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autori del secondo dopo guerra

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La vita
Nato a Roma nel 1907 da una ricca famiglia borghese di intellettuali (il padre era architetto e
pittore), Alberto Pincherle Moravia fu segnato negli anni dell'infanzia e dell'adolescenza dalla
malattia, una tubercolosi ossea che gli impedì di frequentare scuole regolari e lo obbligò a lunghi
soggiorni in sanatori montani. La sua, quindi, fu la formazione dell'autodidatta, costruita
attraverso vaste letture (grazie anche al clima colto della famiglia). Ma la malattia, costringendolo
all'esclusione, gli consentì anche quello sguardo straniato nei confronti del mondo borghese di
cui faceva parte, che sarebbe stato poi una costante del suo contegno verso il reale. Esordì
giovanissimo pubblicando nel 1929 Gli indi erenti, un romanzo scritto tra il 1925 e il 1928, che
suscitò subito sensazione. Cominciò così la sua fortunata carriera di scrittore, a cui si a ancò
quella di giornalista. Negli anni Trenta, essendo sospetto al regime per le sue posizioni
antifasciste, compì lunghi viaggi in Europa e in America, appro ttando della sua funzione di
inviato di importanti giornali, e raggiunse così una visione cosmopolita dei problemi culturali
e sociali. Nel 1941 sposò la scrittrice Elsa Morante, da cui si separò nel 1962, pur senza mai
divorziare. Nel dopoguerra la sua produzione letteraria continuò copiosa, così come la sua attività
giornalistica per quotidiani e riviste. La presenza di Moravia nella cultura italiana contemporanea è
stata veramente centrale, con interventi su tutti i problemi più urgenti, letterari, loso ci, politici.
Nel 1953, con Alberto Carocci, ha fondato la rivista "Nuovi Argomenti” tuttora in vita; si è
occupato di cinema, scrivendo per anni recensioni di lm sull’"Espresso", nonché di teatro. Nel
1984 è stato eletto al Parlamento europeo come indipendente nelle liste del Partito Comunista.
Moravia è sempre stato uomo di sinistra, ma di una sinistra laica e borghese, ed ha ri utato la
diretta militanza comunista (a di erenza di tanti altri intellettuali del dopoguerra, come Vittorini,
Pavese, Calvino, Pratolini, Pasolini), traendo dall'ideologia marxista solo spunti critici. È morto a
Roma nel 1990.
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Lo scavo nel mondo borghese
Gli indi erenti, pur con le ingenuità che sono inevitabili nell'opera di un giovane esordiente, è un
romanzo di geniale acutezza: Moravia vi dipinge con sguardo penetrante il suo mondo, quello
borghese, di cui coglie lo sfacelo morale, il dissolversi dei valori, l’ipocrisia e la menzogna, propri
di un’epoca di decadenza come quella fascista. È un mondo chiuso e so ocante, a cui lo
scrittore guarda con lucido disprezzo e disincantata crudeltà, senza però riuscire, nel suo
pessimismo, a scorgere alternative. Al centro vi è un personaggio portatore di coscienza, il
giovane Michele, che vede chiaramente la negatività di ciò che lo circonda, ma non riesce a
stabilire un rapporto con la realtà, a vivere sentimenti autentici, ad agire, e si perde nella sua
«indi erenza», Essendogli preclusa l'azione, non gli resta che sognare un mitico mondo passato,
in cui era possibile avere un rapporto immediato con la realtà, essere «tragici e sinceri»; ma alla
ne, data la sua indi erenza e la sua impotenza, la sua opposizione all’esistente non può sfociare
se non in un'integrazione, in un adattamento ai rituali borghesi. Nel romanzo si delineano i due
nuclei tematici a cui Moravia resterà sempre fedele, il sesso e il denaro, visti come le due
componenti fondamentali intorno a cui si polarizza la vita umana. Per tutta la sua opera
successiva, in fondo, Moravia continuerà lo scavo nel mondo borghese iniziato col primo
romanzo, l'indagine impietosa di una crisi da cui egli non intravede vie di salvezza. Negli
Indi erenti l'indagine è condotta con una penetrazione ancora istintiva; più tardi, a nando i suoi
strumenti culturali, Moravia utilizzerà soprattutto i suggerimenti della loso a esistenzialista,
quelli della psicoanalisi e quelli del marxismo (pur senza mai aderire all'ideologia comunista,
come si è già accennato: il marxismo fu per lui solo uno strumento intellettuale, conoscitivo). Dal
punto di vista formale, Gli indi erenti presentano ancora una struttura naturalistica, ottocentesca:
una narrazione oggettiva in terza persona, con molto dialogo e con frequenti focalizzazioni
interne ai personaggi. In un momento in cui in Italia il romanzo era in crisi e lasciava il posto alla
prosa d'arte, soggettiva, lirica ed evocativa, il giovane Moravia forniva alla scena culturale una
solida, tradizionale costruzione romanzesca. Questa adesione ai moduli del realismo
ottocentesco sarà una costante anche nel Moravia successivo, se si eccettuano certi romanzi di
impianto più sperimentale degli ultimi anni Meno felice fu la seconda prova romanzesca, Le
ambizioni sbagliate (1935), che si risolveva in una costruzione estremamente macchinosa, tra il
"giallo" e il romanzo psicologico dostoevskiano, e che la critica e i lettori hanno giustamente
messo in secondo piano. A questo romanzo si a ancarono raccolte di racconti, La bella vita
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ALBERTO MORAVIA
(1935), l'imbroglio (1937), sempre di impianto realistico. La ricerca moraviana si volse poi in altre
direzioni con i racconti surreali di I sogni del pigro (1940) e con la satira politica della
Mascherata (1941), in cui, attraverso la rappresentazione di una dittatura sudamericana, viene
colpito il regime fascista. Ai temi e alle soluzioni narrative a lui più congeniali, in prosecuzione
della linea iniziata con Gli indi erenti, Moravia torna nel dopoguerra con il racconto lungo
Agostino (1945). È la storia della maturazione di un ragazzo tredicenne, di famiglia agiata, che
durante una vacanza al mare scopre due aspetti da lui sino allora ignorati della vita, il sesso e
l'esistenza delle classi sociali. L'esperienza è traumatica e dolorosa, ma provoca in Agostino una
presa di coscienza: da un lato non riesce più a identi carsi col ruolo di bambino impostogli dalla
madre, dall'altro, frequentando un gruppo di ragazzi di estrazione popolare, profondamente
diversi da lui, si estrania dal suo ambiente sociale, comincia a guardarlo con occhio critico, sente
che non vi può più vivere se non con fastidio, senza peraltro potersi assimilare ai ragazzi proletari.
In questo stato di esclusione e di sospensione, dinanzi alla durezza dei rapporti umani che
scopre nella vita reale, una volta uscito dal limbo ovattato dell’infanzia, Agostino sente un bisogno
disperato di un paese innocente, dove «tutte queste brutte cose» non esistano. Questo sogno di
un mondo immune dalle brutture della realtà borghese torna sistematicamente negli eroi
moraviani, dagli Indi erenti alla Noia: l’analisi pessimistica del negativo, non scoprendo possibili
alternative storiche all'esistente, si rifugia nell'utopia. La vicenda di Agostino si chiude con una
situazione sospesa, di speranza in una futura integrazione nel mondo degli adulti, che non riesce
però a lenire la sensazione presente di dolorosa mancanza: «Ma non era un uomo; e molto tempo
infelice sarebbe passato prima che lo fosse».
I temi di Agostino sono ripresi nel 1948 da un altro romanzo breve, La disubbidienza (anche se
con minor felicità narrativa, con il procedere più schematico della dimostrazione di una tesi).
Anche qui compare una crisi adolescenziale, come quella del tredicenne Agostino. Ma per altri
versi Luca vive un'esperienza simile a quella del Michele degli Indi erenti, un'impossibilità di
stabilire rapporti col reale. Il ragazzo si estrania progressivamente dalla famiglia, dalla scuola, dai
compagni, in una sorta di «sciopero» dalla vita, sino ai limiti dell’auto-annientamento. Respinge
tutti i falsi valori della famiglia borghese, in primo luogo il culto del denaro e della proprietà (è
traumatica e determinante nella sua crisi la scoperta che i genitori tengono la cassaforte dietro
un'immagine sacra, quindi pregano regolarmente in ginocchio dinanzi al loro denaro). La crisi
esistenziale si risolve in malattia sica; e Luca è riportato alla vita e alla normalità da una materna
infermiera, che lo inizia al sesso. Ma non si può dire che il romanzo termini con una soluzione
positiva: l'unica alternativa al ri uto radicale e autodistruttivo della realtà è un abbandonarsi
passivo al puro esistere, nella sua materiale “naturalità". Ri utando la società, Luca può salvarsi
solo regredendo nel grembo della madre natura.
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Gli indi erenti
I tratti che caratterizzano il romanzo rivelano un'impostazione decisamente teatrale: pochi
personaggi, prevalenza del dialogo sulla narrazione, azione che si svolge quasi sempre in interni,
pochi cambiamenti di scena. Moravia stesso ha confessato che nello scriverlo la sua ambizione
era puntare alla tragedia, ma la tragedia risulta impossibile nel mondo borghese per l'irrimediabile
mediocrità dei personaggi e dei con itti che li contrappongono. Moravia ha precisato che
quando scriveva il romanzo non era mosso da propositi coscienti di critica verso la società, ma
evidentemente questo atteggiamento critico era in lui istintivo, radicato nel profondo. Egli riesce
negli Indi erenti a cogliere oggettivamente, nell'acutezza e nella forza della rappresentazione
concreta, il rapporto tra una condizione esistenziale, I «indi erenza» e la «noia» di Michele, e la
stagnazione della borghesia italiana sotto il fascismo, che la svuotava di energie e di valori.
Più tardi, nella Noia, delineando una disposizione analoga dell'eroe del romanzo verso la realtà,
a ermerà che «la noia, che è mancanza di rapporti con le cose, durante tutto il fascismo era
nell'aria stessa che si respirava», e che quel regime aveva «eretto a sistema l'incomunicabilità»,
era insomma l'espressione di una vera e propria «noia sociale». Nella scena culminante del
romanzo, Michele si reca a casa di Leo, dove sa che Carla ha trascorso la notte, deciso ad
ucciderlo: non prova vero sdegno, ma sa che quello è il contegno che dovrebbe avere, e se lo
impone, per tentare di ristabilire un contatto con la realtà. Quando si trova dinanzi a Leo gli spara,
ma si rende conto di aver dimenticato di caricare la pistola (un «atto mancato» freudianamente
signi cativo). Anche la sua rivolta quindi, come quella di Carla, fallisce: la vita borghese riprende i
suoi rituali. Carla sposa Leo e Michele presumibilmente si adatterà ad avere una buona
sistemazione grazie al cognato. Per un verso quindi Michele rappresenta la coscienza critica
all’interno del mondo borghese, l'esigenza di autenticità in un mondo falso e degradato, cioè
TESTI: DAGLI INDIFFERENTI
L’<<Indi erenza>> di un giovane borghese nell’epoca fascista
Nella scena si delinea perfettamente il sistema dei personaggi del romanzo, la rete di relazioni che
li lega, ed insieme emerge la loro speci ca sionomia. Innanzitutto la madre: i tratti che risaltano
sono la paura e l'orrore infantili per la povertà, il culto del prestigio sociale (di cui la villa è il
simbolo), la fatuità, il mostruoso egoismo, la falsità (a erma di pensare solo ai gli, ma in realtà
pensa a se stessa). È un'anatomia feroce, impietosa, della "signora" borghese, tutta risolta nelle
apparenze esteriori e priva di interiorità (non a caso viene usato per lei l'aggettivo «teatrale»). Di
contro a Mariagrazia, Leo Merumeci: cinico, avido di denaro e di piaceri sessuali, sicuro di sé,
privo di ogni scrupolo morale, dotato di una sanguigna, quasi animalesca vitalità. È un altro
corrosivo ritratto di borghese, ma non generico: Leo rappresenta quella borghesia di arricchiti e
pro ttatori che prosperava all'ombra del fascismo. Non vi è alcun cenno esplicito allo sfondo
storico, nel romanzo, ma l'atmosfera della borghesia fascista impregna tutte le sue scene. Emerge
poi in piena evidenza l'«indi erenza» di Michele: che è terribile lucidità intellettuale ma paralisi
nell'azione, a causa di una totale assenza di sentimenti. Signi cativo è perciò il gioco tra i due
piani della narrazione, tra ciò che si svolge nella mente del personaggio e ciò che egli opera
e ettivamente (lo stilema che costantemente lo connota è il condizionale «avrebbe voluto», che
sottolinea la frattura tra le intenzioni e la realtà). Solo attraverso uno sforzo volontaristico, astratto,
Michele si obbliga a compiere e ettivamente ciò che si delinea con tanta chiarezza nella sua
mente; ma proprio per questo, più che agire, recita una parte, si impone una maschera. I suoi atti
visti dall'esterno sembrano scaturire da sentimenti e passioni, ma in realtà dietro di essi non c'è
nulla (signi cativa è allora la metafora della «marionetta» che gli viene attribuita quando esce di
scena). Carla è in certo modo il "doppio" di Michele: anche lei prova disgusto e inso erenza per la
falsità di quel mondo, ma l'unica scelta che le si presenta, darsi a Leo, lungi dall'essere un gesto
clamoroso di rottura del perbenismo borghese si risolve in un'integrazione ancor più stretta in
esso.
ELIO VITTORINI
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Vita
Nato a Siracusa il 23 luglio 1908, Vittorini trascorse l'infanzia in Sicilia, secondo gli spostamenti
del padre, prima ferroviere e poi capostazione: e il fascino del treno e del viaggio sarà presente
con insistenza in tutta la sua opera. Dopo il matrimonio con Rosa Maria Quasimodo, si trasferì nel
1927 in Venezia Giulia e in quegli anni pubblicò articoli di politica e critica ai primi testi narrativi.
Nel 1930 si trasferì a Firenze, lavorando come correttore di bozze il quotidiano 《 La Nazione 》 ,
lasciato quel lavoro nel 1934, si mantenne con numerose collaborazioni a riviste ed attività
editoriali. Lavorò come traduttore, soprattutto dall'inglese. Espresse le sue posizioni di fascista,
ma successivamente divenuta elemento sospetto, venne espulso nel 1936 dal partito fascista.
Mentre continuava a svolgere un massacrante lavoro editoriale, scrisse il suo libro più
signi cativo, "Conversazione in Sicilia", apparso su 《Letteratura》 tra il 1938 e il 1939. Nel
1939 si trasferì a Milano. Durante la guerra, egli svolge attività clandestina per il partito comunista:
nell'estate del 1943 è incarcerato a San Vittore; liberato, si occupa della stampa clandestina e
prende parte ad alcune azioni della Resistenza. Dopo la liberazione, mentre elabora e pubblica
nuove opere narrative, si occupa a Milano della stampa comunista e fonda, per l'editore Einaudi,
la rivista 《Il Politecnico》, il cui primo numero apparve nel novembre del 1945. Dopo la chiusura
del 《Politecnico》, continua a svolgere una ricca attività culturale, avviando contatti
internazionali, ma prendendo sempre più le distanze dal partito comunista, che lascia nel 1951.
Negli anni successivi la sua vita privata è lacerata dal dolore per la morte del glio. Intanto,
ttissima è la sua attività editoriale, numerosi suoi interventi polemici e le sue proposte politicoculturali. Muore a Milano il 12 febbraio 1966. Elio Vittorini ha espresso, nella sua opera e nella sua
vita, un bisogno di partecipazione alle cose, di intervento attivo nella realtà. Le sue opere e la sua
scrittura letteraria rispondono prima di tutto a un bisogno di partecipare alle tendenze più vitali del
presente e in esse egli proietta la propria coscienza della situazione storica.
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incarna una forma di opposizione, ma, nella sua impotenza di intellettuale, nisce per essere
subalterno all'unico personaggio borghese interamente coerente, saldamente piantato nella
realtà. Nel pessimismo di Moravia dall'inferno" borghese non vi sono vie d’uscita.
TESTI: DA CONVERSAZIONE IN SICILIA
Il mondo o eso
Nell'opera è presente il motivo del viaggio: esso è infatti un pretesto, o meglio arti cio, per
introdurre, per mezzo delle voci dei personaggi, situazioni ed idee dell'autore. Viaggiare non è
solo un'occasione per registrare nuove sensazioni, ma il tramite per recuperare una dimensione
umana ovvero per recuperare la propria identità. Infatti Vittorini a ronta questo tema attraverso le
immagini che si gurano nella mente di Silvestro man mano che si avvicina alla terra natale. Quei
"topi neri" e indistinguibili in cui si erano trasformati i suoi ricordi svaniscono per lasciare spazio a
nitidi ricordi d'infanzia. L'oppressione aveva cancellato il passato delle persone eliminando anche
la loro personalità. Silvestro tornando indietro verso la Sicilia riacquista i sentimenti di cui era
stato privato ma soprattutto la sua capacità di amare, mettendo ne alla condizione di essere
vuoto simile a una macchina.
Col motivo del «mondo o eso», cioè delle ingiustizie e delle violenze che recano o esa all'uomo e
alla sua dignità, compare l'impegno politico ed etico che spinge Vittorini alla scrittura letteraria.
Ma, come è facile vedere, tale impegno non si traduce nella rappresentazione realistica e
documentaria di concrete situazioni sociali, come era proprio della letteratura di denuncia
naturalistica (si pensi a Zola) o come avverrà nel Neorealismo più corrente: Vittorini sceglie la via
dell'astrazione simbolica. L'arrotino e il sellaio assurgono a proporzioni mitiche. L'ingresso nella
bottega, rivela esplicitamente l'autore, è uno scendere «nel cuore puro della Sicilia, non ancora
contaminato dalle o ese del mondo>>, ancora capace di una tensione morale, del ri uto e
dell'opposizione, della solidarietà tra gli uomini. Così tutte queste pagine mirano ad a ermare
verità universali, assolute, svincolate dal contingente. A determinare questo clima mitico e
simbolico concorrono l'impianto narrativo e il linguaggio. Le battute elementari ed essenziali, le
continue ripetizioni ed anafore conferiscono al discorso un tono ieratico, oracolare, solennemente
sentenzioso e sapienziale, che può ricordare quello dei versetti biblici. Ci troviamo di fronte non
tanto a pagine distesamente narrative, quanto ad un passo di estrema concentrazione lirica, che
non è molto lontano dal clima dell’Ermetismo.
BEPPE FENOGLIO
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Vita
“Circa i dati biogra ci, è dettaglio che posso sbrigare in un baleno. Nato trent’anni fa ad Alba
(primo marzo 1922) – studente (Ginnasio-liceo, indi Università, ma naturalmente non mi sono
laureato) – soldato nel Regio e poi partigiano: oggi, purtroppo, uno dei procuratori di una nota
Ditta enologica. Credo che sia tutto qui”. Beppe Fenoglio nacque ad Alba nel 1922 e qui rimase
per tutta la sua vita. Cresce in una famiglia che non aderì al fascismo. Frequentò l’università di
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Conversazione in Sicilia
Le opere narrative di Vittorini sono sempre tese verso la ricerca di un qualcosa che possa essere
essenziale e risolutivo, ma che ciascuna di esse riesce a realizzare solo in parte: all'origine è
possibile ritrovare ogni volta una spinta di tipo lirico, che non arriva quasi mai a dar vita a mondi
narrativi di forte spessore. L'opera di maggiore risonanza fu "Conversazione in Sicilia", iniziata alla
ne del 1937 dopo la più acuta rottura con il fascismo e un periodo di abbandono della narrativa.
Venne poi stampato in un volume nel 1941. Quest'opera singolare fu sentita come rivelazione di
una nuova forma di narrazione lirica, appoggiato su suggestioni e sfumature segrete, sui rapporti
di tipo analogico tra gure situazioni, su uno sfondo ieratico. Il romanzo è costruito su una
narrazione in prima persona: ma la voce narrante solo in parte coincide con quella dell'autore e
rappresenta piuttosto una sorta di soggetto collettivo, l'immagine dell' intellettuale cittadino
chiuso in 《astratti furori》, che all'inizio appare incapace di uscire dalla grigia passività del
presente, percorso dei bagliori di guerra che si annunciano sulle pagine giornali. Ma a questo
tetro orizzonte, egli sfugge partendo in treno da una città dell'Italia settentrionale verso la Sicilia in
cui è nato e in cui si trova ancora la madre. In "Conversazione in Sicilia" il ritorno all'origine
contadina riconduce ai valori autentici e severi della vita popolare: da quel fondo oscuro e rituale
nascono una partecipazione più profonda alla sorte del mondo, una speranza di riscatto e di
liberazione. Il romanzo propone una serie di situazioni liriche e di gure esemplari, personi cazioni
morali più che individuali concreti. Lo stile è pieno di accensioni liriche, di rispondenze interne, di
cadenze musicali, di ripetizioni che tendono a sottolineare il carattere rituale del discorso, di modi
grammaticali che si riallacciano al parlato popolare.
Lettere moderne a Torino senza arrivare alla laurea a causa della guerra che lo vide soldato e poi
partigiano nella Resistenza. Dopo la guerra, impiegatosi in un’azienda vinicola, visse schivo e
appartato, appassionato di lingua inglese e dedito alla letteratura in cui seppe emergere con il suo
schietto realismo. Fra il 1952 e il 1962 collaborò sporadicamente ad alcune riviste culturali e
ottenne alcuni premi per le sue opere, ma i suoi libri migliori furono pubblicati postumi. Morì sulle
colline delle Langhe il 18 febbraio 1963. L’opera di Fenoglio è fra le più singolari del Novecento,
incentrata su due temi predominanti: la guerra partigiana, a cui l’autore partecipò, e la vita
contadina nelle Langhe, la campagna piemontese tanto cara anche a Pavese. Il tono realistico è
stato accostato, da qualche critico, a quello del Verga. Anche la lingua di Fenoglio è singolare e
cambia registro al cambiare dell’argomento trattato: misurata e quasi letteraria, asciutta e con
evidenti in uenze della lingua inglese (Il partigiano Johnny), nei romanzi e racconti sulla
Resistenza; quasi espressionista e con in ussi dialettali quando è in bocca ai langaroli. Sempre
essenziale e scarna. Molte opere di Fenoglio sono state pubblicate dopo la sua morte e proprio
perché non curate dall’autore, hanno posto ai critici non pochi problemi di cronologia. Lo studio
più completo sull’autore è stato condotto da Maria Corti che, nel 1978, ha curato una edizione
completa e critica delle opere.
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Il partigiano Johnny
Racconta l’epica della guerra nelle tristi colline attorno ad Alba dove la morte è sempre in agguato
per i partigiani. Johnny è già comparso in Primavera di Bellezza dopo aver vissuto l’8 settembre
1943 è ritornato nei dintorni del suo paese natio, si ricongiunge ai partigiani in battaglia per
reintegrarsi come combattente, vivendo alla macchia giorni lunghi e noiosi alternati a giornate
angosciose e di terrore dinnanzi agli attacchi nemici, a giorni di gioia per azioni andate a buon ne
come la cattura di un prigioniero nemico. Non riesce a tornare ad Alba dopo lo sbando dei
“Rossi”, partigiani male in arnese cui dapprincipio si era unito ed allora passa agli “Azzurri” di
Badoglio che hanno truppe più consistenti e meglio armate, dove l’antifascismo è ben chiaro. A
quel punto Johnny, pur non sottoscrivendo il credo politico dei suoi nuovi compagni, si sente
realizzato, come un Robin Hood, agli ordini di Nord capo dei partigiani delle Basse Langhe, si lega
a Pierre soldato dell’aeronautica e trova amicizia in un ex sergente del Regio Esercito, il siciliano
Michele. Con loro compirà la grande azione della Liberazione della prima città italiana, proprio la
città di Alba: liberazione e mera, dei 2000 partigiani che presero parte all’azione saranno ridotti a
poco più di 200, la città capitola in un lungo periodo di interminabili vagabondaggi sotto incubi di
agguati, angosce e paure. Le avventure continuano peregrinando di cascina in cascina a amati,
Radio Londra invita continuamente i partigiani a tornare alle loro case per riunirsi poi nell’avvento
della primavera. Pierre si ammala, Ettore è catturato dai fascisti e Johnny è solo ad a rontare le
insidie evidenti e quelle più nascoste che gli si presentano. Arriva la ne di gennaio, le la
partigiane si ricompongono ma l’euforia svanisce in un ulteriore attacco. E qui il libro nisce.
Emerge la descrizione dei paesaggi, le colline, i boschi, gli anfratti, i torrenti in piena o asciutti,
sono per lui l’anima della terra, qualcosa che non va descritto solo nella propria fascinazione
estetica, nella bellezza che assume il paesaggio nei vari momenti; il paesaggio lo richiama ad un
al di là, è anima della terra. Da ragazzo non partecipò alla vita religiosa attiva che lo circondava
nel paese e nei famigliari: aveva una visione fortemente mitica del creato. Segno tangibile di una
presenza tangibile. Idea di un’esistenza in bilico tra la vita e la morte, la morte non come destino
ineluttabile ma come un termine del confronto del vissuto, qualcosa in cui è necessario prepararsi
proprio vivendo. La morte si sconta vivendo è il credo di Fenoglio e diventa il credo di Johnny, la
morte è una sorte di con itto permanente in cui l’individuo può provare la dignità del proprio
sentire, del proprio atteggiamento. In questo tema c’è la prova palpabile di scrittore di vocazione;
molto più facile è confrontarsi con l’amore, la morte è talento. Fenoglio scrive per ricordare, per
rivivere, per continuare un rapporto che le condizioni di una vita hanno reso impossibile, e non
certo per divertimento. Il tema letterario della Resistenza, l’AVVENIMENTO cruciale della sua vita,
ciò che doveva accadere, che è accaduto e che non viene dimenticato. Scrive per spirito
agonistico, dal greco Agon, agone, come contesa, lotta, scontro, il misurarsi con l’altro. È un
grande libro a livello stilistico, dove c’è stile il libro resiste negli anni. È uno stile di impasto, misto
tra il dialetto delle Langhe, la parlata ambientale: che da spazio e tempo ben connotati ad una
esperienza, e l’inglese, la lingua mentale, come detto da I. Calvino perché per Fenoglio è la lingua
della durata, è la lingua eroica che dà all’epopea partigiana la sua durata extra spaziale ed
extratemporale. È una storia remota, di passata esperienza che però dura ancora oggi grazie
proprio alla lingua inglese. La letteratura è lo strumento migliore per giusti carmi, scrivo con
di coltà, dopo penosi rifacimenti, con disperato impegno e disperata fede.
TESTI: DAL PARTIGIANO JOHNNY
Il settore sbagliato della parte giusta
Johnny à un borghese e un intellettuale: profondo quindi è il suo disagio nel dover vivere accanto
a uomini appartenenti a tutt'altra condizione sociale, educazione e cultura, con ben diversi
orientamenti ideologici. Johnny è completamente estraneo alla mentalità e agli obiettivi politici del
comunismo («Sono nel settore sbagliato della parte giusta», continua a ripetersi). La scelta della
lotta partigiana è per lui esistenziale e morale, più che politica: è una prova estrema, posta
nell'azione e nella lotta contro un “nemico" assoluto, incarnazione del male meta sico; è una
tormentata ricerca di sé (questo senso di s da e di avventura esistenziale è ben visibile nella
scena in cui l'eroe si trova di fronte alla notte: «Era rassicurante, incoraggiante, euforico, sentire
che nella tenebra si era come sul ciglione dell'abisso del nulla, da guadagnare d'un sol passo
contro l'avventante pericolo e morte...»). Johnny vagheggia altre formazioni, quelle «badogliane»,
per non dover sentire quella «superiore diversità» dai compagni che lo angoscia e lo tortura,
perché in esse potrà trovare altri u ciali, borghesi e colti. Fenoglio è totalmente libero da quel
senso di inferiorità e di colpa che induceva altri scrittori del tempo, nel clima dell’egemonia
culturale della sinistra, a proporre eroi borghesi e intellettuali che si dedicavano alla causa del
proletariato. Ne derivavano spesso gure false, costruite velleitariamente e arti ciosamente, in
nome di un astratto schematismo ideologico. Fenoglio si accetta nella sua condizione di
intellettuale borghese «senza fughe in avanti di carattere volontaristico e moralistico» (Luperini): ed
è qui la radice dell'autenticità e dell'intensità delle pagine fenogliane in confronto a tanta
letteratura edi cante sulla Resistenza; per questo, nota sempre Luperini, Fenoglio riesce a dare un
eroe "positivo" artisticamente valido.
Dal punto di vista formale si può notare l'essenzialità della narrazione, tutta fatti e risolta in scene
di forte rilievo visivo. Lo stile del Partigiano Johnny però non è quello asciutto e scarno che
abitualmente è proprio di Fenoglio: è uno stile molto particolare, percorso da continue tensioni
espressionistiche, che forzano il livello normale della comunicazione. Ciò è dovuto in primo luogo
alla costante presenza dell'inglese, ma poi anche al lessico inusuale, ricco di neologismi e di
parole piegate a sensi inediti («giunglare», «brividiva», «bozzoso», «piantatura», «picciolità»,
«direttezza», «si enormizzò», «russio», «radarico», «indisquisibile»), a cui si aggiunge un tto e
ardito gioco di metafore e di paragoni.
CESARE PAVESE
Vita
Nasce a Santo Stefano Belbo (Piemonte) da famiglia piccolo - borghese per poi trasferirsi a Torino
dove studia (perde il padre a 6 anni). Iscritto alla facoltà di lettere si laurea con tesi sul poeta
americano W. Whitman (tradusse costantemente scrittori inglesi e americani ma anche europei
producendo saggi critici). Diresse la rivista ''La cultura'', pubblicando opere per Einaudi.
Con nato in Calabria per i suoi rapporti con militanti del gruppo Giustizia e libertà, fu recluso dal
'35 al 36 (Lavorare stanca). Varie amicizie notevoli come Leone Ginzburg, Norberto Bobbio,
Vittorini. Dopo la liberazione si iscrive al partito comunista collaborando con ''l'Unità'' (successo)
e riceve il premio Strega nel '50 per il volume ''La bella estate'', stesso anno del suicidio.
Temi
- Infanzia e mondo contadino come passato originario che la scrittura cerca di riscoprire,
sospeso nel tempo del mito, estraneo alla storia.
- selvaggio come forza ignota e irrazionale che si manifesta nella natura e nei rapporti umani
- opposizione città (operosità ma arti cio) e campagna (vitalità originaria ma brutale).
- dissidio interiore = quanto più si avvicina alla maturità stilistica, tanto più viene minacciato dall’
arti cio e perdita della io, solo il suicidio si pone come risoluzione reale.
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La luna e i falò
Anguilla, tornato in Italia dall'America dopo la liberazione, si reca nel proprio paese (S. Stefano
Belbo, paese di Pavese) sulle colline delle Langhe alla riscoperta delle proprie origini (mito
dell'infanzia dominata dall'immagine estiva dei falò propiziatori accesi sulle colline a metà agosto)
ma per quanto riconosca l'importanza di appartenere a una micro-comunità come quella del
paese, si rende conto di esser costantemente pervaso da un irriducibile senso di solitudine
lacerante posta come condizione esistenziale dell'uomo, aggravata dalle vicende di so erenza
umana tragiche e ineluttabili(morti violente di persone care come santa/brutalità dei rapporti
umani (i genitori lo adottano per cinque lire)/orrori della guerra) che confermano impossibile ogni
illusoria ricomposizione del passato quasi come una maledizione legata alla condizione naturale.
Diversamente da Vittorini (rivitalizza il mito dell'infanzia) in Pavese il ritorno è specchio
dell'irreversibilità delle cose. Pavese del resto è molto lontano dal vitalismo di Vittorini, dalla sua
volontà costruttiva e positiva. Emerge un linguaggio naturalistico ricco di descrizioni oggettive e
accurate, un andamento lineare e coinciso, a tratti amaro e diretto, della narrazione che preclude
ogni speranza di riconciliazione con il proprio passato.
TESTI: DA LA LUNA E I FALO’
Dove son nato non lo so
Anguilla si interroga così sulla sua condizione di orfano e sulle sue origini: ciò che la sua
ri essione evidenzia è l’assenza di un luogo natale a cui sentirsi a ettivamente legato. Il
desiderio irrealizzabile di ritorno alle origini è ben riassunto in un ragionamento di Anguilla:
“Un paese ci vuole, non fosse che per il gusto di andarsene via. Un paese vuol dire non essere
soli, sapere che nella gente, nelle piante, nella terra c’è qualcosa di tuo, che anche quando non ci
sei resta ad aspettarti”.
Pavese-Anguilla scopre però che i simboli e i ricordi personali sono stati cancellati dalla
Storia e dalla guerra: ne è prova evidente il falò, che da rito ancestrale e propiziatorio per la
fertilità dei campi diventa strumento di morte e distruzione, sia nel caso della follia di Valino sia in
quello dell’esecuzione di Santina. In questo senso, acquista ancor più senso la citazione che
Pavese sceglie per il proprio ultimo libro: alla dedica all’attrice americana Constance Dowling,
ultimo amore dello scrittore, segue un passo del Re Lear (atto 5, scena 2) di Shakespeare:
“Ripeness is all”, ovvero: “Maturare è tutto”.
ITALO CALVINO
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LA VITA Italo Calvino nasce a Cuba nel 1923, nella città di Las Vegas, dove il padre Mario,
agronomo ligure famoso, e la madre Eva Mameli, una botanica sarda, seguono alcune
sperimentazioni agronomiche.
Nel 1925 la famiglia rientra a Sanremo.
Gli anni dell’adolescenza sono segnati da un’educazione laica, razionalista e di matrice
illuministica trasmessagli dai genitori, e da un rapporto intenso con la natura.
Il ragazzo nel 1941 si iscrive presso la facoltà agraria all’università di Torino, dove il padre insegna.
L’armistizio dell’8 Settembre 1943 e il ri uto ad arruolarsi nella la della repubblica sociale italiana
conducono Calvino alla scelta della lotta partigiana nella zona delle Alpi Marittime, tra le brigate
comuniste di Garibaldi, in cui milita con il nome di Santiago.
Dopo l’esperienza militare, Calvino è attratto fortemente dalla società umana e dalla storia
piuttosto che dalla natura, abbandona così gli studi scienti ci e nel 1946 passa al terzo anno della
facoltà di lettere, si laurea nel 1947 in letteratura inglese.
Nel dopoguerra si iscrive al partito comunista e partecipa attivamente a dibattiti politici sullo
sviluppo sociale e culturale della neonata repubblica.
In questo periodo scrive il suo primo romanzo, Il sen ero dei nidi di ragno; si tratta di un’opera
neorealista che narra vicende legate alla Resistenza.
Il libro viene pubblicato nel 1947 dalla casa editrice Einaudi, presso la quale il poeta verrà
impiegato in modo stabile nel 1950.
Fondamentali sono le amicizie e il sodalizio letterario tra Calvino e due tra i più grandi intellettuali
della generazione precedente alla sua: Cesare Pavese ed Elio Vittorini.
Dopo gli anni di cinquanta prende avvio una nuova fase di letteratura calviniana che a ronta temi
fondamentali in chiave abesca e fantastica.
Nel 1957 lo scrittore prende le distanze dal partito comunista italiano.
Insieme ad Elio Vittorini sarà condirettore, tra il 1959 e il 1967, del “Menabò di letteratura”, la
storica rivista che accoglie un importante dibattito sul rapporto tra letteratura e industria.
Calvino inizia a viaggiare e tra il 1959 e il 1960 soggiorna per sei mesi negli Stati Uniti, poi andrà a
Roma, Sanremo, Torino e Parigi.
A Parigi nel 1962 conosce Singer, detta Chichita, un’argentina di origine russa, traduttrice
dall’inglese per l’Unesco.
Si sposano nel 1964 a Cuba si trasferiscono a Roma, dove nascerà nel 1965 la loro unica glia,
Giovanna.
Nel 1967 Calvino si sposta a Parigi dove starà no al 1980.
Qui trova una sorta di rifugio, un luogo di pace dove può trovare la giusta concentrazione.
Da alcune traduzioni dell’autore francese Raymond Queneau prende il gusto per una comicità
disincantata, si avvicina alla semiologia partecipando a due seminari su Balzac.
Nel 1980 Calvino fa ritorno a Roma dove lavorerà per un altro editore: Garzanti.
Il 6 Settembre del 1895 viene colto da un improvviso ictus nella sua villa toscana e muore tra il 18
e il 19 Settembre.
LE OPERE
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IL “PRIMO” CALVINO: LE OPERE DEL PERIODO TORINESE Le prime esperienze letterarie del poeta
maturano durante il soggiorno giovanile a Torino; qui grazie all’amicizia con Pavese ed Vittorini,
comincia a collaborare al “Politecnico”, una rivista.
Diventerà responsabile della pagina culturale del quotidiano locale “l’Unità”.
In questo periodo rmerà le sue prime opere narrative per Einaudi, in queste opere appaiono già i
temi e i modi che saranno fondamentali nella produzione successiva: da una parte il realismo,
dall’altra la dimensione abesca e fantastica.
OPERE NEOREALISTICHE Dopo la partecipazione alla lotta partigiana nascono alcune opere,
sebbene trasferite in un’atmosfera di fantasia, possono ascriversi alla corrente del Neorealismo.
1. Il sen ero dei nidi di ragno! il romanzo esce nel 1947 e successivamente nel 1964,
preceduto da una prefazione sull’esperienza del neorealismo.
La vicenda è ambientata in un paese ligure della riviera di ponente durante la Resistenza.
Pin il protagonista ha 10 anni ed è orfano di madre; il padre è in giro per il mondo, fa il marinaio.
Pin nisce in carcere dopo aver rubato una pistola a un soldato tedesco che andava a trovare la
sorella prostituta.
Riesce ad evadere e raggiunge un gruppo di ribelli antifascisti, distaccamento del diritto, qui
conosce alcuni uomini bizzarri, dai nomi carnevaleschi: Pelle, Mancino il cuciniere, Zena il lungo
detto Berretta di Legno o Labbra di bue.
In seguito ad un incendio la brigata si scioglie e lascia da soli Pin e Cugino; Pin torna dalla sorella
e scopre la pistola che prima era stata levata dal luogo in cui era stata nascosta, probabilmente
da Pelle, e capisce che quest’ultimo è un traditore come sua sorella.
Il bambino fugge, incontra Cugino e gli consegna l’arma; quest’ultimo la userà forse per uccidere
la sorella di Pin, l’epilogo non è esplicito.
L’opera si discosta da una rappresentazione di tipo documentario, mescola fantasia e realtà ed
evita il rischio di presentare personaggi e situazioni in maniera retorica.
Risulta essere in ogni caso un romanzo impegnato, che attraverso lo schema della aba sviluppa
ri essioni dalle profonde implicazioni esistenziali, utilizzando una prosa scorrevole spesso con
l’utilizzo di espressioni gergali.
2. Ul mo viene il corvo! è una raccolta di 30 racconti pubblicata nel 1949. Sono presenti
alcuni bozzetti di ispirazione autobiogra ca in cui con uiscono i ricordi dell’infanzia, un
tema fondamentale è quello ancora della Resistenza, percepita con amarezza e con un
senso di s ducia nei confronti dell’agire umano.
Lo stile è rapido e secco, presenta dei tratti espressionistici e la tendenza a rendere in modo
astratto e simbolico la realtà della vita.
LE OPERE DI GUSTO FIABESCO E COMICO
Già nel sentiero dei nidi di ragno Pavese aveva colto un “sapore ariostesco”, Calvino dopo
quest’opera indirizza con più decisione il proprio itinerario intellettuale nel solco della narrazione
fantastica e allegorica.
3. Il visconte dimezzato! pubblicato nel 1952 il romanzo cos tuisce la prima parte di una trilogia
comprendente anche il “barone rampante” 1957 e il “cavaliere inesistente” 1959, raccol nel 1960
in un unico volume “I nostri antena ”.
Ambientato tra Boemia e Italia l’opera presenta uno dei personaggi più bizzarri dell’intera
produzione dell’autore: il nobile Medardo di Terralba, soldato dell’imperatore austriaco che viene
diviso da una palla di cannone in due metà.
Medardo il “buono”, la parte sinistra, e Medardo il “gramo”, la parte destra, sono due mezzipersonaggi antitetici, in perenne con itto tra di loro, in quanto rappresentano il bene il male.
Questi due opposti si ricongiungeranno grazie all’intervento di una contadina, Pamela; entrambi
sono innamorati di questa donna e il visconte una volte ricucito potrà sposarla.
Calvino si serve di una vicenda abesca per parlare in modo implicito dei problemi dell’umanità
del suo tempo.
La divisione del personaggio simboleggia il dimezzamento dell’individuo contemporaneo, lacerato
dai con itti della storia e vittima dell’alienazione della società neocapitalistica.
Il nale della vicenda suggerisce la possibilità di accettare le proprie scissioni con illuministica
razionalità.
4. Il barone rampante! è il secondo capitolo della trilogia, viene pubblicato nel 1957, presenta una
stru ura più ampia e ar colata.
Viene narrata dal fratello minore, Biagio, l’esistenza avventurosa di Cosimo Piovasco di Rondò.
Nel 1767, dopo un litigio con il padre severo Arminio per non aver mangiato le lumache, Cosimo si
arrampica su un albero della tenuta di Ombrosa e giura che non sarebbe mai più sceso da lì.
Passa da un albero a un altro e così inizia a visitare luoghi mai visti prima, conosce i vicini di casa,
tra i quali la giovane e capricciosa Viola, di cui si innamora.
Gli anni trascorrono così, nchè Cosimo, vecchio e stanco, si ammala e per mantenere la propria
promessa esce con un colpo di teatro aggrappandosi alla corda di una mongol era di passaggio.
Quella di Cosimo non è un’esistenza da eremita separato dalla società, al contrario è l’eccentrica
incarnazione dell’intellettuale illuminista e cosmopolita il quale partecipa attivamente alla vita e
intesse rapporti.
Attira così l’attenzione di moltissime persone, tra cui Napoleone che mosso dalla curiosità vorrà
incontrarlo.
Troviamo uno schema abesco mischiato al racconto loso co. Calvino attraverso questo
romanzo vuole lanciare un messaggio ben preciso: la positività del modello costituito da Cosimo,
che simboleggia l’individuo libero dai pregiudizi e dal conformismo.
5. Il cavaliere inesistente! il protagonista del racconto, pubblicato nel 1959, è Agilufo, un paladino
di Carlo Magno rido o a una nuova armatura, animata solo dalla volontà di vivere e agire; anche in
questo caso è centrale il tema dell’incompiutezza.
Agilufo non esiste, a fargli da contraltare è il povero contadino Gurdulù, destinato a divenire suo
scudiero, che si limita a esistere sicamente senza avere alcuna coscienza di sé.
In tutta l’opera troviamo personaggi, dai nomi ariosteschi, che bramano di raggiungere una
dimensione di umanità superiore.
6. Fiabe italiane! nel 1956 lo scri ore pubblica questa raccolta che con ene circa 200 tes
provenien da tu e le regioni d’Italia e trascri dai vari diale
Calvino del patrimonio favolistico apprezza il disegno lineare della narrazione, il ritmo,
l’essenzialità e il modo in cui il senso di una vita viene contenuto in una sintesi di fatti.
IL FILONE REALISTICO-CONTEMPORANEO
Questo lone può considerarsi il proseguimento della primissima produzione calviniana.
In queste opere il tema centrale è l’approccio ai problemi della realtà contemporanea degli anni
50-60.
7. I racconti! pubblicata nel 1958, Calvino riunisce mol tes suddividendoli in 4 sezioni:
“Gli Idilli di cili”, “le memorie di cili”, “gli amori di cili” e “la vita di cile”.
La sezione “la vita di cile” è formata da tre racconti lunghi e signi cativi (la formica argentina, la
speculazione edilizia e la nuvola di smog) nei quali l’autore rappresenta personaggi incapaci di
agire e di trovare soluzioni ai tanti problemi della realtà postbellica, mettendo così in scena la crisi
della coscienza ideologica.
8. Marcovaldo ovvero Le stagioni in città! pubblicata nel 1963 è una raccolta di 20 novelle, hanno
come protagonista tu e il bu o manovale Marcovaldo.
Marcovaldo è l’emblema dei tanti lavoratori emigranti nel Nord Italia negli anni del boom
economico, viene descritto dall’autore con toni ironici e al tempo stesso malinconici.
Marcovaldo naufraga nella metropoli moderna, sprovveduto e inconsapevole testimone di un
mondo in continua trasformazione, dove il rapporto istintivo con la natura è de nitivamente
travolto dai meccanismi della burocrazia e dell’industrializzazione.
LE OPERE DEL PERIODO PARIGINO E L’ULTIMO CALVINO
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L’autore, nei testi elaborati in questi anni, si cimenta con i meccanismi combinatori, gioca in modo
virtuoso con i rapporti, gli intrecci e gli incastri possibili tra i diversi nuclei narrativi.
Calvino crea le combinazioni partendo da un segno o da un’idea limitata del mondo e cerca le
combinazioni con altri segni per tentare di individuare un signi cato nel complesso disordine della
realtà.
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9. Le Cosmicomiche! sono 12 raccon , pubblica nel 1965; a quest’opera seguirà nel 1967 “Ti con
zero” con cui nel 1984 andrà a formare il libro Cosmicomiche vecchie e nuove.
La raccolta risente già dai primi capitoli dell’atmosfera che caratterizza gli anni parigini, in cui
matura l’interesse per il rapporto tra scienza e letteratura.
Prendendo spunto da alcune scoperte scienti che e astronomiche Calvino inventa una serie di
situazioni in cui convivono contesti fantastici ed esperienze umane quotidiane: dall’attrito da
queste due componenti scaturisce le vena comica.
Testimone oculare e narratore delle vicende è un personaggio strano e dal nome palindormo,
impossibile da pronunciare: Qfwfq; come vecchio saggio espone nei suoi monologhi i casi
iperbolici di cui è stato testimone.
10. Le città invisibili! pubblicato nel 1972, è il primo romanzo dove l’autore applica i procedimen
della le eratura combinatoria.
Marco Polo, ambasciatore dell’imperatore tartari Kublai Kan, descrive a quest’ultimo le città che
all’interno dell’impero il sovrano non ha mai avuto il tempo di visitare.
È divisa in 9 capitoli, troviamo la descrizione di 55 città, indicate con nomi di donna che fanno
riferimento alla cultura classica.
L’autore individua 11 categorie entro ognuna ogni città viene classi cata; ottiene così una
struttura simmetrica che garantisce unità all’opera.
La pratica della riscrittura e la mescolanza di vari generi sono aspetti che anticipano le
caratteristiche tipiche della letteratura postmoderna.
Sui racconti di Marco Polo agiscono i ltri della fantasia e dei ricordi, che abbattono il tempo e lo
spazio.
11. Il castello dei destini incrociati! testo combinatorio per eccellenza.
Pubblicato in parte nel 1969, esce in maniera de nitiva nel 1973, con l’aggiunta di una seconda
sezione “La taverna dei destini incrociati” e di un importante postfazione.
L’opera prende avvio quando un cavaliere cerca ospitalità in un castello e siede al tavolo con altri
commensali, a causa di un sortilegio nessuno è in grado di proferire parola.
Da qui inizia il ricorso a un linguaggio “altro” per poter comunicare, i personaggi estraggono un
mazzo di tarocchi e le dispongono sul tavolo, combinando le innumerevoli serie di gure e di
segni che assumono di volta in volta diversi signi cati.
Ogni narratore sviluppa la propria storia; le vicende rimandano a novelle antiche ed a episodi
celebri della letteratura cavalleresca, ad esempio la storia dell’Orlando pazzo per amore.
Il loro intreccio, però, sottintende una concezione dell’esistenza umana come gigantesco e
inestricabile labirinto, in cui gli eventi accadono in modo casuale e assumono senso e contenuto
diversi a seconda del contesto.
12. Se una notte d’inverno un viaggiatore! pubblicata nel 1979 viene considerato un romanzo
postmoderno, insieme a quello di Umberto Eco “il nome della rosa”.
Calvino insiste sulla dimensione metanarrativa conducendo il lettore a ri ettere sul proprio ruolo di
fruitore attivo dell’opera.
I protagonisti, indicati con nomi generici di lettrice e lettore, non riescono a concludere la lettura di
un romanzo intitolato “Se una notte d’inverno un viaggiatore” perché il volume risulta interrotto
per errore di stampa.
I due ritornano in libreria per cercare un volume completo, ma il tentativo risulta essere
irrealizzabile: è impossibile trovare un libro che dica interamente la realtà perché quest’ultima è
ormai illeggibile e non si lascia decodi care no in fondo.
13. Palomar!uscito nel 1983, il protagonista è il signor Palomar, un uomo la cui occupazione è
scrutare la realtà; dalle sue osservazioni scaturiscono pensieri che in parte si sviluppano in
narrazione, in parte rendono conto di ri essioni più elaborate riguardan il cosmo, il tempo,
l’in nito, i rappor tra l’io e il mondo e le dimensioni della mente.
L’accanimento maniacale con cui il signore ordina i dettagli di ciò che vede risulta insu ciente a
cogliere ed a rappresentare i con ni esatti della realtà oggettiva, che si rivela sempre opaca e
inconoscibile.
14. Sotto il sole giaguaro! uscita nel 1986, il proge o composi vo includeva la presenza di 5
raccon , ognuno dedicato ai 5 sensi, ma l’autore è morto prima di poter scrivere quelli rela vi alla
vista ed al ta o.
Calvino mette in scena i fallimentari tentativi umani di scoprire e di classi care la realtà.
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La produzione saggistica di Calvino è molto ampia e spazia su diversi fronti tematici, dal rapporto
tra metaletteratura e industria ai problemi legati alle nuove acquisizioni dello strutturalismo, della
semiotica testuale alla letteratura combinatoria e al postmoderno.
15. Una pietra sopra. Discorsi di letteratura e società! pubblicata nel 1980 è una raccolta di saggi;
già il tolo allude al fa o che a ogni singolo contributo, collegato a un preciso stadio di ri essione, è
stato conferito a un cara ere compiuto e de ni vo.
L’opera è una sorta di autobiogra a intellettuale, dove Calvino dimostra l’attenzione con cui ha
segnato gli sviluppi del dibattito culturale italiano e internazionale o rendo preziose indicazioni su
come nella propria poetica egli abbia sempre cercato soluzioni che non lo apparentassero a una
scuola letteraria prede nita.
16. Lezioni americane. Sei proposte per il prossimo millennio! pubblicato nel 1988, il libro
raccoglie 5 delle 6 lezioni che Calvino avrebbe dovuto pronunciare alla Harvard University.
Ogni lezione è incentrata su uno dei diversi caratteri del fare letterature ritenuti fondamentali dalo
scrittore: leggerezza, rapidità, esattezza, visibilità, molteplicità e coerenza.
I testi costituiscono una sintesi degli interessi e delle ri essioni di calvino intorno al mestiere di
scrivere.
I GRANDI TEMI Calvino esplicita il legame tra la prima parte della produzione e la sua esperienza di
vita degli anni precedenti, in occasione della seconda edizione del romanzo 1964, introducendo il
testo con un’importante Prefazione, punto di partenza fondamentale per ragionare sul rapporto
tra l’autore, la resistenza e il neorealismo.
Molti scrittori neorealisti percepiscono l’esigenza di considerare la letteratura uno strumento del
proprio agire nella società e come una naturale prosecuzione della loro partecipazione al con itto.
Calvino si pone la s da di prendere le distanze dal populismo degli scritti di propaganda.
Il suo impegno ideologico si traduce nella reinvenzione avventurosa e fantastica di una tragica
esperienza collettiva, vista attraverso gli occhi di un bambino.
La scrittura di Calvino a ronta i temi della resistenza in modo problematico, senza cadere
nell’ottimismo.
Quello di Calvino è un neorealismo particolare nel quale l’attenzione per la situazione sociopolitica
non solo è priva di ogni esaltazione ideologica, ma conduce anche a una progressiva presa di
distanza dalla materia narrata.
Il ltro fanciullesco mediante il quale è osservata la realtà permette la trasformazione un po’
abesca di eventi dolorosi.
LA NARRAZIONE FANTASTICA Calvino dopo l’esordio neorealista continua a scrivere soprattutto
attraverso l’immaginazione e il travestimento abesco.
La fantasia e gli elementi surreali non sono concepiti come un gioco o come ingenui strumenti di
un frivolo intrattenimenti ma, al contrario, funziona come spiegazione del mondo e lettura della
contemporaneità, attraverso il ltro di uno sguardo ironico e per mezzo di uno stile nitido ed
essenziale.
il visconte dimezzato, il barono rampante e il cavaliere inesistente recuperano la struttura narrativa della
aba, senza però attingere alla sua funzione consolatoria, ciascuno di questi romanzi è basato su
una gura di cui l’autore rovescia il signi cato al ne di farne una metafora della condizione
umana.
Il motivo conduttore è quello della faticosa conquista della libertà in un universo alienante e
irrazionale.
LA CRITICA ALLA SOCIETA’ DEL BENESSERE Calvino si pone l’obbiettivo di osservare e interpretare le
tendenze della società industriale e i suoi e etti.
Sviluppando ri essioni su tematiche come l’inquinamento, la lotta sindacale, l’alienazione sul
lavoro, la pubblicità, il consumismo, lo scrittore esercita una lucida critica alla società del
benessere, che cambia le abitudini, i gusti e le aspirazioni delle famiglie italiane.
Calvino ritiene che il compito dello scrittore sia quello di non perdersi nel labirinto della società
moderna e di indicare all’umanità le vie per salvarsi dall’alienazione acquisendo una coscienza
critica dei processi in atto.
Per descrivere i guasti della società neocapitalista egli adotta due soluzioni: da una parte
l’impostazione analitica, che dipinge in modo critico la realtà; dall’altra il distacco ironico,
sperimentato con l’invenzione del personaggio malinconico e sprovveduto di Marcovaldo.
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LA RIFLESSIONE SAGGISTICA
Da Il sen ero dei nidi di ragno! Fiaba e Storia
Si tratta di un brano tratto dal romanzo “Il sentiero dei nidi di ragno”
Il ragazzino Pin, fratello di una prostituta, è cresciuto nei vicoli della Sanremo vecchia, in un
mondo di poveracci ed emarginati. È precocemente smaliziato per ciò che riguarda la vita e il
sesso, ma resta pur sempre un bambino, chiuso nel suo mondo favoloso, completamente
estraneo e lontano dalla dimensione degli adulti. Pin ruba la pistola ad un marinaio tedesco e la
nasconde in un luogo segreto, cioè il sentiero dove i ragni fanno il nido (che assume un valore
simbolico, indica infatti il mondo incantato dell’infanzia). Scoperto dai tedeschi, Pin viene
arrestato, ma riesce a fuggire grazie a Lupo Rosso, un giovanissimo partigiano.
In questo brano troviamo molti aspetti tipici della aba. La pistola che dovrebbe essere un’arma
che riporta proprio alla guerra, in realtà per Pin è solo un giocattolo. Tutto viene tras gurato in un
mondo fantastico. Lo stile di Calvino è molto chiaro, lineare, cristallino, caratterizzato da periodi
piuttosto brevi, frasi molto schematiche, e vi è la prevalenza della coordinazione rispetto alla
subordinazione (si può notare n dai primi righi del brano). Sin dal primo rigo si insiste sull’uso dei
due punti proprio per collegare le frasi senza congiunzioni subordinative. Vi è dunque un
periodare scorrevole.
Per quali altri autori c’è l’orientamento scienti co che porta a una lingua molto chiara e lineare?
Primo Levi (egli infatti era un chimico)
Ciò che è scritto nel brano appartiene al pensiero del bambino e ci sono alcuni esempi di discorso
indiretto libero (si riporta il pensiero di Pin senza una esplicita apertura, infatti non sono riportate
testualmente le parole di Pin come discorso diretto, ma si riferisce il pensiero in modo indiretto).
Vi è anche il tema dell’armonia con gli elementi della natura.
Pin si trova in un luogo deserto, solo e smarrito. A un certo punto scorge un albero di ciliegie, e
dato che ha fame decide di riempirsi le tasche di ciliegie. Riprende poi a camminare sputando i
noccioli, nella speranza che Lupo Rosso, il suo amico, possa ritrovarlo facilmente. Pin, infatti,
inizia a lasciare una scia di noccioli ogni venti passi, ma quando le ciliegie niscono, si rende
conto che Lupo Rosso non lo ritroverà mai più. Ritrova poi la strada del torrente e arriva nel posto
in cui ha nascosto la pistola. Nessuno ha smosso la terra, infatti la pistola è ancora al suo posto.
La pistola per Pin è l’unica cosa che resta al mondo, la impugna e cerca di pensare a cosa
farebbe Lupo Rosso se avesse quella pistola in mano. Ma ciò gli ricorda di essere solo e che non
può chiedere aiuto a nessuno. Non sa neanche che farsene di quella pistola, così la lascia lì,
ricoprendola di pietre, terra ed erbe. Si rimette poi a camminare ma all’improvviso comincia a
piangere. Proprio nel momento di massimo sconforto, Pin incontra però un uomo grande e
grosso, vestito in borghese e armato di mitra, che gli chiede se si sia perso e perché stia
piangendo, ma dice di non poterlo riaccompagnare a casa.
Pin parla poi di Lupo Rosso, dicendo che erano scappati insieme di prigione, ma dice all’uomo di
averlo perso. L’uomo decide dunque di portarlo con sé all’accampamento partigiano dal quale
proviene, lo prende per mano e gli o re del pane da mangiare.
PIERPAOLO PASOLINI
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Nasce a Bologna nel 1922. Tra il 1943 e 1949 si trova a vivere in Friuli, paese natale della madre,
dove è fuggito in seguito all’8 settembre. Fin da giovane dimostra il suo interesse per la cultura
popolare e i dialetti italiani e si laurea in lettere a Bologna nello stesso anno in cui viene ucciso il
fratello Guido, partigiano della brigata Osoppo.
Risale al 1942 la raccolta di poesie in friulano Poesie a Casarsa. Durante il suo periodo friulano
fonda l’Academiuta de lenga friulana. Nei primi anni dopo la guerra Pasolini si iscrive al PCI di
Udine, da cui verrà però espulso nel 1949, a seguito di accuse di corruzione di minori ed atti
osceni in luogo pubblico, che si riveleranno poi infondate.
Nel 1950 si trasferisce con la madre a Roma. Nel 1953 lavora a un’antologia di poesia popolare
per la casa editrice Guanda, e nel 1954 pubblica la sua raccolta di poesie in friulano, La meglio
gioventù, con cui vince il premio “Giosuè Carducci”. Nello stesso anno collabora alla
sceneggiatura del lm La donna del ume, avvicinandosi al cinema. Nel 1955 pubblica Ragazzi di
vita, romanzo sulla vita dei ragazzi delle borgate romane, con cui è entrato in contatto dal suo
arrivo nella capitale. Il libro ottiene un grande successo di pubblico, ma viene accusato di
oscenità, a causa del tema della prostituzione maschile. Pasolini subisce, quindi, un processo per
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pornogra a da cui verrà assolto, grazie anche alle testimonianze di intellettuali dell’epoca, come
Giuseppe Ungaretti. Nello stesso anno fonda la rivista “O cina”.
Nel 1957 esce la raccolta di poemetti Le ceneri di Gramsci, duramente criticato da intellettuali
vicini al partito comunista, ad eccezione di Italo Calvino. Nel 1959 Pasolini conclude Una vita
violenta, un romanzo ancora una volta incentrato sui ragazzi delle borgate, con risvolti politici - il
protagonista della storia si considera inizialmente fascista, in seguito si avvicina ai democristiani e
in ne al PCI.
Pasolini è stato uno degli intellettuali più importanti del secondo dopoguerra e il massimo
interprete della nuova Italia repubblicana, verso la quale fu molto critico. Si scagliò contro la
borghesia e a favore della classe operaia, dei poveri e degli oppressi. Dal punto di vista politico
Pasolini era di orientamento marxista, ma il suo pensiero fu sempre indipendente. Criticò i
movimenti studenteschi del ‘68 de nendo i rivoltosi “ gli di borghesi che giocavano a fare la
rivoluzione con i soldi di papà”. Pasolini aderì al Partito Comunista, ne fu espulso a causa della
sua omosessualità, ma interpretò meglio dello stesso partito i principi di uguaglianza e fratellanza.
Per lui la cultura doveva intervenire nella realtà a ermando dei valori. Per questo nella vita fu
sempre contro ogni pregiudizio e prepotenza, costantemente controcorrente e anche per questo,
probabilmente, fu assassinato sul litorale romano nel 1975.
La caratteristica più evidente di Pasolini è la sua poliedricità, cioè il suo dedicarsi a diverse forme
d’arte. Scrisse romanzi, poesie, saggi di critica letteraria, opere teatrali, fu sceneggiatore e regista
per il cinema, traduttore e giornalista. La stessa carica sovversiva e attenzione ai deboli che
caratterizza la vita Pasolini è centrale anche nella sua attività di scrittore e regista. Le sue origini
artistiche hanno radici nel Neorealismo, da cui riprese l’attenzione verso le classi popolari, anche
se seppe però staccarsi: non cercò negli umili la rappresentazione di valori positivi, come
facevano i neorealisti, ma li dipinse con tutte le loro contraddizioni e questo probabilmente dipese
dal fatto che Pasolini, a di erenza di altri scrittori, quegli umili di cui parlava li conobbe davvero e
visse nelle loro stesse periferie. Pasolini fu un innovatore, si oppose a ogni ipocrisia e
convenzione, rappresentò quello che riteneva giusto rappresentare senza ltri moralisti e senza
sacri care nulla al falso perbenismo. Questa assenza di ltri trasformava ogni pubblicazione, ogni
lm, ogni dichiarazione in uno scandalo.
Pasolini nel corso della sua vita venne denunciato e processato moltissime volte e venne
addirittura accusato di rapina. Qui ricorderemo solo il processo a Ragazzi di vita, libro accusato di
essere pornogra co. Da questa incredibile denuncia Pasolini venne assolto grazie alle
testimonianze favorevoli di alcuni intellettuali italiani, tra cui Ungaretti. Quel processo contro un
libro era in realtà un processo contro la persona stessa di Pasolini, le sue idee e il suo impegno
civile. Ce lo conferma Moravia quando, riguardo la denuncia ad un’altra opera di Pasolini, scrive
con amara ironia: «L'accusa era quella di vilipendio alla religione. Molto più giusto sarebbe stato
incolpare il regista di aver vilipeso i valori della piccola e media borghesia italiana».
I romanzi neorealisti Ragazzi di vita e Una vita violenta i cui i temi principali dei due romanzi sono
la vita nelle borgate romane, l’adolescenza di cile dei ragazzi che ci vivono.
- Ragazzi di vita, il primo romanzo di Pasolini esce nel 1955, ottenendo molte critiche ma anche
un grande successo di pubblico. Non si tratta di una storia unica, ma di una serie di episodi legati
dalla gura del Riccetto, un ragazzo delle borgate di Roma coinvolto in attività criminali insieme
agli altri giovani del quartiere. Nel romanzo ritroviamo però anche momenti di tranquillità e
tenerezza: quando i ragazzi fanno una gita in barca sul Tevere, il Riccetto si commuove per la
morte di una rondine. Il narratore di questi romanzi è esterno, narra i fatti dal di fuori, in terza
persona, anche se in alcuni passi cede la parola ai suoi personaggi attraverso i dialoghi o il
discorso indiretto libero. La lingua del narratore è un italiano semplice e piano mentre, per i
dialoghi tra i personaggi, viene usato il romanesco delle borgate, quello che Pier Paolo Pasolini
aveva ascoltato dai ragazzi che ispirarono le sue storie. In questo suo realismo sociale e
linguistico c’è già una parte di quella carica sperimentale che si troverà in Petrolio.
- Quattro anni più tardi viene pubblicato Una vita violenta. Il protagonista, Tommaso, vive come il
Riccetto la criminalità ma, a di erenza del Riccetto, gli si presentano possibilità di redenzione,
ri ette sulla propria condizione e alla ne riesce a compiere delle buone azioni e a rientrare nella
società che lo aveva ri utato. Nonostante questo, il nale non è così felice.
I protagonisti dei romanzi di Pasolini sono ragazzi divisi tra la leggerezza dell’infanzia e il senso
del pericolo e della morte tipico degli adulti, ma che l’ambiente in cui vivono li costringe ad
a rontare prima del tempo. Sono personaggi che hanno perso la loro innocenza, ma mantengono
qualcosa di quel mondo dell’infanzia che gli è stato negato. Sono capaci di gesti di grande
violenza e di grande tenerezza, completamente assorbiti dall’ambiente degradato in cui vivono e
senza appigli per poterne uscire.
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Petrolio è l’ultimo romanzo di Pasolini, incompiuto a causa della morte dell’autore e pubblicato
solo nel 1992 postumo. Si tratta di un progetto molto ambizioso, lo stesso scrittore a ermò che lo
avrebbe impegnato per il resto della sua vita. È la storia di Carlo, un ingegnere diviso tra due
personalità diverse, una buona e una cattiva, nelle cui vicende si rispecchia il degrado della vita
moderna. In questo romanzo Pasolini cerca di scardinare le regole stesse del romanzo, creando
una sorta di antiromanzo, fortemente sperimentale. È un romanzo che rimanda alle opere del
passato, seguendo lo schema del viaggio e delle peripezie del protagonista, ma che si confronta
con gli e etti del capitalismo, rappresentando immagini di abiezione e degrado morale. Dal punto
di vista dello stile si assiste a una scrittura magmatica, cioè che mischia tanti stili e tanti linguaggi
diversi. Con questa espressione si indica la poesia che si interessa della condizione dell’uomo,
propone soluzioni, a ronta problemi di natura politica e morale.
La letteratura italiana ha avuto molti poeti civili: Dante, Petrarca, Tasso, Parini, Al eri, Foscolo,
Leopardi; Pasolini si inserisce in questa tradizione ma lo fa, come sempre, a modo suo. Moravia
scrisse di Pasolini che non fu un poeta u ciale, celebrativo, retorico, come sono stati in Italia nella
seconda metà dell’Ottocento, Carducci e D’Annunzio, bensì poeta che vede il Paese natale non
come lo vedono né possono vederlo, appunto, i potenti di questo paese. Quello che caratterizza
Pasolini è, ancora una volta, il punto di vista dal basso, a anco degli umili. Per questo non può
essere un poeta celebrativo: sarebbe impossibile celebrare una nazione che permette tanta
ingiustizia. La sua poesia è civile nel senso più nobile del termine, perché è una poesia che vuole
dar voce e visibilità a chi mai è stato ascoltato e visto. Il punto di vista dal basso è evidente nella
scelta di scrivere le sue prime raccolte di poesie (Poesie a Casarsa e La meglio gioventù) in
friulano, il dialetto parlato dai contadini che Pier Paolo Pasolini descrive in quelle poesie. Ma per
essere poeta civile Pasolini si deve rivolgere anche al resto d’Italia: nascono allora le poesie in
italiano, attraverso le quali Pasolini si riallaccia alla tradizione dei poeti civili che abbiamo citato.
Questo lo porta a una lingua e a uno stile che, pur restando comprensibili e semplici, hanno come
modelli i poeti della tradizione. Scrive sempre Moravia: «La poesia di Pasolini viene di lontano,
dalle profondità remote della letteratura italiana. Da Dante e da Petrarca, che ci hanno parlato
anche loro delle avventure dell’Italia». Pasolini ebbe un grande amore per tradizione poetica
italiana e volle farne rivivere la carica civile e morale.
La caratteristica fondamentale della poesia di Pasolini è quella di essere in equilibrio tra mondi
diversi: colto e popolare; nazionale e universale; città e campagna; dialetto e italiano. Quello che
mantiene questo equilibrio è la grande carica morale. La poesia per Pasolini è un diario
intellettuale, attraverso cui esprimere il proprio pensiero e agire per migliorare il mondo.
L’ingresso nel mondo del cinema permette a Pasolini di diventare un personaggio popolare.
L’interesse verso questa forma d’arte è presente già nei suoi scritti teorici e dagli anni 50 scrive le
sceneggiature per molti lm. Il suo primo lm come regista è Accattone, in cui descrive il mondo
del sottoproletariato urbano dunque vi è la trasposizione dei temi letterari di Ragazzi di vita e Una
vita violenta; decide di dedicarsi al cinema perché vede in esso un rapporto più diretto con la
realtà. Anche in questo campo egli è un tuttofare, si occupa di ogni aspetto dei suoi lm
(soggetto, sceneggiatura, scelta degli attori, musica, regia). Nei lm della fase neorealista sceglie
spesso attori non professionisti, persone prese da quello stesso mondo che i lm descrivono.
Nel 1964 con Il Vangelo secondo Matteo si interessa in modo nuovo alla gura di Cristo, alla sua
carica rivoluzionaria e al sacri cio in nome della salvezza dell’umanità. In questi anni si occupa
anche di mitologia, con i lm Edipo re e Medea. Nei primi anni 70 girò molti lm in cui, prendendo
spunto da opere letterarie, criticava la società tecnologico-industriale. Da qui nacque il progetto
cinematogra co chiamato “trittico della vita”, che comprende tre lm: Il Decameron (1971), tratto
dalle novelle di Boccaccio, I racconti di Canterbury (1972), tratti dall’opera di Chaucer, e in ne Il
ore delle Mille e una notte (1974). In questi lm tocca temi scabrosi e infrange molti tabù,
creando ancora scandalo. Queste opere manifestano il suo dissenso verso la cultura e la politica
del suo tempo. Il cinema di Pasolini può essere considerato come uno specchio del suo percorso
artistico e dell’evoluzione del suo pensiero.
Nel 1975 realizza quello che sarà il suo ultimo e più discusso lm, Salò o le 120 giornate di
Sodoma. Ispirato dall’opera del marchese de Sade, Pasolini ambienta le vicende del lm nella
Repubblica di Salò, dove quattro alti membri del partito rapiscono un gruppo di ragazzi e ragazze
per soddisfare le loro perversioni sessuali.
Per tutta la vita scrisse articoli di giornale e saggi, in cui espone il suo punto di vista sulla
politica e sull’attualità. Ci limiteremo qui a parlare della sua raccolta di saggi più famosa: gli Scritti
Corsari, pubblicati nel 1975, che raccolgono articoli di cronaca, attualità, politica e costume
apparsi sul Corriere della Sera tra il 1973 e il 1975 e che descrivono e commentano con occhio
attento e critico gli eventi principali di quegli anni, come il referendum sul divorzio, il terrorismo
interno e il '68. È una scrittura provocatoria e passionale che ci trasmette l’immagine di una gura
solitaria che si oppone al suo tempo. Da qui nasce la gura del corsaro a cui rimanda il titolo,
ossia del pirata che si ribella e attacca il mondo degradato di cui egli stesso fa parte. In questi
saggi Pasolini dipinge i mali e le contraddizioni dell’Italia contemporanea; i bersagli principali delle
sue critiche sono: la classe politica corrotta e incapace; il capitalismo e il consumismo che hanno
rovinato l’Italia, le sue città e i suoi abitanti; l’omologazione della vita sociale causata dalla tv e dai
miti del progresso.
Pasolini venne assassinato a Ostia la notte del 1 novembre 1975, sul litorale romano, dove il
corpo senza vita viene ritrovato massacrato e quasi irriconoscibile: ai segni di violente percosse si
aggiungevano i danni provocati dalla sua stessa auto che, guidata dall'assassino, gli era passata
più volte sopra. Della sua morte fu incolpato e condannato Pino Pelosi, "ragazzo di vita"
diciassettenne che quella sera Pasolini aveva avvicinato nei pressi della stazione Termini e invitato
nella sua macchina. Dopo una cena al Biondo Tevere i due si erano diretti verso il litorale romano
ed è qui che in seguito alle pretese sessuali di Pasolini sarebbe scaturita una discussione
degenerata in colluttazione tra i due in cui Pasolini ebbe la peggio. Che Pelosi, da solo, fosse
riuscito ad uccidere Pasolini è una ipotesi che lasciò perplessi molti ed infatti la sentenza di primo
grado lo condannò per omicidio volontario in concorso con ignoti; la sentenza d'appello invece,
pur confermando la colpevolezza di Pelosi, rivedeva la prima sentenza andando ad escludere la
partecipazione all'omicidio di altre persone. Questa versione non fu mai del tutto convincente:
Pasolini era un uomo forte e agile e non era verosimile che Pelosi fosse riuscito da solo a ridurre il
poeta in quello stato e, dopo una colluttazione corpo a corpo, a non riportare nessuna ferita nè a
sporcarsi del sangue di Pasolini. La tavoletta di legno con cui Pelosi dice di aver colpito e ucciso
lo scrittore, inoltre, era di legno marcio e non sarebbe potuta servire a quello scopo. Una nuova
versione di Pelosi sulla morte di Pasolini è arrivata nel 2008 attraverso un’intervista in cui Pelosi
ha a ermato di non essere l'esecutore materiale del delitto e di aver taciuto la verità per
proteggere i suoi genitori. Nella nuova versione sono entrati in scena altri uomini con forte
accento del Sud e un’auto targata Catania che la sera dell'omicidio avrebbe seguito l'Alfa di
Pasolini. Nel corso degli anni sono emerse nuove ipotesi: secondo la testimonianza dell'amico
Sergio Citti, dietro la morte di Pasolini poteva esserci la sparizione delle copie del lm Salò ed un
incontro con la malavita per trattarne la restituzione. Un’altra ipotesi ancora collega la morte di
Pasolini alla lotta di potere tra Eni e Montedison e allo stragismo dell'epoca, una relazione su cui
Pasolini scrisse il romanzo inchiesta Petrolio, uscito postumo nel 1992.
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Pasolini e il cinema
Come è noto, il cinema non è solo una questione di immagini, è soprattutto una questione di
prosodia e metrica nel collegamento tra le immagini eseguito tramite il montaggio. La novità
introdotta nel cinema da Pasolini all’inizio degli anni ’60 è stata quella di aver applicato al cinema
la metrica della poesia al posto di quella della prosa no ad allora impiegata nei lm narrativi. A
connotare lo stile del suo cinema, da lui chiamato “cinema di poesia”, sono l’impiego della
macchina a mano, le riprese in esterni con luce naturale, il ricorso a lunghi piani sequenza e
soprattutto un modo nuovo di utilizzare le giunte nel montaggio, un modo fondato sulla nozione
del “ritmema”, quest’ultimo inteso come regolatore in funzione psicologica dei rapporti spaziotemporali tra i contenuti delle singole inquadrature.
Il risultato della ri essione estetica e formale di Pasolini esplode nei primi due lm da lui girati
come regista, Accattone e Mamma Roma, due esempi sublimi di un cinema mai visto prima dove
ad essere poetici non sono i contenuti ma lo stile che rende tale anche una materia “bassa” e la
eleva ad una dimensione sacrale (il giovane di Mamma Roma legato su un letto in prigione
ra gurato come il Cristo morto del Mantegna). lmprontati al “cinema di poesia” restano anche i
successivi La ricotta e Il vangelo secondo Matteo, entrambi “scandalosi” mentre la produzione
successiva si apre a contaminazioni con gli stilemi della “nouvelle vague” e al ricorso all’apologo
morale (Porcile, Teorema), per poi dedicarsi all’evocazione di una creaturalità rimossa dalla cultura
cattolica-borghese e rintracciata nelle favole antiche nella “trilogia della vita” (Decameron, I
racconti di Canterbury e I ore delle Mille e una notte), dalla quale poi abiura per confrontarsi con
il Male assoluto in quell’esempio di “cinema della crudeltà” che è Salò.
Inso erente dell’arte per pochi e di ogni forma di paternalismo e di intellettualismo, l’uomo
Pasolini, primo nel vedere nel consumismo e nella sua alleata televisione la forma del fascismo
moderno, ha fatto dell’amore disinteressato il motivo dominante della esistenza, anche a rischio
della vita. Quanto al Pasolini regista, egli è stato sempre convinto che “ o spettatore, per l’autore,
non è che un altro autore” e che lo spettatore “non è colui che non comprende, che si
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Ragazzi di vita
La storia si svolge nella Roma del secondo dopoguerra, tra le varie borgate. I protagonisti sono
degli adolescenti appartenenti al mondo del sottoproletariato urbano che vivono alla giornata di
espedienti, arrangiandosi come possono, cercando di accaparrarsi ogni genere di oggetto che
possa essere rivenduto: tombini di ferro, copertoni, tubi, generi alimentari. Riccetto, questo è il
soprannome di uno dei ragazzi, dopo aver racimolato del denaro, a tta una barca per navigare
sul Tevere con degli amici. Durante questo giro in barca, egli rischia seriamente la vita gettandosi
in acqua per salvare una rondine che sta per annegare. Il gesto dimostra la sua grande generosità,
sebbene si comporti spesso da delinquente. La scuola che ospita gli sfrattati delle borgate è
ridotta in uno stato deplorevole e, anche a causa degli inadeguati controlli tecnici ed edili, un
giorno crolla all'improvviso, seppellendo e uccidendo la madre del Riccetto e, dopo un disperato
ricovero in ospedale, anche il suo amico e compagno Marcello. Passa del tempo (circa sei anni), il
Riccetto ha ormai quasi diciott'anni. Una sera lui e un amico, detto il Caciotta, sempre
bighellonando e rubacchiando per le strade delle borgate, trovano un semplice impiego: devono
vendere alcune poltrone per conto di un tappezziere di via dei Volsci, ma una volta concluso
l'a are, si tengono i soldi. Così si comprano degli abiti nuovi, vanno a mangiare una pizza e vanno
al cinema, poi, mentre passeggiano di notte per Villa Borghese incontrano dei compagni di
mala are. Si addormentano su una panchina del parco, ma alla mattina il Riccetto scopre di
essere stato derubato delle scarpe e del denaro. Così ancora una volta senza una lira, Riccetto e
Caciotta sono costretti ad andare a mangiare alla mensa dei frati per una decina di giorni e a
rubare qualcosa da mettere sotto i denti al mercato. Poi un giorno i due adocchiano una signora
che sta salendo sul tram con la borsa semiaperta, la seguono e la borseggiano. Tutti contenti del
malloppo, sull'autobus che li riporta al Tiburtino, il Caciotta lo mostra incautamente a degli amici e
così attira l'attenzione di un certo Amerigo, un loro coetaneo malvivente di Pietralata
estremamente aggressivo e dipendente dalle sigarette e dalla droga. Questi li porta in una bisca
dove, dopo una piccola vincita iniziale, comincia a perdere i soldi che il Riccetto gli ha prestato,
no a quando quest'ultimo, preoccupato che Amerigo gli chieda un altro prestito, scappa via.
Subito dopo arriva la polizia che arresta il Caciotta e Amerigo. Il protagonista incontra dei ragazzi
(tra i quali vi è il suo amico d'infanzia Lenzetta) e si unisce a loro, non curandosi della sparizione
misteriosa del suo amico violento e aggressivo Amerigo, che intanto è morto suicida. Il Riccetto e
il Lenzetta s'imbattono in un vecchio che presenta loro le proprie glie. Riccetto comincia a
frequentare la più giovane delle ragazze e la sua vita sembra subire una svolta positiva: inizia a
lavorare, si danza, ma un giorno viene arrestato per un crimine che non ha commesso e deve
scontare tre anni di prigione. Dopo tre anni i giovani si rincontrano al ume, dove facevano di
solito il bagno da piccoli. Segue un estratto di vita nella casa di Alduccio, nella quale si è trasferita
anche la famiglia del Riccetto (essendo suo cugino) dopo il crollo della scuola. La situazione
familiare è esplosiva: la madre litiga con tutto il vicinato e con Alduccio perché non lavora e non
aiuta in casa, il padre torna sempre ubriaco e cerca di picchiare la moglie mentre la sorella ha
appena tentato il suicidio perché è rimasta incinta di un giovane che non vuole sposarla. In
seguito addirittura Alduccio in preda all'esasperazione colpirà con una coltellata la madre, pur non
ferendola gravemente. Successivamente viene presentata la famiglia del Begalone, altrettanto
disastrata, visto che la madre è a etta da una grave malattia mentale ed è soggetta a continue
visioni del demonio, di animali mostruosi e di orribili spettri. Alduccio e il Begalone passeggiano
senza cena per le vie di Roma tentando inutilmente di corteggiare due ragazze troppo altolocate
per loro; si fanno poi un bagno nella fontana e cercano di raggranellare qualche soldo dai passanti
e nalmente entrano in una rosticceria mangiandosi tre supplì per uno. La fame però è talmente
tanta che quando escono sono nelle stesse condizioni di prima. Successivamente incontrano il
Riccetto da solo, il quale, probabilmente, sta cercando, come del resto gli altri due, qualcuno "da
rimorchiare". Trovano un "froscio" e il Riccetto accompagna Alduccio e il Begalone in un posto
sicuro nella sua vecchia borgata in cui potranno prostituirsi indisturbati. La borgata è cambiata
moltissimo, ormai piena di nuove quanto brutte costruzioni popolari. In seguito il Riccetto se ne va
per conto proprio e Alduccio e il Begalone se ne vanno in un bordello, forse per tentare di
dimostrare qualcosa a se stessi sulla propria identità sessuale; qualcosa però va storto e Alduccio
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scandalizza, ma è colui che comprende, che simpatizza, che ama, che si appassiona: tale
spettatore è altrettanto scandaloso che l’autore”. Profeta inascoltato a suo tempo, Pasolini ha
lasciato un cinema poetico-critico fonte di ispirazione per molti autori successivi, un cinema che
non serve né a trastullare né a indottrinare ma serve a condividere esperienze umane per una
comune crescita morale. E in questo lascito artistico sta ancora l’attualità della sua opera da
regista nelle sue diverse manifestazioni poetiche.
viene pubblicamente umiliato da una vecchia prostituta. In seguito gli amici della borgata si
riuniscono sull'Aniene, ma l'atmosfera è tesa e violenta. La violenza tra i compagni assume aspetti
tragici di bullismo: prima si incitano due cani a combattere tra di loro, poi non contenti del
"sangue" viene preso di mira il Piattoletta, un ragazzo debole e forse deforme, che nessuno
difende. Dopo una serie di angherie, viene legato ad un palo e gli viene appiccato il fuoco. Il
ragazzo si salva, ma resta ustionato. Successivamente durante l'ennesimo bagno nell'Aniene il
Begalone, malato di tisi, si sente male, facendo presagire la sua ne imminente, mentre il piccolo
Genesio per emulare il Riccetto, che pare s darlo con la sua ironia, attraversa il ume, ma poi non
è più in grado di ritornare sull'altra riva e muore sotto il ponte trascinato sott'acqua dai mulinelli. I
suoi fratellini Borgo Antico e Mariuccio cercano di corrergli dietro sull'argine seguendo la corrente,
ma non possono fare nulla per salvarlo e restano lì impotenti a contemplare la tragica scena. Il
Riccetto di nascosto assiste alla disgrazia, ma non si tu a per aiutarlo, benché sia anche il glio
del suo principale; adesso, infatti, Riccetto fa il manovale con una ditta di Ponte Mammolo.
Riccetto, consumata la tragedia, se ne va alla chetichella, non visto da nessuno. Il giovane, ormai,
è de nitivamente cambiato: ha tagliato i suoi riccioli e non è più il ragazzino che alcuni anni prima
aveva rischiato la vita gettandosi in acqua quasi sotto il ponte per salvare una rondinella che stava
annegando. La sua integrazione con il mondo individualista del consumismo borghese è ormai
cominciata.
Il libro racconta le vicende, nel corso di qualche anno, di alcuni ragazzi appartenenti al
sottoproletariato romano. Anche il periodo storico, d'altronde, non è privo di signi cato nel
contesto del libro: la storia, infatti, si svolge nell'immediato dopoguerra, quando la miseria era più
tiranna che mai. In questo ambiente è facile comprendere come mai i ragazzi protagonisti del libro
siano allo sbando più totale: le famiglie non costituiscono punti di riferimento, né sono valori e
spesso sono costituite da padri ubriaconi e violenti, madri sottomesse e fratelli molte volte avanzi
di galera; le scuole, presenti come edi ci, ma non in funzione, sono destinate ad accogliere
sfrattati e sfollati. Nel libro Pier Paolo Pasolini sfrutta le semplici azioni di una piccola parte di
giovani rispetto a tutta Roma e a tutta l'Italia intera per narrare, in verità, il degrado sociale che
aveva colpito tutto il Paese dopo il con itto. Lo si evince passo dopo passo quando il Riccetto e i
compagni rovistano nell'immondizia e cercano pezzi di metallo da vendere, poi, al rigattiere; o
quando, non trovando nulla, rompono persino le tubature per ricavarne del piombo. I "Ragazzi di
vita" s'ingegnano anche in piccoli furti e rapine, come quando il Riccetto e il Lenzetta derubano in
un autobus un'anziana signora. Non è raro, inoltre, che essi frequentino delle prostitute, a volte
anche incinte che, disperate, si concedono per mantenere la famiglia. I protagonisti si organizzano
in vere e proprie bande, con le quali scorrazzano per i quartieri poveri della città e fanno "caciara",
ovvero giocano, gridano e si divertono; sembra quasi che non abbiano casa e il loro nemico
quotidiano sia la noia; infatti non è da escludere che molti dei ragazzi che hanno partecipato al
funerale di Amerigo lo abbiano fatto non tanto per a etto nei confronti del defunto o per
sentimento religioso o per dovere morale, quanto, più probabile, per fare qualcosa di diverso ed
ammazzare il tempo.
TESTI: DA SCRITTI CORSAR
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Rimpianto del mondo contadino e omologazione contemporanea
Pasolini accusa la società consumistica moderna di aver cancellato e ridotto ad “Italietta”,
quell’universo transnazionale della classe dominata, sempre esistito a livello di “substrato
culturale”. L’essenziale naturalezza e l’originalità di questo mondo sottoproletario sono quindi
state soppiantate dalla banalità e l’”angosciosa volontà di uniformarsi”, proprie della società del
benessere. Per lo stesso procedimento, le culture del Terzo Mondo si vanno progressivamente
perdendo a causa dei loro più consistenti contatti con i paesi “sviluppati”. Esempio di
quest’uniformità dilagante (in ambito italiano), è la scomparsa progressiva ed inesorabile dei
dialetti (quali forme espressive originarie radicate nella cultura locale d’ogni singolo paese o
regione), che rimangono privi di quell’innata creatività e vivacità che li distingueva dall’italiano vero
e proprio.Lo stile in cui Pasolini scrive quest’articolo è sintetico, fortemente polemico e spesso
sarcastico, con allusioni nemmeno troppo velate al regime fascista (v.rigo 16 ”..nazionalista..” ,
rigo 40“..nuovo…totalitarismo..”). Le frasi brevi e fulminanti ed i frequenti incisi spingono il lettore
ad una più profonda ri essione (v.rigo 5 “(e innocenti)”, rigo 23 “cosiddetto Sviluppo”, rigo 30
“resta comunque a ar mio” ). Le vive esclamazioni (v.rigo 42 “gli idiomi materni!”, rigo 47 “buon
borghese del Nord!”) e la stessa forma di lettera aperta (v.rigo 1 “Io..caro Calvino”, rigo 48 “Tu
dirai…”) rendono la naturalezza del brano colloquiale e piacevole. Da notare l’e cace accuratezza
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lessicale con cui Pasolini puntualizza razionalmente i concetti espressi: ad esempio la scelta del
termine “acculturazione” anziché “cultura”.
Il motivo per il quale Pasolini de nisce la società contemporanea dei consumi “il più repressivo
totalitarismo che si sia mai visto” va ricercato, secondo me, nella stessa espressione da lui
utilizzata. Generalmente, infatti, si intende per ideologia totalitaria un’ideologia che subordini le
attività sociali, economiche e politiche, intellettuali, culturali (e talvolta spirituali) ai ni del gruppo
dominante. Nel totalitarismo, la vita dell’individuo deve conformarsi in ogni suo aspetto
all’ideologia del partito o del leader. La situazione descritta da Pasolini appare dunque peggiore:
trattandosi di un fenomeno culturale a livello mondiale, in cui a tutta la società umana (o quasi) è
proposto lo stesso ed unico modello culturale, non presenta alcun genere di “fuga” alla cosiddetta
omologazione.Ciò appare deleterio soprattutto perché sembra operare un vero e proprio
“sradicamento” dell’uomo da cultura, tradizioni e costumi. Il “codice interclassista” è da
intendere, per Pasolini, nella sua accezione negativa, in quanto questo fenomeno impoverisce la
società, invece di arricchirla con le di erenze sociali e culturali tipiche d’ogni fascia della
popolazione. A mio avviso, nel presente vi è e ettivamente una sostanziale uniformità culturale,
dovuta a molteplici cause, fra le quali ad esempio l’in uenza dei media e della televisione. Ma non
credo che debba essere trascurato l’aspetto positivo della questione: a tutt’oggi, infatti, è stata
raggiunta una certa parità di livello nelle classi sociali (fatto magari non augurabile da un punto di
vista di espressività del linguaggio, ma a parer mio indispensabile, da un punto di vista sociale,
per il quieto vivere di una moderna nazione). Devo purtroppo ammettere che la perdita culturale è
e ettiva: i dialetti e le tradizioni locali di inizio secolo si sono praticamente estinte, sopravvivendo
in minima parte all’interno di manifestazioni culturali o nel ricordo delle persone più
anziane.Ritengo inoltre che ciò possa essere un e etto attribuibile all’unità italiana, cioè una sorta
di assestamento postbellico di un paese estremamente eterogeneo, quale era l’Italia no ai tempi
del Fascismo.
Pasolini parla di “mutazione antropologica” perché vede una vera e propria trasformazione
epocale: in passato era stata soprattutto la cosiddetta”classe dominante” a cambiare, mentre la
classe dominata permaneva senza sostanziali trasformazioni. Il mantenimento dell’identità e delle
tradizioni dunque era assicurato proprio dalla fondamentale staticità di quel mondo, che
continuava a seguire ritmi agricoli quasi invariati da secoli.Ma nel dopoguerra (fra il 1950 ed il
1960 circa) assistiamo ad un’inversione di tendenza: il boom economico, l’industrializzazione, la
commercializzazione di nuovi prodotti americani hanno una serie di conseguenze.La “vita” va
facendosi sempre più rapida (si pensi alla sempre maggiore di usione di auto e media), e tutti
questi elementi contribuiscono come è ovvio alla chiusura dell’”età del pane”. Inizia l’era del
gadget e del super uo: Pasolini intuisce che non si tornerà indietro. L’umanità come lui la
conosce diviene maggiormente omogenea, si perdono molte tradizioni. Si passa lentamente a
quella che alcuni sociologi americano chiamano (in modo forse esasperato) “classless society”,
cioè si attenuano le di erenze di classe: a parer mio si tratta di una fase di erente della storia
umana, non necessariamente migliore o peggiore, ma semplicemente di erente.
Quali realtà alternative sono proposte dallo scrittore alla società consumistica? Alla società
consumistica viene contrapposto il vecchio mondo contadino sottoproletario, e quello
preborghese.”Il mondo dei dominati”, come lo chiama Pasolini, consisterebbe nell’avanzo di una
o più società precedenti strati cate.Secondo Pasolini questo mondo è transnazionale perché
profondamente simile in tutte le nazioni, sia che si parli di Terzo Mondo, sia che si parli di Europa.
A distruggere questa realtà non è la cultura (cioè tutte quelle cognizioni e comportamenti usati
sistematicamente e naturalmente), bensì l’acculturazione, cioè l’assimilazione di elementi culturali
estranei, con conseguente perdita di identità. Questi “consumatori di beni necessari, privi del
super uo” vengono perciò debellati progressivamente dalla società dei consumi.
Nella “Medea” ritroviamo la tematica dell’arcaico, antiteticamente confrontato con la
civilizzazione, il perpetuo scontro fra la magia (o l’irrazionalità) e la logica razionale.Ciò può essere
forse assimilabile allo scontro freudiano fra Es ed Io. La distruzione ed e l’annientamento delle
radici che so re Medea, la sua cosiddetta “conversione alla rovescia”, sono emblematiche:
rappresentano la trasformazione della realtà contemporanea a cui Pasolini assiste. La catastrofe
spirituale di Medea è, infatti, quella di un intero “mondo”, quelli dei “dominati”.Alla
transnazionalità di cui parla in questo articolo Pasolini, può essere assimilato il coacervo caotico
di riferimenti (visivi e sonori) alle culture primitive, africane asiatiche ed indiane (si pensi alla ruota
da preghiera tibetana che utilizza Medea alla cerimonia) presente nel lm. Le musiche sono
ispirate alla tradizione giapponese: tutto ciò è combinato senza distinzione di sorta proprio per
creare nello spettatore una percezione di arcaicità ieratica, estranea ed in un certo qual modo
aliena al nostro comune e moderno sentire.
GIUSEPPE TOMMASI DI LAMPEDUSA
Nasce a Palermo nel 1896 da una famiglia dell’aristocrazia siciliana di origine feudale. Poco si sa
della sua giovinezza e della sua formazione; durante la I Guerra Mondiale è fatto prigioniero;
collabora ad una Rivista genovese di critica letteraria e, nel 1925, durante il suo primo di tanti
soggiorni a Londra conosce Alexandra Woll che diventerà poi sua moglie e sarà una famosa
psicanalista in Italia. Nel 1943 il palazzo avito viene distrutto da un bombardamento e questo fatto
fa scaturire la stesura di un romanzo autobiogra co “I Luoghi della mia Infanzia” che racconta di
un bimbo uso a parlare più con le cose (muri, mobili, quadri e arredi) che non con le persone. Nel
1954, a 58 anni, accompagna ad un convegno di letteratura tenutosi a S. Pellegrino Terme,
l’amico Lucio Piccolo e questa partecipazione fa nascere in Tomasi una nuova voglia di scrivere.
Tra il 1954 e il 1957 scrive Il Gattopardo, un interessante e controverso romanzo della metà del
secondo Dopoguerra. Il libro verrà pubblicato postumo: il 2 luglio del 1957 Tomasi muore a Roma.
Il manoscritto fu inviato una prima volta a Mondadori ma lo stesso Elio Vittorini lo ri uta in quanto
non corrisponde alle sue linee letterarie, ben scritto ma desueto. Elena Croce (nipote di
Benedetto) se ne fa mentore e lo fa avere a Giorgio Bassani per Feltrinelli che, con qualche
piccola modi ca e integrazione lo pubblica nel 1958. nel 1959 il testo è de nitivo e supera di poco
le 200 pagine suddivise in 8 Parti.
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Il romanzo racconta l’esistenza di un autorevole aristocratico siciliano, il principe di Salina, don
Fabrizio Cordero di Salina sul cui stemma è ra gurato proprio un gattopardo, da cui il libro
prende appunto il titolo. Nella 1° Parte è descritta la giornata tipo del principe e ne viene
presentata la famiglia descritta accuratamente sia nell’aspetto sico sia negli atteggiamenti:
La moglie Maria Stella
Il primogenito, il duca Paolo
Le 3 glie Concetta Paolina e Caterina
Il nipote Tancredi Falconeri. Questi è un giovane di 21 anni, spregiudicato, che già ha capito
che il clima politico sta cambiando sull’isola: siamo nel 1860, la Sicilia è ancora sotto i Borboni in
declino, si sta già respirando l’aria dello sbarco di Garibaldi e così Tancredi diventa garibaldino
per poter partecipare in prima persona all’evento atteso. Il motto da sempre siciliano, cui la Sicilia
si è sempre a data e che spiega l’attaccamento alle tradizioni pur rispettando il veri carsi dei
cambiamenti è da sempre “se non ci siamo anche noi i garibaldini fanno la repubblica…” .
Tancredi è capitano dei garibaldini e, mentre la famiglia dello zio si trasferisce per l’estate dalla
villa di Palermo alla residenza estiva di Donna Fugata, ha occasione conoscere la glia del nuovo
sindaco, don Calogero Sedara; nuovo perché è uomo nuovo, di umili origini arricchitosi con a ari
non sempre del tutto leciti. Quando la famiglia giunge in villa, è tradizione dare una fastosa cena
di benvenuto e la bella Angelica fa subito colpo su Tancredi che se ne innamora. Ripartito con i
suoi compagni d’armi, Tancredi, sul nire dell’estate ancora in trincea, scrive allo zio per chiedere
in sposa Angelica, come da tradizione delle migliori famiglie ma scrive anche visto che ormai sono
giunti tempi nuovi, proprio quelli che presumono al livellamento dei ceti: un aristocratico può
chiedere in matrimonio una donna del ceto borghese. La richiesta viene formalizzata, la data è
ssata e tutto è pronto per le nozze. Tancredi torna; avvolto nel mantello azzurro come cavaliere
dell’esercito piemontese incontra Angelica e nel trasporto dell’incontro amoroso si perde tra le
stanze della villa estiva… Un rappresentante del nuovo governo, il piemontese Chevallet, o re a
don Fabrizio la carica di senatore, questi ri uta suggerendo il sindaco Sedara proprio come uomo
nuovo, ma questo accadrà solo 10 anni più tardi.
Nella 6° e 7° Parte siamo a Palermo, la villeggiatura è terminata e la vita di sempre ha ripreso il
suo corso; ad una festa a casa Ponteleone don Fabrizio ritrova Angelica al suo debutto in società,
balla con lei e ne suggella la sua appartenenza alla famiglia, ma questo non gli reca gioia, è triste
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Si deve soprattutto considerare che la “diversità”, nella società attuale, è soprattutto quella
“internazionale”: la realtà del “villaggio globale” ha dilatato i termini della questione, ed ora la
perdita di radici da cui ci dobbiamo tutelare è forse più quella della cultura italiana, di quella
strettamente regionale. L’entrata dell’Italia nell’Europa Unita implicherà notevoli adattamenti, e
certo molte cose dovranno cambiare, ma credo che sarà possibile mantenere la nostra identità.
Per quanto riguarda l’omologazione, penso che il fenomeno (anche se sempre presente) si sia
molto mitigato con il passar del tempo. Certo è che in una società industrializzata, in cui tutto ciò
che produciamo è prodotto in serie di cui esistono migliaia di esemplari, non si potrà mai tornare
davvero all’”originalità”, non quella sica per lo meno. Ci rimangono in ogni modo l’originalità di
pensiero, e la possibilità di sfruttare per nuove idee i mezzi tecnologici di cui ora disponiamo.
e melanconico, irritato e il suo pensiero è rivolto alla morte (che avverrà nel luglio del 1883). Nella
8° Parte troviamo le tre sorelle, le tre glie di don Fabrizio ormai vecchie zitelle bigotte (siamo nel
1910) chiuse nell’antico palazzo di famiglia in mezzo a false reliquie, come vengono de nite da
un………………….. che le induce a buttare queste cose vecchie e inutili così come viene buttato
in mezzo al pattume il vecchio cane impagliato morto tanti anni prima. È la metafora dell’inutile,
dello sprofondare verso il basso del casato ormai nito.
Signi cato della tematica
Don Fabrizio è il ritratto di un grande nobile solitario, scettico, privato delle illusioni, che non
abdica alla sua visione conservatrice ma non per questo è men sensibile a ciò che gli accade
intorno. o Tomasi è uomo di profonda cultura, aveva consuetudine di radunare intorno a se, nella
sua casa giovani amici anch’essi di cultura (Gioacchino Lanza Tomasi divenuto poi professore a
Pisa, come Francesco Orlando) e tener lezioni di letteratura francese, dialoghi su Elliott, Joyce,
Stendhal.
Don Fabrizio è un aristocratico legato alle proprie convinzioni politiche e sociali ma non per
questo un ottuso reazionario, anzi è uomo aperto alle modi cazioni che accetta con ironia e
humor.
Lo guida la priorità per l’uomo, la composizione all sventure. Egli preferisce astenersi dalla vita
pubblica e non modi care gli equilibri della vita che lo circonda ma non per questo è meno
comprensibile all’estrema fragilità cui il destino umano è sottoposto.
È s duciato ma crede al mutamento in primis della Sicilia e poi della Penisola stessa. Non
partecipa al processo di trasformazione politica. Assiste ma non partecipa agli eventi: il distacco è
forte in lui nei confronti del sentimento e della solidarietà verso la collettività È questo un romanzo
tutto e solo ottocentesco (cioè di un tempo che non ci appartiene avvallando la critica di Vittorini)
o è anche un romanzo aperto al nuovo (così come presentatoci da Bassani)?
Le vicende stesse del romanzo creano questo:
Tempo remoto per lo stile superiore e di grande talento
Tempo presente per l’attualità del tema e del contesto
Secondo Stendhal gli scrittori erano:
Espliciti
diretti, esprimevano tutto a chiare lettere
Impliciti
Tomasi appartiene agli scrittori impliciti: le sue pagine sono ricche di allusioni, vi è un uso sapiente
e reticente della parola (le descrizioni di natura, giardini / vassoi di frutta, natura viva e nature
morte) proprio come nella letteratura barocca dell’ ‘600. È un romanzo di apertura e respiro
europeo nella direzione della Francia, del grande romanzo stendhaliano e al tempo stesso nella
direzione de barocco siciliano. Tema suggestivo per Tomasi è la fascinazione della morte,. In
molte chiese di Palermo si resta presi dai simboli e dagli oggetti che riportano all’inesorabile
passo della morte. È un elemento dominante dell’immaginazione di Tomasi e, attraverso lui, di
don Fabrizio, uomo destinato a vivere in un’età di transizione di cui si rende ben conto: davanti a
lui le antiche istituzioni e gli antichi costumi crollano, ma lui vede oltre; c’è un indietro che è la vita
giovanile, l’esordio della giovinezza e della virilità e c’è un al di là come transizione che non può
essere che la morte; l’uomo è soggetto all’usura del tempo, si consuma in una specie di voluttà
del pessimismo, il suo scetticismo e la sua ironia troveranno pace solo nella morte. Tutto è avvolto
da una disperata pietà, le pagine della 7° Parte sono pagine di profonda introspezione.
Il romanzo ha la capacità di rivisitare la storia della Sicilia settecentesca e dell’Italia pre-unitaria e
di interpretare l’oggi:
è vero che la vita degli uomini procede per conto proprio, sembra consumarsi al di fuori della
coscienza;
è vero che è di cile imporre alla vita di ciascuno di noi una qualche misura saldamente
razionale; però c’è un modo di leggere la vita ed è la storia che sta alle nostre spalle a
suggerircelo come la somma degli errori, di illusioni perdute e desideri insoddisfatti che ci hanno
preceduto e in qualche modo si ri ette nella vita di ognuno di noi e da cui trarre insegnamento.
Il romanzo è un’elegia al disfacimento del reale, estremamente istruttivo: è la storia di un uomo
solo e solitario; è l’interpretazione dell’uomo alla luce di una realtà passata. Segna il punto di
rottura e di crisi della stagione del Neorealismo di Calvino, di Levi, di Morante.
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Il lm fu diretto da Luchino Visconti.
TESTI: DAL GATTOPARDO
Se vogliamo che tutto rimanga come è, bisogna che cambi
È Tancredi, quindi, a pronunciare la famosa frase «Se vogliamo che tutto rimanga come è,
bisogna che tutto cambi». È lui, aristocratico decaduto, giovane, bello e brillante ma ormai privo di
un patrimonio proprio, che tenta di inserirsi nel cambiamento per trarne dei vantaggi per sé e per
la sua classe. Ed è importante notare che Tancredi riconosce in Mazzini e nelle istanze
repubblicane che Mazzini difende il vero pericolo da cui guardarsi. Il lealismo di don Fabrizio («Un
Falconeri dev’essere con noi, per il Re») viene smontato facilmente dal giovane nipote con
un’argomentazione paradossale (perché «tutto rimanga come è, bisogna che tutto cambi»).
Dapprima il principe non a erra bene il signi cato della frase, poi ha modo di parlare con due suoi
dipendenti, il contabile don Ciccio Ferrara e il soprastante Pietro Russo, e capisce:
Le parole enigmatiche di Tancredi, quelle enfatiche di Ferrara, quelle false ma rivelatrici di Russo
avevano ceduto il loro rassicurante segreto. Molte cose sarebbero avvenute, ma tutto sarebbe
stato una commedia, una rumorosa, romantica commedia con qualche macchia di sangue sulla
veste bu onesca. Questo era il paese degli accomodamenti.
Fin qui, don Fabrizio appare convinto che Tancredi abbia ragione e che, se la sua classe dovrà
pagare un prezzo ai tempi nuovi, questo prezzo non sarà troppo alto. È vero che Russo, un
esponente di quella ma a rurale che per un secolo almeno avrebbe spadroneggiato in Sicilia, si
sarebbe arricchito erodendo i patrimoni aristocratici ed ecclesiastici; è vero che ci sarebbe stata
una compravendita di titoli nobiliari senza tradizione, inventati dai nuovi sovrani per soddisfare i
desideri di ascesa sociale dei borghesi arricchiti; è vero che avrebbero avuto spazio, nella società,
dei parvenus venuti dal nulla, ma la classe dominante avrebbe continuato a essere la vecchia
aristocrazia, la stirpe dei Gattopardi, insomma. Tutto sarebbe cambiato, ma tutto sarebbe rimasto
com’era... Ma è un’illusione, e il principe di Salina se ne renderà conto, suo malgrado, nel corso
del romanzo.
Osserviamo come Tomasi di Lampedusa tratteggi, attraverso pochi segni, il carattere dei due
personaggi. Il principe è un uomo posato, sicuro di sé, abituato a vivere tra gli agi: la comoda
vestaglia a ori, il cane sempre accanto, la emma con cui si rade quel «tratto di pelle di coltoso
fra labbro e mento» e si mette la cravatta, il servitore che lo veste e gli mette le scarpe; ogni
dettaglio ispira calma, comodità, lusso. Tancredi è il contrario: rapido, irruento, simpatico,
addirittura sfacciato, per nulla interessato al comfort delle ricchezze familiari, votato all’azione. Si
capisce, già da queste poche battute di dialogo, che il futuro è suo e che il principe è ormai un
uomo del passato, anche se crede di avere ancora molto da dire e da fare («non c’era da dire: era
ancora un bell’uomo»). Per caratterizzare in maniera più e cace il personaggio del principe,
Tomasi alterna il suo punto di vista d’autore, un punto di vista oggettivo (quello che può dire ad
esempio la frase «La mattina dopo il sole illuminò un principe rinfrancato»), al punto di vista del
personaggio, facendolo pensare “ad alta voce” («Scherza pesante quella canaglia!»), oppure
adoperando il discorso indiretto libero (in frasi come «Questo era il glio suo vero» che è
ovviamente pensata dal principe). In questo modo il lettore si familiarizza non solo con le parole e
con i comportamenti del protagonista, ma anche con i suoi pensieri: è come se Tomasi gli desse
accesso alle verità non dette, ai dubbi, alle debolezze che si nascondono sotto l’apparenza
luccicante della vita di questo aristocratico.
PRIMO LEVI
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Una vita a Torino
Primo Levi nasce a Torino il 31 luglio 1919. Forse può rivelare qualcosa del suo stile asciutto, così
come del suo carattere, schiavo e appartato, il fatto che per tutta la vita non abbia mai cambiato
casa, se si escludono i due anni passati a Milano, subito dopo la laurea, come dipendente della
casa farmaceutica Walder; e, ovviamente, l’internamento ad Auschwitz. Benché i suoi genitori
discendano da un’antica famiglia ebraica, il mondo culturale di Levi inizia e nisce a Torino.
Nel 1937, Levi si iscrive alla facoltà di Scienze dell’università di Torino. Le leggi razziali, emanate
dal fascismo nel 1938, impedivano agli studenti ebrei di iscriversi alle università pubbliche, ma
non impedivano a quelli già iscritti, anche solo da un anno, come nel caso suo, di concludere gli
studi. Per questa ragione, riuscirà a laurearsi a pieni voti in chimica nel 1941.
L’internamento
Subito dopo la laurea, Levi si trasferisce per lavoro a Milano. Con la caduta del fascismo, l’8
settembre 1943, decide di entrare a far parte di una banda partigiana. Si sposta così in Valle
d’Aosta, ma qualcuno fa la spia e Levi viene arrestato il 13 dicembre. Interrogato dalla milizia
fascista, per non essere fucilato Levi si dichiarerà ebreo invece che partigiano. E, in quanto ebreo,
verrà subito internato nel campo di concentramento di Fossoli, vicino a Modena, dove resterà
per due mesi.
Nel febbraio del 1944 la gestione del campo passa in mano ai tedeschi, che decidono di
deportare tutti gli internati ad Auschwitz. Inizia così per Primo Levi la terribile esperienza del lager
che sarà al centro del suo libro più famoso: Se questo è un uomo. Dopo quasi un anno di
prigionia, il suo internamento nisce con l’arrivo delle armate sovietiche ad Auschwitz il 27
gennaio 1945.
Il ritorno a Torino e la scrittura
Passati alcuni mesi nel campo di transito di Katowice e in una caserma italiana di Cracovia, nel
giugno del 1945, Levi parte per tornare in Italia. Il viaggio sarà surreale e rocambolesco. In uno dei
suoi libri più belli, La tregua (1963), racconterà il suo ritorno a zig zag no in Italia, passando
attraverso Polonia, Unione Sovietica, Romania, Ungheria, Germania, Austria. Quando nalmente
arriva a Torino è il 19 ottobre 1945.
Levi non si muoverà più dal capoluogo piemontese. Nel giro di pochi anni diventa direttore
dell’industria di vernici Siva e inizia, parallelamente, a scrivere. Se questo è un uomo, composto
fra il 1946 e il 1947, ha una storia editoriale singolare che merita di essere raccontata. Nel 1947
Levi consegna il manoscritto alla casa editrice Einaudi, che lo ri uta; il libro esce lo stesso anno
per le edizioni De Silva, una piccola casa editrice torinese, e vende molto poco. Ci vorranno undici
anni e la tenacia di Primo Levi perché Se questo è un uomo venga comprato da Einaudi e
ripubblicato nel 1958, diventando, questa volta, quasi immediatamente, un best-seller mondiale.
Levi ha pubblicato, nel corso della sua vita, racconti, saggi, poesie e romanzi. Tra i più importanti
bisogna almeno ricordare: Il sistema periodico (1975), che è una raccolta di iscritti brevi, di natura
per lo più autobiogra ca, ispirati alla tavola degli elementi di Mendeleev; La chiave a stella (1978),
una serie di racconti dedicati al lavoro; Se non ora quando (1983), che è l’unico vero e proprio
romanzo scritto da Levi, storia del viaggio in Italia di una banda partigiana ebraico-russa-polacca,
durante la seconda guerra mondiale; Ad ora incerta (1984), la sua più importante raccolta di testi
poetici; I sommersi e i salvati (1986), dedicato all’esperienza dei campi di concentramento e ai
meccanismi che portano, nei lager, alla creazione di una “zona grigia” di collusione tra oppressori
e oppressi. Primo Levi muore suicida a Torino l’11 aprile 1987.
La prospettiva di Levi
La grandezza di Primo Levi deriva solo in parte dall’importanza dei temi che sono al centro della
sua opera: l’esperienza dei lager, l’Olocausto, l’uso pubblico della memoria, l’ebraismo, la
scienza, l’ambivalenza della tecnologia, il mondo naturale, la dignità del lavoro. In realtà, Levi è un
grande scrittore soprattutto per come guarda la vita. Quello che più colpisce della sua scrittura è
infatti la prospettiva che orienta il suo sguardo. La possiamo riassumere in una sola fase: ciò che
non si può capire si può comunque conoscere.
Questa semplice indicazione può già aiutarci a collocare la sua opera all’interno di quella grande
tradizione razionalista che attraversa la nostra letteratura a partire da Dante e che comprende, fra
gli altri, autori come Ludovico Ariosto, Galileo Galilei, Giacomo Leopardi e, nel Novecento, almeno
Italo Calvino.
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Un razionalismo singolare
Il razionalismo di Levi ha però una natura singolare. Il suo punto di partenza è un antico
insegnamento biblico: l’uomo so re ingiustamente. Eppure – questa è la convinzione di Levi –
l’uomo può riscattare almeno una parte del male, che gli viene in itto senza ragione, con la spinta
a conoscere. Nella maggior parte dei suoi scritti, infatti, la tensione fra la miseria e grandezza
dell’umano viene lavorata no quasi a raggiungere uno stato sico di equilibrio. Pur essendo un
autore che non indietreggia mai di fronte al male più spaventoso, i suoi testi sono sempre pieni di
ottimismo e di speranza: l’uomo so re ingiustamente, è vero; ma la sua capacità di conoscere lo
può salvare.
Il resoconto di un’esperienza estrema
Se questo è un uomo è un libro che ha avuto una fortuna critica e un successo di pubblico
straordinari, anche se non immediati. È il più importante libro italiano sull’esperienza
dell’intrattenimento in un campo di concentramento nazista: è il resoconto di un’esperienza
estrema, vissuta in prima persona da un giovane ebreo torinese di ventitré anni, l’internamento
nel campo di concentramento di Auschwitz, in Polonia. Il racconto inizia il 13 dicembre 1943,
quando la milizia fascista cattura Levi, presso Brusson, in Valle d’Aosta, mentre sta cercando di
arruolarsi in una brigata partigiana di Giustizia e Libertà. Internato per due mesi nel campo di
concentramento di Campi-Fossoli, in provincia di Modena, il 22 febbraio 1944 viene deportato,
insieme ad altri 650 prigionieri ebrei, nel campo di Buna-Monowitz, presso Auschwitz. Per un
anno Levi vivrà l’esperienza dell’internamento nel lager nazista lavorando prima come semplice
manovale, poi come chimico industriale addetto alla produzione di gomma sintetica per la ditta
tedesca Buna. Ammalatosi di scarlattina, avrà la fortuna di non partecipare alla marcia di
evacuazione di Auschwitz, nel gennaio del 1945; riuscirà miracolosamente a sopravvivere nel
campo abbandonato, insieme ad altri pochi malati, per dieci giorni, no all’arrivo dei soldati
sovietici il 27 gennaio 1945.
Documento storico e studio dell’animo umano
Se questo è un uomo è dunque, prima di tutto, una testimonianza storica. È uno scritto che
documenta in “presa diretta”, e da un punto di vista infelicemente privilegiato, uno dei momenti
più tragici della storia del Novecento: lo sterminio di massa degli ebrei (ma anche degli avversari
politici, nonché di zingari e omosessuali) razionalmente piani cato, durante la seconda guerra
mondiale, della Germania di Hitler.
Eppure sarebbe riduttivo leggere Se questo è un uomo solo come un semplice documento
storico. Levi, nell’introduzione, preferisce considerarlo “uno studio pacato di alcuni aspetti
dell’animo umano” che i campi di concentramento hanno reso, come in un esperimento di
laboratorio, coerenti e visibili. Per questa ragione, nel libro Auschwitz viene interpretato non come
un’eccezione storica, ma come l’esplosione estrema, portata no alla follia più cieca, di un’”
infezione” presente ovunque nelle società moderne, sebbene diluita e in stato latente: la paura
della diversità.
L’invito al ricordo
Mai come in questo caso, dunque, la scrittura letteraria ci mostra uno dei poteri conoscitivi di cui
è capace: sollecitando la nostra capacità immaginativa e l’intelligenza delle nostre emozioni, il
testo ci costringe a immedesimarci con l’esperienza di chi, come Primo Levi, è riuscito a
sopravvivere a quell’inferno, a ritornare e a raccontarlo. Se questo è un uomo, come ogni grande
opera d’arte, mentre racconta di Auschwitz parla di noi, dei pericoli che il nostro presente corre se
diventa incapace di ricordare quanto accaduto in quegli anni. Il testo poetico che apre il libro non
a caso è un’esortazione al ricordo come bisogno e come obbligo.
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La vergogna di essere un “salvato”
Per concludere, un’ultima osservazione sulla particolare posizione che Levi, come narratore/
testimone, assume di fronte a se stesso. Se questo è un uomo racconta il terrore, la fame, la
fatica, l’abbruttimento che l’autore in prima persona ha patito. Ma non lo fa, a di erenza di come
intuitivamente potremmo immaginare, per dare un giudizio sul nazismo e sul male che gli è stato
in itto senza ragione. Il sentimento più forte che muove la scrittura è piuttosto la vergogna che
prova per se stesso. La vergogna di essere stato capace di vivere anche nella degradazione più
estrema. La vergogna di aver potuto tollerare, per un enigmatico istinto di sopravvivenza, una
perdita di dignità e di decenza al di là di ogni immaginazione. La vergogna di essere un “salvato”
di fronte al numero in nito dei “sommersi”, gli unici legittimi ma impossibili testimoni della
demolizione dell’umano di cui Auschwitz è stato laboratorio.
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