QUESTIONE SOCIALE e la Chiesa in Italia

Associazione Italiana dei Professori di Storia della Chiesa
Dizionario Storico Tematico La Chiesa in Italia
Volume II - Dopo l'Unità Nazionale
Roma 2015
Copyright © 2015
Voce pubblicata il 11/01/2015 -- Aggiornata al 18/01/2015
QUESTIONE SOCIALE e la Chiesa in
Italia
Autore: Andrea Ciampani
Nell’età contemporanea la “questione sociale” è stata suscitata dalla grande trasformazione socioeconomica e politica collegata alla rivoluzione industriale e al conseguente processo d’industrializzazione
che dalla Gran Bretagna si diffuse nel resto del mondo, con tempi e dinamiche differenti, tra la fine del
XVIII secolo e la seconda metà del XX secolo. Durante la fase di avvio del capitalismo storico, infatti, alle
nuove forme di produzione e di organizzazione del lavoro si accompagnò anche una peculiare posizione di
subordinazione del lavoro dipendente; contemporaneamente, si affermarono forme di sfruttamento del
proletariato creatosi nel passaggio dalla vita rurale a quella urbana e operaia. L’affermarsi nelle élites
liberali di una visione economica–sociale che considerava il “lavoro” come merce, da ricondursi a una
semplice variabile del costo del lavoro e ad uno degli elementi quantitativamente valutabili nella
produzione, prescindendo dalla dignità della persona prestatrice d’opera e dal significato del suo apporto
personale, accentuò il disequilibrio del potere sociale presente nei rapporti tra domanda e offerta di
lavoro. Emerse progressivamente, così, un nuovo fenomeno sociale di disuguaglianza tra le classi
borghesi e finanziarie, detentrici dei capitali e dei mezzi di produzione, ed i soggetti che vedevano la
cessione delle loro energie fisiche e/o intellettuali ricompensata col minore salario possibile. In tale
contesto si sviluppò, dunque, un movimento operaio e sociale di emancipazione materiale e culturale
perché lavoratrici e lavoratori potessero uscire da condizioni di miseria e di degradazione individuale e
familiare, in cui si sperimentava la precarietà della vita umana mercificata. Il formarsi di una “questione
sociale”, perciò, trova alimento tanto nella cultura del lavoro della società contemporanea quanto nella
struttura economica produttiva dei suoi processi di sviluppo.
Il diffondersi della rivoluzione industriale tra Ottocento e Novecento, inoltre, era accompagnato dal
simultaneo affermarsi delle rivoluzioni politiche che rivendicarono le libertà costituzionali e la
cittadinanza democratica. Nella prima metà del XIX secolo, peraltro, apparve evidente che l’esperienza di
marginalità delle sempre più numerose classi lavoratrici coinvolte nel mutamento produttivo e sociale
non trovava adeguata via di superamento all’interno del liberalismo politico che si sviluppava in tale
periodo. Si promossero, così, importanti iniziative di riformismo sociale, concepite anche dai governi per
ridurre od evitare il conflitto sociale, e rilevanti movimenti politici alimentati da ideologie che, facendo
leva su quel conflitto, intendevano scardinare il sistema di potere politico borghese. Le dinamiche della
“questione sociale”, tuttavia, non possono essere adeguatamente comprese all’interno di tale dimensione
politica; esse, piuttosto, vanno ricondotte all’interdipendenza delle proposte avanzate da molteplici attori
sociali ed istituzionali coinvolti nel processo d’industrializzazione, alla luce di diverse e contrastanti
visioni dei rapporti economici, sociali e politici.
La “questione sociale”, infatti, s’impone all’opinione pubblica quando emerge nella vita sociale la
consapevolezza della radicale trasformazione del vecchio ordine dei rapporti economici, dell’esigenza di
operare efficacemente nel superamento dell’ingiustizia nei rapporti di lavoro e della possibilità di
perseguire adeguate strategie per conseguire tali obiettivi. Al centro della “questione sociale”, dunque, si
pone l’affermarsi di una rappresentanza sociale degli interessi delle lavoratrici e dei lavoratori attraverso
associazioni fondate sulla libera adesione solidale delle persone che lavorano, come è stata storicamente
realizzata dai sindacati costituiti per sviluppare sul piano privato-collettivo un’efficace azione
contrattuale e negoziale. Dopo la fase più critica e conflittuale della “questione sociale” nei Paesi
industrializzati, dunque, il progressivo affermarsi di un libero sindacalismo, indipendente dagli Stati e dai
partiti, nella seconda metà del Novecento ha consentito di delineare con maggiore chiarezza il rapporto
tra ampliamento del processo democratico e partecipazione sociale alla formazione delle decisioni socioeconomiche. Alla fine del secondo millennio, lungi dall’essersi chiusa con l’evolversi della cultura del
lavoro e delle dinamiche economiche della società globale, la “questione sociale” si caratterizza per la
capacità degli attori della società civile di orientare l’economia di mercato alla giustizia e alla coesione
sociale, concorrendo alla realizzazione di un welfare attivo e partecipando alla governance delle
possibilità produttive sulla base della libertà e della solidarietà.
In tale profilo storico va collocata l’evoluzione dell’opera della Chiesa e dei cattolici in Italia. Dopo il 1861
le trasformazioni del mondo del lavoro nel lento processo d’industrializzazione italiano produssero i primi
sintomi di malessere sociale in Piemonte, in Lombardia, in Toscana, in Emilia, nel Napoletano e in Sicilia,
legati ai mutamenti introdotti nelle attività tessili, nello sviluppo dell’edilizia e nelle miniere di zolfo.
Nello stesso tempo, nel settore tipografico e in quello serico emergevano associazioni professionali e
leghe di “resistenza”, che alla fine degli anni Settanta già apparivano assumere caratteri sindacali. Nelle
campagne, che occupano ancora nel 1881 più della metà dei lavoratori attivi in assai differenziate
condizioni di lavoro, si manifesta la presenza di quella drammatica questione agraria che, con gravi
riflessi socio-politici, caratterizzerà l’intera storia nazionale. Negli ultimi decenni del secolo, la “questione
sociale” iniziò a imporsi nel dibattito pubblico anche in connessione ai moti ribellistici delle “boje” nelle
campagne settentrionali durante la crisi del 1882, alla repressione dei fasci siciliani e dei movimenti
anarchici in Lunigiana nel 1894, e all’esplosione di tumulti sociali nelle città del 1898, mentre si
moltiplicavano gli scioperi e sorgevano accanto alle leghe di resistenza le prime Federazioni sindacali
nazionali e le Camere del lavoro. In questi anni, peraltro, si incrementò l’inurbamento e si sviluppò il
fenomeno migratorio verso l’Europa e le Americhe, destinato a toccare il suo apice nei primi anni del
Novecento.
La presenza della Chiesa negli Stati preunitari e nel Regno d’Italia (il censimento nazionale del 1861
registrava una popolazione che si dichiarava cattolica nella sua generalità) aveva alimentato un profondo
impiego delle Opere pie e delle attività di beneficienza per fronteggiare pauperismo e mendicità.
Misurandosi con la trasformazione degli ordinamenti di Antico Regime e con la cultura liberale dei nuovi
gruppi dirigenti nazionali, anche la Chiesa italiana fu chiamata a confrontarsi con l’affermazione della
società moderna nel suo complesso; in tal senso, l’enciclica di Pio IX Quanta cura e l’accluso Sillabo del
1864 può essere considerata a buon diritto la prima enciclica sociale. Mentre la politica ecclesiastica dei
governi sabaudi, prima e dopo la costituzione del Regno d’Italia, si rivolgeva contro la “manomorta”,
imponendo la conversione dei beni immobili degli Enti morali ed ecclesiastici, l’indemaniamento delle
confraternite, la pubblicizzazione delle Opere pie, si avviò un processo di aggregazione del laicato
cattolico italiano intorno al magistero pontificio, come segnala la nascita nel 1868 della Società della
Gioventù Cattolica, alle origini dell’Azione Cattolica.
Dopo la Breccia di Porta Pia nel 1870, in stretta connessione con la questione romana sollevata dalla
protesta pontificia, nel 1874 si costituì l’Opera dei Congressi per sostenere una presenza pubblica dei
cattolici nella società civile; al suo interno sorse una Sezione dell’economia sociale cristiana, volta a
coordinare comitati parrocchiali, casse rurali e società operaie, che promosse nel 1889 un’Unione
cattolica di studi sociali per formare la cultura degli operatori cattolici. Si organizzò l’impegno sociale
cattolico nelle opere di assistenza e d’istruzione (col sostegno del clero diocesano e degli ordini religiosi,
alcuni dei quali fioriti proprio nell’Ottocento), dell’assistenza mutualistica, della cooperazione e del
credito. Le classi dirigenti cattoliche favorirono il passaggio dai monti frumentari alle Casse rurali,
sostennero la diffusione delle Banche popolari e delle Casse di risparmio, non esitarono a dar vita propri
istituti bancari (nel 1888 la Banca San Paolo di Brescia, nel 1895 il Banco Ambrosiano di Milano, nel
1896 il Piccolo Credito Romagnolo a Bologna). Anche l’impegno sociale del cattolicesimo italiano fu
incoraggiato dalla promulgazione nel maggio 1891 dell’enciclica di Leone XIII Rerum Novarum, che
denunciava i mutamenti che agitavano le popolazioni nella società moderna. In tale documento erano
contenute le linee di sviluppo di un magistero sociale che si sviluppò, attraverso le encicliche di Pio XI, di
Giovanni XXIII e di Paolo VI, fino alla Centesimus annus di Giovanni Paolo II nel 1991. Nell’enciclica
leoniana, infatti, in relazione allo sviluppo della persona nelle comunità naturali della società civile, si
delineavano l’opportuno dispiegamento dell’associazionismo professionale operaio e l’esigenza di
ricomporre i conflitti di lavoro in una prospettiva di ordine sociale: nei differenti contesti e periodi del
secolo seguente, personalità e correnti del movimento sociale cattolico enfatizzarono ora l’uno, ora l’altro
aspetto.
In Italia, dopo i falliti tentavi degli anni Ottanta dell’Ottocento per superare il non expedit e reinserire il
cattolicesimo politico negli istituti parlamentari, il movimento cattolico venne a caratterizzarsi sempre
più per una politicizzazione della sua diffusa presenza sociale. In tal senso, anche i cattolici vennero
coinvolti nel processo che vedeva il movimento socialista e l’approccio liberale dell’età giolittiana
ricondurre l’esplosione della questione sociale, segnata da un aspro scontro di classe, alla semplice
prospettiva politica di introdurre le masse nello Stato, mortificando il dinamismo dei soggetti sociali. Un
riflesso di tale problematica si manifestò nelle divisioni che non tardarono a manifestarsi circa il senso
della “benefica azione cristiana a favore del popolo” promossa dal movimento democratico cristiano
d’inizio secolo e all’interno dell’Unione economico sociale istituita nel 1905 dopo lo scioglimento
dell’Opera dei Congressi, mentre la riflessione sulle dinamiche economico- sociali, alimentate dal
pensiero di Giuseppe Toniolo, trovarono sbocco nei convegni delle Settimane Sociali dei cattolici italiani,
avviate nel 1907. Nelle trasformazioni produttive provocate della prima guerra mondiale e nel conflitto
sociale dell’immediato dopoguerra (durante le occupazioni delle terre e le lotte operaie che culminarono
alla fine del “biennio rosso” con l’occupazione delle fabbriche del 1920), restava aperto il problema del
rapporto dell’azione sociale dei cattolici con la loro organizzazione confessionale e la loro azione politica,
dal 1919 rappresentata dal Partito Popolare Italiano promosso da don Luigi Sturzo. L’associazionismo
sociale “bianco” (che vide tra i suoi leader Achille Grandi, Guido Miglioli e don Carlo De Cardona) vide
restringersi il campo d’azione durante la formazione del regime fascista, mentre si riducevano le libertà
politiche e si tentava la costruzione dello stato totalitario. La tutela per l’azione religiosa derivante dai
Patti Lateranensi del 1929 incentivò il carattere morale dell’azione sociale cattolica, che si concentrò in
un’indipendente formazione culturale.
Alla caduta del fascismo e alla fine della guerra mondiale, così, la classe dirigente cattolica poteva
elaborare un’azione di ricostruzione sociale del Paese, svolgendo un ruolo importante per far ottenere e
gestire aiuti internazionali destinati all’assistenza delle popolazioni più misere e ad avviare la ripresa
produttiva nazionale. Nell’Italia repubblicana, mentre i governi della Democrazia cristiana consentivano
di misurare l’impegno riformatore di un cattolicesimo sempre più articolato sul piano sociale, come
accadeva con la Confcooperative e con le Associazioni Cristiana dei Lavoratori Italiani; sul piano
sindacale i cattolici italiani aderirono soprattutto alla Confederazione Italiana Sindacati dei Lavoratori,
organizzazione non confessionale. Con le sue molteplici associazioni, laiche e religiose, il mondo cattolico
accompagnò la trasformazione dell’Italia in un Paese industriale, con la conseguente emersione di nuovi
disagi, favorendo l’istruzione e l’educazione delle classi popolari, condividendo le rivendicazioni sociali
nelle grandi imprese e alleviando l’emigrazione meridionale verso le aree industrializzate del Nord. Nei
conflitti industriali degli anni Sessanta si rinnovò l’impegno dei cattolici perché si riconoscesse dignità al
lavoro, valorizzando l’azione dei soggetti sociali e l’autonomia della società civile organizzata dal
collateralismo con i partiti politici. Il nuovo malessere provocato dalla società dei consumi e dai suoi
limiti, riletto anche alla luce del magistero del Concilio Vaticano II, sollecitò un complessivo
ripensamento dell’impegno cattolico a sostegno dei rapporti familiari e sociali, collegandosi con la Chiesa
locale o sviluppando nuove forme associative. I sempre più rilevanti flussi d’immigrazione e le nuove
marginalità nel nostro Paese, inoltre, hanno spinto il mondo cattolico a sottolineare una rinnovata azione
sociale a sostegno delle categorie sociali più deboli. Negli ultimi decenni del ’900, così, i cattolici italiani
hanno promosso forme responsabili di associazionismo e di rappresentanza sociale nella fase di
ripensamento dello Stato assistenziale, sollecitato dalle nuove dinamiche del capitalismo contemporaneo,
anche realizzando opere economico-sociali volte a contrastare il dirigismo con la sussidiarietà e ad
orientare socialmente l’economia con la partecipazione degli attori sociali.
Fonti e Bibl. essenziale
I. Giordani (a cura di), Le encicliche sociali dei papi: da Pio IX a Pio XII, 1864-1956, Studium, Roma,
1956, 4 ed. corretta e aumentata; A. Gambasin, Il movimento sociale nell’Opera dei Congressi 18741904; contributo per la storia del cattolicesimo sociale in Italia, Università Gregoriana, Roma, 1958; V.
Saba, Le esperienze associative in Italia (1861-1922), Franco Angeli editore, Milano 1978; S. Zaninelli (a
cura di), Il sindacalismo bianco tra guerra, dopoguerra e fascismo (1914-1926), Franco Angeli, Milano,
1980; Dizionario storico del movimento cattolico in Italia, a cura di F. Traniello – G. Campanini, vol. I,
Tomi 1-2, Editrice Marietti, Torino, 1981; Aggiornamento 1980-1995, Marietti, Torino, 1997; F. Fonzi, I
cattolici e la società italiana dopo l’unità, Roma, Studium, 1982 4 ed.; D. Veneruso, La questione sociale
1814- 1914, SEI, Torino 1985 6 ediz.; L. Trezzi, Sindacalismo e cooperazione dalla fine dell’Ottocento
all’avvento del fascismo, Franco Angeli, Milano, 1982; I documenti sociali della Chiesa: da Leone XIII a
Giovanni Paolo II, Libreria Editrice Vaticana, Città del Vaticano, 1991; P. Rosanvallon, La nouvelle
question sociale: repenser l’etat-providence, Editions du Seuil, Paris, 1995; M. Fornasari – V. Zamagni, Il
movimento cooperativo in Italia. Un profilo storico-economico (1854-1992), Vallecchi, Firenze 1997; M.
Romani (a cura di), Appunti sull’evoluzione del sindacato, Edizioni Lavoro, Roma, 2006 5 ed.
_________________________________
A cura della Redazione
Cantiere Storico: “La Chiesa in Italia”
integrazioni, complementi, aggiornamenti alla Voce da parte di Autori diversi
Immagine: Roma, veduta dell’abside della Chiesa di San Pancrazio nel giugno del 1849. Metà del XIX
secolo. Olio su tela – Roma, Museo Centrale del Risorgimento