«Per quanto il suo ambito specifico di studio fosse la morale sociale, il teologo [Pietro Pavan] non era del tutto estraneo ai temi della pace. Chiamato a Roma nel 1946 da Treviso - dove insegnava nel locale seminario - era diventato membro dell’ICAS e segretario del Comitato permanente delle Settimane sociali dei cattolici italiani. Aveva così ricevuto incarico di trarre le conclusioni della XXII sessione di questo organismo dedicata nel 1949 al tema dei rapporti nella comunità internazionale. In questa circostanza, pur verosimilmente conoscendo le posizioni nel frattempo manifestate da Ottaviani e Cordovari […] si era mostrato prudente. Infatti dalle premesse che nel nuovo contesto internazionale le guerre sarebbero diventate inevitabilmente mondiali e che l’uso dell’arma atomica comportava pericoli per la sopravvivenza della famiglia umana non traeva la conseguenza dell’interdizione poco prima espressa, sulla base degli stessi argomenti, dall’assessore del sant’Ufficio (bellum omnino interdicendum). La sua conclusione giungeva ad un più tradizionale e asettico invito: occorreva dotare la comunità mondiale di un’organizzazione fornita di strumenti idonei a prevenire i conflitti. Più politicamente impegnativa si rivelava invece la posizione espressa dieci anni più tardi nel volume La democrazia e le sue ragioni. Qui la chiara enunciazione del cambiamento qualitativo introdotto dall’uso degli ordigni nucleari nella natura stessa della guerra, si traduceva oltre che nel ribadimento di un’adeguata strutturazione delle Nazioni Unite per evitare la deflagrazione dei conflitti, nella sottolineatura dell’esigenza di diffondere il regime democratico: il controllo popolare sul potere gli appariva una delle vie con cui ridurre il rischio mortale che l’umanità stava correndo. È nota l’importanza di questo testo per l’apertura che esso comportava sia alla visione dei diritti scaturita dalla Rivoluzione francese, sia a un’accettazione cattolica dell’ONU . Ma, dal nostro punto di vista, non meno importante era un’altra affermazione: la convinzione della cesura radicale introdotta dall’era nucleare. Pavan mostrava ormai di essersi allineato a quanti ritenevano che con le armi atomiche non era più possibile parlare di un iustus modus nella conduzione della guerra. Era sullo sfondo di queste acquisizioni culturali che nel gennaio del 1963 una prima stesura della nuova enciclica veniva inviata da Pavan al pontefice. Questi, assieme al suo segretario e allo stesso Pavan la rivedeva, per far poi circolare, secondo la prassi curiale, il testo al fine di raccogliere pareri e osservazioni. Gli studi sinora condotti non chiariscono in maniera esauriente il processo redazionale del documento, anche se alcuni elementi, per quanto riguarda la questione della pace, sembrano emergere in maniera abbastanza precisa: la struttura e la sostanza del testo rimasero invariate; veniva rimossa l’apertura al riconoscimento dell’obiezione di coscienza presente nella prima formulazione; cadevano due frasi che suggerivano l’immoralità dell’uso delle armi nucleari in quanto i loro effetti distruttivi non erano controllabili. L’enciclica, dopo le ultime limature e la traduzione latina, veniva firmata il giorno 11 aprile. Riprendendo la linea già sviluppata in precedenza, era indirizzata, oltre che agli usuali destinatari di simili documenti (l’episcopato e la chiesa universale, il clero e i fedeli), «a tutti gli uomini di buona volontà». Lo stesso pontefice chiariva le ragioni che lo avevano portato a questa innovazione, allargando i destinatari dell’intervento: in una breve allocuzione, tenuta subito dopo la firma del documento, ricordava che era sua intenzione rivolgersi a tutti gli uomini di buona volontà, in quanto i problemi trattati riguardavano l’intera umanità. In tal modo Giovanni XXIII riprendeva quell’esile filo che da settori della cultura cattolica degli anni Trenta ai firmatari dell’Appello di Stoccolma aveva legato la pace alla buona volontà degli uomini? In mancanza di testimonianze precise sulla questione, basta segnalare che il magistero assumeva ora, e dunque proponeva a livello della chiesa universale, un’impostazione che in precedenza era rimasta confinata in ambiti minoritari. Non bisognava tuttavia dimenticare che per Roncalli la questione della pace poteva essere risolta solo ripristinando l’ordine voluto da Dio per il consorzio umano. Ma, accanto a questa eredità della tradizione intransigente, asseriva anche che la sua concreta costruzione richiedeva l’apporto di coloro che, pur non illuminati dalla fede, operavano sorretti dalla ragione e dall’onestà naturale. Dunque la chiesa si rivolgeva anche a loro, per sollecitarne la collaborazione nella soluzione di un problema che a tutti interessava. E in effetti il testo faceva appello alla «ragione» come il dato comune di cui tutti gli uomini potevano ricorrere per l’organizzazione della pace. Tuttavia si può registrare un’evidente oscillazione linguistica. Il richiamo faceva ora riferimento al termine ratio ora all’espressione recta ratio, reintroducendo così la primazia della ragione illuminata dalla fede. Per esempio a proposito del disarmo si asseriva da un lato che tale obiettivo «è reclamato dalla retta ragione» e nella riga successiva si proclamava che è «reclamato dalla ragione». Che non si trattasse di un’oscillazione casuale lo dimostra il fatto che essa ritorna in uno dei passi cruciali della Pacem in terris, dove si indicava, distinguendo tra errore ed errante e tra ideologie e movimenti politici e sociali e culturali, che sui temi trattati dall’enciclica vi poteva essere un largo terreno di intese tra cattolici e non cattolici. Da un lato infatti si precisava che proprio la «ragione» era il terreno comune di incontro tra tutti gli uomini. Ma dall’altro lato si affidava alla «retta ragione» di cui erano depositari i cattolici il compito di sceverare se le istanze dei non cattolici corrispondevano o meno alle giuste aspirazioni della persona. […] Si ha come l’impressione di una remora a portare fio in fondo quel cambiamento di cui pure si avvertivano chiaramente i termini. Da un lato emergeva la consapevolezza di un passo da compiere: abbandonare la pedante dettatura dei criteri di moralizzazione della guerra per immettere la chiesa all’interno della storia, facendole assumere concretamente una funzione di costruzione della pace attraverso lo stimolo del dialogo tra uomini pericolosamente schierati si posizioni contrapposte. Dall’altro sembra di avvertire un timore o una riserva nel trattare le ovvie conseguenze di questo passo: tralasciare le rivendicazione di un possesso esclusivo – grazie al controllo della Rivelazione – di una verità assoluta che si proponeva come misura e criterio anche della vita politica internazionale». Tratto da D. MENOZZI, Chiesa, pace e guerra nel Novecento. Verso una delegittimazione religiosa dei conflitti, Il Mulino, Bologna 2008, pp. 266-269.