Romani all’arrembaggio di Domenico Carro P La predilezione romana per il più redditizio degli attacchi navali irati dei Caraibi, corsari, bucanieri e filibustieri, reinterpretati dal cinema in chiave avventurosa e romanzesca, hanno affascinato generazioni di spettatori soprattutto per la destrezza marinara che consentiva a quei fuorilegge di arrembare i galeoni spagnoli e catturarvi ricchi bottini. Se costoro ci hanno sempre dato la netta sensazione di impersonare la quintessenza dell’arte navale (data la loro estrema disinvoltura nel raggiungere e catturare qualunque nave), all’opposto ci sono stati descritti gli antichi romani, formidabili combattenti sulla terraferma, ma presunti “imbranati” per mare. Eppure sappiamo che i cosiddetti Fratelli della Costa e tutta l’insieme di pirati che infestarono le acque dei Caraibi, riuscirono a mala pena a mantenere il controllo dell’isolotto della Tortuga, mentre Roma conquistò con le proprie flotte un impero immenso dopo aver sconfitto per mare tutte le potenze navali dell’epoca. La spiegazione che ci è sempre stata data, si è basata su di una cosiddetta capacità che veniva attribuita agli antichi Romani di “trasformare la battaglia navale in un combattimento terrestre”. Si tratta evidentemente di un paradosso, perché nessuno potrebbe costringere un evento navale a svolgersi entro schemi che non tengano conto dell’incoercibile potenza del mare e dei venti. D’altra parte, la forza delle legioni romane nei combattimenti terrestri aveva bisogno di spazi 18 marzo-aprile 2012 molto ampi; poiché, viceversa, le anguste superfici disponibili a bordo non consentivano movimenti di reparti armati, ma solo combattimenti individuali, risulta evidente che se vogliamo meglio capire come essi si siano effettivamente comportati per mare, dobbiamo analizzare un poco più a fondo il loro modo di condurre le battaglie navali. La battaglia navale Nelle battaglie navali dell’antichità classica, una nave poteva essere sottratta al nemico in due modi: o mettendola fuori uso (cioè affondandola o danneggiandola in modo irreparabile), oppure catturandola. Il primo risultato poteva essere ottenuto speronandola con il rostro oppure appiccandovi il fuoco, mentre per il secondo occorreva assalirla e prenderne possesso, e questo secondo metodo era quello tradizionalmente preferito dai pirati. L’approccio dei romani alle battaglie navali fu molto più pragmatico, coerentemente con il robusto senso pratico che caratterizzava la loro mentalità. Essi giudicarono sempre che fosse molto più vantaggioso catturare le navi nemiche, essendo insensato mandare a fondo quelle preziose risorse allorquando si poteva trarne un ricco bottino, sia per il valore delle navi stesse e dei materiali imbarcati, sia per quello degli equipaggi catturati. Questi ultimi potevano infatti essere impiegati come mezzo di scambio per ottenere la restituzione di pro- pri prigionieri, oppure venivano ridotti in schiavitù (nel pieno rispetto dello Ius Gentium, l’equivalente dell’odierno Diritto Internazionale) e venduti a caro prezzo. Tuttavia, la dinamica degli scontri fra le flotte contrapposte non consentiva di optare per la sola cattura delle navi avversarie astenendosi dagli speronamenti, poiché nelle fasi calde dell’attacco occorreva sfruttare ogni occasione per dannegNave da guerra romana con torre da combattimento a prora ed i classiari sul ponte, bassorilievo del giare il nemico. principato di Augusto (27 a.C. – 14 d.C.) proveniente da Palestrina, Roma, (Musei Vaticani). In aperPertanto, ogni combattura, copia della Colonna Rostrata di Caio Duilio, oggi esposta nel Museo Nuovo Capitolino di Roma timento navale includeva sia delle manovre sire in brevissimo spazio la velocità necessaria per tattiche volte a neutralizzare o distruggere le unità speronare le unità nemiche. Durante la fase di avnemiche, sia delle azioni intese ad acquisire la magvicinamento, il comandante romano, con dei segior quantità possibile di bottino navale. Vediamo gnali ottici, regolava la disposizione e la rotta delcome potevano collocarsi queste ultime azioni nelle proprie unità in modo da porre in massima difla sequenza logica delle varie fasi di una battaglia ficoltà il nemico. navale condotta dai romani in mare aperto. Va innanzitutto considerata la fase di avvicinaImprovvisare in battaglia mento al nemico da parte di una forza navale roNon vi era una tattica migliore delle altre e semmana in mare. Poiché le navigazioni avvenivano pre vincente, ma, a seconda delle condizioni del spesso a vela, l’avvistamento della flotta nemica momento, poteva risultare più conveniente cercadeterminava l’immediato cambio del sistema di re di aggirare la formazione nemica, o sfondarne propulsione: mentre i marinai provvedevano a la parte centrale, o scompaginarla solo lateralserrare le vele e ad abbattere l’albero di maestra e mente, o farla allungare in una certa direzione, o il dolone (l’albero prodiero inclinato, avente la costringerla a ripiegare verso la costa (soprattutto funzione di bompresso), i rematori mettevano i se vi erano delle rocce affioranti o dei bassi fondaremi in acqua ed iniziavano a vogare. Non appeli), e così via. na il ponte di coperta era sgombero, i classiari (la Non appena le più avanzate navi nemiche giunfanteria di marina), predisponevano le armi da gevano entro la gittata delle artiglierie maggiori, getto e montavano le torri da combattimento. iniziava il lancio di proiettili, ovvero i massi o Queste torri erano infatti realizzate in modo tale grossi dardi scagliati dalle macchine da lancio imda potersi montare e smontare abbastanza rapidabarcate, come la catapulta, la balista e l’onagro. mente, fino a quando Marco Agrippa (durante il Fra i proiettili vi erano anche quelli incendiari, suo primo consolato, nel 37 a.C.) le perfezionò a costituiti da vasi colmi di carboni accesi e pece, tal punto da farle rapidamente erigere dal ponte utilizzati dai romani a partire dalla prima guerra senza la minima perdita di tempo. Quanto al pasPunica, fino alla grande vittoria navale di Azio (31 saggio alla propulsione a remi, si trattava di un a.C.), e occasionalmente anche in età imperiale. provvedimento indispensabile poiché la vela non Fra i proiettili navali più anomali che siano mai consentiva alle navi di effettuare evoluzioni suffistati usati dagli avversari dei romani vanno ricorcientemente strette in ogni direzione, né di acqui- marzo-aprile 2012 19 Nave da guerra romana in navigazione mista, a vela e remi, con i classiari sul ponte di coperta, particolare di un affresco proveniente dal portico del Tempio di Iside a Pompei (Museo Archeologico Nazionale di Napoli) dati i vasi pieni di vipere lanciati dalle navi di Annibale durante la guerra Siriaca (191-190 a.C.). Tornando al nostro avvicinamento fra le due flotte contrapposte, quando la distanza delle navi nemiche si riduceva ancora, i classiari passavano alle armi a più corta gittata, come lo scorpione e le frecce degli arcieri posizionati sulle torri, e infine al lancio dei giavellotti. Potevano essere lanciate anche frecce incendiarie o torce resinose. Si giungeva così al momento della fase tattica ravvicinata, situazione nella quale ciascuna unità doveva manovrare indipendentemente per schivare i rostri nemici e dirigere invece la propria prora in modo tale da colpire qualche unità avversaria. La soluzione più drastica e sbrigativa era quella di speronare la nave avversaria nella sua fiancata, aprendovi uno squarcio che spesso ne provocava l’affondamento. Ma la manovra ideale non era quella. I comandanti romani preferivano colpire con il rostro solo gli organi di governo (spezzando una fila di remi o uno dei due timoni) in modo da ridurre la capacità di manovra della nave nemica e poterla successivamente affiancare ed abbordare. In questa fase di evoluzioni ravvicinate, un’altra arma alquanto efficace fu realizzata fissando alle prore una o due pertiche sporgenti che sorreggevano un contenitore di ferro pieno di sostanze combustibili infiammate. Tale artificio incendiario, ideato dalle alleate navi rodie e presto adottato da quelle romane, risultava incutere al nemico un terrore perfino maggiore di quello del rostro, provocando reazioni scomposte ed una conseguente riduzione delle capacità di difesa. Da quanto abbiamo visto, è evidente che per poter 20 marzo-aprile 2012 effettuare degli abbordaggi, occorreva innanzi tutto riuscire a passare indenni attraverso la convulsa fase delle evoluzioni ravvicinate, in cui erano soprattutto i rostri a dettar legge. A quel punto, per abbordare una nave avversaria occorreva effettuare una serie di manovre molto abili per affiancarla, compensando prontamente le contromanovre del nemico. Va infatti detto che, se i romani intendevano sempre ottenere quel risultato, la maggior parte dei loro nemici voleva evitarlo ad ogni costo, conoscendo la vigoria romana nel combattimento individuale corpo a corpo. Quando una nave romana riusciva infine ad affiancarsi alla nave avversaria e ad abbordarla saldamente (cioè quando le due fiancate erano giunte a stretto contatto), scattava il vero e proprio assalto: i classiari romani balzavano sull’altra unità e vi affrontavano i difensori nemici. In questi combattimenti, i contendenti non erano solo esposti ai colpi reciproci, ma anche alla costante minaccia del saettare delle frecce scagliate dalle torri di entrambe le unità. La lotta si concludeva normalmente con la cattura della nave nemica, a meno che nel frattempo non fossero prevalsi gli incendi o fosse sopravvenuto qualche altro speronamento. Dal corvo all’arpax L’arrembaggio costituiva dunque solo la parte conclusiva della battaglia navale, ma la sua fattibilità non era affatto scontata. Infatti, tutta la condotta dell’azione, dall’avvicinamento all’affiancamento all’abbordaggio richiedeva una perizia navale e marinaresca superiore a quella del nemico. Questa sola constatazione avrebbe dovuto tenere a freno i romani quando questi si trovarono a fronteggiare le flotte di popoli di più antica e consolidata esperienza navale. Invece essi insistettero Rostro navale del III secolo a.C. probabilmente appartenente ad una delle navi romane che combatterono alle Egadi. Il rostro viene mostrato dal suo lato sinistro e dalla parte anteriore, ove si intersecano il robusto fendente verticale con i tre fendenti orizzontali nei loro sforzi per conseguire i risultati migliori proprio con queste azioni, tanto erano convinti che si trattasse della modalità di attacco più razionale e redditizia. A tal fine, utilizzarono i normali attrezzi marinareschi necessari per l’abbordaggio, e forse concepirono anche alcune innovazioni che sono state riferite da qualche storico isolato, ma che risultano prive di ulteriori riscontri. La prima e più nota di queste presunte soluzioni innovative fu il cosiddetto corvo, ovvero quella sorta di passerella mobile (posta a prora delle navi romane e manovrata come un picco di carico) che, secondo la testimonianza del solo Polibio, sarebbe stata introdotta da Caio Duilio sulla prima grande flotta di quinqueremi che Roma allestì per sfidare i cartaginesi sul mare. Questa apparecchiatura, non attendibile per tutti gli storici, è stata presentata come l’espediente mediante il quale i romani poterono sconfiggere la flotta punica senza combattere una vera e propria battaglia navale ma solo una specie di combattimento terrestre. Riteniamo che sia difficile accettare questa storia perché un attrezzo del genere, ancorché utilizzato con perfetto tempismo, avrebbe potuto assolvere la sua funzione soltanto nelle situazioni cinematiche più favorevoli, ovvero quando la nave attaccante e il bersaglio stessero già navigando grosso modo di conserva. Solo in tali condizioni, la passerella, agganciandosi ai bastingaggi della nave avversaria, avrebbe effettivamente potuto rendere inevitabile l’abbordaggio. Per contro, se le due navi avessero navigato con rotte nettamente divergenti o addirittura di controbordo, si sarebbe certamente provocato lo scardinamento dell’attrezzo. Secondo Polibio, comunque, nella prima occasione di impiego di questi corvi (acque di Milazzo, 260 a.C.) i cartaginesi ne furono talmente spaventati, vedendoli incombere da ogni direzione, da subire una sonora sconfitta: il successo romano avrebbe quindi beneficiato del fattore sorpresa. Gli stessi corvi sono ancora citati da Polibio nella narrazione della battaglia navale di Ecnomo (256 a.C.), dove avrebbero però avuto solo un effetto dissuasivo. In tutte le successive attività delle flotte romane, non ve ne è più traccia, né nella storia di Polibio, né in alcun’altra fonte. La loro sparizione dopo due sole apparizioni è sta- marzo-aprile 2012 21 Prora di nave da guerra con torre da combattimento e braciere incendiario, forse disegnata da un classiario della flotta di Giulio Cesare su una parete della necropoli d’Anfushi, ad Alessandria d’Egitto ta recentemente messa in relazione con la notevole diminuzione di stabilità provocata dalla loro imponente mole, a prora delle navi, che ne avrebbe compromesso la sicurezza quando la flotta romana si imbatté in una violenta burrasca nel Canale di Sicilia e subì numerosi naufragi (255 a.C.). Questa spiegazione potrebbe essere plausibile, ma un’analisi filologica ancor più recente (Marta Sordi, 2002) è pervenuta alla conclusione che i corvi siano stati inventati dall’ammiraglio cartaginese sconfitto a Milazzo, per giustificarsi con un deus ex machina capace di trasformare la battaglia navale in una battaglia terrestre, cioè in un combattimento nel quale non era disonorevole essere battuti dai romani. In ogni caso, avendo sicuramente operato senza corvi in tutte le attività svolte per mare dal 255 a.C. in poi, i romani riuscirono ad imporsi sui cartaginesi, sconfiggendoli definitivamente nelle acque delle Egadi (241 a.C.), avendoli superati sul piano della pura perizia navale e marinaresca. Per abbordare le navi nemiche, essi vi lanciavano manualmente le cosiddette mani di ferro (manus ferreae), termine che è stato utilizzato anche per indicare una delle astruse invenzioni di Archimede, ma che, nel contesto delle operazioni navali romane, va inteso come un attrezzo simile ad un rampino d’abbordaggio. In alternativa si usavano, sempre lanciandoli a mano, gli arpagoni (harpagones): strumenti più pe- 22 marzo-aprile 2012 santi, costituiti da un’asta metallica uncinata, assicurata ad un corto spezzone di catena che proseguiva con il normale cavo vegetale. Un’ulteriore evoluzione di questo attrezzo potrebbe essere stata ideata da Marco Agrippa, nel 36 a.C., prima di affrontare la flotta pirata radunata da Sesto Pompeo in Sicilia: si trattava, secondo il solo storico greco Appiano, del cosiddetto arpax, che era più lungo e pesante dell’arpagone, ma veniva lanciato da una catapulta a distanza alquanto maggiore. Questo attrezzo, che potrebbe aver favorito la grande vittoria navale di Ecnomo, non risulta essere stato più usato negli anni successivi. Ricostruzione grafica ottocentesca di Francesco Corazzini del “corvo” descritto da Polibio; secondo lo storico greco, la passerella, lunga 10,7 metri e larga 1,2, avrebbe consentito il passaggio di due classiari affiancati Vittorie navali e trionfi Scorrendo il lungo elenco delle vittorie navali romane che si sono snodate lungo l’arco di più di due secoli, fra quella di Milazzo e quella di Azio, si ha la piena conferma dell’elevata importanza attribuita dai romani agli arrembaggi, determinando una netta prevalenza delle navi catturate rispetto a quelle affondate. Possiamo verificarlo riepilogando sinteticamente i risultati conseguiti in occasione delle seguenti vittorie navali di particolare rilevanza: Milazzo (260 a.C.): 31 navi catturate, 14 affondate; Ecnomo (256 a.C.): 64 catturate, 24 affondate; Capo Bon (255 a.C.): 114 catturate, nessuna affondata; Egadi (241 a.C.): 63 catturate, 125 affondate; Corico (191 a.C.): 13 catturate, 10 affondate; Mionneso (190 a.C.): 13 catturate, 29 affondate; Bretagna (56 a.C.): circa 200 catturate, nessuna affondata; Nauloco (36 a.C.): circa 200 catturate, 28 affondate; guerra Aziaca (31 a.C.): 300 catturate, circa 200 affondate o bruciate. In totale, circa 1.000 navi catturate contro 430 affondate. A questi dati andrebbero ancora aggiunte le 110 navi rostrate catturate da Lucio Lucullo ed esibite nel suo trionfo (63 a.C.) e le 800 navi rostrate catturate da Pompeo Magno nella guerra Piratica ed in quella Mitridatica, come egli stesso poté ostentare con cartelli riepilogativi e “un infinito numero di rostri” in occasione del suo terzo trionfo (61 a.C.). Rimane ora solo da capire chi fossero questi combattenti che, dalle navi romane, si lanciavano sulle unità nemiche. Abbiamo già accennato alla tipica composizione dell’equipaggio delle navi da guerra dell’antica Roma, con tre distinte componenti: i marinai veri e propri, addetti alle manovre marinaresche; i rematori, che, pur appartenendo ad una categoria meno pregiata della prima, erano oggetto di altrettante cure, data l’importanza della loro azione nei momenti più critici della battaglia navale; i militi navali, o classiari, che si occupavano delle armi di bordo e dei combattimenti in mare; essi costituivano inoltre la forza da sbarco in caso di operazioni anfibie. In origine (IV sec. a.C.) questi classiari erano forniti dalle marinerie italiche alleate di Roma, donde il loro altro appellativo di “socii navales”. Successivamente il corpo dei classiari ebbe una consistenza più variegata, includendo sia dei cittadini romani, normalmente delle classi più povere, data la durezza del servizio, sia dei liberti e dei cittadini delle provincie, ai quali veniva conferita, a termine ingaggio, la cittadinanza romana, ma anche La stele funeraria della prima metà del I secolo d.C. del classiario graduato Moniato Capitone imbarcato sulla liburna Aurata della flotta ravennate, rinvenuta a Classe, presso Ravenna, dove si trovava una delle due maggiori basi metropolitane della Marina romana una percentuale di criminali, incatenati, condannati ai remi. Questa situazione è soprattutto riferita all’epoca imperiale, meglio conosciuta. Prescindendo dai vari distinguo sulle origini dei singoli individui, l’Impero nella sua totalità era romano, e dalle sue province provenivano anche i più alti funzionari e perfino gli Imperatori; allo stesso modo, così come le legioni erano l’esercito di Roma, i classiari costituivano la “fanteria di marina” romana, cioè l’equivalente del nostro Reggimento S. Marco e dei “marines” degli anglosassoni. Stando alla prosa raffinata di Giulio Cesare, che parla di arrembaggi sia nel De Bello Gallico che nel De Bello Civili, la corretta espressione latina per indicare l’azione di assaltare le navi nemiche era “in hostium naves transcendere”. I romani erano perfettamente consapevoli che l’arrembaggio, anche se ancora per secoli non assumerà questo nome, fosse l’attacco che richiedeva il maggior coraggio (oltre all’indispensabile piede marino): la più antica motivazione per la concessione della corona navale (o corona rostrata), considerata la più alta delle onorificenze militari assieme alla precedente corona muraria, concessa a chi per primo scalava le mura di una fortezza nemica, era “per essere balzato per primo, in armi, su di una nave del nemico”. Ancora nel tardo Impero, Vegezio scriveva che vanno all’arrembaggio “coloro che so■ no resi temerari dal proprio coraggio”. marzo-aprile 2012 23