ORAZIO FRANCESCO PIAZZA RESPONSABILITÀ SOCIALE E COMUNICAZIONE D’AZIENDA Implicanze antropologiche ed etico-sociali 1. UNA DOVEROSA PREMESSA CRITICA L’etica - che molto spesso corre il rischio di essere considerata un elemento di carattere sovrastrutturale e scarsamente incidente sulla realtà delle cose - ha di contro manifestato soprattutto in questo scorcio di inizio secolo tutta la sua pregnanza critica e l’urgenza del suo apporto creativo. Nel nostro specifico ambito, l’esistenza di un’etica che possa offrire un concreto apporto all’economia deriva dal fatto che ogni obiettivo particolare può essere raggiunto attraverso alternative molteplici da individuare e da definire, ciascuna delle quali però comporta una scelta di valori e, pertanto, una componente etica. Considerando che l’impresa, soprattutto nell’ultimo decennio, ha sempre più posto a centro delle sue attenzioni la rilevanza sociale della sua attività economica, il rapporto etica-economia ritorna di sicura attualità. La responsabilità sociale si coniuga con la responsabilità d’impresa e ciò impone l’esigenza di interconnettere, nei momenti decisionali, l’ambiente interno-esterno con le struttre e le strategie aziendali. «Da condizione di vincolo all’operare, la responsabilità sociale diviene modo d’essere dell’azione imprenditoriale da condursi secondo condizioni di efficacia e di efficienza di lungo periodo. La responsabilità sociale è quindi, almeno teoricamente, obiettivo finalizzante il sistema-impresa che dovrebbe gestirsi attraverso l’identificazione di un insieme multiplo di mete, larga parte delle quali gli derivano dagli ambiti in cui vive e da cui trae risorse, vincoli e opportunità»1. La responsabilità sociale diviene, dunque, uno stile d’azione gestionale, qualunque sia l’attore, l’obiettivo e la finalità. Su questo sfondo, alquanto condiviso, si innesta la cruda implicanza, non solo etica ma globalmente umana, delle recenti vicende economiche a tutti noi note. Questo segnale ripropone ancor più l’urgenza di porre al vaglio, nel comune dibattito, il valore fondativo del paradigma etico non solo nell’ampio contesto del dialogo etica- 1 M. IAMMARRONE, La responsabilità sociale dell’impresa alla luce della DSC, in La Società 3 (2003) 435. 2 economia o etica-società, ma, specificamente, nel delicato e complesso profilo della responsabilità sociale dell’impresa. In questa contingenza, è offerta l’opportunità di equilibrare la visione etica dell’impresa che troppo spesso è stata valutata attraverso due opposte oscillazioni: da un lato quella che sembrava escluderla in ragione dell’unico obiettivo del profitto. Non a caso M. Friedman ha sostenuto che: «vi è una sola responsabilità sociale dell’impresa: aumentare i suoi profitti»; dall’altro, quella che la riduceva alla semplice e poco realistica enunciazione di riferimenti fondativi universali, come G. Bazoli ha dichiarato: «Ancora oggi (…) si parte da principi (universali) per giungere, attraverso l’antropologia e la filosofia, ad enunciazioni di principio indiscutibili e pregevoli, ma di difficile applicabilità e di prevalente genericità». In questo secondo caso, mentre si riconosce il merito di richiamare vigorosamente la centralità dell’uomo, quale soggetto e fine dei rapporti economici, di contro, si osserva che «il passaggio da tali generiche enunciazioni alle situazioni concrete lascia quasi sempre lacune difficilmente colmabili»2. L’etica, in campo economico, non può limitarsi a ribadire principi (dignità e diritti umani, solidarietà sociale, giustizia e bene comune), deve in concreto confrontarsi e misurarsi con la razionalità economica (esigenze, ragioni, leggi). In questa oscillazione, l’equilibrio del rapporto, seppur difficile e problematico, deve essere cercato attraverso un percorso di reciprocità inclusiva, nel metodo e nel merito. Reciprocità inclusiva che deve qualificare, in uno spazio condiviso e creativo, questi due ambiti qualificanti l’assetto stesso dell’uomo e la sua collocazione nel mondo. Etica ed economia, in tale prospettiva, non solo non si escludono, piuttosto, proprio perché lasciano intatte le loro specifiche finalità, valori umani (dignità, giustizia, solidarietà) e valori economici (efficienza, produttività, profitto), esigono e determinano un confronto virtuoso che, creativamente e reciprocamente, produrrà positive e nuove implicanze3. La delimitazione di questo confronto creativo nel contesto della responsabilità sociale dell’impresa ci permette di consolidare alcune riflessioni che potranno offrirsi, nel contesto della problematica messa a tema, una sorta di suggestione virtuosa. 2. LA FINE DI UNA ANTIECONOMICA CONTRAPPOSIZIONE? INCLUSIVO E DIFFERENZIATO. 2 3 AA.VV., Danaro e coscienza cristiana, EDB, Bologna 1987, 34. Cf F. MARZANO, Economia ed etica, AVE, Roma 1998. NECESSITÀ DI UN METODO 3 Quanto all’impresa, due sembrano i fenomeni fondamentali che promuovono e, anzi, esigono l’adozione di una visione etica adeguatamente mirata. Da un lato, gli spazi di libertà che si aprono all’operare dell’impresa e pertanto la possibilità da parte di questa di individuare - anche attraverso una ricerca che può risultare impegnativa – l’alternativa eticamente più idonea al perseguimento di determinati obiettivi. Dall’altro, la sensibilità e l’attenzione crescenti con cui la società in generale, nel suo ruolo di controllo (audit society), e gli stakeholders, in particolare, osservano e giudicano il comportamento, la credibilità dell’impresa. Ora, data la straordinaria importanza acquisita dalla comunicazione nella sua accezione più ampia (total business communication), l’etica, nella comunicazione aziendale, si propone come un profilo particolarmente qualificante e significativo. L’esigenza di base è certamente quella di sviluppare una comunicazione consapevole di avvalersi di una tecnica sempre più perfezionata ed efficace, il cui impiego - da attuare criticamente - deve però risultare rispondente a precisi rimandi etici. Per questo, un’impostazione corretta in tema di etica della comunicazione aziendale, nel quadro della responsabilità sociale dell’impresa, deve decisamente focalizzare almeno tre ipotesi di lavoro: - prendere avvio dalla molteplicità delle relazioni attivate dall’azienda nei confronti di un contesto economico e sociale permeato dalla complessità; - identificare gli ambiti di azione che si aprono alla comunicazione nella sua totalità e le connesse responsabilità sociali; - proporre delle linee guida, cui ispirare l’operato comunicazionale dell’azienda, ovviamente in armonia con i riferimenti etici adottati dall’azienda stessa. In realtà, allo stato attuale della situazione, un limite evidente al pieno esplicarsi di un’etica così definita è di fatto costituito dalla parcellizzazione della sua trattazione e applicazione, al punto che studiosi ed operatori - a partire dal livello internazionale hanno fin qui accordato la loro preferenza solo a contributi ed interventi distinti per alcune aree della comunicazione (pubblicità anzitutto, ma anche relazioni pubbliche e, ultimamente, sponsorizzazioni). Tale parcellizzazione ha prodotto esiti ben lontani dal 4 coprire l’intero ambito della comunicazione aziendale e certamente questi risultati non sembrano del tutto adeguati a porre una quadro di riferimento che possa affrontare la questione in radice. È dunque opportuno, per questa ragione, recuperare il presupposto etico fondativo e qualificante il senso stesso e il fine della comunicazione nell’impresa: il suo profilo antropologico e umanizzante4. L’impresa, in tal modo, va riconsiderata attraverso una visione comunitaria ed equilibrata, come istituzione non solo economica – che opera in contesto competitivo e che mira alla sola massimizzazione del profitto – ma anche politica e morale. L’èthos, in quanto finalità normativa umanizzante, e l’èthus, in quanto modalità di collocazione dell’uomo nel mondo e nella varietà delle sue azioni e relazioni, propongono un profilo antropologico che esige un assetto organizzativo e comunicativo dell’ impresa in cui autocoscienza, responsabilità e partecipazione non sono valori esclusivamente funzionali e dotati di validità puramente strumentale, ma costituiscono condizioni essenziali e vitali per lo sviluppo della stessa impresa. «La scienza economica – come sostiene Zamagni – dimostra l’insostenibilità della dottrina del self interest (interesse personale) e della nozione di razionalità che su questa dottrina si fonda»5. Un comportamento che si ispiri a finalità diverse da quello del solo interesse personale, non conduce, solo per questo, al disastro economico. Piuttosto, è possibile dimostrare che in molte situazioni il modo migliore per ottenere il conseguimento di obiettivi individuali è offerto da un comportamento solidale e cooperativo. Lo stesso obiettivo dell’efficienza, suppone, come esigenza intrinseca, che vengano considerati quelli dell’equità, della giustizia distributiva e della solidarietà6. Le due posizioni non sono dunque in antitesi, anzi, esigono, attraverso un metodo inclusivo e differenziato7 (che esige il passaggio dall’aut-aut all’et-et), di poter sollecitare, reciprocamente, un contributo creativo e costruttivo. Non a caso, anche sul delicato tema del profitto, ritenuto uno dei temi dove questa antinomia sembrava presentare il suo estremo limite, la prospettiva è decisamente cambiata. Qualificante risulta il contributo offerto dalla Centesimus Annus8 che, mentre riconosce chiaramente la legittimità del profitto e ne accoglie la giusta Cf M. VIDAL, L’impresa di produzione. Problemi etici, in Manuale di etica teologica. 3. Morale sociale, Cittadella Editrice, Assisi 1997, 528-551. 5 L. LORENZETTI, Il capitalismo reale senza avversari, in RTM, 294. 6 Cf S. CIPRIANI (a cura), Nuove frontiere dell’etica economica, AVE, Roma 1990. 7 Cf O.F. PIAZZA, «Economia locale e qualità delle relazioni», L’istanza etica della “fiducia” e la categoria della “relazione” nel contesto di uno sviluppo territoriale, DASES – Università del Sannio, Benevento 2003. 8 GIOVANNI PAOLO II, Lettera Enciclica Centesimus Annus, da ora CA. 4 5 funzione di «indicatore del buon andamento dell’azienda», di fatto apre il varco ad una considerazione antropologica e sociale. «Quando un’azienda produce profitto, ciò significa che i fattori produttivi sono stati adeguatamente impiegati e i corrispettivi bisogni umani debitamente soddisfatti» (CA 35). Per tanto, non basta che i conti tornino, è necessario che siano in ordine e che vengano rispettate la qualità e l’affidabilità dei rapporti interpersonali e sociali. La ragione economica non può cancellare il valore fondante della relazione tra le persone e con i contesti vitali. Ricorda ancora l’Enciclica sociale: «È possibile che i conti economici siano in ordine e insieme che gli uomini, che costituiscono il patrimonio più prezioso dell’azienda, siano umiliati e offesi nella loro dignità. Oltre ad essere moralmente inammissibile, ciò non può non avere in prospettiva riflessi negativi anche per l’efficienza economica dell’azienda. Scopo dell’impresa, infatti, non è semplicemente la produzione del profitto, bensì l’esistenza stessa dell’impresa come comunità di uomini che, in diverso modo, perseguono il soddisfacimento dei loro fondamentali bisogni e costituiscono un particolare gruppo al servizio dell’intera società. Il profitto è un regolatore della vita dell’azienda, ma non è l’unico; va aggiunta la considerazione di altri fattori umani e morali che, a lungo periodo, sono almeno ugualmente essenziali per la vita dell’impresa» (CA 35). Come si vede l’accento è sostanzialmente posto sulla categoria della relazione. Questa costituisce il paradigma antropologico che, in origine, qualifica l’azienda primariamente come comunità umana e che, in prospettiva, vede la sua finalità operativa umanizzante commisurata alla realtà sociale e territoriale in cui è collocata. Questo paradigma della relazione (il tra-personale) sembra offrirsi come lo spazio inclusivo e creativo in cui il dialogo tra etica ed economia deve virtuosamente costruirsi. Non a caso ancora la CA, al n.32, afferma che le virtù umane e quelle dell’impresa non solo possono, ma devono coesistere. Nel processo produttivo vengono evidenziate importanti virtù, come la laboriosità, la diligenza, la prudenza nell’assumere i ragionevoli rischi, l’affidabilità e la fedeltà nei rapporti interpersonali, la coerenza nell’applicazione di scelte difficili e dolorose, ma necessarie per il lavoro comune dell’azienda e per far fronte ad eventuali emergenze negative. In pratica, l’umanizzazione dell’impresa conduce necessariamente alla riconsiderazione dei suoi modelli organizzativi, proprio al fine di migliorare la qualità e la responsabilità sociale di quanto le imprese producono (cf CA 36). In tale prospettiva, anche se non ci fermeremo specificamente su questo tema, un ruolo importante è richiesto allo Stato che deve promuovere il valore della persona e deve limitare disparità 6 e ingiustizie; deve garantire libertà economica, ma, nel contempo, dovrà verificare che questa sia finalizzata al bene comune. Sicuramente alcuni spunti potrebbero risultare utili a definire questo spazio condiviso e creativo attraverso il controllo umanizzante dell’economia e del potere economico, la riappropriazione del lavoro e delle strutture dell’economia, la valutazione critica del mercato. Punti questi che, alla luce di un profilo antropologico ed etico, palesano evidenti disfunzioni o sicure eccedenze negative. 3. UNA SUGGESTIONE «ANTROPOLOGICA» NELLA RESPONSABILITÀ SOCIALE DELL’IMPRESA Come si vede il crinale su cui si definisce un confronto creativo tra etica ed economia è sicuramente la categoria della relazione. Se per definizione l’uomo è persona, per la sua originaria struttura relazionale: con se stesso (identità), con l’altro (socialità), nel mondo (territorialità), in ogni sua opera e azione questo valore strutturale (Gesthalt) deve essere per tutti riconoscibile e fruibile. Non a caso P. Ricoeur qualifica il paradigma etico della persona come una attitudine relazionale da realizzare a tre livelli: auspicio di una vita compiuta (consapevolezza), con e per gli altri (sollecitudine-cura), attraverso istituzioni giuste9. La necessità di umanizzare l’impresa e di qualificare la veracità e l’affidabilità della comunicazione nelle sue varie dimensioni, non può prescindere da questo triplice rimando antropologico ed etico. La vera realizzazione personale (auspicio di una vita compiuta) esige, strutturalmente, il legame con la sollecitudine, la cura, l’attenzione all’altro (socialità), attraverso istituzioni giuste che, accuratamente e con coerenza, garantiscano il conseguimento di ciò che è giusto ed è un bene per tutti. Ora, proprio questa esigenza di configurare l’organizzazione e la vita dell’impresa sul paradigma etico della persona, nel suo assetto relazionale, conduce a proporre e a valutare almeno due questioni. La prima è decisamente quella della leadership d’impresa. Probabilmente, il paradigma etico della persona e la categoria della relazione, impongono di accelerare il passaggio dal management alla leadership d’impresa. Infatti, «non è più sufficiente pensare a quella manageriale come a una funzione d’impresa alla quale si chiede il rispetto di un certo insieme di norme etiche fissate dall’esterno, oppure la gestione di risorse umane in linea con il rispetto di principi quali la dignità dell’uomo, il non 9 P. RICOEUR, La Persona, Morcelliana, Brescia 1997. 7 sfruttamento, l’assenza di discriminazioni e così via. Quel che più si richiede è che chi ha responsabilità di governo nell’impresa sappia accogliere e mettere in atto una concezione relazionale dei rapporti umani, una concezione in base alla quale l’altro – chiunque esso sia – viene visto come un tu e non riduttivamente come un alter ego»10. Per questo, la specificità del leader, rispetto al manager, è misurata appunto dalla sua capacità di dilatare le occasioni di realizzazione di tutti coloro con i quali è chiamato ad interagire. La seconda questione, nell’organizzazione d’impresa, mette a tema la certificazione delle condizioni che realmente consentono, a dirigenti e dipendenti, azioni individuali capaci di accrescere il bene comune (di tutti e di tutto l’uomo nella sua pluralità di dimensioni). È qui riproposta, sotto altra forma e in ragione del paradigma etico della persona, l’urgenza del superamento dell’antinomia etica-economia. A tal proposito si pone la domanda: può un’impresa, segnata dal mercato globale, rinunciare ai canoni della razionalità strumentale (cioè della rational choice) a favore di una razionalità espressivo-simbolica che considera il dipendente non solo come un fornitore di input, ma come persona che vuole e deve essere riconosciuta nella sua piena identità? Se fare impresa significa creare valore per l’uomo e per la società, in tal caso, la risposta non può che essere positiva, anche se questa risposta costituisce solo l’inizio di un percorso, più che il suo approdo. Va comunque confermato che la responsabilità sociale e morale dell’impresa rimane l’alveo adeguato in cui i lineamenti di questa risposta dovranno essere definiti11. In questo alveo antropologico ed etico, un altro aspetto dell’organizzazione della moderna impresa entra in discussione e affina ancor più la nostra valutazione, soprattutto in ragione di alcune condizioni limite motivate anche da pervasivi fenomeni di asimmetria comunicativa e da forme di incompletezza contrattuale: è sempre più difficile per il management controllare l’operato dei collaboratori e dei dipendenti o viceversa. «Come evitare che comportamenti opportunistici del tipo free-riding e shirking (atto di imboscarsi) raggiungano la soglia al di sopra della quale viene messa a repentaglio la redditività dell’impresa?»12. La scelta più praticata sembra quella dell’adozione di appositi schemi d’incentivo, attraverso cui ottenere lo sforzo (effort) ottimale per raggiungere gli S. ZAMAGNI, La responsabilità dell’impresa, in RTM (2003) 139, 432. Cf G. MANZONE, La responsabilità dell’impresa, Queriniana, Brescia 2002. 12 S. ZAMAGNI, La responsabilità dell’impresa, op.cit. 433. 10 11 8 obiettivi prefissati. Ma questa scelta nasconde almeno due ambiguità: l’una, è che l’incentivo ha comunque un costo per l’impresa; l’altra, è che l’incentivo tende a sostituirsi e a spiazzare (crowding-out) le motivazioni intrinseche e profonde dei vari agenti. Dare un incentivo per essere onesti nel lavoro svuota l’onestà del suo vero valore morale e sociale, e poiché è proprio il valore a cadere sotto la luce dell’approvazione sociale, a lungo termine si avrà che, nella comune convinzione, l’onestà ha sempre un prezzo e non è un valore che si sceglie a partire dalla sensibilità intima delle motivazioni morali della persona. Si potrà dire che sicuramente l’incentivo (offrire qualcosa che ha valore per dirigere l’orientamento di una scelta) è preferibile alla coercizione (coartare la volontà altrui), ma è anche vero che vi sono, per entrambe, alternative plausibili e percorribili quali la persuasione e l’approvazione sociale che, in molti casi, sono risultate strategie veramente vincenti. La responsabilità sociale si profila come via aurea attraverso cui l’impresa si crea il bene della reputazione; bene che, a sua volta, può valere come argomento decisivo per il coinvolgimento morale di coloro che in essa operano. Malgrado ciò, rimane vivo il problema circa alcune questioni che hanno radici talmente profonde da poter trovare risposta solo a partire dalla sensibilità e dalle intime motivazioni etiche di ogni persona agente nell’impresa. Questo delle intimew motivazioni etiche non è un passaggio di piccolo conto: implica notevoli variazioni pratiche. E quali possono essere - ci si chiede - le implicazioni pratiche di questo paradigma etico? O quale potrà essere la sua effettiva traducibilità nel contesto degli obiettivi dell’impresa? Possibili risposte sono da ricercare su due piani: quello del fondamento, che affronta il tema del valore dell’èthos, e quello del fenomeno, che misura nella concretezza degli obiettivi la rilevanza sociale della responsabilità dell’impresa. 4. DALLA SUGGESTIONE ANTROPOLOGICA A QUELLA ETICA: IL SENSO DELLA VIRTÙ IN ECONOMIA Attraverso il confronto critico di due matrici di filosofia morale si può affrontare la specificità e la rilevanza delle precedenti considerazioni: quella neo-contrattualista, con chiari riferimenti a nomi quali J.Rawls (1971) e D. Gauthier (1986); quella dell’evoluzionismo morale, che, attraverso l’opera di F. von Hayek, recupera la tradizione a cui apparteneva A.Smith. Il riferimento all’una o all’altra matrice determina 9 differenze di un certa consistenza. Una differenza risulta certamente sostanziale: se nel pensiero neo-contrattualista la base dei valori è costituita dall’accordo imparziale di individui razionali, nell’approccio evoluzionista il fondamento dei valori etici è dato nel processo attraverso cui questi valori, insiti nella coscienza morale (gabe, dono), sono edificati come virtù (auf-gabe, compito). In pratica la differenza porta a questa concreta valutazione. Se nella prospettiva neo-contrattualista è l’accordo tra individui razionali, su norme condivise, a generare comportamenti adatti a superare problemi di asimmetria informativa, di free-riding o di shirking; al contrario, sul versante dell’evoluzionismo morale, risultano giustificate solo quelle pratiche e quelle istituzioni che, data una certa comunità di persone, realmente sostengono lo sviluppo delle virtù tipiche di quella comunità. È dunque, in qualche modo, riproposto l’approccio dell’«etica della virtù», già teorizzato da A. Smith nel suo The Theory of Moral Sentiments (1759). In essa Smith sosteneva la necessità di pervenire ad un assetto istituzionale capace di garantire la diffusione tra i cittadini di comportamenti intrinsecamente virtuosi. Appare più chiara la differenza della formulazione dei codici etici nelle due prospettive. Se nel profilo neo-contrattualista il codice etico è un vincolo razionale che l’impresa decide di imporsi per conseguire un determinato obiettivo, nell’ottica dell’evoluzionismo morale questo si configura come strumento per la pratica della virtù, come via che favorisce lo sviluppo della sensibilità e della disposizione morale dei vari agenti. In pratica si evidenzia ancor più la distinzione qualitativa tra le due prospettive. Infatti, se per produrre e far rispettare regole morali, concettualizzate nella forma di capitale umano reputazionale, è sufficiente un coerente sistema di leggi, una giustizia efficiente e uno schema di incentivi esterni, per quanto attiene regole che si profilano come virtù, cioè come impegno che traduce l’intima sensibilità etica della persona, è sicuramente necessario intervenire sulla struttura motivazionale interna dei soggetti e sulla loro adesione convinta ai valori umani e umanizzanti. Si esige, per la virtù, il passaggio dalla pura necessità (utilità, bisogno) a quello della libertà (scelta e coinvolgimento personale). Non a caso il paradigma etico della persona, nella sua struttura nativamente relazionale, propone all’attenzione dell’individuo e della società valori quali: solidarietà e bene comune, sussidiarietà e partecipazione. Come, di fatto, non possono essere più sottaciuti o poco valutati, nella rendicontazione sociale, parametri quali la valorizzazione delle risorse umane, lo sviluppo integrale della persona, la giustizia distributiva per evitare disparità salariali eccessive, la considerazione dell’impresa come comunità di uomini al servizio della libertà del 10 singolo e dell’intera società, la piena attuazione dei diritti umani, eventuali investimenti in zone svantaggiate. L’organizzazione di un’impresa, a partire dal paradigma etico della persona come relazione, propone cambiamenti strutturali e operativi che affondano le radici in cambiamenti innanzitutto culturali. Se al centro di una progettualità responsabile e sostenibile vi sono obiettivi economici (crescita, equità, efficienza), non certamente hanno meno peso gli obiettivi sociali (empowerment,rispetto dei diritti, partecipazione, coesione sociale,rispetto dell’identità culturale,sviluppo delle istituzioni) e quelli ambientali (integrità degli ecosistemi, farsi carico dei costi, partecipazione, biodiversità, ed altri). Questa rilevazione del triple bottom line, nella rendicontazione sociale, non può essere sostenuta solo in ragione del bene reputazionale dell’impresa, ma deve trovare un fondamento condiviso nella intima motivazione etica delle persone agenti che riconoscono la rilevanza di un valore per se stesso e ben oltre l’utilità della pura considerazione o della reputazione. Il processo virtuoso che questo paradigma etico avvia, riporta certamente alla giusta misura le varie componenti della finalità economica: questa misura è il fine umano e umanizzante di ogni scelta progettuale. Anche il Gruppo di studio sul Bilancio Sociale (GBS), in risposta a questa nuova sensibilità, propone tre sezioni obbligatorie nel bilancio sociale: identità aziendale, che prevede l’esplicitazione dell’assetto istituzionale, dei valori etici di riferimento, della missione, delle strategie e delle politiche dell’impresa; produzione e distribuzione del valore aggiunto, che rende evidente l’effetto economico che l’attività dell’azienda ha prodotto su alcune e principali categorie di stakeolder; relazione sociale, che espone i risultati ottenuti e gli effetti sui singoli stakeolder in relazione agli impegni e ai programmi dichiarati. Come nell’agire personale la dimensione economica e quella sociale si fondono, così il paradigma etico della persona, nella responsabilità sociale dell’impresa, unisce questi due ambiti, ne ispira l’azione e orienta al bene comune. Il valore alto della qualità umana delle relazioni, nell’impresa, trova riscontro sempre su due livelli: quello del rapporto con il lavoratore (regole di governo dell’impresa, forme e modi di partecipazione del lavoratore nell’impresa, qualità delle relazioni industriali, promozione del lavoratore come persona) e quello che lega l’impresa con la comunità locale (codici di condotta, certificazioni etiche ed ecologiche,bilancio sociale). Se la consistenza e la rilevanza sociale del bene relazionale e della sua complessità, sia sotto il profilo antropologico che su quello etico, additano il percorso di un necessario 11 cambiamento culturale mirato alla sensibilità etica e alla virtù, di fatto questo percorso vede il grande problema della comunicazione implicato in modo decisivo non solo come strumento utile, ma come condizione creativa di questa nuova sensibilità. L’affidabilità, la trasparenza e la veracità della comunicazione, in un sistema così complesso e articolato, non può ridursi a strumentalità di pura garanzia (sensore di verifica), piuttosto diventa lo spazio relazionale in cui vanno a definirsi rapporti, strategie e finalità. In tal caso la comunicazione, nella responsabilità sociale dell’impresa, non solo è necessaria per una relazione corretta, quanto piuttosto coistituisce un nuovo e specifico mondo relazionale, interno ed esterno, che richiede, da un lato, il superamento della sua parcellizzazione e, dall’altro, un suo utilizzo che non sia puramente strumentale. 5. COMUNICAZIONE COME CO-ISTITUZIONE DI UN MONDO VITALE (FIDUCIA E AFFIDABILITÀ) Per questo la comunicazione non può essere più solo rappresentativoinformativa, ma è sempre legata all’agire e ad un contesto vitale: la comunicazione genera infatti una relazione, istituisce un mondo di attese e di progettualità più o meno condivise. Comunicare è agire, è costituire una realtà, è istituire un mondo nuovo e un modo nuovo, personale, di collocarsi nella realtà13. In quanto relazione, la comunicazione arricchisce il solo informare/sapere. Aiuta a conoscere la verità delle situazioni non nell’enunciato dell’informazione, il crudo rendiconto, ma nell’enunciazione, che lega il rendiconto al contesto di reciprocità e agli ambiti vitali di chi la propone e di chi la riceve (A. Delzant). «La comunicazione più autentica ed efficace è quella che informa e trasmette nella maniera più vera l’approccio conoscitivo, valutativo e perfezionativo della realtà, di modo che il ricevente possa, a sua volta, essere messo in condizione di poter vivere un approccio altrettanto positivo»14. La comunicazione è efficace e affidabile quando consente al destinatario non solo di vivere e di condividere, ma di sperimentare anche la sua visione della situazione, permettendo di accostarsi alla realtà in modo da poter instaurare una relazione qualitativa e autentica. Nell’atto linguistico si distingue: un aspetto di locuzione ( si dice qualcosa), di illocuzione (parlando si agisce), di perlocuzione (produzione di effetti sulla situazione di cui si parla). È sulle variabili illocutoria e 13 14 Z. BAUMAN, Parlare insieme o morire insieme, in RD 21 (2002). M. TOSO, I mezzi di comunicazione sociale al servizio delle persone, in La Società 2 (2001) 223. 12 perlocutoria, oltre che sulla semplice locuzione (informare), che la comunicazione aziendale dovrà ancor più concentrarsi. Si crea così un nuovo ordine simbolico, come ordine di reciprocità, di scambio creativo, di fiducia e di riconoscimento. Per questo, oltre la comunicazione bipolare (io-tu), è opportuno considerare anche il contesto in cui la comunicazioni avviene e si concretizza (effetto sociale/aspetto comunitario e collettivo). Questo modello comunicativo, che risulta più adeguato alle esigenze di fiducia e di affidabilità, lo si può desumere dalla riflessione sul termine stesso di comunicazione che rimanda al latino comunicatio. Questo termine, a sua volta, fa riferimento all’aggettivo communis che evoca l’esperienza del munus, il dono, non solo ricevuto, ma anche e soprattutto «l’obbligo che si è contratto nei confronti dell’altro e che sollecita una adeguata disobbligazione»15, cioè la responsabilità. Questa, nella sua etimologia latina, fa riferimento al dovere del rispondere, del farsi carico e del farsi garante. Inoltre, il termine sponsio, che è parte dell’etimo responsabilità, radicalizza questa linea: indica il promettere solennemente, l’impegnarsi. Anche il termine tedesco Verantwortung contiene Antowort, risposta, e anche Wort, parola, che indicano il rispondere ad una chiamata, ad un obbligo che nasce proprio per la presenza di un altro, di cui devo, umanamente, rispondere. Per tanto, la comunicazione indica sempre reciprocità, una mutualità nel dare (dono), al punto che essa consegna radicalmente l’uno all’altro in un impegno condiviso, nel giuramento comune di un vincolo relazionale. «In quest’ottica il comunicare si configura allora come l’apertura di uno spazio comune, pubblico, fra gli interlocutori, i quali sono chiamati a parteciparvi in quanto soggetti parlanti. In questa dimensione comune, la parola non è qualcosa che semplicemente si trasmette, ma è il luogo in cui si realizza un’intesa, mai scontata, e tuttavia sempre possibile»16. Questa intesa richiede la veracità del dire, altrimenti la comunicazione diviene manipolazione; sollecita l’adozione di quel criterio di giustizia in base al quale ogni interlocutore ha diritto di parola; vuole che ciascuno abbia la possibilità di concorrere creativamente alla reciprocità comunicativa e progettuale. 15 16 R. ESPOSITO, Communitas, Einaudi, Torino 1998, XIV. R. FABRIS, Ripensare il modello della comunicazione, in RTM 139 (2003) 359. 13 Anche il Paradigma comunicativo (come intesa interpersonale e cooperazione dialogica; sistema di regole per generare situazioni di conversazione e in cui diventi possibile creare la migliore intesa possibile; orizzonte comune di regole universalmente condivise che, senza pregiudicare la libertà del singolo, rende possibile l’articolazione di tutte le altre (J. Habermas) trova ulteriore chiarezza in questa intesa comunicativa maturata sul terreno della sensibilità etica e sulle motivazioni morali, piuttosto che sul semplice valore reputazionale. In questa linea, richiamandosi ancora ad J. Habermas e a K.O.Apel si può articolare ancor meglio il precedente concetto esposto: l’agire comunicativo si realizza quando i soggetti interessati si impegnano ad accordare reciprocamente i loro piani e i loro scopi e a realizzarli solo sulla base di un accordo, raggiunto senza pressione e costrizione, circa la loro situazione e le conseguenze, personali e sociali, che si devono attendere dall’azione. In questa definizione emergono alcuni riferimenti significativi per una comunicazione così motivata: il fine: ottenere il consenso. Questo si raggiunge solo attraverso l’assenso libero, fondato sullo scambio dialogico, competente e convincente; l’opzione: la reciprocità accettata e condivisa. Tutti sono coinvolti attraverso diritti e responsabilità. le aspettative o le pretese di validità . Esse richiedono coerenza e verità tra i soggetti; coerenza e verità sull’oggetto della comunicazione; linguaggio comprensibile per tutti; rispetto della situazione su cui si innesta la comunicazione. Perché abbiano valore questi riferimenti nella strategia della comunicazione è importante che si costruisca una unità comunicativa caratterizzata da fiducia, affinità, condivisione di progetti, ed è importante che si identifichino con chiarezza gli elementi qualificanti l’affidabilità della comunicazione: Io parlo. Il soggetto che parla inserisce la comunicazione in un suo preciso contesto vitale (è coinvolto in ciò che dice); di qualcosa. Circoscrive con chiarezza e precisione l’oggetto della comunicazione; con altri. Indica il carattere intersoggettivo e sociale della comunicazione; 14 in un certo modo. È lo spazio vitale, l’unità comunicativa che rende possibile il comunicare e il comprendere. Questo ultimo punto, cioè la modalità-stile della comunicazione, consente di verificare la sua affidabilità, e dunque assume un ruolo sempre più decisivo. Oltre alla qualità personale, biografica, della relazione comunicativa, diviene dirimente il contesto vitale della comunicazione e la possibilità di verifica delle informazioni che essa vuole trasmettere. Se il contesto della responsabilità sociale si presenta come utile per costruire una struttura fiduciaria della comunicazione e della relazione, ancor più ora, alla luce delle implicanze antropologiche ed etiche, questo rimando lo si deve ritenere come strutturale in una comunicazione che risulti veramente efficace ed affidabile. Proprio l’istanza antropologica della relazione, che trova fondamento etico nella consapevolezza e nella responsabilità come virtù morali, determina quell’elemento intermedio di convergenza (H.J.Höhn) che, da un lato, non corrisponde solo alle relazioni dei singoli soggetti convergenti, ma che, dall’altro, diventa una terza realtà (una free-zone) che si pone di fronte ai singoli come spazio vitale condiviso adatto a qualificare l’affidabilità della stessa comunicazione. È quello spazio condiviso, il trapersonale che si riconosce come spazio comune e istituzionale su cui, reciprocamente e dunque nel pieno coinvolgimento della persona, si può costruire e garantire la fiducia e l’affidabilità della relazione comunicativa. Questo spazio comune, inevitabilmente, richiama ambiente, territorio, valori, principi, esperienze e bisogni, tradizioni, cultura e progetti condivisi. Solo questo medium personale e sociale, verso cui si contrae obbligo e responsabilità morale, consente di consolidare quello spazio creativo che la comunicazione tende a co-istituire come modello di relazione. L’unità comunicativa, in cui tutti gli agenti interagiscono per sé e per il bene di tutti gli altri, è la condizione, progressiva e dinamica, attraverso cui la condivisione della responsabilità sociale, nella sua diversificata espressione, diventa non solo punto di partenza, ma percorso creativo e virtuoso che caratterizza e qualifica la struttura e lo sviluppo di una moderna impresa. Orazio Francesco Piazza 15