Partendo dall’alto abbiamo dunque due famiglie che si diramano da un punto non indicato da nessuna lettera (potremmo mettere Omega, simbolo che rappresenta il manoscritto originale di un testo, perduto). Le lettere tra parentesi tonde indicano che quel testimone lo ipotizziamo, ma non è pervenuto, anche se tutta una serie di dati ci dicono che è esistito. Il ramo ambrosiano, come abbiamo detto, è costituito da un solo manoscritto, la cui segnatura è G82superiore. Tale manoscritto è un palinsesto, un manoscritto scritto due volte. Ciò significa che a un certo punto qualcuno ha riutilizzato questo manoscritto che già conteneva un testo, grattando questo testo con una lama o ricoprendolo di calce bianca per riscriverci sopra. Esso ha dunque una scriptio inferior, originaria, e una scriptio superior, aggiunta su quella originaria. Ebbene, in questo caso la scriptio inferior (in capitale rustica, usata in maniera maggiore tra IV e VI sec.) contiene le 21 commedie di Plauto, mentre la scriptio superior (in insulare minuscola) contiene il libro dei Re (biblico) ed è stata aggiunta intorno al VII secolo. Nel VII secolo, infatti, questo manoscritto venne nelle mani dei monaci del monastero di Bobbio (località dell’Appenino Emiliano, ai confini tra la provincia di Piacenza e la Liguria), fondato da un monaco irlandese, Colombano (latinizzazione di Colum). Dopo aver cercato di cancellare il testo di Plauto dalla pergamena, i monaci di Bobbio scrissero una parte dell’Antico Testamento nella loro grafia di VII secolo. Questi manoscritti palinsesti si è iniziati a scoprirli tra la fine del ‘700 e l’inizio del ‘800. Un grande scopritore di palinsesti fu Angelo Mai, prima prefetto della Biblioteca Ambrosiana di Milano, poi prefetto della Biblioteca Vaticana, dove scoprì il palinsesto del De re publica di Cicerone (Vat. Lat. 5757), anch’esso proveniente dal monastero di Bobbio. Un palinsesto piuttosto complicato è il Palatino latino 24, che tramanda nella scriptio inferior frammenti del De Amicitia di Seneca e la sezione iniziale del suo De vita patris, un frammento che sopravvive solo in questo manoscritto; nella scriptio superior tramanda, invece, diversi libri biblici dell’Antico Testamento (Tobias, Job, Esther, Judith). Per evidenziare la scriptio inferior Angelo Mai adoperava un agente chimico, la noce di galla, un’escrescenza ricca di tannini che si sviluppa su alcuni alberi e da cui si ricava un inchiostro. L’inchiostro di noce di galla, se spalmato, riusciva a far risaltare il materiale ferroso presente nell’inchiostro medioevale. Questo sistema, utilizzato anche per il G 82 superiore, funzionava in quanto permetteva di leggere il testo venuto alla luce per qualche ora, ma in seguito la noce di galla creava una massa nera che ci impedisce oggi di leggere i manoscritti trattati con essa. Già Angelo Mai contravvenne a un divieto vigente secondo il quale non bisognava usare nessun elemento chimico su questi manoscritti, in quanto ciò avrebbe rovinato la scriptio inferior. E infatti il palinsesto ambrosiano ha perso completamente Amphitruo, Asinaria, Aulularia, Curculio e quasi interamente Captivi e Vidularia, mentre alcune parti delle altre commedie sono mancanti o illegibili. Un manoscritto poteva essere riscritto per diversi motivi, quali la migliore qualità della pergamena antica e la carenza di materiale scrittorio. Non c’era una scelta morale dei manoscritti da riscrivere: molti palinsesti hanno difatti nella scriptio inferior testi religiosi. Oggi i palinsesti vengono letti con lettori ottici capaci di distinguere i due livelli di scrittura senza alcun impiego di agenti chimici oppure con sistemi acustici come la risonanza magnetica (ci sono ritorni del suono diversi in una parte vuota, in una parte dove c’è una scrittura e in una parte dove ci sono due scritture, il che permette di costruire immagini diverse per ciascuna di queste parti). Il punto più alto rispetto ad A e P(A) è un manoscritto più antico di A e P(A). Esiste un testimone perduto da cui dipendono sia l’uno che l’altro ramo. Ad esso diamo il nome di archetipo. Lo stabiliamo sulla base del metodo di Lackmann, risistemato dallo studioso tedesco Paul Maas, cioè la teoria degli errori. Si stabilisce che due testimoni sono in rapporto tra loro sulla base degli errori che due copisti non potevano commettere se non in dipendenza da un antigrafo comune, cioè non potevano evitare di ricopiare. Gli errori in questione (detti congiuntivi perché congiungono rami, tradizioni) sono l’interpolazione del prologo della Casina e la presenza degli argumenta. Quando in una tradizione gli errori congiuntivi permettono di ipotizzare l’esistenza di un archetipo la recensio (cioè l’insieme di tutti i testimoni) si dice chiusa. L’archetipo in questo caso è perduto, ma vi sono anche casi in cui l’archetipo ci è pervenuto, come l’Historicus Graecus 4 di Vienna, da cui dipendono tutti i manoscritti dell’Anabasi di Arriano. Un altro errore congiuntivo è l’inserimento della glossa mala nella Persa (vv.385- 387): Taci, stupida, tu non conosci ancora i modi di fare degli uomini, per i quali facilmente costui sposa qualcuna con una cattiva reputazione, purché vi sia la dote nessun difetto è cancellato da un difetto. In tutti i manoscritti (sia del ramo ambrosiano sia del ramo palatino) troviamo mala fama, laddove mala è una glossa entrata nel testo, che metricamente non funziona. Fama, infatti, è vox media, può avere cioè un significato positivo o un significato negativo. Ancora nella Persa vi è un altro errore, Est al posto di Esne: Sei tu amico di costui, tanto quanto tutti gli dèi che abitano il cielo? Esne è la correzione degli editori, una II persona singolare, mentre sia A che P hanno Est, III persona singolare. E sempre nella Persa: Taci, taci, per Ercole, sei un uomo troppo stupido e infantile, Es è correzione degli editori (emendamento umanistico), mentre Est è la lezione sia di A che di P. Se due tradizioni contengono questo tipo di errori comuni, vuol dire che c’è un archetipo da cui esse dipendono e da cui hanno tratto gli errori. Si dice che la recensio è chiusa, mentre in una recensio aperta non siamo in grado di stabilire l’esistenza di un archetipo. Esistono anche errori detti “separativi”, che appunto separano, contribuiscono a stabilire un rapporto di non parentela tra i testimoni. Un errore separativo, presente in A e non in B, implica che questo secondo non dipende dal primo, perché il copista non può aver corretto l’errore per congettura . Innanzitutto, la successione delle commedie nei due rami è differente: Nel ramo Ambrosiano le commedie di Plauto seguono l’ordine rigorosamente alfabetico di origine alessandrina e quindi varroniana. Callimaco, infatti, coi suoi Pinakes aveva prescritto che le biblioteche andassero ordinate in questo modo: genere letterario, autori in ordine alfabetico per ogni genere, rotoli in ordine alfabetico per ogni singolo autore. Varrone aveva ripreso questo sistema per ordinare la successione delle opere di Plauto all’interno della Biblioteca di Augusto e il manoscritto ambrosiano riproduce la medesima disposizione. Anche il manoscritto Palatino dispone le opere in ordine alfabetico, ma presenta un caso di inversione, in quanto sposta le Bacchides dopo l’Epidicus. Non è un errore casuale, ma l’errore di un filologo, fatto sulla base di questo passo delle Bacchides: Non la trama, ma l’attore mi fa sanguinare il cuore per l’odio. Anche l’Epidico, una commedia che io amo come me stesso, non la guardo con piacere se la recita Pellione. Questo passo ci dice che mentre Plauto componeva le Bacchides, l’Epidicus era già stato messo in scena. Il filologo, quindi, ha cambiato l’ordine. Non possiamo stabilire come le opere fossero ordinate nell’archetipo. Probabilmente seguivano l’ordine alfabetico, cioè l’ordine di Varrone. Un’altra ipotesi è che presentasse l’ordine inverso di P e che l’Ambrosiano abbia ristabilito l’ordine alfabetico. Altri errori separativi sono: Al verso 640 della Casina c’è la lezione lybico in P, da correggere in liberi, presente in A e nelle edizioni. Probabilmente c’era un subarchetipo tra A e P che aveva la voce lybico. Nella Rudens (dopo il v. 698) tutto il ramo di P presenta una lacuna (ereditata probabilmente da P perduto), mentre il testo è presente in A. Nel Poenulus al v. 1355 troviamo in P adversus quidem, in A e nelle edizioni haud verbum quidem. L’assenza della negazione haud in P dà un testo che non funziona. Ancora nel Poenulus al verso 977 leggiamo: Per Polluce, il suo aspetto è quello di un Cartagine; questo è un gug (parola punica), un uomo. A ci dà la lezione giusta, il che ci fa capire che nell’archetipo c’era la frase per intero, comprensiva di una voce cartaginese che P, non essendo in grado di capire, non ha ricopiato. Tutti gli errori sono dunque a favore di A, che sembra avere un testo migliore di P. Un altro errore che separa A da P è il numero di commedie: P non ha la Vidularia (è presente nell’elenco dei manoscritti ma non è stata ricopiata), in A la Vidularia si legge ma molto male. Il ramo palatino è costituito da 3 manoscritti antichi: B, D, e C. B è il manoscritto Vaticano Palatino Latino 1615 (fine X sec.): durante la guerra dei Trent’anni (1618-1648) la Biblioteca Palatina di Heidelberg trasferì i suoi manoscritti a Roma per evitare che venissero distrutti. Esso contiene 20 commedie e dopo il Truculentus, che è l’ultima commedia, riporta anche l’incipit della Vidularia. C è il manoscritto Heidelberg Palatino Latino 1613 (di XI sec. da Frisinga in Baviera). Attualmente ad Heidelberg ha un index in cui compaiono 12 commedie (dalla 9 alla 20, quindi dalle Bacchides al Truculentus. Mancano dunque le prime 8. D è il manoscritto Vaticano Latino 3870, di XI sec., portato in Italia da Niccolò Cusano e attualmente conservato nella Vaticana. Contiene le 12 commedie di B e in più quasi quattro commedie iniziali. Da D derivano gli Itali. B è diviso in due parti nello stemma, nonostante si tratti dello stesso manoscritto. Questo perché P era in due volumi: il primo conteneva le commedie 1-8, il secondo 9-20. B copia le commedie da 1 a 20, ma in modo differenziato: le prime 8 commedie sono state infatti copiate da una copia del primo volume di P, quelle dalla 9 alla 20 direttamente dal secondo volume di P. C’è una linea tratteggiata che collega P perduto a B (1-8), con sopra scritto B alla terza (1-8). Ciò significa che il secondo correttore di B, ma il terzo a intervenire sul testo (per questo B alla terza), ha avuto modo di confrontare B (1-8) con P e quindi di correggerlo. Si parla in questi casi di contaminazione: su un manoscritto troviamo lezioni che ci collegano a un antigrafo, a un modello, e altre lezioni che ci collegano a un altro manoscritto; in questo caso specifico sul manoscritto B abbiamo la mano principale che copia da un perduto P BD e una terza mano che introduce le correzioni direttamente da P (mano di contaminazione, indicata da una linea tratteggiata). D, invece, legge le prime tre commedie da P BD, copia del primo volume di P, mentre legge le commedie dalla 9 alla 20 dalla copia del secondo volume di P. D, quindi, non ha mai visto P, ma solo le copie dei due suoi volumi. C, invece, ha visto solo la copia del secondo volume, per cui conosce solo le commedie dalla 9 alla 20. T fa riferimento a uno studioso umanista e filologo francese vissuto nel XVI secolo, Adrian Turnèbe, latinizzato Turnebus, il quale ci dice lui stesso che ebbe la possibilità di vedere aliquot membranae pervetustae, alcune membrane antichissime nel monastero irlandese di San Colomba di Sense. Portandosi dietro una copia di un’edizione a stampa delle commedie di Plauto, fa una collazione, cioè si annota sulla copia a stampa tutte le differenze che intercorrono tra quella e il manoscritto. Ad esempio, per le Bacchides, segna Novi Sed, con la s maiuscola, sposta non tibi dopo habeam, corregge la n minuscola di nunc con la maiuscola. Ancora, al 4° verso segna che la n di nugae è minuscola, che la m di mane è maiuscola, sposta Chrysalu dopo tua copia, corregge ecca con eccum. Non sappiamo quando questa collazione sia avvenuta: abbiamo come terminus post quem la pubblicazione dell’edizione a stampa posseduta dal Turnebus (1535) e come terminus ante quem la morte del Turnebus (1565). Per la presenza di una copia a stampa (T) non possiamo parlare propriamente di stemma codicum. Poco dopo, nel 1567 il monastero di Saint Colombe venne distrutto dai Calvinisti, che incendiarono la biblioteca: probabilmente in quell’occasione il manoscritto andò distrutto. Possediamo, però, la collazione autografa del Turnebus, di cui si sono perse le tracce fino alla fine dell’Ottocento, quando fu ritrovata nella Biblioteca Bodleiana di Oxford da Lindsday (editore di Plauto per Oxford). T nello stemma è dunque il testo a stampa con la collazione (oggi a Oxford), mentre P con A indica il perduto manoscritto da cui la collazione fu effettuata. Questo manoscritto aveva tutti gli errori di P, ma presentava anche alcune caratteristiche di A. Per la presenza di una copia a stampa (T) non possiamo parlare propriamente di stemma codicum; inoltre, T dovrebbe essere rappresentato molto più in basso rispetto agli altri manoscritti, trattandosi appunto di un testo a stampa necessariamente posteriore a essi. Il testo T appartiene al ramo P, perché contiene gli errori che abbiamo definitivo separativi: la lacuna della Rudens, la lezione lybico invece di liberi, e la forma adversum invece della negazione haud seguita da verbum. Esso risale però a un antigrafo che è anteriore a P, poiché non contiene alcuni errori di P (per esempio contiene la notazione del ragazzo cartaginese guggast homo, che manca in P), cioè elementi propri di A. Nel passaggio da A a P c’è stata dunque una perdita di materiale. Leggendo il testo di Gellio, abbiamo la ricostruzione della cosiddetta questione plautina. Le notizie di Gellio, attinte da un testo perduto di Varrone, confermano la nostra tradizione plautina, poiché le 21 commedie che abbiamo sono le stesse che Varrone ritenne assolutamente autentiche. Si tratta di un caso in cui la tradizione indiretta conferma la tradizione diretta.