
migliore delle ipotesi, allora, ciò che per la comune coscienza degli uomini è più importante (l’amore, la bontà, la gioia, la felicità, gli altri, Dio, ecc…), per Severino può al massimo costituire un problema. Ma questo è un riduzionismo ingiustificato che poggia su
un’interpretazione univoca della ragione umana, la quale però si sottrae a tale univocità».
62 PARMENIDE, Peri Physeos, fr. VIII (38-39): «[…] Per esso [l’essere intero ed immutabile]
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«meri» indica che i nomi non hanno il significato a cui rimandano, perché
non sono il significato, ed i significati non hanno mai il proprio nome. Severino così dimentica la lezione platonica ed è costretto a sospendere il giudizio ogni qualvolta non si presenti come originario. L’onestà, che è radicalità, della filosofia severiniana sembra allora condurre ad uno scetticismo,
non totale, in cui l’epoché si accompagna ad una morale provvisoria in attesa del necessario tramonto dell’Occidente.
L’esito parzialmente63 negativo cui giunge l’assoluto severiniano, dopo
lo scontro con il problema del linguaggio, è racchiudibile dalla seguente affermazione: «Ma non ogni significato che sia posto come determinazione di
un altro significato è volontà interpretante. All’interno della dimensione
dell’innegabile, che questo insieme di eventi empirici sia una lampada è un
problema, ma che tale insieme sia una questità, o un essente, o altro dall’altro, non è un problema, ma un nesso necessario»64. Ciò che con verità
si può dire è che appare un’interpretazione, dunque l’unico dato che va oltre la semplice sintassi65 è, paradossalmente, la fede, l’interpretazione. Il
contenuto di questa, invece, rimane escluso dalla determinatezza.
Tuttavia l’indifferentismo di questa posizione, tacciata da Scilironi di
formalismo che oblia il fenomenologico66, è attenuata da Severino stesso in
altri luoghi, più rari, come il seguente: «Questo bianco significa questo certo
essente, ossia un essente determinato in un certo modo […] un essente non
significa un essente qualsiasi, di cui rimanga problematica la determinatezza, ma un essente determinato in un certo modo, e, daccapo non in un modo qualsiasi, ma in quel modo che consiste appunto in questo bianco»67. A
ciò si aggiunga, infine, che tra destino e isolamento vi è una continuità semantica, specialmente per quella forma eminente d’isolamento che è l’Occidente, nella cui storia gli autentici significati che permettono lo strutturarsi del fondamento, quali «essere» e «nulla», sono apparsi, anche se soltanto formalmente68. Quest’affermazione, necessaria affinché la verità possa essere negazione determinata di quel che tenta di negarla69, restituisce
saranno nomi tutte / quelle cose che hanno stabilito i mortali, convinti che fossero vere».
63 L’esito non è totalmente negativo per due motivi: la necessità che l’alienazione della
verità venga oltrepassata e l’incontrovertibilità del fondamento.
64 E. SEVERINO, Oltre il linguaggio, cit., p. 156.
65 Naturalmente anche la sintassi ha una semantica, essendo una struttura di significati
fondamentali.
66 Cf. C. SCILIRONI, “Necessità del significato e destino del linguaggio in E. Severino”,
cit., p. 431.
67 E. SEVERINO, Tautótes, Adelphi, Milano 1995, p. 146.
68 Anche questa è un’interpretazione.
69 E. SEVERINO, Oltrepassare, cit., p. 92: «In generale: che “x è y” è non vero perché è
vero “x è non-y” è un’affermazione che implica che x abbia un significato identico in “x è y”
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Marco Risadelli
solidità alla testimonianza del destino e dona contemporaneamente una
certa verosimiglianza all’immagine autorispecchiantesi della volontà di potenza. A tal proposito si potrebbe sostenere che i significati siano gli stessi,
mentre a mutare sia solo il loro senso, motivo per il quale basterebbe che
di tutte le cose appartenenti all’errore si affermasse la necessaria ed intrinseca eternità70. Non è però questa la tesi di Severino, perché invertire di
segno un ente, da diveniente ad eterno, è condizione sufficiente, ma non
necessaria71 per la sua configurazione concreta, nella misura in cui un’identità tra i significati dell’isolamento e quelli del destino può intercorrere solo qualora questi ultimi siano colti, all’interno della stessa struttura originaria, come distinti e non nella loro eterna relazione. Di nuovo, il problema della determinatezza è il medesimo di quello del Tutto concreto.
Diversamente da quanto si possa pensare di primo acchito, il cammino
metafisico72 di Severino non esclude le problematicità, ma, proprio perché
vuole superarle, deve considerarle in tutta la loro portata. Il tema del linguaggio ricopre a tal proposito un ruolo decisivo, perché decide della necessità, e quindi della possibilità, di un sapere assolutamente fondato che dia
significato a tutto ciò che accade.
e in “x non è y” – un significato identico, peraltro sotteso alla diversità tra x in quanto presente in “x è y” e x in quanto presente in “x non è y”».
70 E. SEVERINO, Oltre il linguaggio, cit., p. 172: «Lo “stare”, il “destino”, “l’essente”, il
“niente” […] hanno, nel destino, un senso abissalmente diverso da quello che essi posseggono lungo la “storia” dell’Occidente e nell’isolamento del destino», c.m.
71 Questa condizione, chiamata da Severino «isolamento del destino», è invece necessaria nel senso di non essere soggetta alla volontà di alcuno. Cf. E. SEVERINO, Oltrepassare,
cit., pp. 364-388.
72 Il termine, naturalmente, non ha accezione negativa.
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