Relazione Professore Savagnone - Pastorale Sociale e del Lavoro

Cattolici protagonisti… per il bene comune
Firenze, Assemblea dei cattolici e dell’episcopato toscano, 17 marzo 2012
Introduzione
Noi cattolici oggi siamo rimasti gli ultimi – ora che la sinistra, orfana del
marxismo, è passata armi e bagagli dalla parte dei suoi antichi nemici (zapaterismo) a essere esenti, almeno in linea di principio, da quella subdola ideologia neo-liberale,
che scambia la persona con l’individuo ed enfatizza indiscriminatamente le pretese di
quest’ultimo come diritti, che la comunità politica avrebbe solo da registrare e
rispettare, astenendosi da ogni valutazione etica – a pensare in termini di bene
comune. Di fronte all’omologazione che oggi pervade tutti i settori della scena
politica, noi siamo rimasti i soli rivoluzionari.
Il fresco clima di un albeggiare. Risposta appropriata alla sottolineatura della virtù
teologale della speranza (Verona)
Atto penitenziale (spesso trascurato): non eravamo in viaggio alle Bahamas.
Ferite/feritoie. Solo la luce che filtra dalle ferite, individuate e accettate, porta a
vedere il cammino e a uscir fuori dagli errori passati.
Cattolici
Varie accezioni del termine:
dalla Chiesa alla gerarchia ecclesiastica ai laici ai politici cattolici.
Il dato innegabile:
protagonismo della gerarchia, invisibilità o marginalità dei laici.
I costi di questa “supplenza”:
logorio dei pastori, costretti ad andare oltre l’enunciazione dei princìpi e la loro
applicazione (che sarebbero loro proprie), per impegnarsi in un confronto diretto con
le forze politiche (Diotallevi parla di «una situazione anomala di sovraesposizione
dell’episcopato sempre più costosa per l’equilibrio ecclesiale» [L’ultima chance,
24]);
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discredito del laicato, ridotto a “truppe” da mobilitare;
distrazione della Chiesa dal suo compito primario, che è pastorale e non
immediatamente politico e che solo così può alla lunga aver effetti decisivi sulla
politica (regolare il corso dei fiumi invece di puntare tutto sul puntellamento delle
dighe).
Il contrasto con l’insegnamento della Chiesa:
E’ vero che «la religione cristiana e le altre religioni possono dare il loro
apporto allo sviluppo solo se Dio trova un posto anche nella sfera pubblica, con
specifico riferimento alle dimensioni culturale, sociale, economica e, in particolare,
politica» (Benedetto XVI, Caritas in veritate, n.56).
Però «la Chiesa non può e non deve prendere nelle sue mani la battaglia
politica per realizzare la società più giusta possibile (…) La formazione di strutture
giuste non è immediatamente compito della Chiesa, ma appartiene alla sfera della
politica, cioè all'ambito della ragione autoresponsabile (…) Il compito immediato di
operare per un giusto ordine nella società è invece proprio dei fedeli laici. Come
cittadini dello Stato, essi sono chiamati a partecipare in prima persona alla vita
pubblica (…) Missione dei fedeli laici è pertanto di configurare rettamente la vita
sociale, rispettandone la legittima autonomia e cooperando con gli altri cittadini
secondo le rispettive competenze e sotto la propria responsabilità» (Benedetto XVI,
Deus caritas est, nn.28-29).
Le cause
(capirle per uscire da questo vicolo cieco):
La tesi di Sandro Magister: «La chiesa, quella gerarchica delle autorità supreme,
con i partiti cattolici è sempre stata più matrigna che madre» (Chiesa
extraparlamentare, 7). Il tradizionale primato assegnato alla società civile. «Finché
l’attivismo dei fedeli si mantiene sul terreno religioso e sociale, il controllo della
Chiesa su di loro è più agevole. Ma quando esso si sposta sul terreno politico, tutto
cambia» (ivi, 37). Il non expedit, l’abbandono del Ppi per gli accordi diretti col
fascismo, i contrasti amari tra Pio XII e De Gasperi, la pronta rassegnazione alla fine
della Dc e l’apertura a una gamma di interlocutori (Forza Italia, An, Lega) tutti
relativi, anche perché “lontani”.
Ma la vera ragione è implicita in una notazione che lo stesso Magister fa a
proposito della nascita della Dc nel dopoguerra: «E dall’Ac, dagli universitari della
Fuci, dai laureati cattolici, dalla associazioni operai e contadine è tutto un fluire di
nuovi quadri dirigenti verso la Dc» (48). «Un’inchiesta condotta negli anni Sessanta
all’Istituto Cattaneo di Bologna accerta che tra i dirigenti centrali ei parlamentari
democristiani, tra il 1946 e il 1963, quasi il settanta per cento ha ricoperto cariche
diocesane o provinciali nelle organizzazioni cattoliche, e quasi un terzo cariche di
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rilievo nazionale. Anche tra i militanti democristiani più attivi, negli stessi anni, due
su tre provengono dall’associazionismo cattolico; mentre fra i tesserati, nel 1962, il
quattordici per cento risulta contemporaneamente iscritto all’Azione cattolica o alle
Acli e nel Nord la quota sale al ventidue per cento. Quanto agli elettori, stando a
un’indagine Doxa del 1961, settantasette su cento vanno a messa tute le domeniche,
contro una media nazionale, in quegli anni, del cinquantatrè per cento» (ivi, 49).
Questo è il punto decisivo: il declino - prima col boom economico degli anni
Sessanta e l’americanismo, poi con il Sessantotto, poi col diffondersi di un
consumismo selvaggio di cui è stata al tempo stesso effetto e volano la Tv
commerciale - di un forte laicato, vivo innanzitutto spiritualmente, ma anche
culturalmente e perciò capace di essere incisivo politicamente. Scrive Diotallevi:
«Con l’indebolirsi delle élites laicali, si torna a sentir parlare addirittura un
linguaggio “neogentiloniano”. Prelati che impostano patti politici con una coalizione
immaginandone il laicato cattolico come semplice esecutore. (Ciò che fa pensare, e a
tanti anni dal Vaticano II un po’ intristisce, è che non manca nel laicato cattolico chi
si riconosce in un ruolo del genere)» (L’ultima chance, 47).
Questa diagnosi, se da un lato pone in seconda linea, pur non negandola, la
tendenza al protagonismo della gerarchia, ne mette in luce la motivazione, almeno
per quanto riguarda gli ultimi anni, e cioè la giustificata sfiducia in un laicato non
preparato e non maturo.
Ma ciò non scagiona la Chiesa istituzionale e la stessa gerarchia, perché non
elimina, ma sposta la loro responsabilità dal momento operativo a quello più radicale
dello stile pastorale. Nelle nostre comunità, specie in quelle parrocchiali, che sono
l’asse portante della vita ecclesiale, si è riprodotto il dualismo tra sacro e profano che
il cristianesimo ha superato in linea di principio, ma che di fatto è in pieno vigore: da
un lato il luogo dei riti (stazione di servizio), dall’altro la vita e la cultura reali dei
credenti. Una fede senza storia e una storia senza fede.
Non c’è da stupirsi se anche la speranza sia venuta meno come dimensione storica
comunitaria. Quando – scrive il Papa - , con lo sbiadire dell’idea del Giudizio finale,
«la fede cristiana viene individualizzata ed orientata soprattutto verso la salvezza
personale dell’anima» (Benedetto XVI, Spe salvi, n.42), le sorti della storia vengono
abbandonate dai cristiani alla logica puramente secolare del progresso nelle sue
diverse versioni ideologiche. Allora non c’è più profezia, in vista di una società
nuova e diversa, ispirata al Vangelo, ma solo diplomazia difensiva, con i potenti di
turno, per salvare il salvabile.
Così come non c’è da stupirsi dell’estinguersi, nelle nostre comunità, di quella
passione che è la carità, nella sua forma impegnativa che il Papa ha collegato alla
politica: «Si ama tanto più efficacemente il prossimo, quanto più ci si adopera per un
bene comune rispondente anche ai suoi reali bisogni. Ogni cristiano è chiamato a
questa carità, nel modo della sua vocazione e secondo le sue possibilità d'incidenza
nella pólis. È questa la via istituzionale — possiamo anche dire politica — della
carità, non meno qualificata e incisiva di quanto lo sia la carità che incontra il
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prossimo direttamente, fuori delle mediazioni istituzionali della pólis» (Benedetto
XVI, Caritas in veritate, n.7).
Per il bene comune
Tre punti fondamentali:
Il bene comune è un bene.
Non un interesse. È la buona vita della moltitudine, la piena realizzazione delle
persone per quanto dipende della vita associata, non l’equilibrio e la conciliazione
degli interessi. Dunque è valutabile in termini di ragione etica, non assumibile nella
logica degli interessi, che di per sé sono soggettivi e non valutabili. Oggi si insorge
appena a livello di comunità politica si discutono i “diritti” di questa o quella
categoria – è capitato con le donne per l’aborto, capita adesso per i gay - per il solo
fatto che ci si permette di valutare ciò che ormai è ritenuto automaticamente valido
per il solo fatto di essere posto sul tavolo da qualcuno come sua esigenza.
Non una mera funzionalità pubblica, come hanno detto tanti – anche cattolici! –
quando hanno sostenuto che la vita morale dei governanti non interessa la politica, la
quale è solo preposta a fare leggi efficaci e condivisibili. Le virtù, secondo Aristotele,
si assimilano attraverso l’esempio di una comunità e in questa comunità tutti – ma
soprattutto chi ha incarichi di grande importanza – sono responsabili del clima etico
che si respira. E questo clima fa parte integrante del bene comune.
Il bene comune è comune.
Non è la somma di fini uguali – di singoli e di categorie – ma un tutto che per
essere raggiunto spesso richiede ai singoli di rinunziare ai fini soggettivi. E non si
raggiunge se non unendo le proprie forze. Questo significa che ognuno è responsabile
verso gli altri delle proprie scelte. Anche sotto questo profilo gridare “l’utero è mio e
ne faccio quello che voglio”, così come dire “della mia vita privata non devo dar
conto a nessuno”. Certo, uno Stato che estendesse la sua legislazione ad ogni minimo
comportamento sarebbe liberticida. Ma la politica è molto di più dello Stato. E
un’educazione politica ci fa capire che anche il pezzo di carta gettato per strada crea
problemi alla comunità, anche se nessuno mi arresterà certo per questo.
Il bene comune è universale.
Coestensivo alla persona umana. Noi siamo cattolici e possiamo capire cosa ciò
comporti.
Questo significa che la Chiesa non può comportarsi come una lobby. «Una lobby
può, e legittimamente, insistere su di un tasto solo», perché «la funzione della lobby è
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semplicemente quella di garantire che un certo tema e certi interessi siano presenti
nell’agenda di un dato attore dell’offerta politica. Proprio per questa ragione le sue
possibilità di successo sono direttamente proporzionali al disinteresse della stessa
lobby per l’insieme dell’agenda di quello stesso attore, eccetto che per il grado di
priorità mantenuto dal tema e dagli interessi che le stanno a cuore» (Diotallevi,
L’ultima chance, 29-30).
È il rischio di un certo modo di intendere i “valori non negoziabili”, che restringe
a tre punti, abbandonando gli altri alla mercé dei contraenti. In questo modo però,
paradossalmente, l’insistenza sui valori non negoziabili coincide con il negoziato dei
valori!
Quanto sia facile l’equivoco, anche da parte di chi ha “sani princìpi” (per questo ci
vuole l’atto penitenziale!), lo dimostra la norma (contenuta del disegno di legge sulla
sicurezza del 2009) approvata al Senato da una maggioranza che giustamente
protestava contro l’uccisione di Eluana Englaro, in base a cui i medici potevano
denunziare i clandestini che si fossero rivolti alle strutture sanitarie pubbliche. Se
fosse passata anche alla Camera (ciò non è accaduto per la protesta di 100 deputati
dello stesso centro-destra che l’aveva approvata al Senato), questa norma avrebbe
condannato a morte tutti coloro che, pur di non rischiare il rimpatrio, dopo infiniti
sacrifici sofferti per arrivare da noi, avrebbero preferito rischiare la vita propria e
quella dei loro figli anche in caso di gravi problemi di salute, non presentandosi alle
strutture pubbliche. In tanti che ne siamo resi conto. In quell’occasione chi scrive ha
promosso, nel marzo 2009, un appello, intitolato «Rispettare le persone, tutte e
sempre», a cui hanno aderito settantaquattro noti intellettuali cattolici (rigorosamente
bipartisan) e che è stato pubblicato da «Avvenire» e da «Famiglia cristiana» , dove si
diceva: «La norma recentemente approvata dal Senato, secondo cui l’extracomunitario clandestino che si rivolge a una struttura pubblica per essere curato può
essere denunziato, è già stata contestata dall’Ordine dei Medici come contraria al
proprio codice deontologico, e a buon diritto, perché distorce l’identità e la funzione
del medico. In quanto cittadini che si sforzano di ispirare la vita pubblica al Vangelo
e alla Dottrina sociale della Chiesa, noi vogliamo fare nostra questa contestazione
nella più ampia prospettiva dei diritti umani e della solidarietà. La norma in
questione, infatti, crea le condizioni perché degli uomini e delle donne debbano
scegliere tra la propria salute o quella dei propri figli e la speranza, legata alla
permanenza nel nostro paese, di una vita meno misera per sé e per la propria
famiglia. Essa pone così ai più poveri tra i poveri un odioso ricatto, il cui esito
potrebbe, in molti casi, essere tragico. Non è chiaro se l’innovazione legislativa,
eliminando il divieto di denunzia da parte del medico, introduca un obbligo o soltanto
una facoltà. In ogni caso è evidente che già il rischio della denunzia costituirebbe per
il clandestino un deterrente decisivo che lo scoraggerebbe dal rivolgersi alle strutture
sanitarie. La vita umana va difesa in tutto l’arco del suo svolgersi. Noi ci opponiamo
decisamente, perciò, alla posizione di quanti ne svalutano arbitrariamente la fase
iniziale e quella terminale. Ma con altrettanta energia rifiutiamo tutte le misure che ne
umiliano la dignità e ne mettono a repentaglio l’integrità nel tempo intermedio tra
questi due estremi. A questo proposito, non possiamo non rilevare la contraddizione
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di quanti – come hanno fatto di recente molti senatori – accusano di assassinio chi
cade nel primo tipo di violenza, senza rendersi conto di quella che rischiano a loro
volta di fomentare».
Domanda politica oppure anche offerta?
In questo modo, peraltro, si spiega la sterilità propositiva dei cattolici n politica.
Perché le lobbies non offrono, chiedono. Bisogna evitare la «trappola» «di
confondere manifestazioni di segmenti di domanda politica con manifestazioni (…)
di una iniziativa di offerta politica» (Diotallevi, L’ultima chance, 29). Esemplare è
l’equivoco di chi ha creduto di vedere nel Family day del 12 maggio 2007 «una
iniziativa di offerta politica» (ivi, 29).
Educare alle virtù e in particolare alle virtù politiche
Nelle nostre comunità (non solo nelle scuole di politica) bisogna formare
personalità di cattolici che abbiano il senso della cittadinanza, dotati dunque di una
profonda umanità, senza cui la fede rischia di essere vanificata (v. il mio libro
Educare oggi alle virtù, LDC).
Giuseppe Savagnone
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