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L'Italia giolittiana

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In seguito all’assassinio del re Umberto I, il figlio, suo successore, Vittorio Emanuele III chiamò al governo
Zanardelli, che affidò il ministero degli interni a Giovanni Giolitti (deputato piemontese, appartenente alla
Sinistra storica, già presidente del Consiglio dal 1892 al 1893).
Nel 1903 Giolitti divenne capo del governo al posto di Zanardelli, ricoprendo, poi, questo ruolo, quasi
ininterrottamente fino al 1914.
Il suo obiettivo principale era quello di portare la pacificazione e la modernizzazione all’interno del Paese,
cercando di allargare la base del consenso popolare (anche alla borghesia, proletariato, socialisti e cattolici),
utilizzando ogni mezzo, a discapito anche della coerenza ad una ideologia precisa. Fu infatti accusato di
trasformismo e clientelismo1.
Per ottenere il suo obiettivo occorreva risolvere tre importanti questioni:
1. La “questione sociale” relativa alle rivendicazioni socio-economiche del proletariato;
2. La “questione cattolica” relativa alla mancata integrazione dei cattolici italiani nella vita pubblica
delle istituzioni, in seguito al non expedit e al mancato riconoscimento da parte di Pio IX del Regno
d’Italia;
3. La “questione meridionale”.
L’Italia, negli ultimi decenni dell’800 visse una rapida crescita economica, grazie all’adozione del
protezionismo e del capitalismo di Stato (attuato attraverso commesse pubbliche, che favorivano i grandi
gruppi, ma non promuoveva la concorrenza, l’innovazione tecnologica e la ricerca di sbocchi sui mercati
internazionali), dando un forte impulso ad alcuni settori: chimico, metallurgico e meccanico.
Dopo la “Grande depressione”, a partire dal 1896, vi fu un’ultima ondata di sviluppo che si protrasse fino al
1907. Il Nord-Ovest del Paese, con il triangolo industriale, passò all’economia di fabbrica, grazie all’aiuto delle
banche che consentì la nascita di nuovi gruppi industriali, nonostante l’Italia rimanesse un Paese legato
prevalentemente all’agricoltura:
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Breda (1896) nella meccanica pesante;
Olivetti (1908) nella meccanica leggera;
Fiat (1899), Alfa Romeo (1910) nella produzione automobilistica;
Edison, nell’elettricità;
Pirelli, per la gomma e gli pneumatici;
Cirio, nel comparto alimentare;
Ansaldo, nella cantieristica;
Montecatini, nella produzione chimica.
Lo sviluppo industriale, da un alto, e l’arretratezza del Meridione, dall’altro, portarono forti tensioni sociali
che contrapponevano:
AL NORD
Grandi imprenditori VS la classe operaia.
AL SUD
I proprietari terrieri latifondisti VS braccianti.
1
Testo T14 p. 355 vol 2B: BENEDETTO CROCE vedeva il trasformismo come prassi necessaria per portare avanti il
liberalismo. Esso fu attuato inizialmente dai governi della Destra storica, ma poi anche da quelli della Sinistra storica,
per realizzare le riforme e trovare l’accordo con i moderati della Destra.
Testo T15 pp. 355-356 vol 2B: ANTONIO GRAMSCI considerava il trasformismo sia della Destra sia della Sinistra come il
mezzo per assorbire e annichilire l’opposizione e portare avanti l’egemonia intellettuale e politica dei moderati.
1
Il Sud, però, era ancora fortemente arretrato, la maggior
parte della popolazione rimaneva analfabeta oppure
decideva di emigrare.
Il movimento dei lavoratori, nell’ultimo decennio dell’800 accrebbe la sua importanza, grazie a:
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Istruzione elementare obbligatoria e gratuita (1877 Legge Coppino);
Allargamento del diritto di voto (legge elettorale voluta da Depretis nel 1882);
Aumento demografico.
Nascono così organizzazioni che rappresentano solidi riferimenti per i lavoratori:
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Nel 1891, dalle Camere del Lavoro (sciolte, in un primo momento, da Crispi nel 1894) nacquero le
prime forme di organizzazione sindacale;
Nel 1893 nacque dal Partito dei lavoratori italiani, il Partito Socialista italiano. Esso fondava le sue
radici teoriche nel pensiero di Antonio Labriola, amico di Engels, il quale portò il marxismo in Italia.
L’opera più importante per la fondazione del partito socialista, fu quella dell’intellettuale milanese
Filippo Turati e della sua compagna Anna Kuliscioff, giovane esule russa che aveva una profonda
conoscenza del socialismo europeo. Turati diede un’impronta riformista al partito: era necessario
trasformare la società in modo pacifico e graduale, fino ad ottenere la socializzazione dei mezzi di
produzione. Come in tutti i socialismi europei, si svilupparono presto due correnti: la linea riformista
e maggioritaria di Turati e la corrente massimalista rivoluzionaria che voleva l’abolizione dello Stato
liberale.
Nelle campagne si diffusero le leghe contadine, che si occuparono di garantire il minimo salariale,
assistere i lavoratori nei rinnovi contrattuali, fino anche ad organizzare forme di lotta.
L’anarchismo italiano: dopo la Prima Internazionale e la rottura fra Marx e Bakunin, anche in Italia si
diffuse l’anarchismo e moti anarchici interessarono l’Italia nel 1874 e nel 1877. Essi furono guidati da
Andrea Costa (nel 1874) e da Carlo Cafiero e Errico Malatesta (nel 1877). Con il fallimento di questi
moti, l’anarchismo subì una battuta d’arresto e Andrea Costa decise di abbandonare il metodo
terroristico e fondò nel 1881 il Partito socialista di Romagna, che gli permise di entrare in parlamento
nel 1882.
Giolitti, come già aveva sostenuto nel suo primo governo del 1892-1893, cercò di risolvere la “questione
sociale”, non immischiandosi nelle controversie fra lavoratori e padroni, seppur garantendo l’ordine pubblico
e assicurando maggiore libertà di azione ai lavoratori attraverso una legislazione assistenziale e
previdenziale, promossa in seguito alla forte ondata di scioperi fra il 1901 e il 1902:
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Nacque il Consiglio superiore per il lavoro (1902) che, attraverso la rappresentanza sindacale,
garantiva il controllo delle condizioni di vita dei lavoratori;
Norme a tutela del lavoro femminile, minorile e notturno, garantendo il riposo settimanale;
Una assicurazione obbligatoria per gli infortuni sul lavoro;
Le leggi per il Sud, che prevedevano sgravi fiscali per i ceti rurali;
L’istituzione di aziende municipalizzate e la nazionalizzazione del servizio telefonico.
Giolitti invitò anche i socialisti ad entrare nel governo, ma Turati rifiutò.
Dopo lo sciopero generale proclamato nel 1904, per protestare contro la repressione violenta di una
manifestazione di minatori in Sardegna, che provocò 3 morti, Giolitti si dimise, sciogliendo le due Camere.
Nel 1906, (dopo la breve parentesi del governo del giolittiano Fortis e poi del conservatore Sonnino),
l’atteggiamento pacifista e non interventista di Giolitti fu premiato, riuscendo, grazie all’appoggio dei
socialisti, a varare alcune importanti riforme:
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La nazionalizzazione delle ferrovie (1905)
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La conversione della rendita dei titoli pubblici cioè l’abbassamento degli interessi pagati dallo Stato
ai possessori di titoli pubblici, favorendo l’abbassamento del debito pubblico e il finanziamento della
nazionalizzazione delle ferrovie;
La nascita del monopolio statale delle assicurazioni sulla vita e la creazione dell’INA (Istituto nazionale
delle assicurazioni), i cui utili furono devoluti alla Cassa per la vecchiaia e l’invalidità dei lavoratori.
Con il ritorno di Giolitti al governo e la prevalenza della corrente riformista all’interno del Partito socialista,
nacque nel 1906 la CGL= Confederazione generale dei lavoratori, il maggior sindacato italiano.
Nonostante nuovi scioperi, la politica di conciliazione di Giolitti durò fino al 1912.
Altra questione di grande interesse per il governo Giolitti, fu la “questione cattolica”: Giolitti alle elezioni del
1904 cercò un’intesa con i cattolici, in cambio della sua rinuncia a posizioni laiciste e anticlericali: in
parlamento fecero così la loro prima comparsa i primi “cattolici deputati”, ovvero credenti che avevano
accettato di rappresentare individualmente, in parlamento, gli interessi della Chiesa.
In seguito all’istituzione della riforma elettorale, nel 1912 (vedi p. 4 di questi appunti), che introdusse il
suffragio universale maschile, Giolitti sfruttò i timori della Chiesa per un’avanzata della sinistra estrema,
riuscendo a stipulare il Patto Gentiloni (1913):
Gentiloni, presidente dell’Unione elettorale cattolica italiana, accettò di permettere agli elettori cattolici di
votare per i candidati liberali, in cambio della promessa che i deputati eletti non avrebbero votato iniziative
sgradite alla Chiesa (come l’abolizione dell’insegnamento della religione nelle scuole pubbliche, il divorzio…).
Lo sviluppo dell’industria, soprattutto al Nord, accrebbe ulteriormente il divario con il Sud, ancora dominato
da una agricoltura latifondistica. Giolitti cercò di intervenire per risolvere la “questione meridionale” e per
ampliare la sua base elettorale, intercettando i voti delle classi più basse del Sud, varando delle leggi speciali,
provvedimenti diversi, per specifici territori. Gli unici risultati significativi, però, furono:
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La creazione del polo siderurgico di Bagnoli, a Napoli;
La costruzione dell’acquedotto pugliese.
Questi provvedimenti furono largamente inefficaci sia sul piano economico, sia sul piano politico, poiché i
consensi a favore di Giolitti, continuarono ad essere legati ai ceti dominanti tradizionali e alle pratiche del
clientelismo e della corruzione. Giolitti, infatti, fu pesantemente accusato dallo storico democratico Gaetano
Salvemini di agire come un “ministro della malavita”.
LA POLITICA ESTERA DI GIOLITTI: LA GUERRA IN LIBIA
Dopo il fallimento della campagna d’Etiopia, i nazionalisti, uniti nel 1910 nell’Associazione nazionalista
italiana, chiesero una ripresa della politica coloniale:
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Per portare avanti una missione civilizzatrice verso i popoli asiatici e africani;
Sia per creare uno sbocco per i contadini emigranti, impedendo, così, il loro sfruttamento nei Paesi
meta dell’emigrazione.
Giolitti seguì i sentimenti imperialistici diffusi nell’opinione pubblica2, conviti che una politica coloniale
avrebbe accresciuto il prestigio dell’Italia e il profitto delle grandi aziende, grazie agli investimenti nelle nuove
2
Giovanni Pascoli pronunciò un discorso, “La grande proletaria si è mossa”, nel 1911, in onore dei morti e feriti italiani
in Libia. Pascoli in gioventù era vicino al socialismo, poi, come avvenne per molti altri intellettuali, simpatizzò per gli
ideali nazionalisti. In questa orazione, Pascoli elogia l’Italia e l’impresa libica, grazie alla quel la nazione proletaria, patria
di contadini ed emigranti, poteva mostrare al mondo la sua potenza e la sua forza civilizzatrice. Testo T5 pp.105-106
3
colonie. Giolitti trovò un’intesa con Inghilterra e Francia (senza il cui consenso era impensabile per l’Italia
condurre una politica coloniale in Africa) per annettere la Libia e nel settembre 1911 l’Italia dichiarò guerra
all’Impero Ottomano, sotto il cui dominio si trovava la Libia. Il conflitto durò poco più di un anno e si concluse
con la pace di Losanna nel 1912, che sancì la sovranità italiana sulla Libia e sulle isole turche di Rodi e del
Dodecaneso (che sarebbero rimaste all’Italia fino alla II guerra mondiale).
La vittoria però ebbe conseguenze non trascurabili:
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Costi finanziari molto alti, che andarono a pesare su un bilancio sempre in bilico;
L’interno della Libia, abitato da popolazioni berbere, resistette e non fu mai veramente conquistato;
Le risorse petrolifere del Paese rimasero ignote, tanto che Salvemini definì la Libia uno “scatolone di
sabbia”;
Il malcontento dei nazionalisti che, nonostante avessero caldeggiato la guerra, avrebbero voluto
colpire molto più duramente l’impero ottomano;
Sul piano internazionale, la guerra in Libia provocò nuove alleanze e l’indebolimento dell’Impero
Ottomano, creando ulteriori premesse per la Prima Guerra Mondiale.
DA GIOLITTI A SALANDRA
I governi Giolitti, come già detto, durarono, con alcuni intermezzi, fino al 1914. Nell’ultimo triennio del suo
governo, egli fece approvare un’importante riforma elettorale che prevedeva l’allargamento del suffragio
(1912): poterono andare alle urne tutti i cittadini maschi con più di 30 anni, indipendentemente dal censo e
dal livello di alfabetizzazione. Per la prima volta votò il 23% della popolazione, in particolare i contadini
meridionali, fino a quel momento esclusi dalla partecipazione politica.
Alle elezioni del 1913 trionfarono i liberali di Giolitti, soprattutto grazie al patto Gentiloni, con i cattolici, che
si aspettavano una politica di rispetto e collaborazione con la Chiesa. Nonostante l’ampia maggioranza di
Giolitti, essa non era compatta e non fu possibile varare nuove riforme.
Giolitti preferì perciò dimettersi e indicò a Vittorio Emanuele III il conservatore Antonio Salandra, come suo
successore. Giolitti pensava che il governo della Destra sarebbe durato poco e che sarebbe poi stato
richiamato per mediare, nuovamente, fra le istanze conservatrici e quelle riformiste. Non fu così, poiché il
contesto italiano e internazionale era profondamente cambiato:
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I partiti, diventarono veri e propri partiti di massa, in cui le idee si radicalizzarono sempre più negli
ideali di destra e di sinistra, rendendo perciò impossibile la creazione di una maggioranza di centro
moderato;
Le potenze europee erano sempre più impegnate nella conquista della supremazia continentale;
Il nazionalismo e l’autoritarismo erano sempre più diffusi e sostenuti anche da ampie parti
dell’opinione pubblica.
Il governo Salandra acquisì caratteri sempre più autoritari e antisocialisti, reprimendo con la forza gli scioperi
dei lavoratori, provocando morti, feriti e arresti di massa (“settimana rossa” 7-13 giugno 1914).
Non ci fu il tempo di rielaborare l’accaduto poiché, pochi giorni più tardi, scoppiò la Prima Guerra mondiale
e l’Italia era divisa, in uno scontro accanito, fra interventisti e non interventisti.
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IL BILANCIO DELL’ETÀ GIOLITTIANA
I maggiori successi della politica di Giolitti vanno ritrovati nella sua intuizione e volontà di pacificare la società
italiana, facendo sì che i nodi più complessi, che il neonato Regno d’Italia dovette affrontare, iniziassero a
sciogliersi:
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A lui si deve il merito di aver mediato fra gli interessi della borghesia industriale e imprenditoriale,
che voleva piena libertà economica e le rivendicazioni, anche rivoluzionarie dei lavoratori. Giolitti
riuscì a far accettare alla borghesia le rivendicazioni più moderate dei salariati, aprendo la strada alla
democrazia e al miglioramento economico e sociale3. Questa riappacificazione è vista da molta
storiografia come la risoluzione di quella separazione sorta in età rinascimentale, quando la
borghesia aveva stretto alleanze con i proprietari terrieri, a scapito del “proletariato”.
Giolitti ebbe il merito, attraverso il patto Gentiloni, di riportare i cattolici a partecipare attivamente
alla vita politica italiana.
Il maggiore fallimento di Giolitti va, invece, trovato nella mancata risoluzione della “questione meridionale”
a causa di errori in campo economico e nelle prassi politiche al limite della legalità:
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La politica di Giolitti si fondava su rapporti personali e non sull’adesione a programmi e ideali politici,
ciò favorì una politica clientelare e quindi la concessione di favori ai deputati e ai notabili locali.
A differenza dell’atteggiamento neutrale che Giolitti teneva nei confronti delle rivendicazioni dei
lavoratori del Nord, al Sud le proteste dei braccianti vennero represse con la forza, anche per i
suddetti legami clientelari con le oligarchie meridionali.
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Palmiro Togliatti, fondatore e segretario del Partito Comunista Italiano dal 1921, anno della fondazione, al 1964, anno
della sua morte, si espresse in modo positivo rispetto alla politica e alle intuizioni di Giolitti. Nel testo T12 pp.113-114
vol 3A, Togliatti afferma che Giolitti ebbe il merito di dialogare con il partito dei lavoratori, seppure tale partito portasse
avanti rivendicazioni contrarie alla Costituzione, essendo rivoluzionario e antimonarchico. L’intento mediatore di
Giolitti, non era sicuramente rivolto al rafforzamento del partito socialista, anzi, il suo fu sicuramente un tentativo di
indebolirne la portata innovatrice e rivoluzionaria. Tuttavia, Giolitti rifiutò il conservatorismo paternalista di Crispi e
optò per un programma riformista che teneva presenti le richieste dei contadini e degli operai. Dal moderato Giolitti,
proveniente dalla vecchia classe dirigente borghese e conservatrice, non era possibile aspettarsi un rovesciamento della
società e dei rapporti fra le classi sociali, ma a lui si deve il tentativo di dare vita ad un ordine politico democratico e al
rinnovamento economico e sociale dell’Italia.
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