IL DECOLLO INDUSTRIALE DELL'ITALIA Negli ultimi decenni dell'Ottocento e nel primo decennio del Novecento, l'Italia, da Paese quasi esclusivamente agricolo, diventò un Paese agricolo - industriale. Infatti, in questo periodo, si sviluppò l'industria siderurgica, meccanica e chimica e si formò la prima regione industriale del nostro Paese, il cosiddetto "triangolo industriale", formato dalle città di Torino, Milano e Genova. Un reparto montaggio vetture alla FIAT di Torino, in corso Dante, nel 1905. L'economia italiana subì una profonda trasformazione: accanto all'agricoltura si sviluppò e assunse un'importanza crescente l'industria, tanto che il numero degli operai, pur rimanendo inferiore a quello dei contadini, crebbe considerevolmente. Considerando il periodo compreso fra il 1896 e il 1913, durante il quale lo sviluppo economico fu particolarmente intenso, il reddito nazionale annuo crebbe del 50% e il reddito individuale medio del 30%. Non bisogna però dimenticare che l'aumento dei guadagni non si distribuì in eguale misura fra tutta la popolazione: le classi più povere, infatti, furono escluse dai benefici del progresso conseguito dalla nazione. Dalle valli alpine cominciò un massiccio movimento migratorio verso le città. Il progressivo esaurimento delle risorse, i continui frazionamenti per via ereditaria delle già scarse suddivisioni territoriali, l'inserimento di vincoli pubblici a salvaguardia di boschi e pascoli demaniali contribuirono a indebolire le comunità più povere delle vallate alpine e a spingerle verso la pianura. La conseguente crescita demografica e territoriale delle città, determinò un ampliamento del mercato per la maggior domanda di beni e servizi e contribuì alla nascita di infrastrutture e altri innumerevoli servizi. L'ingrandimento dei centri urbani elevò il livello di istruzione con la creazione di strutture di ricerca e di informazione. L'emigrazione inoltre ampliò l'area dei mercati di consumo e quella del settore terziario così come la grande manodopera per le varie attività produttive. 1 La diffusione di concimi chimici e l'adozione su più vasta scala di macchine agricole come trebbiatrici, falciatrici e mietitrici dettero un notevole impulso allo sviluppo dell' agricoltura. Furono però influenzate dalla crescita solo le aziende agricole del nord soprattutto quelle che, su modello nordeuropeo, si fondavano sull'associazione tra cerealicoltura e allevamento. Il buon andamento della produzione agricola fece crescere la domanda di nuovi mezzi tecnici e la disponibilità media di generi alimentari. Allo stesso tempo, grazie al patrimonio animale, si impennarono le esportazioni di latticini, formaggi e prodotti suini. La diffusione dell'elettricità' permise un'ubicazione più razionale delle industrie che in passato si era costretti a installare in zone montagnose ricche di energia naturale (acqua, vento) che faceva risparmiare sul carbone ma distanti dai centri urbani e dalle principali sedi commerciali. L'elettricità inoltre copriva le nuove esigenze operative imposte dal funzionamento di macchinari sempre più complessi. Infatti le moderne industrie tessili per il 56% utilizzavano motori elettrici mentre quelle meccaniche e chimiche quasi per il 70%. Nel 1914 erano stati costruiti 350 km di ferrovie. Alla vigilia della Prima Guerra Mondiale l'Italia occupava il quarto posto nel mondo per potenza fornita dall'energia idroelettrica, assorbiti per il 60% solo dalle regioni settentrionali. L' industria della seta si vide sorpassata dall'industria cotoniera. L'industria meccanica, visto il suo alto valore aggiunto e le ricadute positive su altri settori, assunse il ruolo di conduttore dello sviluppo. I cantieri navali si svilupparono enormemente tanto che le navi italiane cominciarono ad essere ordinate e acquistate da diversi Paesi. Registravano successi anche le industrie di macchine utensili e operative (Olivetti per le macchine da scrivere), di materiali e apparecchi elettrici (AEG e Siemens) e telefonici. La maggior industria della meccanica italiana era comunque l'industria automobilistica. La costruzione di vetture era nata dall'avventura di intraprendenti carrozzieri di lusso che avevano trasformato la loro manifattura in produzione standardizzata: FIAT, Itala, Isotta-Fraschini, Lancia. Nel 1910 nacque a Milano l'Alfa. Nel 1911 l'Italia vendeva all' estero ben 3.000 vetture mentre ogni anno si immatricolavano in Italia 16.000 vetture. Ebbero largo sviluppo, negli anni prima della guerra, anche l'industria chimica, quella della gomma (Pirelli) e del cemento. 2 L' atto di costituzione societaria della FIAT Il triangolo industriale Nel Nord il tasso medio di crescita della produttività in agricoltura era triplo rispetto a quello del Sud e nel Nord si concentrava dal 68% al 72% degli stabilimenti industriali. Il tasso di analfabetismo nelle regioni settentrionali era del 15% contro il 59% del Mezzogiorno. La linea ferroviaria del Gottardo collegava il Nord Italia con la Svizzera e la Germania, quella del Moncenisio con la Francia, quella del Brennero con l' Austria. Si creò un sistema economico articolato attorno a Milano, Torino, Genova. Il triangolo industriale, era ben collegato anche ai principali mercati europei per via di terra e per via marittima. Nel triangolo Milano era il polo industriale, Torino era sede dell'industria automobilistica e Genova era il primo porto d'Italia. 3 Giolitti: l’età giolittiana Il primo quindicennio del XIX secolo vide prevalere la figura di Giovanni Giolitti, quasi ininterrottamente al governo dal 1903 al 1914. L’originalità del suo pensiero si capì subito quando, non ancora ministro degli interni, in un discorso al parlamento disse che era sbagliato lodare la frugalità dei contadini, in quanto chi non consuma non produce. Mantenendo bassi i salari, continuava Giolitti, si commetteva un’ingiustizia, un errore economico ed un errore politico: un’ingiustizia perché lo stato non dava a tutti i cittadini le stesse opportunità; un errore economico perché chi non ha soldi da spendere non può certo produrre ricchezze; un errore politico perché si mettevano contro lo stato le classi che ne costituiscono la maggioranza. Per alzare i salari bisognava dunque non contrastare gli scioperi dei lavoratori: e questa fu infatti la sua politica, pur con qualche sanguinose eccezioni. L’altro mezzo con il quale Giolitti tentò di accelerare lo sviluppo economico furono le nuove leggi e riforme, sulle pensioni, sulla tutela del lavoro minorile e femminile. Istituì un commissariato per l’emigrazione, il Consiglio Nazionale del Lavoro; varò inoltre la legge sulla municipalizzazione dei servizi pubblici, onde rendere più agili questi ultimi. Ciò che indubbiamente favorì lo statista fu il suo organizzatissimo sistema burocratico, anche perché, senza di esso, il suo programma riformatore avrebbe sicuramente incontrato resistenze. Ovviamente Giolitti trovò oppositori sia a destra che a sinistra: non passò infatti in parlamento il progetto del ministro delle finanze Wollenborg, che prevedeva un aumento delle imposte dirette (che colpivano i ceti dirigenti) e una diminuzione delle imposte indirette (che colpivano invece la popolazione), dimostrando così gli industriali italiani di non essere in grado di assumersi la responsabilità dello sviluppo economico; ma contemporaneamente il leader dei socialisti Filippo Turati rifiutò un posto nel governo Giolitti, temendo ripercussioni dal suo partito. La mancanza di alleanze formali fece si che Giolitti potesse attuare quella politica di favori, clientelismi, di trasformismo insomma più capillare e nocivo di quello di De Pretis. Ancora più spregiudicata fu la sua posizione nelle elezioni del 1904, che furono pilotate tramite una pressione operata sull’elettorato. Alla luce di questi fatti Giolitti fu definito da Gaetano Salvemini “Il ministro della malavita”. Dopo un breve periodo di pausa, nel 1906 Giolitti torna al governo, durante un periodo di prosperità economica che aveva portato la lira a “fare aggio sull’oro”, cioè a valere più dello stesso equivalente in oro, e nel quale i tassi di interesse erano scesi dal 5 al 3,5 per cento. Ma già l’anno dopo le carenze di base dell’economia italiana, dovute sia a scarsità di materie prime sia a mancanza di capitali, si resero evidenti. La nuova crisi economica fece aumentare la resistenza alle sue riforme sia a destra che a sinistra. Nacquero la C.G.L. (confederazione generale del lavoro) e la confederazione italiana dell’industria. Dopo le nuove elezioni del 1909, che videro il rafforzamento soprattutto dei 4 socialisti, Giolitti capì che non era il momento per tentare altre riforme e il governo andò in mano a Luigi Luzzatti. Il suo piano prevedeva il monopolio delle assicurazioni sulla vita, l’ampliamento dell’istruzione pubblica e soprattutto l’introduzione del suffragio universale maschile, nella speranza di avere l’appoggio dei socialisti. Tornava intanto ad affacciarsi la questione coloniale e in particolare l’occupazione della Libia. Per fare questo però, bisognava tornare ad avere dei rapporti con la Francia. Ed infatti, con gli accordi tra Prinetti e Barrère in cambio del riconoscimento degli interessi francesi in Marocco l’Italia aveva campo libero in Libia. Fu questo il giro di valzer cui si riferiva il cancelliere tedesco Bulow, a cui l’Italia era legata dalla triplice alleanza. La guerra di Libia aveva tra i socialisti i maggiori oppositori: essi sostenevano infatti che non ne valeva la pena (“Uno scatolone di sabbia” la definì Salvemini) e che non avrebbe dato neanche terra coltivabile ai contadini meridionali. Chi la sosteneva erano invece i settori nazionalisti , capeggiati da Gabriele D’Annunzio. Nel frattempo all’interno del partito socialista prevalse la corrente intransigente e rivoluzionaria, guidata dal giornalista Benito Mussolini e l’ala riformista riformista, espulsa, creò il Partito socialista riformista al quale non aderì Turati. Intanto la guerra di Libia continuava e gli italiani, se pure formalmente avevano dichiarato la loro sovranità, si trovarono costretti a combattere con le agguerrite popolazioni locali. Per giungere ad una conclusione, l’Italia si decisa ad attaccare l’impero Ottomano direttamente: fu occupata Rodi e le isole del Dodecaneso e l’ammiraglio Millo arrivò persino a forzare i Dardanelli. La Turchia fu così costretta a firmare la pace di Losanna, con la quale riconosceva la supremazia italiana in Libia. La guerra fu più lunga e cruenta del previsto, dando ragione ai timori dei socialisti, e per riannodare i rapporti Giolitti fece approvare la legge sul suffragio universale maschile: votavano gli uomini con più di 21 anni (30 se analfabeti). Ma in quelle elezioni la novità fu la partecipazione dei cattolici a sostegno dei liberali, grazie al Patto Gentiloni: esso prevedeva appunto il voto dei cattolici in cambio dell’ostruzionismo su alcune leggi contrarie agli interessi cattolici (divorzio, laicità dell’insegnamento). Dopo le elezioni del 1913, il parlamento si ritrovò troppo frammentato e Giolitti preferì dare le dimissioni; al suo posto salì Antonio Salandra, che si dimostrò subito autoritario e di indirizzo conservatore, reprimendo violentemente i moti della settimana rossa del giugno 1914. 5