per l ’ alto mare aperto 4 Giovanni Giudici La vita in versi Scalpendi Sperimentale L’intelligenza col nemico Lasciando un luogo di residenza L’incursione sulla caserma Il ventre della lucertola La caduta del ciclista Versi in una domenica di Pentecoste e di elezioni Dal suo punto di vista Anch’io Versi per un interlocutore Nota al testo Il testo è quello della prima edizione dell’opera: La vita in versi, Milano, Mondadori, 1965, confermato nelle edizioni successive e dalla raccolta complessiva I versi della vita, a cura di Rodolfo Zucco, con un saggio di Carlo Ossola, cronologia a cura di Carlo Di Alesio, Milano, Mondadori, 2000. Sull’esempio di quest’ultima edizione i nomi di Lukacs, di Peredjelkino e di Tolstoi sono riportati alla grafia oggi in uso (Lukács, p. 23; Peredel’kino, p. 27; Tolstoj, p. 75), e corretto il nome Libonati in Libonatti a p. 110. (e.e.) Sperimentale 1957 Intuisce determina inventa – inascoltato keplero sperimenta: supponi punto retta sfera – orbita che l’includa e sorpassi, seguila fino in fondo e troverai la cometa in viaggio a un «Pax in terra». Dai buchi delle tane l’occhieggiano i tassi; e la volpe abbagliata – sembra un cane; e la chioccia – abbandona spaventata la covata scaldata a metà. «Di qua la giusta via per la cometa?» Supponi un altro punto un’altra meta retta sfera – un’altra orbita che tutto includa intersechi sorpassi, chiedi in prestito il numero che manca alla certezza – al crocevia, un cartello. Evita il non supposto pipistrello, il viscido in agguato: «Dimmi – e se fosse tutto sbagliato?» 7 L’intelligenza col nemico 1957 Mercatoribus est aditus… (Caes. Bell. Gall. IV, 2) Come piega minore intelligenza al suo vertice e si rassegna il giorno in ombra, in luce la notte, che sfiora per inerzia un traguardo e arretra senza flettere l’arco dal solstizio… È aperta la chiesa solo il sabato al tardivo penitente; già spenta, quando appare, la cometa; non muta in gloria un tradimento; il cielo non si traduce in dimensione alterna a questa che si logora in chi cerca nel cemento una crepa, lo spiraglio nel carcere, il cammino sotterraneo nella fortezza assediata. Al tramonto il sole non si ferma, e forse il poco tempo che basta era al di là: «Son pronto per aspettarlo a rinnegarti, a cedere al nemico il segreto che ti perde, il solco dove intride il puro verde della tua foglia un giallo di veleno. 8 Anch’egli ha i suoi piccoli vizi – dirò: ma per salvare lui, non per ucciderti; e tornerò per avvisarti. È questo il campo che ho prescelto e tra le sponde straniere vado e vengo, portatore delle parole d’ordine; trattengo fra due maschere avverse un volto solo, indifferente a come mi sorprenda l’esito, in fuga o nell’azzurra tenda d’un vincitore provvisorio. C’è chi mi crede un mercante intento ai traffici: tu sai soltanto che è ambiguo il mio cuore, ma non mente. Resistere è difficile». 9 Lasciando un luogo di residenza Fumo, non nebbia padana, ma fumo di fabbriche si sfiocca clandestino nel maltempo e marcisce le cellule del sangue appena uno che credeva di respirare aria ne imbocca una spira – fumo che annerisce negli armadi gli argenti e i lini umidi per troppo poco sole. Fumo e pioggia Abbiamo in questa ultima domenica sentito la messa vespertina nella chiesa di legno, domandato se era stato completo il nostro obolo per la chiesa che è da costruire di calce e pietre – quella che vedrà gente diversa nascere e morire. Sono già lontani i nostri figli, soltanto tua è la voce che mi parla: mio padre se n’è andato ed è un’età la sua che ben può dire che sia stata l’ultima volta che ha visto la città. Ho deciso in tre giorni di lasciarla. veri, grevi, non detti da parole soltanto, ci accompagnano in attesa di andarcene di qui dove ha perduto per noi significato dire «sempre», da quando non possiamo dare un nome al luogo del domani prevedibile. Né odio né amore ci lega a questa casa che speravamo provvisoria (ma non per un tempo così breve), a questa casa che abbiamo per primi abitata e non ha odori che non siano i nostri di animali docili ed innocui. 10 11 L’incursione sulla caserma Il ventre della lucertola Ero immobile sotto un calmo cielo, marzo pieno d’azzurro, ma quel cielo non potevo vedere contro il nero asfalto in cui premevo la mia faccia: non quella mia viltà ma d’altri taccia lo strazio questa lontana parola che adesso mi raggiunge nuda e sola verità comprovata mentre un vero non probabile cerco. C’era il nero asfalto nei miei occhi e verso il cielo la nuca, i miei capelli e quelli d’altri, più forti, meno agili, più scaltri, più deboli, ma tutti come me, con le orecchie tra i gomiti, le mani in croce, gli occhi chiusi ad aspettare di morire o di vivere, ignorando ciò che cadeva intorno, non osando per paura di muoverci gridare. Per non bruciare l’uomo deve scegliere. Quando volta il suo ventre la lucertola, bianco che basta una disattenzione a mostrarlo indifeso – non più verde com’era il dorso al suo verde splendore: com’era la lucertola sul dorso a terra, gli occhi a terra, che non vede la lancetta del suo persecutore trapassarle la bocca tesa, il cuore forarle, uscire in mezzo al ventre – l’uomo che nei supplizi non cantava e grida di spavento se un trapano s’annida nel tendine, un martello spacca i denti, anche soltanto se ci pensa – l’uomo dove proteggerà le sue gementi fibre quando saranno nude? Salta il ladro fuggitivo sul cancello di punte alabardate, in mezzo al filo spinato s’impiglia l’agnello deliberato a perdersi, sull’alta resinosa s’aggrappa un altro quando 12 13 l’assedia il fuoco alle radici e osando volgersi indietro l’inseguito asilo cerca sul passo che lo fa tremare, volendo qualche volta per durare … Forse tutto si compie entro quest’ora. Arrivano: non chiedere perché ho diviso tra noi le vostre sorti. vivo al mondo non vivere. Da molto a un sordido riparo anch’io m’aspetto di finire, in silenzio per paura di muovermi… Ma quando per diletto la lucertola volta o per arsura il ventre, o a mezzogiorno s’avventura per le case il rapace e in uno stretto vicolo, odiato e inerme, è preso – il mondo tutto corre a quel punto, e là m’ascolto anch’io cadere capofitto e labile. Per trattenermi non ho più che me vivo al fondo del luogo vulnerabile dove costretto a vivere non so morire illeso e cieco: finalmente senza difese – vivo ventre bianco d’uomo, senza più palpebre tuo viso, mio viso senza schermi e tutto in te ciò che in tutti i tuoi simili c’è ancora più bianco – il tuo midollo, il seme, il fianco scosceso alla tortura degli insorti. 14 15 La caduta del ciclista Versi in una domenica di Pentecoste e di elezioni 1958 Chi è più vulnerabile – il ciclista nel traffico in città, o lui dall’orlo del catino guizzante sulla corda (prima che la raggiunga) della pista? Se un sasso scheggia il legno delle ruote o scagliata fra i lucenti raggi una sbarra rompe l’armonia – capovolgersi è un attimo, la mia stessa vita precipita con lui la fronte a quel durissimo cemento, si spaccano i suoi denti in me, mio sangue è il sangue tra i suoi capelli, il lamento degli ossi fratturati che già fui. Spacchi il torrone alla fiera e spacchi la storia degli uomini – la mia notte in due tentativi di prendere il sonno, distacchi i fili, capovolgi le statue degli eroi sulle fontane. Aspetto che ti scateni e che mi tremi dentro l’anima – ad un supposto abbattersi di mazza su me nudo untore, a questa piazza in fermento. Dovrò reggerti ancora in me senza conoscerti – tu, fermo segno del mio mutare – in me più forte di te fino al momento che romperai l’incognito? Qui il più grande è il più vile, il più sicuro di sé chi affida il duro ammicco verso il complice – dal muro le spie strappano bandi, taglie, insidiano fabbriche e dighe… Non mi credi? 16 17 Attesta la mia parola la disubbidienza civile, la protesta del tuo popolo: punto sulla terra i piedi, alzo la testa benché mi pesi – ad aspettarti. Ma lo spazio d’una vita non basta a rivelarti. Dal suo punto di vista 1958 L’opuscolo di propaganda che ti dice? Illustra la sorte nefanda (cioè da non dirsi) del popolo infelice – t’introduce al benessere dal suo contrario, e fuor di questo benessere non c’è («siatene certi») bene prevedibile. «Una merenda al cittadino onesto, amore senza rischi, una crociera alle Canarie o al Baltico, una casa coperta da ipoteca redimibile. S’allargano i confini dello scibile se muta il presupposto – c’è la Luna, di gennaio o d’agosto, che aspetta una fortuna: i volontari (è tutto già disposto) dei voli interstellari. Altro non c’è, fuori che questo, vero disponibile. 18 19 Per quattro impiccagioni rovinarsi la cena è una follia: mondo che vai e tecniche diverse, il risultato è uguale… Ma piuttosto considera il mercato potenziale ancora chiuso ai traffici – una volta sul posto: daremo frigoriferi in cambio di caviale. L’anima, il bene e il male, vecchie storie… È tutto garantito ciò che potremo dare a prezzo ragionevole in cambio d’una tregua militare: i biliardini elettrici ai malati di nervi, concerti nelle fabbriche e una dieta quasi conforme per padroni e servi. Daremo anche il poeta che colga a prima vista un neroblù di rondine nel cielo – per la squallida coppia socialista, domenica sulle rive del mar Nero». 20 Anch’io Anch’io finirò come mio padre. Mi dirà il figlio troppo premuroso: «Leggi questo libro, scegli un interesse». Ripeterò le stesse cose: passando a Chiavari, un verso – la ninfale Entella; un’avventura di guerra, ma non vera che a metà, di una sera che ero di pattuglia e una macchina all’alt non si fermò: «Miro alle gomme, premo il grilletto: ora devi sapere che il moschetto novantuno spostava in alto…» Anch’io finirò come mio padre: «Non andrà – dirò – sempre così come all’età delle caverne». 21 Anch’io con quattro amici scassati, generoso fuori tempo, carogna però al momento giusto per averne Versi per un interlocutore 1958 a Franco Fortini il danno e la vergogna. Vive, un uomo di doppia verità: alla periferia di Budapest la casa nuova di György Lukács oggi è invasa ancora (tu mi spieghi) dal silenzio. E debbo crederti se affermi che in assenzio ha trangugiato il miele della gloria temporale, che la sua vittoria si volge nell’anàtema per lui. L’uomo che, nel linguaggio amico o altrui, l’anno che piega al termine s’affanna a distruggere e il secolo condanna e la Chiesa con lui – l’uomo che il giuoco comprende delle forze in lotta e il poco spazio del solo momento in cui vive un progresso dinamico e s’inscrive più sicura una piaga di realtà, non è il vecchio filosofo cui debbano pietà il duplice avversario e i suoi lontani discepoli: in tempi non umani ancora, vana scelta tra lamento e apologia, ossequio e tradimento, rifiuta se gli è concesso vivere confuso nei suoi simili e descrivere la verità che rifiuta un perché 22 23 volgare. So che non delude te la condizione di chi aspetta il giorno dentro la notte semestrale, intorno con gli altri a un solo fuoco, negli inverni del campo armato su nemici esterni, intento a suddividere l’errore dal pane condiviso, bruciando al suo fervore dialettico la scoria. Ma se tu Gli errori del popolo non sa chi in se stesso non li ha patiti e crede palese il vero e vero ciò che vede in altri, tutti gli uomini in eguali numeri imprigionati, i loro mali senza volto, i peccati senza amore. Chiuso nel suo logico splendore che non risplende, non potrà mai più un suo compagno ti confessi o più vicino a lui che all’uomo in sé sicuro di sé e all’infamia degli altri più duro censore se non complice, che il mondo contemporaneo accoglie o con profondo odio combatte, non hai chi t’esalti fra i suoi, chi ti protegga dagli assalti, e non l’orgoglio d’esser solo. Avrai credere ciò ch’è assurdo: se Gesù non è risorto la tua fede è vana anch’essa e perduto il tuo sforzo a un’umana virtù. Passerà solo col suo vanto ingenuo chi vedeva, egli soltanto tra i ciechi, in tempo di contraddizione, inutile davanti alla sezione del partito, alla chiesa, o nella via ciò che non ami: lo ritroverai in questa moltitudine – gli odori delle case, i suoi vizi, i falsi amori degli idoli, anche il rifiuto del bene quando non è benessere… Ma tiene fra questi oscuri il senso di resistere fino a domani, fede di consistere aggrappati a una sorda verità. saettante di sguardi e voci, scia di meraviglia che lo fa sostare dove urla e ride la platea popolare e non lui che l’osserva estraneo e avverso destino chiama l’essere diverso da quella – un privilegio il suo difetto d’umiltà, di pazienza, d’intelletto d’amore – e cresce una vergogna in sé. 24 25 Non è quello che dico – quello che sono, conta, e non vede in me l’eguale turba degli infallibili, del male e del bene impartecipe, se ad essa la paura d’infamia che s’appressa non mi consegnerà prima di giorno, se il popolo sventato a cui ritorno dal suo errore mi riscalderà altrove, a Francoforte, è Rosemarie sola contro l’industria convertita ai rischi della pace – la smarrita accozzaglia a Varsavia che in un vario ordine stringe, uniti, il segretario del Partito e il Primate pellegrino apostolico a Roma – è il mondo chino nel suo esistere non per sua viltà, senza accusarmi. Ho visto le città morire nel benessere, fuggire per viltà e per orgoglio molti, tradire e non sperare, ansiosi d’una prova che il bene rifiuta a chi non trova bene fuor di se stesso, a chi non vuole condividere amore e disamore, pane e fame, libidine e virtù. ma per sua condizione: crudeltà che non vorrebbe essere, fermento che non teme ma spera il mutamento dell’ingiusto disordine – è il poeta che non mente e non nega nell’inquieta casa di Peredel’kino – è il furore che oggi lo condanna e unico amore respira in lui, fa dubitare te. Scorre il popolo, con i fiumi, giù dai monti alle pianure, a false immagini di libertà, scompare per voragini senza gridi qualcuno d’essi – e il bene è queste morti stolide che viene l’ipocrita a compiangere, lui – scisso da questa storia, salvo nel suo abisso di perfezione immobile. E così 26 27 Epigramma romano Tanto giovane Nel pomeriggio I vecchi Imposture Autocritica Mi chiedi cosa vuol dire Tempo libero Una casa a Milano Tornando a Roma Il benessere Se sia opportuno trasferirsi in campagna Epigramma romano Tutto ignorate, come a Weimar Goethe: ma troppo grande è Roma per essere Weimar e voi (perché dirlo?) troppo piccoli siete. Potevano ben dire la grassa redditiera, a Weimar, lo stalliere, la guardia, la ragazza: «siamo al centro del mondo» perché con essi c’era uno che senza il mondo poteva vivere. Ma noi siamo noi soli nel mezzo d’una piazza. 31 Tanto giovane Nel pomeriggio «Tanto giovane e tanto puttana» ciài la nomina e forse non è colpa tua – è la maglia di lana nera e stretta che sparla di te. I Sei fatta così bene, così bella tu sei che non può essere che quella (e fra tante qual è nessuno chiede) la rossa fuoriserie che t’aspetta se attraversi la strada senza fretta, snella, dall’uno all’altro marciapiede. E la bocca ride agra: ma come ti morde il cuore sa chi t’ha vista magra farti le trecce per fare l’amore. II Calda, rotonda e tesa – scarti il traffico all’incrocio e poi sali – uno due tre, a destra – gli scalini d’una chiesa. Nel centro di Milano non c’è messa a quest’ora – si ama di nascosto o si lavora… 32 33 I vecchi Imposture Non onorate i vecchi, abbiatene pietà perché sono gli specchi di come finirà «Sa tanti giuochi, ha le mani d’oro»: questo giovane padre fossi io, il marito esemplare, il dettatore d’epigrafi, il più allegro nelle gite sociali, l’imparziale alle partite mediatore di risse, accetto al dio del presente – del civico decoro tutore immacolato e dello sdegno interprete sicuro – io che consegno all’anziano collega il premio in nome del capo e il capo ringrazio – io, segno di fedeltà, di concordia fautore… tutta la vita per noi che non abbiamo virtù: vogliono i vecchi eroi amore, ma non c’è più nei vecchi nulla da amare, lacrime, sesso e vino: tutto dobbiamo odiare nei vecchi, nostro destino. Io fossi l’uomo dalle mani d’oro che fa dire «anche il popolo ha i suoi buoni», di vedute moderne irreprensibile verme, demiurgo d’infanzia felice montessoriana società di gnomi, io, l’uomo d’alti spiriti che dice al convito dei sazi: non di solo pane si vive – io, mago d’evasioni consentite, scaldassi i desideri semplici che non turbano i patroni del mondo – la vergogna di tutti i nostri ieri, io, lo specchio fedele dell’età… Ladri di notti corte, il giorno ci perderà: coi vecchi la stessa morte misura le nostre età. 34 35 Autocritica e solo addormentarsi in servitù… Non ha voce, sogna di cantare al microfono la giovane magra scura di pelle e ruvida, ma in giù «Risparmio, virtù popolare»: parla il pubblicano, esalta la sola qualità che gli piace, la sola che comprende… Ma non è vero – il popolo si spende fino all’ultimo soldo che non sa di possedere: impegna ori, vende lenzuola, mangia vive le sgualdrine, tutto conduce a una fine. In città è il villico davanti alle vetrine dopo mercato: mordere si sente dal desiderio delle vanità – cinghie, coltelli, ottoni – alle osterie malfamate discende perché sa che ci sono baldracche e leccornie, soltanto per guardare – ma poi va dove la voglia lo tira e il troppo vino, sciupa il guadagno e i soldi che il vicino gli ha affidati, incauto, da comprare rose o rosari o l’opera di Marx – per ridere, per bere, per mangiare 36 tenerissima e bianca, che alla sagra ora è un anno è stata la più bella del luogo dove per vergogna non torna: il suo amore è una carogna di professione spia – con lui persegue economie comuni e la decenza sociale, incerta se l’innocenza sia da rimpiangere o irridere… Tregue scarse offre la vita a chi insegue la sua ombra perché veda la sorte che non libero sceglie sulle porte d’ogni mattino: i segni del benessere, che l’avversario porge, accetta e crede accettandoli d’essere simile a lui, più forte – e non più fede nel proposito serba, cede al gioco. Io che parlo del popolo (fu poco lo spazio per decidere) è di me che parlo consapevole, perché la volontà non basta, occorre il fuoco 37 per non morire – ed il popolo in me con nuovi sbagli a sbagli antichi oppone riparo, si contenta a una carezza, cane bizzarro d’astuto padrone, ama il padrone, plaude al buon governo. «Ha ragione, non è mai stato così bene» ripete il prudente, «La borghesia è un’onesta gerente prodigo che ritorna alla prigione desiderata donde partì per una festa sordida… Ah fermezza del solitario compagno che ha l’aspetto degli affari del proletariato». d’un tradito – colui che l’oggetto ostile guarda e nomina; chiarezza che non sorride e non si distoglie a un clamore di schiavi, a un dialetto; albero che non perde le sue foglie a un dolce vento di gioventù… Il popolo si lascia vivere, è perduto, poca allegria gli toglie la virtù di trasformare il mondo non veduto con i suoi occhi ma con altri… E tu, levita, cireneo, nemico del presente, batti alla porta di chi non sente chiuso nel sonno la tua verità? Ti schiaccia la pietà, ti fa vile lo scherno degli infallibili a poco a poco: solidale il popolo sta al giuoco, 38 39 Mi chiedi cosa vuol dire Tempo libero Mi chiedi cosa vuol dire la parola alienazione: da quando nasci è morire per vivere in un padrone Dopo cenato amare, poi dormire, questa è la via più facile: va da sé lo stomaco anche se il vino era un po’ grosso. Ti rigiri, al massimo straparli. che ti vende – è consegnare ciò che porti – forza, amore, odio intero – per trovare sesso, vino, crepacuore. Ma – chi ti sente? – lei dorme più di te, viaggia verso domani a un vecchio inganno: la sveglia sulle sette, un rutto, un goccettino – e tutto ricomincia – amaro di caffè. Vuol dire fuori di te già essere mentre credi in te abitare perché ti scalza il vento a cui cedi. Puoi resistere, ma un giorno è un secolo a consumarti: ciò che dài non fa ritorno al te stesso da cui parte. È un’altra vita aspettare, ma un altro tempo non c’è: il tempo che sei scompare, ciò che resta non sei te. 40 41 Una casa a Milano completamente… Ma in questi giorni l’aria è gialla, o forse sembra, sì che ogni strada è uguale e non posso pensarmi fra dieci anni o venti o di più nella contrada I Una casa nei giorni dello smog a Milano è difficile trovarla: i miei pochi risparmi e il molto debito non tolgono il diritto d’abitarla insieme, io e te, per qualche anno felici dentro gli occhi e nel sesso, sotto un tetto senza pensieri gravi, dopo il sole del giorno tranquilli nella stanza alta, nel caldo letto, che scelgo piena di promesse e dire: qui probabilmente io morirò, senza sentirmi fin d’ora morire in poca luce qui dove sarò accanto a te per molti giorni e sere, muteranno le voci dei miei figli, «tutta la vita in ’sto buco di casa» mi roderanno le tue querele. con i bambini ancora urbanamente ignari ma già savi, con la pagina ancora aperta sul tavolo nel buio della stanza più buia della mente, II Via Lorenteggio era ridente di sole nei giorni della tramontana ai primi di gennaio, ma prudente ci sono ritornato e più lontana ma ricco di ferme parole nel mattino domestico, aggressivo alla lettura del foglio democratico, non chino a servitù di stanchezza o paura: mi sembra ora che piove e rare luci di negozi si mostrano e più rari gli autobus, più fitta tra i filari degli alberi la nebbia in cui traduci cerco una casa comoda, un riparo al mio pane privato per la vita che resterà, comprata col denaro necessario a comprarla, non finita come da effetto a causa il prezzo mite per metroquadro, causa i prati nudi o i terroni di Baggio dove escludi vivere – affermi – tra vino e lite. 42 43 Cerco altrove, lontano dal mito popolare di un’infanzia che forse non fu vera, una casa che già mi sembra inutile tanto stanco mi sento in questa sera Un confuso sentire in una forma costringo e me di un’ora oltre la resa del mio giorno e di te che dici: sono stanca, dei figli che resistono ogni offesa. di sabato inseguita per il futile arrampicarsi dentro me dei giorni di lavoro, rinvii del giorno a cui sempre affidavo illusori ritorni Chiederò in prestito il numero che manca allo zero dal nove che ne ha tanti: cedo una sera, sai che mi riprendo, non è vero che non siamo tutti santi». di volontà per dire: questo fui, vivo nel mio secolo ma volto nel cuore ad altro, avanti, mio proposito di verità, attento a riconoscere Ma per queste parole mi sorprendo a mentire se cerco in un letargo scendere, capofitto rifugiarmi: dico che è solo per poco – ma sento dentro e fuori di me il nemico scaltro che quand’ero di guardia mi faceva dormire e da ragazzo timido salire una scala d’amore troppo facile. che ogni volta è per sempre. Chi può darmi il me stesso che fu vile perché non sia vile, al mattino riportarmi indietro dal mio serale orgoglio? (Quella che un bimbo gracile non riconobbe e ci porta a morire). Debito e vita, tutto pagheremo, passano presto gli anni, ma non voglio che tu t’illuda e m’aiuti a mentire ancora – non è vero che saremo III «Datemi un punto d’appoggio… Ma no, datemi un giorno, tre giorni, una vita tutta risolta e il mondo si trasforma, forse è meglio non vivere per vivere. 44 senza pensieri e senza maledire al superfluo che manca – non è vero che i figli saranno buoni, che potrò scegliermi un lavoro più leggero. 45 Senza averla, una casa, so com’ero: dici che sarò meglio, mi consoli. La proprietà fa liberi… Ma no: è impossibile salvarsi da soli. Tornando a Roma Molte case nuove, i mattoni divorano l’aria: qui erano villini impiegatizi, maltenuti perché un giardiniere costa e l’impiegato non ha soldi, disdegna la zappa del paria. Un tempo conoscevo dagli alberi queste strade: una la gloria d’un pino, un’altra la sontuosa magnolia, un’altra verso maggio il profumo dei tigli, un’altra il prato di fianco e le case rade. Qui era la sezione, ma c’è un negozio di tessuti, le mie compagne di scuola s’incontrano alla spesa e non si salutano, si nascondono per vergogna i giovani in ozio. Se fossi rimasto qui dove il pianto mi stringe, sarei chiuso, stroncato come gli alberi: ma ospite d’un giorno devo fare coraggio al compagno che per orgoglio di resistere finge. 46 47 Il benessere Se sia opportuno trasferirsi in campagna Quanti hanno avuto ciò che non avevano: un lavoro, una casa – ma poi che l’ebbero ottenuto vi si chiusero. Ancora per poco sarò tra voi. Gli scherzi, le meraviglie della natura, i nani, i nidi, le uova con due tuorli, scoprirli come ti piace – più sicura ti fanno che un miracolo è possibile, non qui, ma altrove, dove attraversano la strada tra bosco e bosco gli scoiattoli, e la vita è vicina, il tiranno invisibile, e gli uomini, senza fretta, conversano. Se sia opportuno trasferirsi in campagna spesso pensiamo: qui ci tiene il lavoro che non manca, il civico decoro di cui partecipiamo, la cuccagna delle vetrine addobbate, dei cinema aperti, dello stadio, dei dancing, dell’ippodromo, di ciò che vuoi pronto a tutte le ore della voglia improvvisa… Ti diverti anche tu nella festa cittadina, ma se una sera d’estate troppo calda l’afa della pianura ti stagna in cuore, t’affanna il respiro, ti fa meschina, 48 49 per noi è facile andare in Brianza, una mezzora di macchina se è sgombra la via da chi ritorna, se la danza dei fari non è cominciata. E l’ombra domenicale un allegro padrone emula e crede liberarsi – sorda alla voce di rabbia che ogni sera strozza un singulto assonnato… Se sia è chiara, il giorno ancora non si perde, la strada sale appena e più lontana la città più veri si fanno i paesi: Desio, Seregno e la musica verde giusto appassire qui tutta la vita in attesa di trasformarla oppure rassegnarsi ai perduti, dar partita vinta ai traffici, al corso degli onori, dei cipressi che avvolgono Inverigo: bianche, grige, celesti ville, austere o d’una grazia semplice, un intrigo settecentesco invitano o severe e scegliere il treno del mattino, la corriera alle sette da Bosisio sulle rive del vago Eupili – fuori la notte almeno da questa città, meditazioni nel cortile interno: il sabato una visita in città e a primavera una festa in giardino per chi le abiterà nel lungo inverno. dove un me stesso a un tavolo, a uno scranno servile insegue vana libertà di giorno in giorno rinviata, e spera ritrovare per sé l’ultima luce dell’anno l’ultimo anno di vita con forza intera… Se sia opportuno trasferirsi in campagna, se tanto costa pagare la vita, mangiare, amare, respirare l’aria viziata dallo smog che fa patita anche una piccola pianta sul balcone: qui, dove accampa prigioniera un’orda per un settimo giorno d’evasione sei giorni cupa, e su strade a raggera 50 Sarà opportuno trasferirsi in campagna, una più salubre aria c’invita: questo chiedono il tempo, le migliori condizioni che allietano la vita, il progresso, i miracoli, i conforti della tecnica nostri servitori, questo l’industria dei semplici cuori che ci apparecchia le felici morti 51 delle poche letture, pochi amici, pochi giuochi serali, pochi storti ribelli umori… Così ci vuole il mondo che invecchia delle nostre vecchie sorti: e anch’io, vinto pudore, mi dispongo nei numeri d’attente previsioni, coltivo fiori, inchiodo legni, rispondo con lagrime a elette commozioni pubbliche – e sono là, così diverso, chiudo un cancello, sciolgo un cane guardia al piccolo mondo d’un disperso villino nella fitta schiera uguale dei simili, depreco il tempo avverso: «quello che sono è bene, il resto è male» penso nel coro – e un’altra libertà benedico, riposo domenicale. … Qui di me si perdeva la miglior parte, che maledice e spacca la noce tra i denti, e a quel minuscolo crac ancora prossima spera la fine di ormai remoti stenti. 52 Dal cuore del miracolo Il socialismo non è inevitabile Quando piega al termine Guarderò indietro Come un errore Del rendersi utili Con lei Giustizia per Rebecca Lèvanto! Cambiare ditta Con tutta semplicità Una sera come tante Le ore migliori Dal cuore del miracolo Parlo di me, dal cuore del miracolo: la mia colpa sociale è di non ridere, di non commuovermi al momento giusto. E intanto muoio, per aspettare a vivere. Il rancore è di chi non ha speranza: dunque è pietà di me che mi fa credere essere altrove una vita più vera? Già piegato, presumo di non cedere. 55 Il socialismo non è inevitabile Quando piega al termine Sarò cauto, imparerò a non gettare troppo avanti parole che ricattano le azioni – come al giovane bastardo ciòttoli perché corra: dopo il fare Quando piega al termine l’età, la nostra età, l’età del mondo, quando aspettare il nulla che accadrà è chiaramente un inganno – si mette al bando venga il parlare. È avventuroso chi ha molti anni da perdere e pochi errori da scontare: mentre qui il tempo stringe e i miei sbagli sono molti. volontario colui che il sorriso rifiuta e non sopporta di essere vile più, non chiede più complici e muta persona diventa, facile preda ostile. Il presente è con te che non m’ascolti e nel mio vivere scruti l’impostura della fede che affermo: la più vera è la norma non scelta, la subìta bandiera, questa, del mondo a cui costretto vivo contraddizione – e in cambio esso mi nutre mentre pensando a distruggerlo scrivo; mondo che ossequio – dove finirò. Voglia di morte nel ventre ci putre. Avversa volontà, ma troppo labile, inquieta la mente. Non è inevitabile, il socialismo, lo so. 56 57 Guarderò indietro Come un errore Guarderò indietro, non avrò più paura. Dimenticare amici, dimenticare sventura o ventura, non serve, cambiare accento, sapere tutte le giuste notizie, Anch’io come un errore pago la verità: amo due chiese che sono diverse – e per l’una l’altra mi condanna o estraneo mi dimentica o mi soffre avverso. dunque non serve. Se è da rifare il mondo, datemi la mia parte, fissatemi il tempo, controllatemi, lavorerò… Ma qui un po’ di vento già mi sbalestra, mi scopre se mi nascondo, E di qua mi respingono, di là non mi vogliono, e così poca moneta di vita così spreco, e soffoco di veleno, in questo vicolo cieco. E di orgoglio. mi coglie in fallo: basta un niente a tradirti, e sbagliare da soli non dà esperienza. Cominceremo daccapo, ma qui è già sabato sera, credo che il Diavolo esista, volevo dirti. 58 59 Del rendersi utili Con lei (su un motivo di Eliot) Fare la storia (non scrivere libri di storia fatta da altri), fare una storia che debbano narrare gli altri, eppure non tua, Con lei era difficile. Ma non rimpiangere il giugno lontano, la parola cuore, i denti come perle duri sul bacio inesperto, la mano timorosa, il contemplato pudore. la carriera più difficile del mondo, renderti utile nel senso che dice utile ciò che si usa, non felice secondo i molti e te – significa cercare A ripensarci, lei era poco più d’una sciocca, oggi diresti che la mette giù dura, e molto meno ti chiede colei che ripete: cinquemila in albergo e in macchina due, con la bocca. l’oscurità dove le giuste azioni ti portano se veramente sono giuste, con fermo cuore le abiezioni santissime, ma senza perdono, compiere in gloria di chi di quel che servi utilmente, non certo della sua verità, all’infamia temprare i tuoi fragili nervi e all’attesa che premio non darà. Credi, non è per pietà di me stesso, già stanco per più aspetti, che ripeto in forma variata questi versi stranieri: solo, li vedo veri – se guardo indietro. 60 61 Giustizia per Rebecca Lèvanto! Vedasi appunto il Corriere, cronaca di Milano d’un ventiquattro maggio che il Naviglio non mormora al passaggio di Bettina con un carabiniere. Sedicente romena, nata a Zara, Rebecca Lèvanto – ebbe traversie di ragazza in guerra e in campo: poi, con la pace, un marito legale (Abramo e Qualcosìch che non ricordo) borseggiatore internazionale. Ma non d’ausilio al coniuge in quell’arte emigrò clandestina in Canadà: trentasett’anni sarebbe la sua età, forse è viva in qualche parte. Lasciò deserti un talamo e il suo nome: complice Abramo li occupò Bettina, che era proprio di Lèvanto o dei pressi, e fu Rebecca da sera a mattina (due anni in meno, la stessa beltà). Un borseggio mancato ha riportato alla luce la vera verità (chissà come si chiama Rebecca in Canadà) e tutto è documentato. 62 63 Cambiare ditta Con tutta semplicità Non puoi cambiarti, ma almeno cambia ditta, il posto di lavoro è più che una metà (inutilmente resisti) della tua anima: e quante cose per te cambieranno! Con tutta semplicità devo dire che un tempo sembrava lontano il tempo in cui morire. Avranno altri volti e strade le tue mattine, t’illuderai quasi di aver cambiato città, di avere davanti una vita. Un nuovo gergo imparerai nelle file dei nuovi conservi: ti ci vorranno due mesi per scoprirlo banale. E poi nuovi padroni, nuove regioni dei tuoi nervi in evidenza agli uffici del personale, nuovi prodotti e una nuova misura Ora non è più un pensiero strano. Ora è sempre lontano (almeno spero) ma posso già prefigurarmelo. Ho l’età in cui dovrei fare ciò che volevo fare da grande e ancora non l’ho deciso. Faccio quello che faccio, altra scelta non ci sarà: leggo di miei coetanei che muoiono all’improvviso. di quel che è bene e male – ed infine te stesso di cui tutti diranno che sei nuovo. Annuncerai ai lontani la tua novità: «Questa mia è per dirti che adesso mi trovo…» 64 65 Una sera come tante Una sera come tante, e nuovamente noi qui, chissà per quanto ancora, al nostro settimo piano, dopo i soliti urli i bambini si sono addormentati, e dorme anche il cucciolo i cui escrementi un’altra volta nello studio abbiamo trovati. Lo batti col giornale, i suoi guaìti commenti. Una sera come tante, e i miei proponimenti intatti, in apparenza, come anni or sono, anzi più chiari, più concreti: scrivere versi cristiani in cui si mostri che mi distrusse ragazzo l’educazione dei preti; due ore almeno ogni giorno per me; basta con la bontà, qualche volta mentire. Una sera come tante (quante ne resta a morire di sere come questa?) e non tentato da nulla, dico dal sonno, dalla voglia di bere, o dall’angoscia futile che mi prendeva alle spalle, né dalle mie impiegatizie frustrazioni: mi ridomando, vorrei sapere, se un giorno sarò meno stanco, se illusioni 66 siano le antiche speranze della salvezza; o se nel mio corpo vile io soffra naturalmente la sorte di ogni altro, non volgare letteratura ma vita che si piega al suo vertice, senza né più virtù né giovinezza. Potremo avere domani una vita più semplice? Ha un fine il nostro subire il presente? Ma che si viva o si muoia è indifferente, se privare persone senza storia siamo, lettori di giornali, spettatori televisivi, utenti di servizi: dovremmo essere in molti, sbagliare in molti, in compagnia di molti sommare i nostri vizi, non questa grigia innocenza che inermi ci tiene qui, dove il male è facile e inarrivabile il bene. È nostalgia di futuro che mi estenua, ma poi d’un sorriso si appaga o di un come-se-fosse! Da quanti anni non vedo un fiume in piena? Da quanto in questa viltà ci assicura la nostra disciplina senza percosse? Da quanto ha nome bontà la paura? Una sera come tante, ed è la mia vecchia impostura che dice: domani, domani… pur sapendo che il nostro domani era già ieri da sempre. La verità chiedeva assai più semplici tempre. Ride il tranquillo despota che lo sa: mi calcola fra i suoi lungo la strada che scendo. C’è più onore in tradire che in esser fedeli a metà. 67 Le ore migliori Le tue ore migliori… ma non sono per me: sono le ore del lavoro domestico, che è troppo trascurabile realtà per essere degno di storia. Progredisce la storia, infatti, ma il tuo lavoro semplicemente ricomincia e finisce. Le tue ore migliori sono della mattina, quando ti lascio e tento per vie diverse variare l’obbligato itinerario che sempre da un punto parte e ad uno arriva. Batte il sole al balcone di cucina, prima di cominciare tu guardi in strada. Io guardo invece nel fondo del mio cortile, mentalmente bisbiglio Dirigere et sanctificare, la breve preghiera, mia virtuosa abitudine, prima di lavorare: lucida è la mente al quotidiano servizio e la stanchezza impossibile appare. Intanto passano le tue ore migliori, quando potresti parlarmi e sorridere. Tali bruciavano gli anni di gioventù nell’aspettare più sereni giorni: e tu riassetti, rigoverni, spolveri, sola (i figli sono a scuola) e aspetti che torni. 68 II Dice decoro la tavola apparecchiata, possiamo avere tutto quel che vogliamo: all’opulenza mancano forse i fiori. Il buon cibo conforta dopo l’onesta fatica. Ma già si ammucchiano stoviglie mentre mangiamo troppo avidamente, per fare presto. E ricominci: i necessari rifiuti in un solo piatto raccogli, riempi il lavandino ove galleggiano sughi, affondano fili di pasta, bucce. Adempi la tua virtù necessaria, riordini ancora una volta la casa. Io ad altro lavoro attendo, al mio ufficio, sperando di fornir l’opra e non me, anzi che giunga la sera, per godermi la luce residua e, di me stesso padrone, qualche ora d’avanzo. Ma non sarà quella la vita vera: sono queste ore migliori e non ci appartengono. Eccoci ancora intorno alla mensa serale, tra le risse dei figli allegramente spietate: e nuovamente si guasta la linda cucina, la tovaglia è chiazzata di vino. «Lascia così – suggerisco – penserai domattina a tutto. Adesso resta un poco con me». 69 III Nessuno ci corre dietro. Ma tu macchinalmente solitaria persisti nel ritmo ordinario in cui ogni ora ha la sua norma: sai già che il mattino avrà stanze disfatte e l’odore del sonno e l’aria che un brivido nebbioso vi porta o il sole nella bella stagione. Bisogna dunque concludere tutto perché tutto ricominci, dopo un riposo di affrante bestiole, col primo atto del domani: vivrà la vita per chi non ha tempo di vivere. Così anche ora da me ti allontani, spingi cassetti, fai scattare sportelli, ammaini l’avvolgibile con fragore: e siamo soli con tutte le storie dei libri che promettevano in cambio di virtù felicità. Così finiscono le tue ore migliori, quando da un capo all’altro della città si chiudono i portoni dei casamenti: e in buie menti un comune pensiero apre un barlume del meglio a venire… Così non riconosci l’inganno di chi ci ha fatti a servire. 70 Quindici stanze per un setter I «A Milano un setter non può vivere. Com’è possibile farlo passeggiare nel traffico, respirare nelle puzze del neo-capitale? E poi (altro che passeggiare!) ha bisogno di correre, di affinare l’olfatto ai naturali odori della campagna. In quattro vani, con la sua esuberanza, il cane soffre, forse ti morirà: un girasole non cresce in una stanza». Mio caro amico, volevo rispondere, tu con la tua lettera a un giuoco di rimorsi mi tenti: ma sei mesi son passati e il mio cane sta bene, ha nome Scoop (che in inglese vuol dire una grossa notizia), non sporca in casa, è vivace, lo guardano per strada quasi fosse una ragazza, muove troppo la coda, ma ha l’altero (quello sì) incedere della sua razza. Non si lamenterebbe se potesse parlare. Quali notizie aggiungere? Egli ha le sue bizzarre abitudini: salta, ad esempio, se un bisogno l’assilla, abbandona alle quattro del mattino 73 l’apposita branda per cani in cui dorme, s’infila sotto il mio letto, ne sento l’odore attraverso la lana del cuscino, mangia mele di buona qualità, mi presta un’illusione d’agiatezza, ruba talvolta, piange quando è solo. Questo di lui posso dirti, non più: le sue segrete istanze io non conosco. Che è bello l’affermano in molti, ma non posso giurare sulla sua nobiltà. Gli mancano le carte: è un setter grosso modo, forse per la metà o per tre quarti soltanto. Sembra (un veterinario l’assicura) che la madre o la nonna un’avventura abbia corso col maschio d’un altro lignaggio: e questo sarà uno svantaggio quando dovrò accasarlo. Ho già fatto qualche ricerca – se non trovo di meglio, lo manderò a Cittiglio presso un tale (mi è stato detto) padrone d’una femmina setter, superba un tempo, ora disposta a connubi di medio livello, data la tarda età, la pigrizia del proprietario, che è stanco di officiare e convocare testimone a ogni amplesso un fiduciario araldico del Gotha canino. II Nel prossimo mese di luglio ai bagni di mare lo manderò e in agosto in campagna. Io sarò solo in città, senza famiglia: lui smaltirà nel nuoto e nella corsa il muscolo abbondante, sublimerà gli istinti. Poi nel mese di settembre progetto di affidarlo a un cacciatore (tramite amici) lodigiano che potrà insegnargli l’arte. Propizio al matrimonio sarà dicembre. Ecco, questi sono i miei piani. Spero di attuarli con ordine: l’inverno sarà urbano, al riparo dal freddo, lontano dall’umidità. Nessuno può chiedere alla vita un trattamento uguale e la condizione dell’ozio senza noia, accettabile: le bestie, non toccate da macchia originale, riconoscono in essa (almeno stando a Tolstoj) uno stato ideale. «Ma il cane soffre – mi ripetono in molti – è una follia tenerlo in casa. Fosse un pechinese, un barboncino, anche un bassotto, un sia pure indiavolato 74 75 fox-terrier potrebbe stare in casa: ma un setter, egregio dottore, mai più, non sta bene nemmeno in una villa, vuole distese di prati e la caccia, la caccia soprattutto, selvaggina di penna, quaglie, fagiani, beccacce. Non è facile venderlo, s’informi piuttosto, metta un’inserzione, chieda di persone disposte nei dintorni ad accoglierlo in una fattoria; meglio, in una riserva: lo ceda». Altri m’invita a meditare sui Novissimi: «Pensi a che sarà nel giro di pochi anni il suo cane, ombra domestica tra grige mura, vecchione che s’aggira in attesa della morte». III Adesso è giovane, ha otto mesi, io ho il futile timore dei quaranta anni: ma penso che effettivamente tra dieci il setter ne avrà dieci e otto mesi – ed io il terrore dei cinquanta. Come potrò sopportarlo, odioso amoroso relitto accanto a me, così diverso da ora, prefigurarmi nella sua fine imminente la mia? Del suo specchio di morte disfarmi ora che sono in tempo è meglio forse che vederlo infiacchire, arruffato nel pelo, l’occhio non più vivo, grave (così diverso da ora) a spiccare salti per farmi festa? Penso di sì, penso di sì. Chi voglia prenderlo cerco, almeno a parole: per un giorno, per due, rimpiangerò questo sentire al mattino il ticchettìo delle sue unghie sul pavimento, questo con ira respingerlo quando mi aggredisce alla porta di casa, questo subirne l’allegria. Sì, io posso decidere ora del suo destino: 76 77 farne, se mai qualcuno risponderà al mio appello, un felice possidente di campagna (sia detto possidente, non contadino), un cane ossequiato come dev’essere un cane di signori, accarezzato dai vicini, lodato quella settimanale felicità». Posso decidere io del suo destino: ho sei mesi di tempo, forse un anno. Poi sarà quello che diventerà anche il mio cane: un tetro cittadino, un vecchio mantenuto, un vagabondo avventuroso? Amico, ti terrò informato. dai soci negli affari, ricercato per grandi partite di caccia, difeso dall’eventuale villano che vedrà devastato da lui il suo orto: invidiabile anche come cane. O potrei darlo a un asciutto contorto mediatore di mezza età, che lo conduca di mercato in mercato, peregrinando tutta la vita, fermandosi a osterie dall’impiantito di mattoni, lasciandolo per lunghe sere d’inverno steso al fuoco, parlandogli sottovoce in dialetto (così ho sentito a Fornovo uno parlare al suo cane – ed era appunto un setter). Posso decidere io del suo destino: e vorrei per il meglio – dunque non a Milano, dove già me l’ha chiesto un cacciatore domenicale, offrendomi denaro. «In tal caso – ho risposto – se lei va a caccia solamente la domenica, tanto vale che il cane stia con me: se in casa soffre, sia così per sempre. Meglio sempre soffrire che godere 78 79 L’educazione cattolica I Nelle sole parole che ricordo di mia madre – che «Dio – diceva – è in cielo in terra e in ogni luogo» – la gutturale gh disinvolta intaccava il luò d’un l’uovo contro il bordo d’un piatto – serenamente dopo in cielo in terra dal guscio separato in due metà scodellava sul fondo il tuorlo intatto – la madre sconosciuta parlava religione entrava nella mia tenera età. 83 II III La ragazzetta che voleva mostrarmi una cosa innocente benché misteriosa – noi due sotto il letto accucciati sul freddo pavimento – mi sussurrava «aspetta» – era soltanto un gioco diverso un poco dagli altri – ma lì entrando la sua sorella più grande alzò la coperta ci vide gridò corse a chiamare venne gente – mai più giocammo insieme noi che semplicemente… L’ira era chiara nel catechismo illustrato: uno mostrava il pugno, sembrava gridasse. Il superbo passava diritto, il goloso mangiava l’avaro ricontava le sue monete d’oro, l’accidioso era scalzo e contro un muro dormiva, un bieco era l’invidia che a due felici guardava. Il catechismo illustrato 84 Ma non altrettanto chiaro il vizio della lussuria: accanto a una finestra – tristi effetti una nota ammoniva – di caffellatte o di brodo fumante porgeva la tazza la donna curva all’uomo adagiato in poltrona. Erano, soli in casa, due vecchietti e oltre quei vetri – probabilmente – una piazza. 85 IV V Come quando nella piazza allagata (eravamo già a maggio) a piedi nudi a mezzacoscia sguazzava una brigata e: tu – mentalmente gridavo a mio padre – mi chiudi in casa e tutta quella festa fuori? Dicevano: l’avìco – era la Vico invece, come un’india delle Ande portava in testa un alto cappello tondo, una zucca tagliata a metà – nera. L’avìco – uno sbirro rapace che usciva la sera – ma la Vico una vecchia zoppa e grande, dondolava di giorno per via del Prione, agitava il bastone tutta rauca di vino, sfinita dagli scherzi dei marinai in permesso. Dicevano: è l’avìco, venuto a portarti in prigione – non la vidi mai da vicino nella sua faccia di gesso. L’avìco – inevitabilmente la prima notte di guardia («non si spari un sol colpo!») che fragori di reclute, che allegria! L’ispezione da un posto all’altro non capiva più niente: io solo i miei otto caricatori intatti mostrai al tenente. 86 87 VI VII Sbraita decoro il creditore, infierisce sull’insolvente, gli minaccia galera, fa adunare la gente del passeggio serale: il giusto chiede giustizia al procuratore del re. Vivranno per sempre? Sempre, sì – mi dicevo e le vedevo alla distanza del tempo rimpicciolire lontanissime, in piedi, a braccia conserte su quelle stesse soglie, o leggendo gli stessi giornali crollando il capo, scuotendo gli stessi grembiali, di nero o di grigio vestite e decisamente fuori di moda come diventerà ogni persona vivente – ovunque e su quella stessa strada fra il mare e una fila di platani dove quieta ubbidiente e dimessa passò la mia età infantile – quelle persone viventi che passarono poi come l’età rispondendo di no alla domanda che avevo dimenticata: no (dicendo) non vivremo per sempre Piazza Saint-Bon Gli è contro solo il bambino che trema di paura e vergogna, ma che finge di appartenere ad altri – non si stringe al genitore maltrattato. Il figlio del debitore – io sono stato. Per il mio padre pregavo al mio Dio una preghiera dal senso strano: rimetti a noi i nostri debiti come noi li rimettiamo. – senza notizia alcuna, senza coscienza di storia o di giustizia, senza il minimo dubbio che un’altra vita sarebbe stata a venire più vera, con più intelligenza: 88 89 e dunque senza viltà consegnate alla sorte – alcune con stupore della morte, con desiderio altre, con sofferenza. VIII La resurrezione della carne Emerse senza rumore dall’antro semibuio di semiluce: non luce di lampada, era luce del giorno che di lontano, a staffetta, per corridoi, sottopassaggi, sottoscala, veniva. Probabilmente là dove fu la vera luce il giorno era diventato già sera. Seminudo egli emerse, semitorpido nelle membra, semisveglio negli occhi di muta tristezza immane. Da dove ritornava? Ora mi dico: dai morti – per ammonirmi, interrogarmi, discutere la mia presenza: tu qui cosa fai? cosa vuoi? Niente, avrei potuto rispondere, dormivo nel mio letto, contento del domani come ogni ragazzo. Ma ciechi e lenti i suoi atti per affrontarli erano: e poi il brulicame ai suoi piedi, sul pavimento di muffa un impasto di vermi, che diventava salendo di qualche centimetro ambre ancora gelatinose – e finalmente, a mezz’aria al confine con il massimo lume di quella penombra, schiene curve, movimenti, rilievi di vertebre, ulne, fratture, òmeri, ossa in cerca 90 91 di giusta sede in carni estranee, senza ancora forma. Ma egli perfettamente compiuto intorno senza parola il braccio grigiobruno volgeva, scuoiato, segnato di nervi – il suo piccolo popolo mi mostrava. «Io non ho colpa. Ho paura di tanto strazio, io piango le tue lacrime, io atterrisco d’angoscia nel sonno: perché tu mi guardi, minacci un castigo?» Mie parole che non osavo dirgli, ma che egli intese nella sua immane tristezza: infatti da me si distolse, guardò le pareti, fetide di croste, di segni osceni – levò le mani in alto, appoggiò sulle palme, si accostò al muro coi denti… Allora io capii che voleva mordere quei veleni – no! gridavo – morire, come uno da lungo tempo malato. IX Ruber Feto in collegio, grillo parlante o altro animale sapiente – cane ammaestrato – quante volte in altra veste è ritornato – Ruber di nome, puzzolente nel fiato, malforme – mi faceva paura, mi ammoniva con l’indice alzato. Attento – mi faceva – io so tutto di te, ma non parlava – semplicemente rideva con quell’indice alzato e la testa su e giù moveva ritmicamente. … Adesso so che non sapeva niente Ruber – voleva scherzare: era un bambino infermo e già condannato. Ma quante volte quel niente io l’ho confessato. 92 93 X XI Un po’ biondo, un po’ pingue, un poco bianco di pelle, un po’ dall’aspetto straniero, e al mento una rada barba che tremolava al vento d’estate – sulla motobarca un signore vestito di nero. Arrivò sulla spiaggia con un sandolino tutto di gomma, a motore. Alzò una tenda, accese un fornellino, fece il tè, fumò la pipa – dissero: un inglese. Nel trentanove d’estate una mattina, i più colti parlavano francese; gli si fecero incontro, interrogarono, l’aiutarono nelle piccole spese. Prevalentemente per cenni lui fece capire che era lì di passaggio – la sua mèta era Melbourne, il suo grado capitano: si fermò quattro giorni, poi andò via. Nel suo contegno niente parve strano: qualcuno sospettava che fosse una spia. La persecuzione razziale «Non gliela leva nessuno la marca» ridacchiò nel gruppetto degli impiegati il più solerte – e gli altri placidamente ariani alzarono gli occhi alla novità interessati. Senza pensieri scommettevano al gioco se un ebreo si poteva riconoscere a vista. Di quel poco che accade che male fa aggiornarsi? Ma lì di un pastore o di un prete in clergyman doveva trattarsi. Certo uno che con quel sole così vestito viaggiava e con in testa un di quei larghi feltri qualcosa di diverso non poteva non essere – agnello, lepre di cartapesta ai morsi dei veltri. 94 Really ’twas the first Englishman I saw – ed era un certo capitano Sullivan, sailing alone to Australia in a small boat, a few months before the war… 95 XII XIII Governoladro ioboia – più spesso con tutta la D – chi eri voce blasfema nel coro ferroviario – sbattevano le porte su quell’aria d’inverno di sigari tanfo di sonno – piccola verità mi facevi tremare – chi eri maestro e donno? Trotzki lattaio in maglia di flanella ruggine o, secondo la stagione, con uno sbottonato gilè – o alle feste in giacchetta con un bel fiocco nero: solo, occhiali a stanghetta in luogo del pince-nez egli portava – e un cognome che traducevo nel gesto di due dita infilate nel taschino. Era un contrario al fascio, era un onesto. Scendeva ogni mattina dal suo domicilio coatto, sbarbato di fresco, faceva il suo giro, poi si sedeva al caffè, tranquillo leggeva il giornale. «Nessun governo può durare in eterno» diceva – e quasi aveva avuto ragione quando un giorno in paese ma senza il bidone del latte lo videro – e in camicia nera. La bella ti chiese permesso. Tu la lasciasti passare. Un culo è sempre un culo e il duce è un fesso – mi dicesti all’orecchio – e anche questo io dovevo imparare. Così per uno sbaglio una vita intera d’opere buone va in fumo per un peccato mortale. Sì, qualcuno pensò che la mente non fosse più stabile o soffrisse quel vecchio d’un brutto male… La verità è piuttosto che la virtù è insopportabile, sta addosso come una rogna – e non te ne puoi liberare che con infamia e vergogna. 96 97 XIV Non esattamente sbattendo la porta – ma con una slabbrata asola della giacca infilando una maniglia e pertanto non senza fracasso e interiezioni di rabbia se ne andò l’ufficiale giudiziario, infierendo sardonico, fra commenti di vicini – proroghe non concedendo. Pietà gli avevo chiesto, pure non responsabile io – ma schiacciato da tanta sicura virtù ai creditori devota, dal suo essere adulto, asciutto nei sentimenti, uomo dai conti in regola, sordo perché abituato ai lamenti. Volevo sparire – aspettavo che mi gridasse per primo: «pagate i debiti invece di andare al casino!» Ma non conoscevo la vita: di me fu lui più confuso – perché abbassò gli occhi incontrando il mio sguardo deluso. Quella sera medesima nel bordello di Mario de’ Fiori all’alterco improvviso fra due per una meretrice – a quale dei due toccasse – conobbi lo stesso ufficiale giudiziario battuto e rosso in viso di stizza intorno voltarsi per la prepotenza patita. 98 99 XV XVI «Che vuoi che me ne importi se ti anneriscono i pètali di papavero fra le dita – lèvati di fra i denti la spiga acerba, ricòpriti quelle ginocchia – è finita. Tra un profilo ugonotto (detto così solo perché suonava bene) e uno moresco, il suo decisamente si poneva: tranquillo, bene educato, severo – ma non fino al punto da escludere l’improvviso suo riso inconsulto. Un profilo colto e gentilizio, non ignaro dei problemi del paese e del difficile equilibrio di entrate e spese, ancora in dubbio se Dio esista o no – il profilo comunque di chi sapeva in teoria cosa fosse l’amore, rimedio allo squallore della mente: e che dolcezza scoprire in qualche piccolo vizio (già che il mondo franava) astutamente il teso labbro superiore suggeriva fin dall’inizio. Postuma Il profilo Ma precisiamo: non è stata paura del sesto comandamento o di che diavolo vuoi – mancare di rispetto alla ragazzina pura o il ricatto che quello non sia vero amore. Ma ricòrdati: non sono una carogna, un re-di-serve – per questo non ti ho toccata. Ti fossi vista allo specchio con quella faccia da fuori il dente fuori il dolore – altro che metterti a ridere». 100 101 XVII XVIII Il ballo con la giovane sovietica bionda, accesa, minuta, un po’ feroce, con una scaglia d’oro negli occhi verdi, un giro su noi stessi non durò – era già tardi nella notte le due forse le tre, e i compagni invidiosi che ridevano sotto i mustacchi finti, lanciavano petardi – era il momento, pensai – la stringevo alla vita, le feci male, ahi disse, balenava una linguetta d’aspide rossa tra i radi denti – un giro non durò perché rotolammo a gola piena sull’impiantito di legno, era meglio far subito l’amore, al diavolo i preamboli, su questo concordammo Il presente a te sacrificato non ci ripagherai, Bene venturo – ma chi a viverne fu educato può morire per un futuro. – quando lei, improvvisamente patetica… 102 103 Mimesi Viani, sociologia del calcio Les aides au camping Birth-control Le giornate bianche La mia compagna di lavoro Il tempo che non volevo Amore rivisitato Port-Royal La vita in versi L’assideramento Roma, in quel niente Finis fabulae Mimesi Attento, ci rimani, passa l’Angelo! – mi ammonivano quando per divertirmi fingevo d’essere muto o strabico, o facevo la bocca da idiota col labbro pendente e bavoso, o zoppicavo imitando… Invece no, ben altro lui da fare che non passare di lì dove io ero aveva – e fu un vero peccato che non mi riuscisse lo scherzo di rovesciare le palpebre: l’Angelo non sarebbe passato. Tranquillamente allora fu imitato il nonno che fischiando e volto in su dalla strada serrava i pugni e in aria troncava una manciata immaginaria di spaghetti per ordinare: giù in pentola! – o il chinarsi contrito del padre, le sue manie a tavola d’incartare quando si era servito coppa o salame senza far caso di noi… A questo giuoco quanto i miei figli hanno riso. 107 Un po’ meno per giuoco – e utilmente spesso per me, per smuovere un sorriso, ho specchiato i pensieri della gente: certo non senza ironia – ma troppo celata non serve – ho parlato di ordine col reazionario, di borsa col possidente, di calcio col tifoso – e raramente me stesso ho scoperto com’ero nella dovuta misura: l’amaro spino del vero ho temuto – non l’impostura. Un tempo di vita ho perduto a travestirmi a scherzare sicuro che dietro ogni maschera l’altro che ero restasse paziente ad aspettare: al momento opportuno per essere pronto, con uno scatto di reni riemergere dal fondo… … È artrite o artrosi che mi fa torcere il collo? Ma di chi sono queste parole che dico? Già forse ho una mia smorfia abituale? E niente più da nascondere? Solo me da imitare? 108 Viani, sociologia del calcio Gipo Viani ha detto alla Televisione che, abituato dai suoi dirigenti a un’esistenza senza conflitti, unicamente in funzione dell’attività agonistica, il calciatore giunge alla fine della carriera, ossia alle soglie della maturità, quasi totalmente privo di quell’autentica esperienza che è necessaria per fronteggiare la vita. I Che si tratti della vicina Bergamo o del lontano Brasile – le trasferte gli vietano i medici. Viani – non quello del come si fa a dormire con tanti moscerini e citando testualmente Ungaretti con tante cacate – ma quello a cui è sconsigliata la panchina ai bordi del campo – luogo di emozione tremenda – a cui è prescritta moderazione nel cibo e nelle bevande, che i giornali non osano ma quasi se non fosse già frusta la metafora direbbero mago del calcio come il grande Hugo Meisl viennese – Viani Gipo che più d’una battaglia illustra Nervesa il suo paese, general manager del Milan F.C. abbreviato per Foot-ball Corporation, 109 seduto a un sole in ampex si affaccia nella sera televisiva. Risponde osserva racconta dimostra rimpiange – non indulge a banali arguzie. Mentre il suo corpo di ballo dorme a quest’ora in nebbie castissime a Milanello, nella pigrizia veneta Viani senza balbuzie da una campagna modello parla di loro. II Vale lui solo una partita Altafini: può risolverla con uno spunto, di forza, come si dice – uno due tre palloni scaraventando, sgroppando nel rodeo dell’area, scrollata la marcatura spietata: astuzia, un po’ di fiuto, volontà, un po’ di cattiveria – non molta. Ma è un brocco quando non va. III «Le camicie di seta a dozzine l’estroso Libo (per Libonatti, sta) comprava» io lessi adolescente nella rubrica sportiva «ma sventata cicala all’inverno non pensava». Era già un mito Libo che ancora gli ultimi sprazzi Viani giocava nel Sud avido di passione, depresso: a Siracusa a Salerno, 110 centromediano che era un maestro di scuola aitante fra denutriti ragazzi. Con l’aria di chi l’ha sudato centellina il vino: accelerati, valigette di fibra, campi invasi, allarmi, bòtte, anni di fame senza fama – dice: e il poker notte su notte. IV Questi no – altri tempi, soggiunge paterno. Li custodiamo in aria rarefatta, senza pensieri. Più a lungo di noi resteranno giovani – di esserlo non hanno tempo: muscoli – né innocenti, né dannati, solo per risparmiare risparmiati. Senza difese li lasceremo alla vita. Complice senza colpa, sorride Viani: altro soffrire non gli diamo che un’ora e mezza di partita. Sono gli ordini – lui se ne lava le mani. V Tutto questo parlare di calcio per non parlare di altro – tutto questo per non guardare l’essenziale del mondo: soddisfatti per una sera se vince – disfatti se perde 111 la squadra che altra spina è nel profondo del quotidiano servire. Applaudiamo, stiamo ai patti, non cerchiamo di capire! Tutti questi quattrini per niente certo nessuno li dà – allora, se paga qualcuno, qualcosa non va. Les aides au camping Yo-yò – vezzeggiativo di Yolande, la capa di tutte – che lo chiamò nella tenda il pomeriggio vuota, senza far motto si spogliò quasi nuda in fretta si rivestì – e lui senza commenti, al solito in ritardo a capire l’antifona o temendo fosse una specie di prova, alla lettera la loro teoria onorando che massima libertà riduce al minimo gl’incidenti del sesso – ma in realtà un po’ era un fesso un po’ non gli piaceva… Così a tarda sera a scaldarsi con tutto quel freddo ai duemila metri dei Pirenei accoccolati in circolo mentre sul fondo placati dal sonno respiravano i piccoli che al suo batter di denti a lungo avevano riso – unico maschio quasi adulto e straniero fra le giovani aides in quel settore del campo (ne doit être anti rien – sospirò la più dolce e la più racchia – un socialista vero) appunto osò sempre parlando d’altro. 112 113 «Questi i fatti: una mano mia sotto il plaid fra le cosce di quella che stava in faccia a me dagli occhi come spilli alta forse un po’ troppo di nome Geneviève e nessun grido nessuno scandalo anzi la posizione aggiustando lei continuava quali chissà remote angosce nei suoi silenzi tranquilli tutto finito lì – non ci fu niente di strano». Birth-control Non più che quattro figli due coniugi con eccezioni in meno e in più – si parla d’una media – liberamente usando non più che quattro avrebbero calcolando giorni infecondi litigi. Quattro non è una tragedia anche se il costo dei generi tende a salire. Ma vuoi mettere un vivere senza patemi? Nasca chi vuole – se tutto deve morire. 114 115 Le giornate bianche Sono queste le giornate bianche, senza luci né forme – se uno avesse un diario, bianca la pagina resterebbe. Narrano altri di notti in cui non si dorme, ma io qui di giornate per dove il non-vivere ci iberna, morti guidati ciechi ci scosta azzoppati ai bordi del campo. Mi assillano le tue rabbie futili, mi costringono a voltarmi, a guardarti: a non-parole opporre parole non serve, né silenzi, bisogna aspettare. E quando tarda la lettera che dà respiro e così l’esito incerto di guadagni e agonie, pretendo che tutto sia chiaro, e chiuso con me dentro il mondo che mi porta, globo trasparente in sé mi sostiene. Non è dunque bontà il mio desiderio del bene. 116 Per sparse probabilità si verifica l’ordine come vorremmo, ma non siamo pronti a riconoscerlo – e il tempo spira, passa via il momento opportuno. Di altro più che realtà ci disturba il pensiero: come l’uomo – non so – che all’aperto costretto a defecare teme che arrivi la guardia o l’impiegato esemplare segue con batticuore la teppista puttana nell’alberghetto trepido di sorprese. qui ora altrove nel frattempo che cosa può accadere? Se ti lasci interire dalla paura ore bianche, giornate bianche, mesi bianchi ti aspettano, dovrai aspettare finché d’aspettare anche il tempo manchi. E aspettando ti senti grado per grado scivolare, risali un poco, ma sempre meno sulla liscia parete fanno presa gli alluci i calcagni dei nostri piedi storpi. Sempre meno riguadagni, sempre più perdi. Oggi la mia vita ha diecimila giorni quindicimila forse vivi davanti – e tempo sempre più per sorridere 117 dei timori assurdi, non guardarmi alle spalle, e ragione sempre più di ripetermi: sii uomo, non succede niente, tutto è già quasi accaduto in quegli affanni giovanili. Adesso si leva il buon vento che di serenità ci rende vili. Per questi segni su questa carta un colore darò a questo giorno, un nome. Ma nella guasta coscienza io so io dubito che altrove o nel frattempo un altro è il colore del mondo, altro l’amore a cui mi nascondo. La mia compagna di lavoro La mia compagna di lavoro lascia l’ufficio per molti mesi. Io spero che torni (non parte per un lungo viaggio ma è come se – spero dunque che torni): al suo partire mancano pochi giorni, presto saranno ultime poche ore. Affetto abitudine chiamo questo timore stupore che avrò di non vederla qui dove scialbo bizzarro ignoto mi ha trovato e (io penso lei spera) mi troverà: pure non qui la sua vera vita è, né la mia – credo. Pietà semplicemente di me stesso mi fa ricontare i due anni passati, ricordare che un altro ai suoi occhi dapprima fui come io pure vedo essi modificati: così sarà da ora fra molti mesi probabilmente. La mia compagna di lavoro discretamente suppone i miei pensieri, prevede molte parole mie, il vano e il vero ne soppesa e distingue, non ha bisogno di dirmi bugie – e sincero 118 119 anch’io posso permettermi il viso che ho, abbassare la guardia: il paradiso comunista sarà questa, le spiego, libertà di fidarsi che ci nega il nemico, che al nemico si nega e all’amico si chiede – e che volerla non è viltà. La mia compagna di lavoro sorride, più giovane di me di cui deride la stanca giovanile illusione – i versi di Eluard che je voudrais, (ne ridevo una volta adesso me li ripeto) être en U.R.S.S. ou bien me reposer, mentre ci congediamo alle soglie di questa non dura prigione. Moglie è lei fuori di qui sopportabile come un’altra appena, madre di quasi due figli, moderna solo a parole. Io spero che torni, comunque – aspettandola sempre più solo sarò più cauto nei prossimi giorni. 120 Il tempo che non volevo A te beato Giuseppe… Detta in coro la preghiera che terminava alla per noi distante favolosa morte con angeli e santi in compagnia dei bianchi vecchi venturi di pianto, di bava tremanti – onorato l’eponimo del collegio e ricordati i buoni benefattori – alla spalliera zinale, calzoni, maglietta, camicia, ordinate le calze di lana dentro le scarpe – alle ventuno la luce bianca era spenta, vegliava la luce violetta. A te beato dormire… Un minuto, una sera, trascorso appena abbassate le palpebre, e il ciàc ciàc delle mani del padre prefetto, sveglia! sveglia! spietati, ahi di pigri orecchi tirati e il Vi adoro del mattino giù dal letto mi strappano. Così breve la notte uno scherzo sembrava – e io per rifare la prova chiusi gli occhi la sera dopo «adesso» pensando «li riapro»… E così fu già luce di un domani memorando, acqua fredda sul viso, nuova lode a Gesù. 121 E: «svègliati, siamo arrivati!» – col treno a paesi dove la vita camminava indifferente a quella di altrove o di altro tempo: abitatori di un presepio vi avevo immaginati invece, e il colore del niente. Ma era il luogo lasciato che si faceva remoto e morto, improvvisamente. Tra pause e risvegli cambiato, il mondo fu vivo con me, dove io sono è il mondo: adesso è qui nella stanza che dà sulla portafinestra abbassata a metà. L’essenziale era dormire – in una di queste notti dove era una volta casa mia. Un poco m’inquietava il cambiar letto o un malore di mio padre che spesso si alza nel cuore del buio, cerca il mattino. Poche ore riuscii nel sonno a nascondermi – ma una luce alla porta, dalla strada un motore un cane, e forse il troppo vino bevuto, mi riaprirono gli occhi a mostrarmi il tempo che dura un minuto. Il tempo che io non volevo voleva parlarmi, voleva durare. Allora è dove sarò che in ultimo conta? Come sarò quando alle spalle mi sorprende una mano o un telefono squilla che nel mio sogno coincide con un segnale, la voce «che cosa aspetti?», il bullone che salta e sguscia dalla capsula sbalordito astronauta: «sei vivo! – per dirmi – è finito!»… E tutto questo che è dove io sono non m’importa – i miei futili giri, i lunghi e brevi respiri, fra due vicinissimi estremi, linea inessenziale contorta? 122 123 Amore rivisitato Port-Royal Essenzialmente lei di lui delusa, non viceversa. E lui se lo crede, ne spia le notizie, conterebbe trovarsela oh chi si vede felice equivoco in una stessa camera di albergo ma remotissimo, ciao come va puntando su un minimo d’emozione vent’anni dopo levarsi quel piccolo sfizio che avanza di tanta passione: tutto senza preamboli senza commento s’intende senza impegno solo per una sera. Dal vano del cancello apparve la corte pacifica di capre, maiali e volatili domestici intenti a loro colloqui – non era proprio deserto il luogo completamente. Non c’è nessuno? – gridai – Il n’y a personne? Nessuno in luogo così storico? Ehilà, facendo gesti, verrà qualcuno sperando. E lei niente da perdere di che andar fiera del vuoto futuro passato di che stupirlo nessuna sorpresa. Ma lei tutto previsto: lui che modicamente lustro contende con la calvizie e l’epa e non più balbettando trionfa te lo dicevo. Niente da confessare che a lui non piaccia di lei finalmente ascoltare: così non gli nega la donna che basta a se stessa due lacrimette per salvargli la faccia. 124 Niente. Ma silenziose alla distanza di un cento metri, dal gruppo dei tranquilli animali, piroettando tre sagome messaggeri infernali partirono contro di me. Latranti mi s’avventarono i tre piccoli cani neri, alle mie spalle il bosco era greve di pioggia, e io fango e sudore (e sangue – chissà – fra poco). Curiosi e annusanti invece mi risparmiarono: un gioco semplicemente. E avanti per il sentiero, io, strettissimo fra il pendio, dove in alto due enormi cavalli e un asino pascolavano, e il filo spinato oltre il quale nette le rovine gianseniste stanno e i postumi devoti orrori – lustri busti bronzei, la falsa cappella. Niente 125 da ricordare (ah sì, un cartello: Fromage de chèvres) – quando improvvisamente scalpitanti gli zoccoli sulle zolle al galoppo al galoppo partirono contro di me i tre equini dal piccolo colle. Davanti a me le punte scure di ruggine, dietro di me la carica folle – questa una famigliola tranquilla incontrando, a loro domandando ancora se… Ma l’uomo mi rispose, moglie e figliola guardando: Noi siamo qui per respirare aria pura, di che rovine parla, forse ha capito male. Fu dopo un gran temporale nel giorno successivo al grande funerale di Thorez. sarà la fine? Per pochi attimi il petto ansioso comprimendo, inarcando le fil barbelé, già scontando la raffica dei colpi, guardai a terra, giuro non implorai, lessi à la memoire de jean racine la stele rovesciata vana nella fanghiglia, una groppa, un caldo fianco, mi sfiorò la nuca. Spariti anche loro nella corte. Io lì, miracolato e isterico sforzandomi di piangere (oh la drammatica circostanza, pensando, tutta da ricordare!)… O voi alle fiamme scampate anime dell’abbazia, virtuose e nevrotiche madri, signori di dura fede non scevra d’intento politico, pregate, pregate per me, che io possa ancora sorriderne, avere tempo… E un rabbioso ometto: Allez vous-en!, venne gridando, Fuori!, contro di me. Era la vecchia signorina Combes, padrona delle capre, poi mi fu detto. E ridiscesi il sentiero attraverso il bosco, verso la macchina ferma nella radura, 126 127 La vita in versi L’assideramento Metti in versi la vita, trascrivi fedelmente, senza tacere particolare alcuno, l’evidenza dei vivi. I Tanto valeva. Ma non dimenticare che vedere non è sapere, né potere, bensì ridicolo un altro voler essere che te. Comunque urgeva – visto e considerato irresolubile il caso – la decisione. Nel sotto e nel soprammondo s’allacciano complicità di visceri, saettano occhiate d’accordi. E gli astanti s’affacciano Banale (e da scartarsi) il salto dal balcone. Escluso il gas col seguito di macabra scoperta o il tubetto di pillole vuoto sul comodino: strazio per la famiglia un trauma certamente la polizia lo scandalo d’ogni vicino… al limbo delle intermedie balaustre: applaudono, compiangono entrambi i sensi del sublime – l’infame, l’illustre. Inoltre metti in versi che morire è possibile a tutti più che nascere, e in ogni caso l’essere è più del dire. Ma come? Invece «Me ne vado per sempre!» gridò nell’agone domestico brandita la valigia personale di pelle un po’ delicata, sbatté la porta e scantonò surrettizio nell’abbaino di destra che aveva per tetto una lastra di plastica ondulata: e lì restò contemplando la notte di dicembre e la pioggia, a gustare il sapore del suo supplizio. 128 129 II (Assiderato – praticamente: in maniche di camicia nel pertugio ventoso col suo fiato cercò di riscaldarsi ma invano dopo insonni ricerche un fioco lamento al mattino fradicio intirizzito senza coscienza all’ospedale d’urgenza… La sirena ululava nell’aria di Natale. Meraviglioso modo di morire con nulla d’intentato perché l’inevitabile fosse evitato. Col perdono e coi Santi Sacramenti. Disse il primario: «Questione di pochi momenti e poteva guarire»). III Non era poi così freddo: fosse stato l’altr’anno avremmo avuto la neve. Morire assiderato per un po’ d’acqua, chi più ci crede? Cambiò posizione una volta. Ah dietro la testa quel tappo di damigiana (stolta l’idea di comperare quel vino a Riomaggiore)! E il tappo che non regge, il vino diventa aceto o comunque si guasta, perde vigore! 130 Un po’ d’olio occorreva, pensò. E lieve ma persistente un odore di pollaio alla mente richiamò la sparuta gallina da una campagna verde il mese prima lì deportata a far uova a Milano: insuccesso totale, smise subito, rifiutando anche il cibo in quel luogo strano. Crepitava familiare la pioggia – e le voci: qui non è possibile, a ripetere, qui non c’è, e nemmeno è possibile che sia… Non è possibile – e via dicendo: confuse in quel tempo tremendo. IV Fu lei che dapprima tentò di svellere dai cardini (ma senza convinzione) la piccola porta di ferro: «Dov’è andata a finire la chiave?» Poi lasciò andare: «Non c’è» commentando. All’abbaino a sinistra li udì andare, infine tutti rientrando. 131 Taceva il suicida soave. E poiché la morte per assideramento (rifletté) sopravviene nel sonno, cerchiamo di dormire: s’aggiustò con le spalle a una carriola appesa al muro, aspettò di finire. Più fitta la pioggia, ancora più familiare: forse qui potrai vivere – sembrava dicesse – qui potrai stare. Serenamente viaggiava verso il martirio. Dalla pioggia alla febbre, dalla febbre al delirio. V A perderlo fu come sempre l’odiata bontà: deformazione del bene, dice Adorno. Sarebbe lì rimasto fino a giorno: cercato prima, poi pianto, invocato («Cosa mai gli è mancato?») dall’onesta metà. Ma troppo presto il piccolo figlio maggiore di cui diciamo «così bambino!», troppo presto angosciato di perderlo o assalito da un lampo di adulta coscienza (all’infanzia con largo preavviso s’annuncia a volte come in noi dei vecchi la demenza) 132 venne con voce velata: «Son io che ti chiamo, rispondimi, rispondi, non lo dirò a nessuno…» E non di quella voce, di un se stesso patetico e remoto ebbe pietà: mani giunte, segni di croce, sbalordite preghiere per mamma e papà. Ah il complice che ti perde, gli occhi come gli ridono! Ritorna al caldo di casa con luce di salvatore: e il suo fido silenzio a che serve? VI Non potranno rimpiangermi – non vedrò assunto fra i beati sbigottito arrestarsi un punto nel formicaio e gli altri affaccendati districarsi dall’intoppo, valicando l’eventuale zolla rimossa, qualche altro a sua volta fermarsi ad altra effimera scossa – mentre la gente minuscola che fu mia si scuote dallo sgomento, trascina via l’inutile salma, rinnova il gaio suo movimento. O macchinazione cirillica! Voleva morire, ma senza spargimento di sangue, né violenza. Addormentarsi, ma poi 133 potere ancora guardare, sentire adagiate due mani sui ginocchi, tenero intervallo della coscienza, prima di chiudere gli occhi. VII Ma quella piccola porta di ferro che «Apri o la faccio saltare» lei ripeté infilata una spranga fra stipite e battente, convinta, decisa finalmente a ottenere la resa, per affetto di quella alla sublime impresa egli rinuncia con scialbo finale. Quando ognuno sa cosa accada in una notte di vento se una porta di ferro non sia chiusa a dovere – batte e ribatte, disturba la famiglia vicina. Talché in veste da camera si presenta o in ciabatte o telefona (peggio!) il casigliano onesto con finta urbanità «La prego, controlli» ti dice… Solo per questo girò la chiave, per questo riparò al caldo infelice. Rapide considerazioni alla prossima concreta minaccia – la rarità, in primis, dei fabbri nella grande città, ed in secondo luogo la neghittosità del solo da lui conosciuto – smantellarono il fiero fortilizio in men che un minuto. Un mese un anno ci sarebbe voluto per ottenere la riparazione dal pigro artigiano venuto dopo molte preghiere a vedere quali attrezzi occorressero, per l’occasione ripetendoci i mali di cui s’angustia e «non posso» o «potrò forse domani» ogni rinvio rinviando. 134 135 Roma, in quel niente Non mi faceva più male. Improvvisamente all’aperto mi trovai di una strada, di una piazza – ma era forse una stanza tanto era tiepida l’aria e silenziosa la mia solitaria calma. Non mi faceva più male – un tempo io a tagli di rasoio aduso, a manrovesci sul muso, agli urli di chi mi faceva paura… Io li sapevo i luoghi da evitare, quegli stessi dove altri in eletti colloqui, a mezza voce, suadenti squisiti amplessi, tranquilla gastronomia seduceva – Oh questa città deliziosa, impagabile, inimitabile, dicevano essi. Ma per me appunto luoghi pericolosi dove chiunque – è lui! – poteva riconoscermi, dove ero io – o così in quel tempo credevo – la vittima designata. Per questo avevo paura di questa città. Non io, ma probabilmente (se esiste) il mio essere trascendentale anima che mi precorre in qualche luogo buio ma al riparo era entrata, perché sulle guance sentii la carezza di una nobile quiete tempesta da poco placata. Ero in una piccola piazza? 136 Piazza Febo, ad esempio, dove un antico libraio incazzato col mondo intero e magari un po’ strano che tu, malignamente, Mario… Ero in una stanza dall’alto soffitto? Certo che questo so: improvvisamente non mi fece più male – e le mie mani un poco tremanti come sarò inevitabilmente da vecchio sollevai annaspando e niente, niente, trovando se non l’odore che direttamente ai pori della pelle percepisci, l’odore della tua casa vuota dopo una lunga assenza. Era un letto, e col dorso della mano una cosa in quel niente incontrai che respirava: era una coscia collina a pan di zucchero? Né so se da un cielo o finestra l’illuminava la luna: ma certo non senza timore ritrassi la mano, subito strisciando più lontano sulle lise lenzuola per alcuni centimetri che erano miglia – tepore qui supponendo dell’anca, un meno di calore l’incavo della vita e l’ascella un odore di schiuma. Boccio conchiglia fontana in alto sul grembo s’apriva. Era donna di pelle un poco bruna dai capelli unti e lisci – o città che dormiva di tanto ignara materna dolcezza? Poi per un colpo di tosse si torse supina, alzò la testa, si mosse: e io fui come il ladro sorpreso in pieno giorno al punto del non-ritorno fui Gulliver minuscolo sul corpo della regina. 137 Ma non avere paura – mi disse la voce enorme eppure senza suono impensabile idioma da quali sensi non so captato – eppure con tutta la forza d’un sisma che pigramente si sveglia ma inesorabile dal suo sonno – anni d’angoscia liberando, orrore d’incontrare lei loro – casa, ragazza, annosa mignotta, spietato trafficante, verme dai conti in regola, compagno, ruffiano, vecchio maestro, prete, nazista, americano, politico dai nobili sdegni, disfatto padre – tutto che al mondo è romano. Non avere paura, non puoi rifiutare la morte, sei qui, ti conosco – la voce mi ripeté, stammi vicino, toccami, cammina sopra di me. Dalla sua mano guidato per tutte le sue strade salivo in lei lentamente. Baciai la bocca che sa di biscotto e di niente. Finis fabulae 1965 Come una scia si richiude la favola sugli sbruffi dell’elica lussureggiante di schiuma. Guardala a poppavia che s’appiattisce levigata da diavoli mulinelli. L’essere è più del dire – siamo d’accordo. Ma non dire è talvolta anche non essere. Ah discreta più del dovere fu l’incoscienza. Presto tutte le acque saranno uguali e lisce. Di quell’amore aspettando la fine. 138 139 La vita in versi 7 Sperimentale 8 L’intelligenza col nemico 10 Lasciando un luogo di residenza 12 L’incursione sulla caserma 13 Il ventre della lucertola 16 La caduta del ciclista 17 Versi in una domenica di Pentecoste e di elezioni 19 Dal suo punto di vista 21 Anch’io 23 Versi per un interlocutore 31 Epigramma romano 32 Tanto giovane 33 Nel pomeriggio 34 I vecchi 35 Imposture 36 Autocritica 40 Mi chiedi cosa vuol dire 41 Tempo libero 42 Una casa a Milano 47 Tornando a Roma 48 Il benessere 49 Se sia opportuno trasferirsi in campagna 81 l’educazione cattolica 83 Nelle sole parole che ricordo 84 La ragazzetta che voleva mostrarmi una cosa 85 Il catechismo illustrato 86 Come quando nella piazza allagata 55 Dal cuore del miracolo 87 L’avìco 56 Il socialismo non è inevitabile 88 Piazza Saint-Bon 57 Quando piega al termine 89 Vivranno per sempre? 58 Guarderò indietro 91 La resurrezione della carne 59 Come un errore 93 Ruber 60 Del rendersi utili 94 La persecuzione razziale 61 Con lei 95 Arrivò sulla spiaggia con un sandolino 62 Giustizia per Rebecca Lèvanto! 96 64 Cambiare ditta Governoladro ioboia – più spesso con tutta la D 65 Con tutta semplicità 97 Trotzki lattaio in maglia di flanella 66 Una sera come tante 98 68 Le ore migliori Non esattamente sbattendo la porta – ma 71 quindici stanze per un setter 100 Postuma 101 Il profilo 102 Il ballo con la giovane sovietica 103 Il presente a te sacrificato 107 Mimesi 109 Viani, sociologia del calcio 113 Les aides au camping 115 Birth-control 116 Le giornate bianche 119 La mia compagna di lavoro 121 Il tempo che non volevo 124 Amore rivisitato 125 Port-Royal 128 La vita in versi 129 L’assideramento 136 Roma, in quel niente 139 Finis fabulae Giovanni Giudici La vita in versi © 2021, Scalpendi editore, Milano www.scalpendi.eu ISBN: 9791259550477 Progetto grafico e copertina © Solchi graphic design, Milano Impaginazione Roberta Russo Caporedattore Simone Amerigo Redazione Manuela Beretta Adam Ferrari Prima edizione: maggio 2021 A norma della legge sul diritto d’autore e del codice civile, è vietata la riproduzione, totale o parziale, di questo volume in qualsiasi forma, originale o derivata, e con qualsiasi mezzo a stampa, elettronico, digitale, meccanico per mezzo di fotocopie, microfilm, film o altro, senza il permesso scritto dell’editore. Scalpendi editore S.r.l. Sede legale e sede operativa Piazza Antonio Gramsci 8 20154 Milano PER L’ALTO MARE APERTO collana diretta da Edoardo Esposito Classici e moderni, prosa e poesia, italiani e stranieri. Si potrà trovare questo e quello nel “mare aperto” che contiamo di attraversare e che non si porrà problemi di tempi e di generi, cercando solo di seguire il vento di una “buona letteratura” e di rinnovare la tradizione delle collane “universali” coltivando sia il gusto per la memoria sia la curiosità per il presente. Annotazioni Annotazioni Annotazioni Annotazioni Finito di stampare nel mese di maggio 2021 presso Ediprima S.r.l. – Piacenza Printed in Italy