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Vita in versi interno

per l ’ alto mare aperto 4
Giovanni Giudici
La vita in versi
Scalpendi
Sperimentale
L’intelligenza col nemico
Lasciando un luogo di residenza
L’incursione sulla caserma
Il ventre della lucertola
La caduta del ciclista
Versi in una domenica di Pentecoste e di elezioni
Dal suo punto di vista
Anch’io
Versi per un interlocutore
Nota al testo
Il testo è quello della prima edizione dell’opera: La vita in versi, Milano, Mondadori, 1965,
confermato nelle edizioni successive e dalla raccolta complessiva I versi della vita, a cura di
Rodolfo Zucco, con un saggio di Carlo Ossola, cronologia a cura di Carlo Di Alesio, Milano,
Mondadori, 2000. Sull’esempio di quest’ultima edizione i nomi di Lukacs, di Peredjelkino
e di Tolstoi sono riportati alla grafia oggi in uso (Lukács, p. 23; Peredel’kino, p. 27; Tolstoj,
p. 75), e corretto il nome Libonati in Libonatti a p. 110.
(e.e.)
Sperimentale
1957
Intuisce determina inventa –
inascoltato keplero sperimenta:
supponi punto retta sfera – orbita
che l’includa e sorpassi,
seguila fino in fondo e troverai
la cometa in viaggio a un «Pax in terra».
Dai buchi delle tane l’occhieggiano i tassi;
e la volpe abbagliata – sembra un cane;
e la chioccia – abbandona spaventata
la covata scaldata a metà.
«Di qua la giusta via per la cometa?»
Supponi un altro punto un’altra meta
retta sfera – un’altra orbita che
tutto includa intersechi sorpassi,
chiedi in prestito il numero che manca
alla certezza – al crocevia, un cartello.
Evita il non supposto pipistrello,
il viscido in agguato:
«Dimmi – e se
fosse tutto sbagliato?»
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L’intelligenza col nemico
1957
Mercatoribus est aditus…
(Caes. Bell. Gall. IV, 2)
Come piega minore intelligenza
al suo vertice e si rassegna il giorno
in ombra, in luce la notte, che sfiora
per inerzia un traguardo e arretra senza
flettere l’arco dal solstizio…
È aperta
la chiesa solo il sabato al tardivo
penitente;
già spenta, quando appare, la cometa;
non muta in gloria un tradimento; il cielo
non si traduce in dimensione alterna
a questa che si logora in chi cerca
nel cemento una crepa, lo spiraglio
nel carcere, il cammino sotterraneo
nella fortezza assediata. Al tramonto
il sole non si ferma, e forse il poco
tempo che basta era al di là:
«Son pronto
per aspettarlo a rinnegarti, a cedere
al nemico il segreto che ti perde,
il solco dove intride il puro verde
della tua foglia un giallo di veleno.
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Anch’egli ha i suoi piccoli vizi – dirò:
ma per salvare lui, non per ucciderti;
e tornerò per avvisarti.
È questo
il campo che ho prescelto e tra le sponde
straniere vado e vengo, portatore
delle parole d’ordine; trattengo
fra due maschere avverse un volto solo,
indifferente a come mi sorprenda
l’esito, in fuga o nell’azzurra tenda
d’un vincitore provvisorio.
C’è
chi mi crede un mercante intento ai traffici:
tu sai soltanto che è ambiguo il mio cuore,
ma non mente. Resistere è difficile».
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Lasciando un luogo di residenza
Fumo, non nebbia padana, ma fumo
di fabbriche si sfiocca
clandestino nel maltempo e marcisce
le cellule del sangue appena uno
che credeva di respirare aria ne imbocca
una spira – fumo che annerisce
negli armadi gli argenti e i lini umidi
per troppo poco sole. Fumo e pioggia
Abbiamo in questa ultima domenica
sentito la messa vespertina
nella chiesa di legno, domandato
se era stato completo il nostro obolo
per la chiesa che è da costruire
di calce e pietre – quella che vedrà
gente diversa nascere e morire.
Sono già lontani i nostri figli,
soltanto tua è la voce che mi parla:
mio padre se n’è andato ed è un’età
la sua che ben può dire che sia stata
l’ultima volta che ha visto la città.
Ho deciso in tre giorni di lasciarla.
veri, grevi, non detti da parole
soltanto, ci accompagnano in attesa
di andarcene di qui dove ha perduto
per noi significato dire «sempre»,
da quando non possiamo dare un nome
al luogo del domani prevedibile.
Né odio né amore ci lega a questa casa
che speravamo provvisoria (ma
non per un tempo così breve), a questa
casa che abbiamo per primi abitata
e non ha odori che non siano i nostri
di animali docili ed innocui.
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L’incursione sulla caserma
Il ventre della lucertola
Ero immobile sotto un calmo cielo,
marzo pieno d’azzurro, ma quel cielo
non potevo vedere contro il nero
asfalto in cui premevo la mia faccia:
non quella mia viltà ma d’altri taccia
lo strazio questa lontana parola
che adesso mi raggiunge nuda e sola
verità comprovata mentre un vero
non probabile cerco.
C’era il nero
asfalto nei miei occhi e verso il cielo
la nuca, i miei capelli e quelli d’altri,
più forti, meno agili, più scaltri,
più deboli, ma tutti come me,
con le orecchie tra i gomiti, le mani
in croce, gli occhi chiusi ad aspettare
di morire o di vivere, ignorando
ciò che cadeva intorno, non osando
per paura di muoverci gridare.
Per non bruciare l’uomo deve scegliere.
Quando volta il suo ventre la lucertola,
bianco che basta una disattenzione
a mostrarlo indifeso – non più verde
com’era il dorso al suo verde splendore:
com’era la lucertola sul dorso
a terra, gli occhi a terra, che non vede
la lancetta del suo persecutore
trapassarle la bocca tesa, il cuore
forarle, uscire in mezzo al ventre – l’uomo
che nei supplizi non cantava e grida
di spavento se un trapano s’annida
nel tendine, un martello spacca i denti,
anche soltanto se ci pensa – l’uomo
dove proteggerà le sue gementi
fibre quando saranno nude? Salta
il ladro fuggitivo sul cancello
di punte alabardate, in mezzo al filo
spinato s’impiglia l’agnello
deliberato a perdersi, sull’alta
resinosa s’aggrappa un altro quando
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l’assedia il fuoco alle radici e osando
volgersi indietro l’inseguito asilo
cerca sul passo che lo fa tremare,
volendo qualche volta per durare
…
Forse tutto si compie entro quest’ora.
Arrivano: non chiedere perché
ho diviso tra noi le vostre sorti.
vivo al mondo non vivere. Da molto
a un sordido riparo anch’io m’aspetto
di finire, in silenzio per paura
di muovermi… Ma quando per diletto
la lucertola volta o per arsura
il ventre, o a mezzogiorno s’avventura
per le case il rapace e in uno stretto
vicolo, odiato e inerme, è preso – il mondo
tutto corre a quel punto, e là m’ascolto
anch’io cadere capofitto e labile.
Per trattenermi non ho più che me
vivo al fondo del luogo vulnerabile
dove costretto a vivere non so
morire illeso e cieco: finalmente
senza difese – vivo ventre bianco
d’uomo, senza più palpebre tuo viso,
mio viso senza schermi e tutto in te
ciò che in tutti i tuoi simili c’è ancora
più bianco – il tuo midollo, il seme, il fianco
scosceso alla tortura degli insorti.
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La caduta del ciclista
Versi in una domenica di Pentecoste
e di elezioni
1958
Chi è più vulnerabile – il ciclista
nel traffico in città, o lui dall’orlo
del catino guizzante sulla corda
(prima che la raggiunga) della pista?
Se un sasso scheggia il legno
delle ruote o scagliata fra i lucenti
raggi una sbarra rompe l’armonia
– capovolgersi è un attimo, la mia
stessa vita precipita con lui
la fronte a quel durissimo cemento,
si spaccano i suoi denti in me, mio sangue
è il sangue tra i suoi capelli, il lamento
degli ossi fratturati che già fui.
Spacchi il torrone alla fiera e spacchi la storia
degli uomini – la mia
notte in due tentativi
di prendere il sonno, distacchi
i fili, capovolgi
le statue degli eroi sulle fontane.
Aspetto che ti scateni
e che mi tremi dentro
l’anima – ad un supposto
abbattersi di mazza
su me nudo
untore, a questa piazza
in fermento.
Dovrò reggerti ancora
in me senza conoscerti – tu, fermo
segno del mio mutare – in me più forte
di te fino al momento
che romperai l’incognito?
Qui il più grande è il più vile, il più sicuro
di sé chi affida il duro
ammicco verso il complice – dal muro
le spie strappano bandi, taglie, insidiano
fabbriche e dighe…
Non mi credi?
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Attesta
la mia parola la disubbidienza
civile, la protesta
del tuo popolo: punto sulla terra
i piedi, alzo la testa
benché mi pesi – ad aspettarti.
Ma lo spazio d’una vita non basta
a rivelarti.
Dal suo punto di vista
1958
L’opuscolo di propaganda che ti dice?
Illustra la sorte nefanda (cioè
da non dirsi) del popolo infelice
– t’introduce al benessere dal suo
contrario, e fuor di questo
benessere non c’è
(«siatene certi») bene prevedibile.
«Una merenda al cittadino onesto,
amore senza rischi, una crociera
alle Canarie o al Baltico, una casa
coperta da ipoteca redimibile.
S’allargano i confini dello scibile
se muta il presupposto
– c’è la Luna,
di gennaio o d’agosto,
che aspetta una fortuna: i volontari
(è tutto già disposto)
dei voli interstellari.
Altro non c’è,
fuori che questo, vero disponibile.
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Per quattro impiccagioni
rovinarsi la cena è una follia:
mondo che vai e tecniche diverse,
il risultato è uguale…
Ma piuttosto
considera il mercato potenziale
ancora chiuso ai traffici
– una volta sul posto:
daremo frigoriferi
in cambio di caviale.
L’anima, il bene e il male, vecchie storie…
È tutto garantito
ciò che potremo dare
a prezzo ragionevole
in cambio d’una tregua militare:
i biliardini elettrici
ai malati di nervi,
concerti nelle fabbriche e una dieta
quasi conforme per padroni e servi.
Daremo anche il poeta
che colga a prima vista
un neroblù di rondine nel cielo
– per la squallida coppia socialista,
domenica sulle rive del mar Nero».
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Anch’io
Anch’io finirò come
mio padre. Mi dirà
il figlio troppo premuroso: «Leggi
questo libro, scegli un interesse».
Ripeterò le stesse
cose: passando a Chiavari,
un verso – la ninfale
Entella; un’avventura
di guerra, ma non vera
che a metà, di una sera
che ero di pattuglia
e una macchina all’alt non si fermò:
«Miro alle gomme,
premo il grilletto:
ora devi sapere che il moschetto
novantuno spostava in alto…»
Anch’io finirò come
mio padre: «Non andrà
– dirò – sempre così come all’età
delle caverne».
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Anch’io con quattro amici
scassati, generoso
fuori tempo, carogna
però al momento giusto per averne
Versi per un interlocutore
1958
a Franco Fortini
il danno e la vergogna.
Vive, un uomo di doppia verità:
alla periferia di Budapest la casa
nuova di György Lukács oggi è invasa
ancora (tu mi spieghi) dal silenzio.
E debbo crederti se affermi che in assenzio
ha trangugiato il miele della gloria
temporale, che la sua vittoria
si volge nell’anàtema per lui.
L’uomo che, nel linguaggio amico o altrui,
l’anno che piega al termine s’affanna
a distruggere e il secolo condanna
e la Chiesa con lui – l’uomo che il giuoco
comprende delle forze in lotta e il poco
spazio del solo momento in cui vive
un progresso dinamico e s’inscrive
più sicura una piaga di realtà,
non è il vecchio filosofo cui debbano pietà
il duplice avversario e i suoi lontani
discepoli: in tempi non umani
ancora, vana scelta tra lamento
e apologia, ossequio e tradimento,
rifiuta se gli è concesso vivere
confuso nei suoi simili e descrivere
la verità che rifiuta un perché
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volgare. So che non delude te
la condizione di chi aspetta il giorno
dentro la notte semestrale, intorno
con gli altri a un solo fuoco, negli inverni
del campo armato su nemici esterni,
intento a suddividere l’errore
dal pane condiviso, bruciando al suo fervore
dialettico la scoria. Ma se tu
Gli errori del popolo non sa
chi in se stesso non li ha patiti e crede
palese il vero e vero ciò che vede
in altri, tutti gli uomini in eguali
numeri imprigionati, i loro mali
senza volto, i peccati senza amore.
Chiuso nel suo logico splendore
che non risplende, non potrà mai più
un suo compagno ti confessi o più
vicino a lui che all’uomo in sé sicuro
di sé e all’infamia degli altri più duro
censore se non complice, che il mondo
contemporaneo accoglie o con profondo
odio combatte, non hai chi t’esalti
fra i suoi, chi ti protegga dagli assalti,
e non l’orgoglio d’esser solo. Avrai
credere ciò ch’è assurdo: se Gesù
non è risorto la tua fede è vana
anch’essa e perduto il tuo sforzo a un’umana
virtù. Passerà solo col suo vanto
ingenuo chi vedeva, egli soltanto
tra i ciechi, in tempo di contraddizione,
inutile davanti alla sezione
del partito, alla chiesa, o nella via
ciò che non ami: lo ritroverai
in questa moltitudine – gli odori
delle case, i suoi vizi, i falsi amori
degli idoli, anche il rifiuto del bene
quando non è benessere… Ma tiene
fra questi oscuri il senso di resistere
fino a domani, fede di consistere
aggrappati a una sorda verità.
saettante di sguardi e voci, scia
di meraviglia che lo fa sostare
dove urla e ride la platea popolare
e non lui che l’osserva estraneo e avverso
destino chiama l’essere diverso
da quella – un privilegio il suo difetto
d’umiltà, di pazienza, d’intelletto
d’amore – e cresce una vergogna in sé.
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Non è quello che dico – quello che
sono, conta, e non vede in me l’eguale
turba degli infallibili, del male
e del bene impartecipe, se ad essa
la paura d’infamia che s’appressa
non mi consegnerà prima di giorno,
se il popolo sventato a cui ritorno
dal suo errore mi riscalderà
altrove, a Francoforte, è Rosemarie
sola contro l’industria convertita
ai rischi della pace – la smarrita
accozzaglia a Varsavia che in un vario
ordine stringe, uniti, il segretario
del Partito e il Primate pellegrino
apostolico a Roma – è il mondo chino
nel suo esistere non per sua viltà,
senza accusarmi. Ho visto le città
morire nel benessere, fuggire
per viltà e per orgoglio molti, tradire
e non sperare, ansiosi d’una prova
che il bene rifiuta a chi non trova
bene fuor di se stesso, a chi non vuole
condividere amore e disamore,
pane e fame, libidine e virtù.
ma per sua condizione: crudeltà
che non vorrebbe essere, fermento
che non teme ma spera il mutamento
dell’ingiusto disordine – è il poeta
che non mente e non nega nell’inquieta
casa di Peredel’kino – è il furore
che oggi lo condanna e unico amore
respira in lui, fa dubitare te.
Scorre il popolo, con i fiumi, giù
dai monti alle pianure, a false immagini
di libertà, scompare per voragini
senza gridi qualcuno d’essi – e il bene
è queste morti stolide che viene
l’ipocrita a compiangere, lui – scisso
da questa storia, salvo nel suo abisso
di perfezione immobile. E così
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Epigramma romano
Tanto giovane
Nel pomeriggio
I vecchi
Imposture
Autocritica
Mi chiedi cosa vuol dire
Tempo libero
Una casa a Milano
Tornando a Roma
Il benessere
Se sia opportuno trasferirsi in campagna
Epigramma romano
Tutto ignorate, come a Weimar Goethe:
ma troppo grande è Roma per essere Weimar
e voi (perché dirlo?) troppo piccoli siete.
Potevano ben dire la grassa redditiera,
a Weimar, lo stalliere, la guardia, la ragazza:
«siamo al centro del mondo» perché con essi c’era
uno che senza il mondo poteva vivere.
Ma noi siamo noi soli nel mezzo d’una piazza.
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Tanto giovane
Nel pomeriggio
«Tanto giovane e tanto puttana»
ciài la nomina e forse non è
colpa tua – è la maglia di lana
nera e stretta che sparla di te.
I
Sei fatta così bene, così bella
tu sei che non può essere che quella
(e fra tante qual è nessuno chiede)
la rossa fuoriserie che t’aspetta
se attraversi la strada senza fretta,
snella, dall’uno all’altro marciapiede.
E la bocca ride agra:
ma come ti morde il cuore
sa chi t’ha vista magra
farti le trecce per fare l’amore.
II
Calda, rotonda e tesa – scarti il traffico
all’incrocio e poi sali – uno due tre,
a destra – gli scalini d’una chiesa.
Nel centro di Milano non c’è messa
a quest’ora – si ama di nascosto
o si lavora…
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I vecchi
Imposture
Non onorate i vecchi,
abbiatene pietà
perché sono gli specchi
di come finirà
«Sa tanti giuochi, ha le mani d’oro»:
questo giovane padre fossi io,
il marito esemplare, il dettatore
d’epigrafi, il più allegro nelle gite
sociali, l’imparziale alle partite
mediatore di risse, accetto al dio
del presente – del civico decoro
tutore immacolato e dello sdegno
interprete sicuro – io che consegno
all’anziano collega il premio in nome
del capo e il capo ringrazio – io, segno
di fedeltà, di concordia fautore…
tutta la vita per noi
che non abbiamo virtù:
vogliono i vecchi eroi
amore, ma non c’è più
nei vecchi nulla da amare,
lacrime, sesso e vino:
tutto dobbiamo odiare
nei vecchi, nostro destino.
Io fossi l’uomo dalle mani d’oro
che fa dire «anche il popolo ha i suoi buoni»,
di vedute moderne irreprensibile
verme, demiurgo d’infanzia felice
montessoriana società di gnomi,
io, l’uomo d’alti spiriti che dice
al convito dei sazi: non di solo
pane si vive – io, mago d’evasioni
consentite, scaldassi i desideri
semplici che non turbano i patroni
del mondo – la vergogna di tutti i nostri ieri,
io, lo specchio fedele dell’età…
Ladri di notti corte,
il giorno ci perderà:
coi vecchi la stessa morte
misura le nostre età.
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Autocritica
e solo addormentarsi in servitù…
Non ha voce, sogna di cantare
al microfono la giovane magra
scura di pelle e ruvida, ma in giù
«Risparmio, virtù popolare»: parla
il pubblicano, esalta la sola qualità
che gli piace, la sola che comprende…
Ma non è vero – il popolo si spende
fino all’ultimo soldo che non sa
di possedere: impegna ori, vende
lenzuola, mangia vive le sgualdrine,
tutto conduce a una fine. In città
è il villico davanti alle vetrine
dopo mercato: mordere si sente
dal desiderio delle vanità
– cinghie, coltelli, ottoni – alle osterie
malfamate discende perché sa
che ci sono baldracche e leccornie,
soltanto per guardare – ma poi va
dove la voglia lo tira e il troppo vino,
sciupa il guadagno e i soldi che il vicino
gli ha affidati, incauto, da comprare
rose o rosari o l’opera di Marx
– per ridere, per bere, per mangiare
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tenerissima e bianca, che alla sagra
ora è un anno è stata la più
bella del luogo dove per vergogna
non torna: il suo amore è una carogna
di professione spia – con lui persegue
economie comuni e la decenza
sociale, incerta se l’innocenza
sia da rimpiangere o irridere… Tregue
scarse offre la vita a chi insegue
la sua ombra perché veda la sorte
che non libero sceglie sulle porte
d’ogni mattino: i segni del benessere,
che l’avversario porge, accetta e crede
accettandoli d’essere
simile a lui, più forte – e non più fede
nel proposito serba, cede al gioco.
Io che parlo del popolo (fu poco
lo spazio per decidere) è di me
che parlo consapevole, perché
la volontà non basta, occorre il fuoco
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per non morire – ed il popolo in me
con nuovi sbagli a sbagli antichi oppone
riparo, si contenta a una carezza,
cane bizzarro d’astuto padrone,
ama il padrone, plaude al buon governo.
«Ha ragione, non è mai stato
così bene» ripete il prudente,
«La borghesia è un’onesta gerente
prodigo che ritorna alla prigione
desiderata donde partì
per una festa sordida… Ah fermezza
del solitario compagno che ha l’aspetto
degli affari del proletariato».
d’un tradito – colui che l’oggetto
ostile guarda e nomina; chiarezza
che non sorride e non si distoglie
a un clamore di schiavi, a un dialetto;
albero che non perde le sue foglie
a un dolce vento di gioventù…
Il popolo si lascia vivere, è perduto,
poca allegria gli toglie la virtù
di trasformare il mondo non veduto
con i suoi occhi ma con altri… E tu,
levita, cireneo, nemico del presente,
batti alla porta di chi non sente
chiuso nel sonno la tua verità?
Ti schiaccia la pietà, ti fa vile lo scherno
degli infallibili a poco a poco:
solidale il popolo sta al giuoco,
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Mi chiedi cosa vuol dire
Tempo libero
Mi chiedi cosa vuol dire
la parola alienazione:
da quando nasci è morire
per vivere in un padrone
Dopo cenato amare, poi dormire,
questa è la via più facile: va da sé
lo stomaco anche se il vino era un po’ grosso.
Ti rigiri, al massimo straparli.
che ti vende – è consegnare
ciò che porti – forza, amore,
odio intero – per trovare
sesso, vino, crepacuore.
Ma – chi ti sente? – lei dorme più di te,
viaggia verso domani a un vecchio inganno:
la sveglia sulle sette, un rutto, un goccettino
– e tutto ricomincia – amaro di caffè.
Vuol dire fuori di te
già essere mentre credi
in te abitare perché
ti scalza il vento a cui cedi.
Puoi resistere, ma un giorno
è un secolo a consumarti:
ciò che dài non fa ritorno
al te stesso da cui parte.
È un’altra vita aspettare,
ma un altro tempo non c’è:
il tempo che sei scompare,
ciò che resta non sei te.
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41
Una casa a Milano
completamente… Ma in questi giorni l’aria
è gialla, o forse sembra, sì che ogni strada
è uguale e non posso pensarmi fra dieci
anni o venti o di più nella contrada
I
Una casa nei giorni dello smog
a Milano è difficile trovarla:
i miei pochi risparmi e il molto debito
non tolgono il diritto d’abitarla
insieme, io e te, per qualche anno felici
dentro gli occhi e nel sesso, sotto un tetto
senza pensieri gravi, dopo il sole del giorno
tranquilli nella stanza alta, nel caldo letto,
che scelgo piena di promesse e dire:
qui probabilmente io morirò,
senza sentirmi fin d’ora morire
in poca luce qui dove sarò
accanto a te per molti giorni e sere,
muteranno le voci dei miei figli,
«tutta la vita in ’sto buco di casa»
mi roderanno le tue querele.
con i bambini ancora urbanamente
ignari ma già savi, con la pagina
ancora aperta sul tavolo nel buio
della stanza più buia della mente,
II
Via Lorenteggio era ridente
di sole nei giorni della tramontana
ai primi di gennaio, ma prudente
ci sono ritornato e più lontana
ma ricco di ferme parole nel mattino
domestico, aggressivo alla lettura
del foglio democratico, non chino
a servitù di stanchezza o paura:
mi sembra ora che piove e rare luci
di negozi si mostrano e più rari
gli autobus, più fitta tra i filari
degli alberi la nebbia in cui traduci
cerco una casa comoda, un riparo
al mio pane privato per la vita
che resterà, comprata col denaro
necessario a comprarla, non finita
come da effetto a causa il prezzo mite
per metroquadro, causa i prati nudi
o i terroni di Baggio dove escludi
vivere – affermi – tra vino e lite.
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43
Cerco altrove, lontano dal mito popolare
di un’infanzia che forse non fu vera,
una casa che già mi sembra inutile
tanto stanco mi sento in questa sera
Un confuso sentire in una forma
costringo e me di un’ora oltre la resa
del mio giorno e di te che dici: sono stanca,
dei figli che resistono ogni offesa.
di sabato inseguita per il futile
arrampicarsi dentro me dei giorni
di lavoro, rinvii del giorno a cui
sempre affidavo illusori ritorni
Chiederò in prestito il numero che manca
allo zero dal nove che ne ha tanti:
cedo una sera, sai che mi riprendo,
non è vero che non siamo tutti santi».
di volontà per dire: questo fui,
vivo nel mio secolo ma volto
nel cuore ad altro, avanti, mio proposito
di verità, attento a riconoscere
Ma per queste parole mi sorprendo
a mentire se cerco in un letargo
scendere, capofitto rifugiarmi:
dico che è solo per poco – ma sento
dentro e fuori di me il nemico scaltro
che quand’ero di guardia mi faceva dormire
e da ragazzo timido salire
una scala d’amore troppo facile.
che ogni volta è per sempre. Chi può darmi
il me stesso che fu vile perché
non sia vile, al mattino riportarmi
indietro dal mio serale orgoglio?
(Quella che un bimbo gracile
non riconobbe e ci porta a morire).
Debito e vita, tutto pagheremo,
passano presto gli anni, ma non voglio
che tu t’illuda e m’aiuti a mentire
ancora – non è vero che saremo
III
«Datemi un punto d’appoggio… Ma no,
datemi un giorno, tre giorni, una vita
tutta risolta e il mondo si trasforma,
forse è meglio non vivere per vivere.
44
senza pensieri e senza maledire
al superfluo che manca – non è vero
che i figli saranno buoni, che potrò
scegliermi un lavoro più leggero.
45
Senza averla, una casa, so com’ero:
dici che sarò meglio, mi consoli.
La proprietà fa liberi… Ma no:
è impossibile salvarsi da soli.
Tornando a Roma
Molte case nuove, i mattoni divorano l’aria:
qui erano villini impiegatizi, maltenuti
perché un giardiniere costa e l’impiegato
non ha soldi, disdegna la zappa del paria.
Un tempo conoscevo dagli alberi queste strade:
una la gloria d’un pino, un’altra la sontuosa magnolia,
un’altra verso maggio il profumo dei tigli,
un’altra il prato di fianco e le case rade.
Qui era la sezione, ma c’è un negozio
di tessuti, le mie compagne di scuola
s’incontrano alla spesa e non si salutano,
si nascondono per vergogna i giovani in ozio.
Se fossi rimasto qui dove il pianto mi stringe,
sarei chiuso, stroncato come gli alberi:
ma ospite d’un giorno devo fare coraggio
al compagno che per orgoglio di resistere finge.
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47
Il benessere
Se sia opportuno trasferirsi in campagna
Quanti hanno avuto ciò che non avevano:
un lavoro, una casa – ma poi
che l’ebbero ottenuto vi si chiusero.
Ancora per poco sarò tra voi.
Gli scherzi, le meraviglie della natura,
i nani, i nidi, le uova con due tuorli,
scoprirli come ti piace – più sicura
ti fanno che un miracolo è possibile,
non qui, ma altrove, dove attraversano
la strada tra bosco e bosco gli scoiattoli,
e la vita è vicina, il tiranno invisibile,
e gli uomini, senza fretta, conversano.
Se sia opportuno trasferirsi in campagna
spesso pensiamo: qui ci tiene il lavoro
che non manca, il civico decoro
di cui partecipiamo, la cuccagna
delle vetrine addobbate, dei cinema aperti,
dello stadio, dei dancing, dell’ippodromo,
di ciò che vuoi pronto a tutte le ore
della voglia improvvisa… Ti diverti
anche tu nella festa cittadina,
ma se una sera d’estate troppo calda
l’afa della pianura ti stagna in cuore,
t’affanna il respiro, ti fa meschina,
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per noi è facile andare in Brianza,
una mezzora di macchina se è sgombra
la via da chi ritorna, se la danza
dei fari non è cominciata. E l’ombra
domenicale un allegro padrone
emula e crede liberarsi – sorda
alla voce di rabbia che ogni sera
strozza un singulto assonnato… Se sia
è chiara, il giorno ancora non si perde,
la strada sale appena e più lontana
la città più veri si fanno i paesi:
Desio, Seregno e la musica verde
giusto appassire qui tutta la vita
in attesa di trasformarla oppure
rassegnarsi ai perduti, dar partita
vinta ai traffici, al corso degli onori,
dei cipressi che avvolgono Inverigo:
bianche, grige, celesti ville, austere
o d’una grazia semplice, un intrigo
settecentesco invitano o severe
e scegliere il treno del mattino,
la corriera alle sette da Bosisio
sulle rive del vago Eupili – fuori
la notte almeno da questa città,
meditazioni nel cortile interno:
il sabato una visita in città
e a primavera una festa in giardino
per chi le abiterà nel lungo inverno.
dove un me stesso a un tavolo, a uno scranno
servile insegue vana libertà
di giorno in giorno rinviata, e spera
ritrovare per sé l’ultima luce dell’anno
l’ultimo anno di vita con forza intera…
Se sia opportuno trasferirsi in campagna,
se tanto costa pagare la vita,
mangiare, amare, respirare l’aria
viziata dallo smog che fa patita
anche una piccola pianta sul balcone:
qui, dove accampa prigioniera un’orda
per un settimo giorno d’evasione
sei giorni cupa, e su strade a raggera
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Sarà opportuno trasferirsi in campagna,
una più salubre aria c’invita:
questo chiedono il tempo, le migliori
condizioni che allietano la vita,
il progresso, i miracoli, i conforti
della tecnica nostri servitori,
questo l’industria dei semplici cuori
che ci apparecchia le felici morti
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delle poche letture, pochi amici,
pochi giuochi serali, pochi storti
ribelli umori… Così ci vuole il mondo
che invecchia delle nostre vecchie sorti:
e anch’io, vinto pudore, mi dispongo
nei numeri d’attente previsioni,
coltivo fiori, inchiodo legni, rispondo
con lagrime a elette commozioni
pubbliche – e sono là, così diverso,
chiudo un cancello, sciolgo un cane
guardia al piccolo mondo d’un disperso
villino nella fitta schiera uguale
dei simili, depreco il tempo avverso:
«quello che sono è bene, il resto è male»
penso nel coro – e un’altra libertà
benedico, riposo domenicale.
…
Qui di me si perdeva la miglior parte,
che maledice e spacca la noce tra i denti,
e a quel minuscolo crac ancora prossima spera
la fine di ormai remoti stenti.
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Dal cuore del miracolo
Il socialismo non è inevitabile
Quando piega al termine
Guarderò indietro
Come un errore
Del rendersi utili
Con lei
Giustizia per Rebecca Lèvanto!
Cambiare ditta
Con tutta semplicità
Una sera come tante
Le ore migliori
Dal cuore del miracolo
Parlo di me, dal cuore del miracolo:
la mia colpa sociale è di non ridere,
di non commuovermi al momento giusto.
E intanto muoio, per aspettare a vivere.
Il rancore è di chi non ha speranza:
dunque è pietà di me che mi fa credere
essere altrove una vita più vera?
Già piegato, presumo di non cedere.
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Il socialismo non è inevitabile
Quando piega al termine
Sarò cauto, imparerò a non gettare
troppo avanti parole che ricattano
le azioni – come al giovane bastardo
ciòttoli perché corra: dopo il fare
Quando piega al termine l’età,
la nostra età, l’età del mondo, quando
aspettare il nulla che accadrà
è chiaramente un inganno – si mette al bando
venga il parlare. È avventuroso chi
ha molti anni da perdere e pochi
errori da scontare: mentre qui
il tempo stringe e i miei sbagli sono molti.
volontario colui che il sorriso rifiuta
e non sopporta di essere vile
più, non chiede più complici e muta
persona diventa, facile preda ostile.
Il presente è con te che non m’ascolti
e nel mio vivere scruti l’impostura
della fede che affermo: la più vera
è la norma non scelta, la subìta bandiera,
questa, del mondo a cui costretto vivo
contraddizione – e in cambio esso mi nutre
mentre pensando a distruggerlo scrivo;
mondo che ossequio – dove finirò.
Voglia di morte nel ventre ci putre.
Avversa volontà, ma troppo labile,
inquieta la mente. Non è inevitabile,
il socialismo, lo so.
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Guarderò indietro
Come un errore
Guarderò indietro, non avrò più paura.
Dimenticare amici, dimenticare sventura
o ventura, non serve, cambiare accento,
sapere tutte le giuste notizie,
Anch’io come un errore pago la verità:
amo due chiese che sono diverse
– e per l’una l’altra mi condanna o estraneo
mi dimentica o mi soffre avverso.
dunque non serve. Se è da rifare il mondo,
datemi la mia parte, fissatemi il tempo,
controllatemi, lavorerò… Ma qui un po’ di vento
già mi sbalestra, mi scopre se mi nascondo,
E di qua mi respingono, di là non mi vogliono,
e così poca moneta di vita così spreco,
e soffoco di veleno, in questo vicolo cieco.
E di orgoglio.
mi coglie in fallo: basta un niente a tradirti,
e sbagliare da soli non dà esperienza.
Cominceremo daccapo, ma qui è già sabato sera,
credo che il Diavolo esista, volevo dirti.
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Del rendersi utili
Con lei
(su un motivo di Eliot)
Fare la storia (non scrivere libri
di storia fatta da altri), fare
una storia che debbano narrare
gli altri, eppure non tua,
Con lei era difficile. Ma non rimpiangere
il giugno lontano, la parola cuore,
i denti come perle duri sul bacio inesperto,
la mano timorosa, il contemplato pudore.
la carriera più difficile del mondo,
renderti utile nel senso che dice
utile ciò che si usa, non felice
secondo i molti e te – significa cercare
A ripensarci, lei era poco più d’una sciocca,
oggi diresti che la mette giù dura,
e molto meno ti chiede colei che ripete:
cinquemila in albergo e in macchina due, con la bocca.
l’oscurità dove le giuste azioni
ti portano se veramente sono
giuste, con fermo cuore le abiezioni
santissime, ma senza perdono,
compiere in gloria di chi di quel che servi
utilmente, non certo della sua verità,
all’infamia temprare i tuoi fragili nervi
e all’attesa che premio non darà.
Credi, non è per pietà di me stesso,
già stanco per più aspetti, che ripeto
in forma variata questi versi stranieri:
solo, li vedo veri – se guardo indietro.
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Giustizia per Rebecca Lèvanto!
Vedasi appunto il Corriere,
cronaca di Milano d’un ventiquattro maggio
che il Naviglio non mormora al passaggio
di Bettina con un carabiniere.
Sedicente romena, nata a Zara,
Rebecca Lèvanto – ebbe
traversie di ragazza in guerra e in campo:
poi, con la pace, un marito legale
(Abramo e Qualcosìch che non ricordo)
borseggiatore internazionale.
Ma non d’ausilio al coniuge in quell’arte
emigrò clandestina in Canadà:
trentasett’anni sarebbe la sua età,
forse è viva in qualche parte.
Lasciò deserti un talamo e il suo nome:
complice Abramo li occupò Bettina,
che era proprio di Lèvanto o dei pressi,
e fu Rebecca da sera a mattina
(due anni in meno, la stessa beltà).
Un borseggio mancato ha riportato
alla luce la vera verità
(chissà come si chiama Rebecca in Canadà)
e tutto è documentato.
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Cambiare ditta
Con tutta semplicità
Non puoi cambiarti, ma almeno cambia ditta,
il posto di lavoro è più che una metà
(inutilmente resisti) della tua anima:
e quante cose per te cambieranno!
Con tutta semplicità devo dire
che un tempo sembrava lontano
il tempo in cui morire.
Avranno altri volti e strade le tue mattine,
t’illuderai quasi di aver cambiato città,
di avere davanti una vita. Un nuovo gergo
imparerai nelle file dei nuovi conservi:
ti ci vorranno due mesi per scoprirlo banale.
E poi nuovi padroni, nuove regioni dei tuoi nervi
in evidenza agli uffici del personale,
nuovi prodotti e una nuova misura
Ora non è più un pensiero strano.
Ora è sempre lontano (almeno spero) ma
posso già prefigurarmelo. Ho l’età
in cui dovrei fare ciò che volevo
fare da grande e ancora non l’ho deciso.
Faccio quello che faccio, altra scelta non ci sarà:
leggo di miei coetanei che muoiono all’improvviso.
di quel che è bene e male – ed infine te stesso
di cui tutti diranno che sei nuovo.
Annuncerai ai lontani la tua novità:
«Questa mia è per dirti che adesso mi trovo…»
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Una sera come tante
Una sera come tante, e nuovamente
noi qui, chissà per quanto ancora, al nostro
settimo piano, dopo i soliti urli
i bambini si sono addormentati,
e dorme anche il cucciolo i cui escrementi
un’altra volta nello studio abbiamo trovati.
Lo batti col giornale, i suoi guaìti commenti.
Una sera come tante, e i miei proponimenti
intatti, in apparenza, come anni
or sono, anzi più chiari, più concreti:
scrivere versi cristiani in cui si mostri
che mi distrusse ragazzo l’educazione dei preti;
due ore almeno ogni giorno per me;
basta con la bontà, qualche volta mentire.
Una sera come tante (quante ne resta a morire
di sere come questa?) e non tentato da nulla,
dico dal sonno, dalla voglia di bere,
o dall’angoscia futile che mi prendeva alle spalle,
né dalle mie impiegatizie frustrazioni:
mi ridomando, vorrei sapere,
se un giorno sarò meno stanco, se illusioni
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siano le antiche speranze della salvezza;
o se nel mio corpo vile io soffra naturalmente
la sorte di ogni altro, non volgare
letteratura ma vita che si piega al suo vertice,
senza né più virtù né giovinezza.
Potremo avere domani una vita più semplice?
Ha un fine il nostro subire il presente?
Ma che si viva o si muoia è indifferente,
se privare persone senza storia
siamo, lettori di giornali, spettatori
televisivi, utenti di servizi:
dovremmo essere in molti, sbagliare in molti,
in compagnia di molti sommare i nostri vizi,
non questa grigia innocenza che inermi ci tiene
qui, dove il male è facile e inarrivabile il bene.
È nostalgia di futuro che mi estenua,
ma poi d’un sorriso si appaga o di un come-se-fosse!
Da quanti anni non vedo un fiume in piena?
Da quanto in questa viltà ci assicura
la nostra disciplina senza percosse?
Da quanto ha nome bontà la paura?
Una sera come tante, ed è la mia vecchia impostura
che dice: domani, domani… pur sapendo
che il nostro domani era già ieri da sempre.
La verità chiedeva assai più semplici tempre.
Ride il tranquillo despota che lo sa:
mi calcola fra i suoi lungo la strada che scendo.
C’è più onore in tradire che in esser fedeli a metà.
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Le ore migliori
Le tue ore migliori… ma non sono per me:
sono le ore del lavoro domestico,
che è troppo trascurabile realtà
per essere degno di storia. Progredisce
la storia, infatti, ma il tuo lavoro
semplicemente ricomincia e finisce.
Le tue ore migliori sono della mattina,
quando ti lascio e tento per vie diverse
variare l’obbligato itinerario
che sempre da un punto parte e ad uno arriva.
Batte il sole al balcone di cucina,
prima di cominciare tu guardi in strada.
Io guardo invece nel fondo del mio cortile,
mentalmente bisbiglio Dirigere
et sanctificare, la breve preghiera,
mia virtuosa abitudine, prima di lavorare:
lucida è la mente al quotidiano servizio
e la stanchezza impossibile appare.
Intanto passano le tue ore migliori,
quando potresti parlarmi e sorridere.
Tali bruciavano gli anni di gioventù
nell’aspettare più sereni giorni:
e tu riassetti, rigoverni, spolveri, sola
(i figli sono a scuola) e aspetti che torni.
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II
Dice decoro la tavola apparecchiata,
possiamo avere tutto quel che vogliamo:
all’opulenza mancano forse i fiori.
Il buon cibo conforta dopo l’onesta fatica.
Ma già si ammucchiano stoviglie mentre mangiamo
troppo avidamente, per fare presto.
E ricominci: i necessari rifiuti
in un solo piatto raccogli, riempi
il lavandino ove galleggiano sughi,
affondano fili di pasta, bucce. Adempi
la tua virtù necessaria, riordini
ancora una volta la casa. Io ad altro
lavoro attendo, al mio ufficio, sperando
di fornir l’opra e non me, anzi che giunga la sera,
per godermi la luce residua e, di me
stesso padrone, qualche ora d’avanzo.
Ma non sarà quella la vita vera:
sono queste ore migliori e non ci appartengono.
Eccoci ancora intorno alla mensa serale,
tra le risse dei figli allegramente spietate:
e nuovamente si guasta la linda cucina,
la tovaglia è chiazzata di vino. «Lascia
così – suggerisco – penserai domattina
a tutto. Adesso resta un poco con me».
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III
Nessuno ci corre dietro. Ma tu
macchinalmente solitaria persisti
nel ritmo ordinario in cui ogni ora
ha la sua norma: sai già che il mattino avrà stanze
disfatte e l’odore del sonno e l’aria
che un brivido nebbioso vi porta o il sole
nella bella stagione. Bisogna dunque concludere
tutto perché tutto ricominci,
dopo un riposo di affrante bestiole,
col primo atto del domani:
vivrà la vita per chi non ha tempo
di vivere. Così anche ora da me ti allontani,
spingi cassetti, fai scattare sportelli,
ammaini l’avvolgibile con fragore:
e siamo soli con tutte le storie
dei libri che promettevano
in cambio di virtù felicità.
Così finiscono le tue ore migliori,
quando da un capo all’altro della città
si chiudono i portoni dei casamenti:
e in buie menti un comune pensiero
apre un barlume del meglio a venire…
Così non riconosci l’inganno
di chi ci ha fatti a servire.
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Quindici stanze per un setter
I
«A Milano un setter non può vivere.
Com’è possibile farlo passeggiare
nel traffico, respirare
nelle puzze del neo-capitale? E poi (altro
che passeggiare!) ha bisogno di correre,
di affinare l’olfatto ai naturali
odori della campagna.
In quattro vani, con la sua esuberanza,
il cane soffre, forse ti morirà:
un girasole non cresce in una stanza».
Mio caro amico, volevo rispondere, tu
con la tua lettera a un giuoco di rimorsi
mi tenti: ma sei mesi son passati
e il mio cane sta bene, ha nome Scoop
(che in inglese vuol dire una grossa notizia),
non sporca in casa, è vivace, lo guardano
per strada quasi fosse una ragazza,
muove troppo la coda, ma ha l’altero
(quello sì) incedere della sua razza.
Non si lamenterebbe se potesse parlare.
Quali notizie aggiungere? Egli ha
le sue bizzarre abitudini: salta,
ad esempio, se un bisogno l’assilla,
abbandona alle quattro del mattino
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l’apposita branda per cani in cui dorme,
s’infila sotto il mio letto, ne sento l’odore
attraverso la lana del cuscino,
mangia mele di buona qualità,
mi presta un’illusione d’agiatezza,
ruba talvolta, piange quando è solo.
Questo di lui posso dirti, non più:
le sue segrete istanze io non conosco.
Che è bello l’affermano in molti, ma non posso
giurare sulla sua nobiltà.
Gli mancano le carte: è un setter grosso modo,
forse per la metà o per tre quarti soltanto.
Sembra (un veterinario l’assicura)
che la madre o la nonna un’avventura
abbia corso col maschio d’un altro lignaggio:
e questo sarà uno svantaggio
quando dovrò accasarlo. Ho già fatto
qualche ricerca – se non trovo di meglio,
lo manderò a Cittiglio presso un tale
(mi è stato detto) padrone d’una femmina
setter, superba un tempo, ora disposta
a connubi di medio livello, data la tarda
età, la pigrizia del proprietario,
che è stanco di officiare e convocare
testimone a ogni amplesso un fiduciario
araldico del Gotha canino.
II
Nel prossimo mese di luglio ai bagni
di mare lo manderò e in agosto in campagna.
Io sarò solo in città, senza famiglia:
lui smaltirà nel nuoto e nella corsa
il muscolo abbondante, sublimerà
gli istinti. Poi nel mese di settembre
progetto di affidarlo a un cacciatore
(tramite amici) lodigiano che
potrà insegnargli l’arte.
Propizio al matrimonio sarà dicembre.
Ecco, questi sono i miei piani. Spero
di attuarli con ordine: l’inverno
sarà urbano, al riparo dal freddo,
lontano dall’umidità. Nessuno
può chiedere alla vita un trattamento
uguale e la condizione dell’ozio
senza noia, accettabile: le bestie,
non toccate da macchia originale,
riconoscono in essa (almeno stando
a Tolstoj) uno stato ideale.
«Ma il cane soffre – mi ripetono in molti
– è una follia tenerlo in casa. Fosse
un pechinese, un barboncino, anche
un bassotto, un sia pure indiavolato
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fox-terrier potrebbe stare in casa:
ma un setter, egregio dottore, mai più,
non sta bene nemmeno in una villa,
vuole distese di prati e la caccia,
la caccia soprattutto, selvaggina
di penna, quaglie, fagiani, beccacce.
Non è facile venderlo, s’informi
piuttosto, metta un’inserzione, chieda
di persone disposte nei dintorni
ad accoglierlo in una fattoria;
meglio, in una riserva: lo ceda».
Altri m’invita a meditare
sui Novissimi: «Pensi a che sarà
nel giro di pochi anni il suo cane, ombra
domestica tra grige mura, vecchione
che s’aggira in attesa della morte».
III
Adesso è giovane, ha otto mesi, io
ho il futile timore dei quaranta
anni: ma penso che effettivamente
tra dieci il setter ne avrà dieci e otto
mesi – ed io il terrore dei cinquanta.
Come potrò sopportarlo, odioso
amoroso relitto accanto a me,
così diverso da ora, prefigurarmi
nella sua fine imminente la mia?
Del suo specchio di morte disfarmi
ora che sono in tempo è meglio forse
che vederlo infiacchire, arruffato
nel pelo, l’occhio non più vivo, grave
(così diverso da ora) a spiccare
salti per farmi festa? Penso
di sì, penso di sì. Chi voglia prenderlo
cerco, almeno a parole:
per un giorno, per due, rimpiangerò
questo sentire al mattino il ticchettìo
delle sue unghie sul pavimento,
questo con ira respingerlo quando
mi aggredisce alla porta di casa,
questo subirne l’allegria. Sì, io
posso decidere ora del suo destino:
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farne, se mai qualcuno risponderà
al mio appello, un felice possidente
di campagna (sia detto possidente,
non contadino), un cane ossequiato
come dev’essere un cane di signori,
accarezzato dai vicini, lodato
quella settimanale felicità».
Posso decidere io del suo destino:
ho sei mesi di tempo, forse un anno.
Poi sarà quello che diventerà
anche il mio cane: un tetro cittadino,
un vecchio mantenuto, un vagabondo
avventuroso? Amico, ti terrò informato.
dai soci negli affari, ricercato
per grandi partite di caccia, difeso
dall’eventuale villano che vedrà
devastato da lui il suo orto:
invidiabile anche come cane.
O potrei darlo a un asciutto contorto
mediatore di mezza età, che lo conduca
di mercato in mercato, peregrinando
tutta la vita, fermandosi a osterie
dall’impiantito di mattoni, lasciandolo
per lunghe sere d’inverno steso al fuoco,
parlandogli sottovoce in dialetto (così
ho sentito a Fornovo uno parlare
al suo cane – ed era appunto un setter).
Posso decidere io del suo destino:
e vorrei per il meglio – dunque non a Milano,
dove già me l’ha chiesto un cacciatore
domenicale, offrendomi denaro.
«In tal caso – ho risposto – se lei va
a caccia solamente la domenica,
tanto vale che il cane stia con me:
se in casa soffre, sia così per sempre.
Meglio sempre soffrire che godere
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L’educazione cattolica
I
Nelle sole parole che ricordo
di mia madre – che «Dio
– diceva – è in cielo in terra
e in ogni luogo» – la gutturale gh
disinvolta intaccava il luò d’un l’uovo
contro il bordo d’un piatto
– serenamente dopo in cielo in terra
dal guscio separato in due metà
scodellava sul fondo il tuorlo intatto
– la madre sconosciuta parlava
religione entrava
nella mia tenera età.
83
II
III
La ragazzetta che voleva mostrarmi una cosa
innocente benché misteriosa – noi due
sotto il letto accucciati sul freddo pavimento
– mi sussurrava «aspetta» – era soltanto un gioco
diverso un poco dagli altri – ma lì entrando
la sua sorella più grande alzò la coperta ci vide
gridò corse a chiamare venne gente
– mai più giocammo insieme noi che semplicemente…
L’ira era chiara nel catechismo illustrato:
uno mostrava il pugno, sembrava gridasse.
Il superbo passava diritto, il goloso mangiava
l’avaro ricontava le sue monete d’oro,
l’accidioso era scalzo e contro un muro dormiva,
un bieco era l’invidia che a due felici guardava.
Il catechismo illustrato
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Ma non altrettanto chiaro il vizio della lussuria:
accanto a una finestra – tristi effetti
una nota ammoniva
– di caffellatte o di brodo fumante porgeva la tazza
la donna curva all’uomo adagiato in poltrona.
Erano, soli in casa, due vecchietti
e oltre quei vetri – probabilmente – una piazza.
85
IV
V
Come quando nella piazza allagata
(eravamo già a maggio) a piedi nudi
a mezzacoscia sguazzava una brigata
e: tu – mentalmente gridavo a mio padre – mi chiudi
in casa e tutta quella festa fuori?
Dicevano: l’avìco – era la Vico
invece, come un’india delle Ande
portava in testa un alto cappello tondo,
una zucca tagliata a metà – nera.
L’avìco – uno sbirro rapace che usciva la sera
– ma la Vico una vecchia zoppa e grande,
dondolava di giorno per via del Prione,
agitava il bastone tutta rauca di vino,
sfinita dagli scherzi dei marinai in permesso.
Dicevano: è l’avìco, venuto a portarti in prigione
– non la vidi mai da vicino
nella sua faccia di gesso.
L’avìco
– inevitabilmente la prima notte di guardia
(«non si spari un sol colpo!») che fragori
di reclute, che allegria! L’ispezione
da un posto all’altro non capiva più niente:
io solo i miei otto caricatori
intatti mostrai al tenente.
86
87
VI
VII
Sbraita decoro il creditore, infierisce
sull’insolvente, gli minaccia galera,
fa adunare la gente del passeggio serale:
il giusto chiede giustizia al procuratore del re.
Vivranno per sempre?
Sempre, sì – mi dicevo
e le vedevo
alla distanza del tempo rimpicciolire
lontanissime, in piedi, a braccia conserte
su quelle stesse soglie, o leggendo gli stessi giornali
crollando il capo, scuotendo gli stessi grembiali,
di nero o di grigio vestite e decisamente
fuori di moda come diventerà
ogni persona vivente
– ovunque e su quella stessa
strada fra il mare e una fila di platani
dove quieta ubbidiente e dimessa passò
la mia età infantile
– quelle persone viventi
che passarono poi come l’età
rispondendo di no alla domanda
che avevo dimenticata: no (dicendo)
non vivremo per sempre
Piazza Saint-Bon
Gli è contro solo il bambino che trema
di paura e vergogna, ma che finge
di appartenere ad altri – non si stringe
al genitore maltrattato.
Il figlio del debitore – io
sono stato.
Per il mio padre pregavo al mio Dio
una preghiera dal senso strano:
rimetti a noi i nostri debiti
come noi li rimettiamo.
– senza notizia alcuna, senza coscienza
di storia o di giustizia, senza il minimo dubbio
che un’altra vita sarebbe stata a venire
più vera, con più intelligenza:
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e dunque senza viltà consegnate alla sorte
– alcune con stupore della morte,
con desiderio altre, con sofferenza.
VIII
La resurrezione della carne
Emerse senza rumore dall’antro
semibuio di semiluce: non
luce di lampada, era luce del giorno
che di lontano, a staffetta, per corridoi,
sottopassaggi, sottoscala, veniva. Probabilmente
là dove fu la vera luce il giorno
era diventato già sera. Seminudo
egli emerse, semitorpido nelle membra, semisveglio
negli occhi di muta tristezza immane.
Da dove ritornava? Ora mi dico: dai morti
– per ammonirmi, interrogarmi, discutere
la mia presenza: tu
qui cosa fai? cosa vuoi?
Niente,
avrei potuto rispondere, dormivo nel mio letto,
contento del domani come ogni ragazzo.
Ma ciechi e lenti i suoi atti per affrontarli
erano: e poi il brulicame ai suoi piedi,
sul pavimento di muffa un impasto di vermi,
che diventava salendo di qualche centimetro ambre
ancora gelatinose – e finalmente,
a mezz’aria al confine con il massimo
lume di quella penombra, schiene curve,
movimenti, rilievi di vertebre,
ulne, fratture, òmeri, ossa in cerca
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di giusta sede in carni estranee, senza
ancora forma.
Ma egli perfettamente
compiuto intorno senza parola il braccio
grigiobruno volgeva, scuoiato, segnato di nervi
– il suo piccolo popolo mi mostrava.
«Io non ho colpa. Ho paura di tanto strazio,
io piango le tue lacrime, io atterrisco
d’angoscia nel sonno: perché tu
mi guardi, minacci un castigo?»
Mie parole che non osavo dirgli,
ma che egli intese nella sua immane tristezza:
infatti da me si distolse, guardò le pareti,
fetide di croste, di segni osceni – levò
le mani in alto, appoggiò sulle palme,
si accostò al muro coi denti… Allora io capii che voleva
mordere quei veleni – no! gridavo – morire,
come uno da lungo tempo malato.
IX
Ruber
Feto in collegio, grillo parlante o altro
animale sapiente – cane
ammaestrato – quante volte in altra veste
è ritornato – Ruber
di nome, puzzolente
nel fiato, malforme – mi faceva paura,
mi ammoniva con l’indice alzato.
Attento – mi faceva – io so tutto di te,
ma non parlava – semplicemente rideva
con quell’indice alzato e la testa su e giù
moveva ritmicamente.
…
Adesso so che non sapeva niente
Ruber – voleva scherzare:
era un bambino infermo e già condannato.
Ma quante volte quel niente
io l’ho confessato.
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X
XI
Un po’ biondo, un po’ pingue, un poco bianco
di pelle, un po’ dall’aspetto straniero,
e al mento una rada barba che tremolava al vento
d’estate – sulla motobarca
un signore vestito di nero.
Arrivò sulla spiaggia con un sandolino
tutto di gomma, a motore. Alzò una tenda,
accese un fornellino, fece il tè,
fumò la pipa
– dissero: un inglese.
Nel trentanove d’estate una mattina,
i più colti parlavano francese;
gli si fecero incontro, interrogarono,
l’aiutarono nelle piccole spese.
Prevalentemente per cenni lui fece capire
che era lì di passaggio – la sua mèta
era Melbourne, il suo grado capitano:
si fermò quattro giorni, poi andò via.
Nel suo contegno niente parve strano:
qualcuno sospettava che fosse una spia.
La persecuzione razziale
«Non gliela leva nessuno la marca»
ridacchiò nel gruppetto degli impiegati
il più solerte – e gli altri placidamente
ariani alzarono gli occhi
alla novità interessati.
Senza pensieri scommettevano al gioco
se un ebreo si poteva riconoscere a vista.
Di quel poco che accade che male fa aggiornarsi?
Ma lì di un pastore o di un prete
in clergyman doveva trattarsi.
Certo uno che con quel sole così vestito
viaggiava e con in testa un di quei larghi feltri
qualcosa di diverso non poteva non essere
– agnello, lepre di cartapesta
ai morsi dei veltri.
94
Really ’twas the first Englishman I saw
– ed era un certo capitano Sullivan,
sailing alone to Australia in a small boat,
a few months before the war…
95
XII
XIII
Governoladro ioboia – più spesso con tutta la D
– chi eri voce blasfema
nel coro ferroviario – sbattevano le porte
su quell’aria d’inverno di sigari tanfo di sonno
– piccola verità mi facevi tremare
– chi eri maestro e donno?
Trotzki lattaio in maglia di flanella
ruggine o, secondo la stagione,
con uno sbottonato gilè
– o alle feste in giacchetta con un bel fiocco nero:
solo, occhiali a stanghetta in luogo del pince-nez
egli portava – e un cognome che traducevo nel gesto
di due dita infilate nel taschino.
Era un contrario al fascio, era un onesto.
Scendeva ogni mattina dal suo domicilio
coatto, sbarbato di fresco, faceva il suo giro,
poi si sedeva al caffè, tranquillo leggeva il giornale.
«Nessun governo può durare in eterno»
diceva – e quasi aveva avuto ragione
quando un giorno in paese ma senza il bidone del latte
lo videro – e in camicia nera.
La bella ti chiese permesso.
Tu la lasciasti passare.
Un culo è sempre un culo e il duce è un fesso
– mi dicesti all’orecchio
– e anche questo
io dovevo imparare.
Così per uno sbaglio una vita intera
d’opere buone va in fumo per un peccato mortale.
Sì, qualcuno pensò che la mente non fosse più stabile
o soffrisse quel vecchio d’un brutto male…
La verità è piuttosto che la virtù è insopportabile,
sta addosso come una rogna
– e non te ne puoi liberare
che con infamia e vergogna.
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97
XIV
Non esattamente sbattendo la porta – ma
con una slabbrata asola della giacca infilando
una maniglia e pertanto non senza fracasso
e interiezioni di rabbia se ne andò l’ufficiale
giudiziario, infierendo sardonico, fra
commenti di vicini – proroghe
non concedendo.
Pietà
gli avevo chiesto, pure non responsabile
io – ma schiacciato
da tanta sicura virtù ai creditori devota,
dal suo essere adulto, asciutto nei sentimenti,
uomo dai conti in regola, sordo perché abituato
ai lamenti.
Volevo sparire – aspettavo
che mi gridasse per primo:
«pagate i debiti invece di andare al casino!»
Ma non conoscevo la vita:
di me fu lui più confuso
– perché abbassò gli occhi incontrando
il mio sguardo deluso.
Quella sera medesima nel bordello di Mario
de’ Fiori all’alterco improvviso
fra due per una meretrice – a quale
dei due toccasse – conobbi lo stesso ufficiale
giudiziario battuto e rosso in viso
di stizza intorno voltarsi per la prepotenza patita.
98
99
XV
XVI
«Che vuoi che me ne importi se ti anneriscono
i pètali di papavero fra le dita
– lèvati di fra i denti la spiga acerba,
ricòpriti quelle ginocchia – è finita.
Tra un profilo ugonotto
(detto così solo perché suonava
bene)
e uno moresco, il suo decisamente
si poneva: tranquillo, bene educato,
severo – ma non fino al punto
da escludere l’improvviso
suo riso inconsulto.
Un profilo colto e gentilizio,
non ignaro dei problemi del paese
e del difficile equilibrio
di entrate e spese,
ancora in dubbio se Dio esista o no
– il profilo comunque
di chi sapeva in teoria cosa fosse l’amore,
rimedio allo squallore della mente:
e che dolcezza scoprire in qualche piccolo vizio
(già che il mondo franava) astutamente
il teso labbro superiore
suggeriva fin dall’inizio.
Postuma
Il profilo
Ma precisiamo: non è stata paura
del sesto comandamento o di che diavolo vuoi
– mancare di rispetto alla ragazzina pura
o il ricatto che quello non sia vero amore.
Ma ricòrdati: non sono una carogna,
un re-di-serve – per questo non ti ho toccata.
Ti fossi vista allo specchio con quella faccia
da fuori il dente fuori il dolore – altro
che metterti a ridere».
100
101
XVII
XVIII
Il ballo con la giovane sovietica
bionda, accesa, minuta, un po’ feroce,
con una scaglia d’oro negli occhi verdi,
un giro su noi stessi non durò – era già tardi
nella notte le due forse le tre,
e i compagni invidiosi che ridevano
sotto i mustacchi finti, lanciavano petardi
– era il momento, pensai – la stringevo alla vita,
le feci male, ahi disse, balenava
una linguetta d’aspide rossa tra i radi denti
– un giro non durò perché rotolammo
a gola piena sull’impiantito di legno,
era meglio far subito l’amore,
al diavolo i preamboli, su questo concordammo
Il presente a te sacrificato
non ci ripagherai, Bene venturo
– ma chi a viverne fu educato
può morire per un futuro.
– quando lei, improvvisamente patetica…
102
103
Mimesi
Viani, sociologia del calcio
Les aides au camping
Birth-control
Le giornate bianche
La mia compagna di lavoro
Il tempo che non volevo
Amore rivisitato
Port-Royal
La vita in versi
L’assideramento
Roma, in quel niente
Finis fabulae
Mimesi
Attento, ci rimani, passa l’Angelo!
– mi ammonivano quando per divertirmi fingevo
d’essere muto o strabico, o facevo
la bocca da idiota col labbro pendente e bavoso,
o zoppicavo imitando…
Invece no,
ben altro lui da fare che non passare di lì
dove io ero aveva
– e fu un vero peccato
che non mi riuscisse lo scherzo di rovesciare le palpebre:
l’Angelo non sarebbe passato.
Tranquillamente allora fu imitato
il nonno che fischiando e volto in su
dalla strada serrava i pugni e in aria
troncava una manciata immaginaria
di spaghetti per ordinare: giù
in pentola! – o il chinarsi contrito
del padre, le sue manie
a tavola d’incartare quando si era servito
coppa o salame senza far caso di noi…
A questo giuoco quanto i miei figli hanno riso.
107
Un po’ meno per giuoco – e utilmente
spesso per me, per smuovere un sorriso,
ho specchiato i pensieri della gente:
certo non senza ironia – ma troppo
celata non serve – ho parlato
di ordine col reazionario,
di borsa col possidente,
di calcio col tifoso – e raramente
me stesso ho scoperto com’ero
nella dovuta misura:
l’amaro spino del vero ho temuto
– non l’impostura.
Un tempo di vita ho perduto
a travestirmi a scherzare
sicuro che dietro ogni maschera
l’altro che ero restasse
paziente ad aspettare:
al momento opportuno per essere pronto,
con uno scatto di reni
riemergere dal fondo…
…
È artrite o artrosi che mi fa torcere il collo?
Ma di chi sono queste parole che dico?
Già forse ho una mia smorfia abituale?
E niente più da nascondere?
Solo me da imitare?
108
Viani, sociologia del calcio
Gipo Viani ha detto alla Televisione
che, abituato dai suoi dirigenti
a un’esistenza senza conflitti,
unicamente in funzione dell’attività agonistica,
il calciatore giunge alla fine della carriera,
ossia alle soglie della maturità,
quasi totalmente privo di quell’autentica esperienza
che è necessaria
per fronteggiare la vita.
I
Che si tratti
della vicina Bergamo o del lontano
Brasile – le trasferte
gli vietano i medici. Viani
– non quello del come si fa
a dormire con tanti
moscerini e citando
testualmente Ungaretti con tante cacate
– ma quello a cui è sconsigliata
la panchina ai bordi del campo – luogo
di emozione tremenda – a cui è prescritta
moderazione nel cibo e nelle bevande,
che i giornali non osano ma quasi
se non fosse già frusta la metafora
direbbero mago del calcio come il grande
Hugo Meisl viennese
– Viani Gipo che più d’una battaglia
illustra Nervesa il suo paese,
general manager del Milan F.C.
abbreviato per Foot-ball Corporation,
109
seduto a un sole in ampex
si affaccia nella sera televisiva.
Risponde osserva racconta dimostra
rimpiange – non indulge a banali arguzie.
Mentre il suo corpo di ballo dorme a quest’ora
in nebbie castissime a Milanello,
nella pigrizia veneta Viani senza balbuzie
da una campagna modello parla di loro.
II
Vale lui solo una partita Altafini: può
risolverla con uno spunto, di forza,
come si dice – uno due tre
palloni scaraventando,
sgroppando nel rodeo dell’area, scrollata
la marcatura spietata:
astuzia, un po’ di fiuto, volontà,
un po’ di cattiveria – non molta.
Ma è un brocco quando non va.
III
«Le camicie di seta a dozzine l’estroso
Libo (per Libonatti, sta) comprava»
io lessi adolescente nella rubrica sportiva
«ma sventata cicala
all’inverno non pensava».
Era già un mito Libo che ancora gli ultimi sprazzi
Viani giocava nel Sud
avido di passione, depresso:
a Siracusa a Salerno,
110
centromediano che era un maestro di scuola
aitante fra denutriti ragazzi.
Con l’aria di chi l’ha sudato centellina il vino:
accelerati, valigette di fibra,
campi invasi, allarmi, bòtte,
anni di fame senza fama – dice:
e il poker notte su notte.
IV
Questi no – altri tempi, soggiunge paterno.
Li custodiamo in aria rarefatta,
senza pensieri.
Più a lungo di noi resteranno
giovani – di esserlo non hanno tempo:
muscoli – né innocenti, né dannati,
solo per risparmiare risparmiati.
Senza difese li lasceremo alla vita.
Complice senza colpa, sorride Viani:
altro soffrire non gli diamo che un’ora
e mezza di partita.
Sono gli ordini – lui
se ne lava le mani.
V
Tutto questo parlare di calcio
per non parlare di altro
– tutto questo per non guardare
l’essenziale del mondo:
soddisfatti per una sera
se vince – disfatti se perde
111
la squadra che altra spina è nel profondo
del quotidiano servire.
Applaudiamo, stiamo ai patti,
non cerchiamo di capire!
Tutti questi quattrini per niente
certo nessuno li dà
– allora, se paga qualcuno,
qualcosa non va.
Les aides au camping
Yo-yò – vezzeggiativo
di Yolande, la capa di tutte – che lo chiamò nella tenda
il pomeriggio vuota, senza far motto
si spogliò quasi nuda in fretta si rivestì
– e lui senza commenti, al solito in ritardo
a capire l’antifona o temendo
fosse una specie di prova, alla lettera
la loro teoria onorando che
massima libertà riduce al minimo
gl’incidenti del sesso – ma in realtà
un po’ era un fesso un po’ non gli piaceva… Così
a tarda sera a scaldarsi con tutto quel freddo ai duemila
metri dei Pirenei accoccolati in circolo
mentre sul fondo placati
dal sonno respiravano
i piccoli che al suo batter di denti
a lungo avevano riso
– unico maschio quasi adulto e straniero
fra le giovani aides in quel settore del campo
(ne doit être anti rien – sospirò la più dolce
e la più racchia – un socialista vero)
appunto osò sempre parlando d’altro.
112
113
«Questi i fatti: una mano
mia sotto il plaid fra le cosce di quella che stava
in faccia a me dagli occhi come spilli
alta forse un po’ troppo di nome Geneviève
e nessun grido nessuno scandalo anzi
la posizione aggiustando lei continuava
quali chissà remote angosce nei suoi silenzi tranquilli
tutto finito lì – non ci fu niente
di strano».
Birth-control
Non più che quattro
figli due coniugi con eccezioni
in meno e in più – si parla d’una media
– liberamente usando non più che quattro
avrebbero calcolando
giorni infecondi litigi.
Quattro non è una tragedia anche se il costo
dei generi tende a salire.
Ma vuoi mettere un vivere senza patemi?
Nasca chi vuole – se tutto
deve morire.
114
115
Le giornate bianche
Sono queste le giornate bianche,
senza luci né forme – se uno avesse
un diario, bianca la pagina resterebbe.
Narrano altri di notti in cui non si dorme,
ma io qui di giornate per dove il non-vivere
ci iberna, morti guidati ciechi
ci scosta azzoppati ai bordi del campo.
Mi assillano le tue rabbie futili,
mi costringono a voltarmi, a guardarti:
a non-parole opporre parole non serve,
né silenzi, bisogna aspettare. E quando
tarda la lettera che dà respiro e così
l’esito incerto di guadagni e agonie,
pretendo che tutto sia chiaro, e chiuso
con me dentro il mondo che mi porta,
globo trasparente in sé mi sostiene.
Non è dunque bontà
il mio desiderio del bene.
116
Per sparse probabilità si verifica
l’ordine come vorremmo, ma non siamo
pronti a riconoscerlo – e il tempo spira,
passa via il momento opportuno.
Di altro più che realtà ci disturba il pensiero:
come l’uomo – non so – che all’aperto
costretto a defecare teme che arrivi
la guardia o l’impiegato esemplare
segue con batticuore la teppista puttana
nell’alberghetto trepido di sorprese.
qui ora altrove nel frattempo che cosa
può accadere? Se ti lasci interire
dalla paura ore bianche, giornate
bianche, mesi bianchi ti aspettano,
dovrai aspettare finché
d’aspettare anche il tempo manchi.
E aspettando ti senti grado per grado
scivolare, risali un poco, ma sempre
meno sulla liscia parete fanno presa
gli alluci i calcagni dei nostri piedi storpi.
Sempre meno riguadagni, sempre più perdi.
Oggi la mia vita ha diecimila giorni
quindicimila forse vivi davanti
– e tempo sempre più per sorridere
117
dei timori assurdi, non guardarmi alle spalle,
e ragione sempre più di ripetermi:
sii uomo, non succede niente, tutto
è già quasi accaduto in quegli affanni
giovanili. Adesso si leva il buon vento
che di serenità ci rende vili.
Per questi segni su questa carta un colore
darò a questo giorno, un nome.
Ma nella guasta coscienza io so
io dubito che altrove o nel frattempo
un altro è il colore del mondo, altro
l’amore a cui mi nascondo.
La mia compagna di lavoro
La mia compagna di lavoro lascia
l’ufficio per molti mesi. Io spero
che torni (non parte per un lungo viaggio
ma è come se – spero dunque che torni):
al suo partire mancano pochi giorni,
presto saranno ultime poche ore.
Affetto abitudine chiamo questo timore
stupore che avrò di non vederla
qui dove scialbo bizzarro ignoto
mi ha trovato e (io penso lei spera)
mi troverà: pure non qui la sua vera
vita è, né la mia – credo. Pietà
semplicemente di me stesso mi fa
ricontare i due anni passati,
ricordare che un altro ai suoi occhi
dapprima fui come io pure vedo
essi modificati: così sarà
da ora fra molti mesi probabilmente.
La mia compagna di lavoro discretamente
suppone i miei pensieri, prevede
molte parole mie, il vano e il vero
ne soppesa e distingue, non ha
bisogno di dirmi bugie – e sincero
118
119
anch’io posso permettermi il viso
che ho, abbassare la guardia: il paradiso
comunista sarà questa, le spiego,
libertà di fidarsi che ci nega il nemico,
che al nemico si nega e all’amico
si chiede – e che volerla non è viltà.
La mia compagna di lavoro sorride,
più giovane di me di cui deride
la stanca giovanile illusione
– i versi di Eluard che je voudrais,
(ne ridevo una volta adesso me li ripeto)
être en U.R.S.S. ou bien me reposer,
mentre ci congediamo alle soglie
di questa non dura prigione. Moglie
è lei fuori di qui sopportabile come
un’altra appena, madre di quasi due figli,
moderna solo a parole. Io spero che torni,
comunque – aspettandola sempre
più solo sarò più cauto nei prossimi giorni.
120
Il tempo che non volevo
A te beato
Giuseppe… Detta in coro
la preghiera che terminava
alla per noi distante favolosa
morte con angeli e santi
in compagnia dei bianchi vecchi venturi
di pianto, di bava tremanti
– onorato l’eponimo del collegio
e ricordati i buoni benefattori
– alla spalliera zinale, calzoni, maglietta,
camicia, ordinate le calze di lana
dentro le scarpe – alle ventuno la luce
bianca era spenta, vegliava la luce violetta.
A te beato
dormire… Un minuto, una sera,
trascorso appena abbassate le palpebre,
e il ciàc ciàc delle mani del padre prefetto,
sveglia! sveglia! spietati, ahi
di pigri orecchi tirati e il Vi adoro
del mattino giù dal letto
mi strappano. Così breve la notte
uno scherzo sembrava – e io per rifare la prova
chiusi gli occhi la sera dopo «adesso»
pensando «li riapro»… E così fu
già luce di un domani memorando,
acqua fredda sul viso, nuova lode a Gesù.
121
E: «svègliati,
siamo arrivati!» – col treno a paesi dove
la vita camminava indifferente
a quella di altrove o di altro tempo:
abitatori di un presepio vi avevo
immaginati invece, e il colore del niente.
Ma era il luogo lasciato che si faceva remoto
e morto, improvvisamente.
Tra pause e risvegli cambiato,
il mondo fu vivo con me,
dove io sono è il mondo: adesso è
qui nella stanza che dà sulla portafinestra
abbassata a metà.
L’essenziale
era dormire – in una di queste notti
dove era una volta casa mia. Un poco
m’inquietava il cambiar letto o un malore
di mio padre che spesso si alza nel cuore
del buio, cerca il mattino. Poche ore
riuscii nel sonno a nascondermi – ma
una luce alla porta, dalla strada un motore
un cane, e forse il troppo vino bevuto,
mi riaprirono gli occhi a mostrarmi
il tempo che dura un minuto.
Il tempo che io non volevo voleva parlarmi,
voleva durare.
Allora è dove
sarò che in ultimo conta? Come
sarò quando alle spalle mi sorprende una mano
o un telefono squilla che nel mio sogno coincide
con un segnale, la voce «che cosa
aspetti?», il bullone che salta
e sguscia dalla capsula sbalordito
astronauta: «sei vivo!
– per dirmi – è finito!»… E tutto questo
che è dove io sono non m’importa – i miei
futili giri, i lunghi e brevi respiri,
fra due vicinissimi estremi,
linea inessenziale contorta?
122
123
Amore rivisitato
Port-Royal
Essenzialmente lei di lui delusa, non
viceversa. E lui se lo crede,
ne spia le notizie, conterebbe
trovarsela oh chi si vede felice equivoco
in una stessa camera di albergo ma remotissimo,
ciao come va puntando su un minimo d’emozione
vent’anni dopo levarsi quel piccolo sfizio
che avanza di tanta passione:
tutto senza preamboli senza commento
s’intende senza impegno solo per una sera.
Dal vano del cancello apparve la corte pacifica
di capre, maiali e volatili domestici
intenti a loro colloqui – non era
proprio deserto il luogo completamente.
Non c’è nessuno? – gridai – Il n’y a
personne? Nessuno in luogo così storico?
Ehilà, facendo gesti, verrà qualcuno sperando.
E lei niente da perdere di che andar fiera
del vuoto futuro passato
di che stupirlo nessuna sorpresa.
Ma lei tutto previsto: lui che modicamente
lustro contende con la calvizie e l’epa
e non più balbettando trionfa te lo dicevo.
Niente da confessare che a lui non piaccia
di lei finalmente ascoltare:
così non gli nega la donna che basta a se stessa
due lacrimette per salvargli la faccia.
124
Niente. Ma silenziose alla distanza di un cento
metri, dal gruppo dei tranquilli animali,
piroettando tre sagome messaggeri
infernali partirono contro di me.
Latranti mi s’avventarono i tre piccoli cani neri,
alle mie spalle il bosco era greve di pioggia,
e io fango e sudore (e sangue – chissà – fra poco).
Curiosi e annusanti invece mi risparmiarono: un gioco
semplicemente. E avanti per il sentiero,
io, strettissimo fra il pendio, dove in alto
due enormi cavalli e un asino pascolavano, e il filo
spinato oltre il quale nette le rovine gianseniste
stanno e i postumi devoti orrori – lustri
busti bronzei, la falsa cappella. Niente
125
da ricordare (ah sì, un cartello: Fromage
de chèvres) – quando improvvisamente
scalpitanti gli zoccoli sulle zolle
al galoppo al galoppo partirono contro di me
i tre equini dal piccolo colle.
Davanti a me le punte scure di ruggine,
dietro di me la carica folle – questa
una famigliola tranquilla incontrando,
a loro domandando ancora se…
Ma l’uomo mi rispose, moglie e figliola guardando:
Noi siamo qui per respirare aria pura,
di che rovine parla, forse ha capito male.
Fu dopo un gran temporale nel giorno successivo
al grande funerale di Thorez.
sarà la fine? Per pochi attimi il petto
ansioso comprimendo, inarcando le fil
barbelé, già scontando la raffica dei colpi,
guardai a terra, giuro non implorai,
lessi à la memoire de jean racine
la stele rovesciata vana nella fanghiglia,
una groppa, un caldo fianco, mi sfiorò la nuca.
Spariti anche loro nella corte. Io lì,
miracolato e isterico sforzandomi di piangere
(oh la drammatica circostanza, pensando,
tutta da ricordare!)… O voi alle fiamme scampate
anime dell’abbazia, virtuose e nevrotiche
madri, signori di dura fede non scevra
d’intento politico, pregate, pregate
per me, che io possa ancora sorriderne, avere
tempo… E un rabbioso ometto: Allez
vous-en!, venne gridando, Fuori!, contro di me.
Era la vecchia signorina Combes,
padrona delle capre, poi mi fu detto.
E ridiscesi il sentiero attraverso il bosco,
verso la macchina ferma nella radura,
126
127
La vita in versi
L’assideramento
Metti in versi la vita, trascrivi
fedelmente, senza tacere
particolare alcuno, l’evidenza dei vivi.
I
Tanto valeva.
Ma non dimenticare che vedere non è
sapere, né potere, bensì ridicolo
un altro voler essere che te.
Comunque urgeva
– visto e considerato irresolubile
il caso – la decisione.
Nel sotto e nel soprammondo s’allacciano
complicità di visceri, saettano occhiate
d’accordi. E gli astanti s’affacciano
Banale (e da scartarsi) il salto dal balcone.
Escluso il gas col seguito di macabra scoperta
o il tubetto di pillole vuoto sul comodino:
strazio per la famiglia un trauma certamente
la polizia lo scandalo d’ogni vicino…
al limbo delle intermedie balaustre:
applaudono, compiangono entrambi i sensi
del sublime – l’infame, l’illustre.
Inoltre metti in versi che morire
è possibile a tutti più che nascere,
e in ogni caso l’essere è più del dire.
Ma come?
Invece «Me ne vado per sempre!» gridò
nell’agone domestico brandita la valigia
personale di pelle un po’ delicata,
sbatté la porta e scantonò surrettizio
nell’abbaino di destra che aveva per tetto una lastra
di plastica ondulata:
e lì restò contemplando la notte di dicembre e la pioggia,
a gustare il sapore del suo supplizio.
128
129
II
(Assiderato – praticamente:
in maniche di camicia nel pertugio ventoso
col suo fiato cercò di riscaldarsi ma invano
dopo insonni ricerche un fioco lamento al mattino
fradicio intirizzito senza coscienza
all’ospedale d’urgenza… La sirena
ululava nell’aria di Natale.
Meraviglioso modo di morire
con nulla d’intentato
perché l’inevitabile fosse evitato.
Col perdono e coi Santi Sacramenti.
Disse il primario: «Questione di pochi momenti
e poteva guarire»).
III
Non era poi così freddo:
fosse stato l’altr’anno avremmo avuto la neve.
Morire assiderato per un po’ d’acqua,
chi più ci crede?
Cambiò posizione una volta.
Ah dietro la testa quel tappo
di damigiana (stolta
l’idea di comperare quel vino a Riomaggiore)!
E il tappo che non regge,
il vino diventa aceto
o comunque si guasta, perde vigore!
130
Un po’ d’olio occorreva, pensò.
E lieve ma persistente un odore
di pollaio alla mente richiamò
la sparuta gallina
da una campagna verde il mese prima
lì deportata a far uova a Milano:
insuccesso totale, smise subito,
rifiutando anche il cibo in quel luogo strano.
Crepitava familiare la pioggia – e
le voci: qui non è possibile,
a ripetere, qui non c’è,
e nemmeno è possibile che sia…
Non è possibile – e via
dicendo:
confuse in quel tempo tremendo.
IV
Fu lei che dapprima tentò
di svellere dai cardini (ma senza
convinzione) la piccola porta
di ferro: «Dov’è
andata a finire la chiave?»
Poi lasciò andare: «Non c’è»
commentando.
All’abbaino a sinistra li udì andare,
infine tutti rientrando.
131
Taceva il suicida soave.
E poiché
la morte per assideramento (rifletté)
sopravviene nel sonno, cerchiamo di dormire:
s’aggiustò con le spalle a una carriola
appesa al muro, aspettò di finire.
Più fitta la pioggia, ancora più familiare:
forse qui potrai vivere – sembrava dicesse
– qui potrai stare.
Serenamente viaggiava verso il martirio.
Dalla pioggia alla febbre,
dalla febbre al delirio.
V
A perderlo fu come sempre
l’odiata bontà:
deformazione del bene, dice Adorno.
Sarebbe lì rimasto fino a giorno:
cercato prima, poi pianto, invocato
(«Cosa mai gli è mancato?»)
dall’onesta metà.
Ma troppo presto il piccolo figlio maggiore
di cui diciamo «così bambino!»,
troppo presto angosciato di perderlo
o assalito da un lampo di adulta coscienza
(all’infanzia con largo preavviso s’annuncia
a volte come in noi dei vecchi la demenza)
132
venne con voce velata: «Son io che ti chiamo,
rispondimi, rispondi, non lo dirò a nessuno…»
E non di quella voce, di un se stesso
patetico e remoto ebbe pietà:
mani giunte, segni di croce,
sbalordite preghiere per mamma e papà.
Ah il complice che ti perde,
gli occhi come gli ridono!
Ritorna al caldo di casa con luce di salvatore:
e il suo fido silenzio a che serve?
VI
Non potranno rimpiangermi – non vedrò
assunto fra i beati
sbigottito arrestarsi un punto nel formicaio
e gli altri affaccendati districarsi
dall’intoppo, valicando l’eventuale
zolla rimossa, qualche altro a sua volta fermarsi
ad altra effimera scossa
– mentre la gente minuscola che fu mia
si scuote dallo sgomento,
trascina via l’inutile salma, rinnova
il gaio suo movimento.
O macchinazione cirillica!
Voleva morire, ma senza
spargimento di sangue, né violenza.
Addormentarsi, ma poi
133
potere ancora guardare, sentire
adagiate due mani sui ginocchi,
tenero intervallo della coscienza,
prima di chiudere gli occhi.
VII
Ma quella piccola porta di ferro che
«Apri o la faccio saltare» lei ripeté
infilata una spranga fra stipite e battente,
convinta, decisa finalmente
a ottenere la resa,
per affetto di quella alla sublime impresa
egli rinuncia con scialbo finale.
Quando
ognuno sa cosa accada in una notte di vento
se una porta di ferro non sia chiusa a dovere
– batte e ribatte, disturba la famiglia vicina.
Talché in veste da camera si presenta o in ciabatte
o telefona (peggio!) il casigliano onesto
con finta urbanità «La prego, controlli» ti dice…
Solo per questo girò la chiave, per questo
riparò al caldo infelice.
Rapide considerazioni alla prossima
concreta minaccia – la rarità,
in primis, dei fabbri nella grande città,
ed in secondo luogo la neghittosità
del solo da lui conosciuto
– smantellarono il fiero fortilizio
in men che un minuto.
Un mese un anno ci sarebbe voluto
per ottenere la riparazione
dal pigro artigiano venuto
dopo molte preghiere a vedere
quali attrezzi occorressero, per l’occasione
ripetendoci i mali di cui s’angustia
e «non posso» o «potrò forse domani»
ogni rinvio rinviando.
134
135
Roma, in quel niente
Non mi faceva più male. Improvvisamente all’aperto
mi trovai di una strada, di una piazza – ma
era forse una stanza tanto era tiepida l’aria
e silenziosa la mia solitaria
calma. Non mi faceva più male – un tempo io
a tagli di rasoio aduso, a manrovesci
sul muso, agli urli di chi
mi faceva paura… Io li sapevo
i luoghi da evitare, quegli stessi
dove altri in eletti colloqui, a mezza
voce, suadenti squisiti amplessi,
tranquilla gastronomia seduceva – Oh questa
città deliziosa, impagabile, inimitabile, dicevano essi.
Ma per me appunto luoghi pericolosi
dove chiunque – è lui! – poteva riconoscermi,
dove ero io – o così
in quel tempo credevo – la vittima designata.
Per questo avevo paura di questa città.
Non io, ma probabilmente (se esiste) il mio
essere trascendentale anima che mi precorre
in qualche luogo buio ma al riparo era entrata,
perché sulle guance sentii la carezza di una
nobile quiete tempesta da poco placata.
Ero in una piccola piazza?
136
Piazza Febo, ad esempio, dove un antico libraio
incazzato col mondo intero e magari
un po’ strano che tu, malignamente, Mario…
Ero in una stanza dall’alto soffitto?
Certo che questo so: improvvisamente
non mi fece più male – e le mie mani
un poco tremanti come sarò
inevitabilmente da vecchio sollevai annaspando
e niente, niente, trovando
se non l’odore che direttamente
ai pori della pelle percepisci, l’odore
della tua casa vuota dopo una lunga assenza.
Era un letto, e col dorso della mano una cosa
in quel niente incontrai che respirava:
era una coscia collina a pan di zucchero?
Né so se da un cielo o finestra l’illuminava la luna:
ma certo non senza timore ritrassi la mano,
subito strisciando più lontano
sulle lise lenzuola per alcuni
centimetri che erano miglia – tepore
qui supponendo dell’anca, un meno di calore
l’incavo della vita e l’ascella un odore di schiuma.
Boccio conchiglia fontana in alto sul grembo s’apriva.
Era donna di pelle un poco bruna
dai capelli unti e lisci – o città che dormiva
di tanto ignara materna dolcezza?
Poi per un colpo di tosse si torse supina,
alzò la testa, si mosse:
e io fui come il ladro sorpreso in pieno giorno
al punto del non-ritorno
fui Gulliver minuscolo sul corpo della regina.
137
Ma non avere paura – mi disse la voce enorme
eppure senza suono impensabile idioma
da quali sensi non so
captato – eppure con tutta la forza
d’un sisma che pigramente
si sveglia ma inesorabile dal suo sonno – anni
d’angoscia liberando, orrore
d’incontrare lei loro – casa, ragazza, annosa
mignotta, spietato trafficante,
verme dai conti in regola, compagno, ruffiano,
vecchio maestro, prete, nazista, americano,
politico dai nobili sdegni, disfatto padre
– tutto che al mondo è romano.
Non avere paura, non puoi rifiutare la morte,
sei qui, ti conosco – la voce mi ripeté,
stammi vicino, toccami, cammina sopra di me.
Dalla sua mano guidato per tutte le sue strade
salivo in lei lentamente.
Baciai la bocca che sa di biscotto e di niente.
Finis fabulae
1965
Come una scia si richiude la favola
sugli sbruffi dell’elica lussureggiante di schiuma.
Guardala a poppavia che s’appiattisce
levigata da diavoli mulinelli.
L’essere è più del dire – siamo d’accordo.
Ma non dire è talvolta anche non essere.
Ah discreta più del dovere fu l’incoscienza.
Presto tutte le acque saranno uguali e lisce.
Di quell’amore aspettando la fine.
138
139
La vita in versi
7
Sperimentale
8
L’intelligenza col nemico
10
Lasciando un luogo di residenza
12
L’incursione sulla caserma
13
Il ventre della lucertola
16
La caduta del ciclista
17
Versi in una domenica di
Pentecoste e di elezioni
19
Dal suo punto di vista
21
Anch’io
23
Versi per un interlocutore
31
Epigramma romano
32
Tanto giovane
33
Nel pomeriggio
34
I vecchi
35
Imposture
36
Autocritica
40
Mi chiedi cosa vuol dire
41
Tempo libero
42
Una casa a Milano
47
Tornando a Roma
48
Il benessere
49
Se sia opportuno trasferirsi in
campagna
81
l’educazione cattolica
83
Nelle sole parole che ricordo
84
La ragazzetta che voleva mostrarmi
una cosa
85
Il catechismo illustrato
86
Come quando nella piazza allagata
55
Dal cuore del miracolo
87
L’avìco
56
Il socialismo non è inevitabile
88
Piazza Saint-Bon
57
Quando piega al termine
89
Vivranno per sempre?
58
Guarderò indietro
91
La resurrezione della carne
59
Come un errore
93
Ruber
60
Del rendersi utili
94
La persecuzione razziale
61
Con lei
95
Arrivò sulla spiaggia con un sandolino
62
Giustizia per Rebecca Lèvanto!
96
64
Cambiare ditta
Governoladro ioboia – più spesso con
tutta la D
65
Con tutta semplicità
97
Trotzki lattaio in maglia di flanella
66
Una sera come tante
98
68
Le ore migliori
Non esattamente sbattendo la porta
– ma
71
quindici stanze per un setter
100
Postuma
101
Il profilo
102
Il ballo con la giovane sovietica
103
Il presente a te sacrificato
107
Mimesi
109
Viani, sociologia del calcio
113
Les aides au camping
115
Birth-control
116
Le giornate bianche
119
La mia compagna di lavoro
121
Il tempo che non volevo
124
Amore rivisitato
125
Port-Royal
128
La vita in versi
129
L’assideramento
136
Roma, in quel niente
139
Finis fabulae
Giovanni Giudici
La vita in versi
© 2021, Scalpendi editore, Milano
www.scalpendi.eu
ISBN: 9791259550477
Progetto grafico e copertina
© Solchi graphic design, Milano
Impaginazione
Roberta Russo
Caporedattore
Simone Amerigo
Redazione
Manuela Beretta
Adam Ferrari
Prima edizione: maggio 2021
A norma della legge sul diritto d’autore e
del codice civile, è vietata la riproduzione,
totale o parziale, di questo volume in qualsiasi forma, originale o derivata, e con qualsiasi mezzo a stampa, elettronico, digitale,
meccanico per mezzo di fotocopie, microfilm, film o altro, senza il permesso scritto
dell’editore.
Scalpendi editore S.r.l.
Sede legale e sede operativa
Piazza Antonio Gramsci 8
20154 Milano
PER L’ALTO MARE APERTO
collana diretta da Edoardo Esposito
Classici e moderni, prosa e poesia,
italiani e stranieri. Si potrà trovare
questo e quello nel “mare aperto” che
contiamo di attraversare e che non si
porrà problemi di tempi e di generi,
cercando solo di seguire il vento di una
“buona letteratura” e di rinnovare la
tradizione delle collane “universali”
coltivando sia il gusto per la memoria
sia la curiosità per il presente.
Annotazioni
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Finito di stampare nel mese di maggio 2021
presso Ediprima S.r.l. – Piacenza
Printed in Italy