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PIGLIUCCI libro

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Michele Pigliucci
LE ZONE ECONOMICHE SPECIALI
NEL MEZZOGIORNO D’ITALIA
Edizioni Nuova Cultura
Copyright © 2019 Edizioni Nuova Cultura - Roma
ISBN: 9788833652870
DOI: 10.4458/2580
Copertina: Marco Pigliapoco
Composizione grafica: a cura dell’Autore
È vietata la riproduzione non autorizzata, anche parziale,
realizzata con qualsiasi mezzo, compresa la fotocopia,
anche ad uso interno o didattico.
Indice
Prefazione ................................................................................................................ 11
Capitolo 1 - Le Zone Economiche Speciali .......................................................... 15
1.1. Alcuni elementi dalla letteratura .................................................................. 15
1.2. Uno sguardo all’Unione europea: l’esperienza delle ZES e le lagging regions .............................................................................................................. 21
Capitolo 2 - Il progetto di ZES per il Mezzogiorno d’Italia .............................. 27
2.1. Le ZES come strumento di sviluppo del Mezzogiorno d’Italia. ............... 27
2.2. Il sistema portuale driver di rilancio dell’economia del Mezzogiorno ....................................................................................................................... 37
Capitolo 3 - La capacity building e i progetti di sviluppo dei territori .............. 43
3.1. La metodologia usata ...................................................................................... 43
3.1.1. La ZES Campana ..................................................................................... 47
3.1.2. La ZES Calabrese ..................................................................................... 54
3.1.3. La ZES Ionica .......................................................................................... 60
3.1.4. La ZES Adriatica ..................................................................................... 68
3.1.5. La ZES Sarda ........................................................................................... 72
3.1.6. La ZES Abruzzese ................................................................................... 78
3.1.7. Le ZES Siciliane ...................................................................................... 82
Capitolo 4 - La Questione meridionale: un problema geopolitico .................. 91
4.1. Diversi approcci alle politiche di sviluppo .................................................. 91
4.2. Un divario ancora grave ................................................................................. 97
Capitolo 5 - Conclusioni e policy recommendation ............................................. 117
5.1. Raccomandazione n.1: Garantire coerenza alle politiche di sviluppo regionale..................................................................................................... 119
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Indice
5.2. Raccomandazione n. 2: Superare la competizione tra le Regioni .......... 120
5.3. Raccomandazione n. 3: Pianificare una strategia multilivello per
il superamento definitivo del divario tra Sud e Centro-Nord....................... 122
Bibliografia ............................................................................................................. 125
A mio nonno
La Patria non è un territorio; il territorio non ne è che la base. La Patria è l'idea che
sorge su quello; è il pensiero d'amore, il senso di comunione che stringe in uno tutti i
figli di quel territorio.
Giuseppe Mazzini, Dei doveri dell’uomo
Prefazione
È importante parlare di soluzioni per il Mezzogiorno d’Italia in termini scientifici e utilizzando strumenti avanzati nell’ambito dell’ampio dibattito che si
va sviluppando per il post 2020. Lo è ancora di più se questo aiuta a riaffermare un campo di studi, quello della geografia economica politica, più che mai
centrale nella cultura europea.
Lo stato del Mezzogiorno d’Italia non è oggi molto diverso da quello di altri paesi della periferia dell’Unione, per cui ben fa Michele Pigliucci a considerare l’attuale crisi dell’Europa l’incipit per discutere, attraverso un’attenta
analisi critica, una possibile soluzione politica rappresentata dalle Zone Economiche Speciali (ZES), superando i limiti dell’iniziale approccio all'economia, alla politica e al mercato che ne ha distinto l’iniziale concezione.
Indipendentemente dagli andamenti finanziari, l’Autore fonda il suo ragionamento su competitività e occupazione misurando la fiducia che il territorio formato dalle regioni meridionali sa esprimere nel quadro della coesione.
Superando l’impostazione neo-keynesiana delle macro-politiche che avrebbero dovuto indurre alla convergenza, l’evidenza territoriale degli effetti prodotti, dal 2008 ad oggi viene misurata e amplificata dalla scarsa capacità istituzionale regionale nel cogliere le occasioni di sviluppo offerte dalla programmazione Ue, trovando più di una spiegazione da parte del Pigliucci sia
nella storia del pensiero geografico sul Mezzogiorno, sia ricorrendo a più recenti contributi nazionali ed internazionali.
Questo approccio si rivela strategico per dare al lavoro una struttura in linea con una visione non settoriale della crescita economica, e si fa volano di
generatori interventi a sostegno dell’occupazione, del turismo e beni culturali,
delle reti d’impresa e dei cluster tecnologici, dell’agricoltura, dell’energia, della protezione ambientale, attraverso le ZES, il cui ruolo nella programmazione 2014-2020 è chiaro: sostenere il reintegro del Mezzogiorno nel ‘sistema
12
Le Zone Economiche Speciali nel Mezzogiorno d’Italia
Paese’ e in quello mediterraneo europeo attraverso un forte ricorso alla Politica di Coesione e ai relativi fondi.
Il non aver portato a compimento questa strategia si è rivelata scarsamente
efficace per l’economia e l’integrazione del Mezzogiorno sul medio periodo,
aumentando gli effetti distorsivi delle politiche governative di breve (Legge di
stabilità, DEF, Piani strategici di settore, misure di aggiustamento, investimenti, ecc.) rispetto all’obiettivo di convergere verso l’integrazione.
È il motivo principale per cui l’Autore sottolinea che il Mezzogiorno (se
inteso come macroregione del Sud Italia e delle Isole) è caratterizzata da diversità geografiche che coprono differenti tipologie: aree centrali e periferiche,
interne e costiere, isole, aree urbanizzate e rurali, densamente e scarsamente
popolate, di pianura e di montagna; ma anche che molte sfide sono legate al
comportamento della popolazione – soprattutto di quella migrante residente di
prima generazione –, al rischio energetico, al cambiamento climatico,
all’efficienza delle strutture materiali ed immateriali.
Il tutto si relaziona, al momento e rispetto al DEF e alle azioni
dell’Agenzia per la Coesione, con i contenuti dei Piani Operativi nazionali
(PON) e regionali (POR) 2020, le cui previsioni di intervento hanno bisogno
della forte diversificazione offerta dalle ZES.
Ispirato dalla possibilità che il Mezzogiorno ricorra a strategie integrate
comuni multisettoriali tendenti alla realizzazione di un’economia green e
blue, la ricerca ribadisce – attraverso sintetiche analisi quali-quantitative –
l’importanza della geografia regionale, in cui politiche integrate generali e di
settore (occupazione, energia, agricoltura, trasporti terra-mare, ecc.) siano legati agli specifici contesti territoriali (aree costiere ed interne, città grandi e
piccole) per rilanciare crescita e occupazione attraverso investimenti integrati,
per offrire una concreta prospettiva di efficientamento e consolidamento delle
pratiche istituzionali ad una rinnovata politica pubblica.
Tema, quest’ultimo, che le ZES hanno l’obiettivo di sostenere attraendo
investitori, esteri ma non solo, interessati ad operare in un ambito territoriale
nel quale possano fruire di incentivi e stabilità per la realizzazione di processi
di crescita.
Si tratta in sostanza di valutare, come fa l’Autore, se le zone franche – di
seconda generazione nel caso del Mezzogiorno – poste all’interno di specifici
territori e utilizzando comparti selezionati, possano, per un certo periodo, determinare processi semplificati e flessibili necessari per ‘fare impresa’.
Prefazione
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Il fatto che questo strumento già esista a livello mondiale (soprattutto in
Cina e Russia, come sottolinea il Pigliucci) e in Europa se ne contino più di
70 (14 solo in Polonia), non significa che la loro istituzione sia particolarmente semplice né tantomeno scontata in Italia e nel Mezzogiorno, dove la normativa nazionale e il dialogo Stato-Regioni sono inadeguati per disciplinare in
maniera puntuale le procedure, le condizioni e le modalità di costituzione della zona stessa nonché la tipologia delle attività ammesse ed escluse.
C’è poi un problema di delimitazione territoriale, ci ricorda l’Autore, senza
la quale il perimetro di operatività della ZES e la governance nei rapporti con
i detentori delle aree coinvolte risulta impossibile.
C’è un ulteriore tema, che meriterebbe un approfondimento di politica industriale: a fronte dei benefici concessi, che possono essere parametrati ai fatturati aziendali, le imprese stesse hanno l’obbligo di mantenere nella ZES la
propria attività per un determinato periodo, nonché quello di assumere la
quasi totalità del proprio personale tra i residenti nell’ambito regionale o nei
comuni immediatamente limitrofi.
Il costante richiamo al capitale umano fatto dal Pigliucci non è dunque casuale, come pure la scarsa capacità delle regioni meridionali nella creazione di
partnership pubblico/privato, nella scelta dei requisiti di ammissioni delle imprese, nella definizione delle modalità di concessione o vendita delle aree ricomprese nella ZES, nella progettazione e la costruzione delle infrastrutture e
delle opere pubbliche necessarie per lo sviluppo della ZES, ecc.
Michele Pigliucci rilancia così – e come solo i giovani ricercatori sanno fare – una “Questione meridionale” mai conclusa, per cui lo strumento legislativo potrà essere effettivamente efficace solo nel caso in cui lo stesso preveda –
al di là degli esoneri e delle agevolazioni fiscali – un sistema socio-operativo
maggiormente favorevole rispetto a quello ordinario rappresentato da procedure amministrative rapide e certe.
Lo fa con particolare riferimento ai piccoli comuni a rischio spopolamento e
alle periferie metropolitane considerando la ZES un modo particolarmente
adatto per interpretare il futuro della coesione in Italia.
E se una lezione se ne può trarre è che la crescita di zone in declino (non
necessariamente interne e spopolate), ma comunque enclave che producono
principalmente beni da esportare come il Mezzogiorno, rappresentano ancora
occasioni per orientare il mercato, aumentare la produttività del lavoro, generare effetti di linkage e aumentare il benessere e, a lungo andare, lo sviluppo,
14
Le Zone Economiche Speciali nel Mezzogiorno d’Italia
purché non si trasformino in forme di protezionismo e ostacolo all’afflusso di
capitali territorializzati, compensando con i vantaggi degli investitori gli
svantaggi interni.
Maria Prezioso1
Professore Ordinario di Geografia economica e politica, Dipartimento di Management e Diritto, Università degli studi di Roma “Tor Vergata”.
1
Capitolo 1
Le Zone Economiche Speciali
1.1. Alcuni elementi dalla letteratura.
Le Zone Economiche Speciali (ZES) sono una fattispecie geograficoeconomica e politica nata con l’obiettivo di favorire lo sviluppo socioeconomico di territori caratterizzati da storiche deficienze infrastrutturali, complessità burocratiche e procedurali o disincentivi
all’investimento di altra natura, causati da specifiche situazioni (Aggarwal, 2006a) in grado di rappresentare ostacoli strutturali agli investimenti privati, accrescendo i costi e rendendo più difficoltoso e incerto il recupero dei capitali.
Le ZES fanno riferimento all’istituzione di enclave territoriali sulle
quali vengono concessi particolari vantaggi di ordine fiscale, burocratico, amministrativo o procedurale che permettano al territorio di costruire un’attrattività territoriale ai fini dell’investimento in specifici
settori produttivi, fondando la crescita sulla competitività, sull’export e
sulla specializzazione. Obiettivo è l’attrazione di investimenti diretti
esteri su un territorio in crisi, in grado di aumentarne l’occupazione e
far crescere il valore aggiunto delle imprese ivi localizzate, attrarne di
nuove e generare sviluppo socioeconomico.
In questo senso, la ZES è una modalità rapida e meno dispendiosa
di intervento da parte dello Stato per permettere un’accelerazione
dell’industrializzazione dei territori creando un ambiente favorevole in
grado di attrarre investimenti.
La letteratura geografica internazionale indaga da anni la formula
dell’istituzione delle ZES come strumenti di sviluppo regionale per i
16
Capitolo 1
territori in ritardo socioeconomico (Jensen, 2018). Dal secolo scorso a
oggi numerose Zone sono state istituite, con risultati di diverso segno
(Aggarwal, 2006b), nei territori il cui sviluppo tardava a pareggiare
quello delle zone contermini più avanzate: si calcola che nel 2015 fossero ben 4.300 le aree soggette a regime fiscale speciale, distribuite in
oltre 130 paesi in tutto il mondo, un numero cresciuto otto volte e
mezzo in soli venti anni (Vats et al., 2018).
La letteratura fornisce anche un’analisi delle differenti tipologie di
ZES finora conosciute (Ibidem, p. 3), specificando innanzitutto il tipo di
agevolazione concessa:
- Incentivi: lo Stato offre benefici diretti alle imprese che operano
nella Zona come riduzione delle tasse, sussidi economici, vantaggi negli investimenti;
- Regolamentazione: lo Stato offre facilitazioni regolamentative
alle imprese che operano nella ZES, al fine di creare un ambiente favorevole all’investimento;
- Operatività: lo Stato fornisce infrastrutture e servizi per le operazioni industriali e commerciali al fine di attrarre industrie specializzate e fornire servizi di alta qualità.
Su questa base, Vats individua quattro categorie esistenti di ZES
(Vats, 2018, pp. 5-8):
- Zona Speciale Manifatturiera: si tratta del primo modello di ZES
sperimentato, che oggi trova fortuna solamente in territori a scarsa industrializzazione.
- Zona Speciale di Servizi: sono le Zone specializzate nella fornitura di servizi di alta qualità, che permettono al territorio di proporsi
come snodo competitivo nella logistica.
- Zona Speciale Settoriale: rappresentano l’evoluzione dei due
modelli precedenti. Si tratta di Zone orientate allo sviluppo complementare del settore industriale e dei servizi, laddove l’uno fa da traino
all’altro in un meccanismo di vantaggio reciproco. Si tratta principalmente di un modello sviluppato nelle realtà già industrializzate, che
intendono specializzarsi in settori altamente tecnologici.
- Zona Transnazionale o Extraterritoriale: questo tipo di realtà si
sta diffondendo negli ultimi anni e rappresenta una fattispecie dalle
importanti potenzialità e dai forti risvolti di carattere geopolitico.
Le Zone Economiche Speciali nel Mezzogiorno d’Italia
17
L’istituzione di otto Zone Economiche da parte della Cina in sei Paesi
africani (Algeria, Egitto, Nigeria, Zambia, Etiopia e isole Maurizio), ad
esempio, sta giocando un ruolo fondamentale nella strategia globale di
Pechino (Fei, 2017).
Sosnovskikh (2017, p. 179) differenzia ulteriormente le fattispecie
sulla base della specializzazione vocazionale, individuando le seguenti
categorie:
- Zone di Libero Commercio: aree geograficamente definite sulle
quali vigono particolari regimi doganali per le operazioni commerciali;
- Zone Industriali di Trasformazione ed Esportazione: generali o
specializzate, offrono vantaggi alle industrie orientate all’export;
- Zone Industriali ibride: di solito divise in zone per industrie
orientate all’export e zone per tutte le altre attività secondarie;
- Zone Economiche Speciali: di solito ampi territori che ospitano
attività di diversa natura, comprese le attività turistiche, e commerciali,
prevedendo una quota di popolazione residente all’interno della Zona;
- Zone a singola produzione: vantaggi a singole imprese, anche a
prescindere dalla localizzazione;
- Zone Economiche Speciali estese: comprendono spesso intere
città, sulle quali vigono agevolazioni di diversa natura;
- Parchi Industriali: territori a vocazione industriale, nei quali sono offerti incentivi e benefici;
- Aree libere: Specifiche strutture o aree dove i beni possono essere immagazzinati e lavorati senza il pagamento dei tradizionali dazi
- Zone ad alta tecnologia: dove sono incentivate le attività di Ricerca e Sviluppo e le imprese ad alto valore tecnologico;
- Zone o Parchi eco-industriali: aree orientate allo sviluppo sostenibile, alla riduzione dei rifiuti e all’aumento dell’attenzione delle
aziende verso l’ambiente, da coniugare all’efficienza.
Altri studi hanno indagato le diverse modalità di istituzione delle
ZES attuate e i conseguenti risultati in termini di capacità di generare
una crescita economica stabile e di attrarre investimenti in grado di
impiantarsi oltre il periodo di vantaggio fiscale, garantendo una transizione duratura.
Le principali esperienze mostrano come attraverso l’istituzione delle ZES si sia spesso potuta garantire una crescita socioeconomica a ter-
18
Capitolo 1
ritori in ritardo di sviluppo, attraverso l’attrazione di investimenti in
grado di generare vantaggi derivanti dall’economia di mercato a territori marginali fino ad allora soggetti a economia assistenziale, grazie a
sostanziosi investimenti infrastrutturali (da parte dello Stato) accompagnati a particolari forme di vantaggio fiscale in grado di rafforzare
lo sviluppo economico derivato dagli investimenti (Litwack, Qian,
1998).
L’istituzione ponderata della ZES nel contesto di strategie complessive su territori in ritardo di sviluppo (inner periphery) ha spesso saputo
generare risultati importanti in termini di competitività delle imprese,
aumento dell’occupazione, capacità di export della manodopera locale
e sviluppo degli investimenti esteri, non soltanto legati all’impianto di
attività produttive nella Zona interessata (Wang, 2013; Pan, Ngo,
2016), contribuendo soprattutto a creare l’immagine di un territorio business friendly, elemento che funge da forte incentivo psicologico per
l’investimento (Liptáka F., Klasováb S., Ková V., 2015). In Cina le ZES
hanno prodotto un aumento degli investimenti diretti e una conseguente crescita dell’economia regionale pari al 12% per anno (Simon et
al., 2013); in Russia, sono state istituite nel 2005 con un carattere principalmente industriale (Sosnovskikh, 2017), e nella sola regione del Tatarstan (sulla quale insistono due Zone) sono state in grado di attrarre
oltre 3.000 miliardi di dollari di investimenti esteri, portando un tasso
medio di crescita del PIL pro capite 5 volte superiore al tasso nazionale
(Sinenko, Mayburov, 2017).
L’esperienza ha reso evidente come l’istituzione delle ZES non sia
foriera automaticamente di uno sviluppo economico stabile, ma abbia
necessità di significativi investimenti infrastrutturali accompagnati alla
garanzia di durata del vantaggio fiscale concesso alle imprese per un
tempo sufficiente a invertire stabilmente la tendenza economica, portando benefici in grado di generare conseguenze positive per i territori
contermini e di introdurre una percezione positiva negli abitanti dei
territori interessati, grazie alle maggiori entrate fiscali (conseguenza
della crescita degli investimenti, anche a fronte di una minore tassazione), superando così le resistenze dovute alla cessazione dei meccanismi assistenziali (una costante nei territori in ritardo di sviluppo) e
innescando un complessivo ottimismo circa lo sviluppo del territorio:
Le Zone Economiche Speciali nel Mezzogiorno d’Italia
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di contro, quando non accompagnata da adeguati investimenti per lo
sviluppo duraturo della competitività della regione (soprattutto legati
all’adeguamento infrastrutturale), che dotino l’economia in ritardo di
strumenti in grado di sopravvivere autonomamente al periodo assistenziale (Ambroziak, Hartwell, 2018), l’istituzione di ZES rischia di
avere persino effetti negativi sull’equilibrio regionale.
Alcune ZES non hanno prodotto i risultati attesi a causa di scarso
impegno da parte degli Stati, di legislazioni frammentarie e inadeguate, o di una superficiale selezione dei territori da interessare, o ancora
di scarsi incentivi o regolamentazioni confuse (Aggarwal, 2006a):
l’impegno da parte delle amministrazioni pubbliche nell’intercettare
gli effettivi bisogni degli investitori potenziali, nel pianificare efficienti
meccanismi di vantaggio, duraturi per il tempo necessario al recupero
dell’investimento, e nell’interessare territori ad alto potenziale di sviluppo facendo leva sulle effettive risorse territoriali è difatti un elemento essenziale per il raggiungimento dei risultati attesi. In mancanza di un serio investimento di partenza nell’adeguamento infrastrutturale e nella funzionalità generale del territorio, alcune ZES in Russia
non sono state capaci di attrarre investitori. In alcuni casi, il comitato
di gestione della ZES ha concordato i progetti con i potenziali investitori, sottomettendo tuttavia gli interventi a un investimento iniziale e
alla garanzia di futuro interesse da parte dei privati (Sosnovskikh,
2017). L’esperienza cinese ha mostrato come le ZES portino con sé, in
alcuni casi, il rischio di peggioramento delle condizioni socioeconomiche generali del territorio (Mendoza, 2016), peggiorando lo squilibrio
territoriale (Sharma, 2009) a varie scale e danneggiando l’economia locale attraverso l’ingresso agevolato di beni dall’estero, sfavorendo così
le industrie del territorio esterno alla Zona (Shankar, 2007)2.
Nel caso delle ZES asiatiche, gravi conseguenze socioeconomiche sono spesso derivate dall’espropriazione forzosa agli agricoltori delle terre da destinare a ZES, fenomeno che ha portato alcuni studiosi a postulare l’ipotesi che le ZES distruggano più
posti di lavori di quanti ne creino (Sharma, 2009; Bedi, 2013).
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20
Capitolo 1
Figura 1.1. Meccanismo di impatto delle ZES.
FONTE: Ambroziak, Hartwell, 2018, p.1323.
L’istituzione della ZES non è dunque una soluzione automaticamente e immediatamente in grado di generare sviluppo regionale, ma
piuttosto un’opportunità da valutare e gestire attraverso analisi complesse, affrontando le criticità e intervenendo nella direzione di una
pianificazione integrata dello sviluppo, che veda nella misura un tassello organico di una strategia complessa di recupero di uno svantaggio di partenza, che permetta di costruire una prospettiva duratura oltre il termine della misura incentivante. A tal riguardo, risulta necessario anche considerare gli elementi di criticità riguardo le conseguenze
negative della misura, come il rischio di una dispersione di fondi pubblici per attività industriali e, in generale, produttive pronte a lasciare
il sito al termine del periodo di incentivo, il danno di competitività nei
confronti delle imprese dei territori contermini, o l’importante riduzione di entrate fiscali nel breve termine, o ancora la possibilità che lo
sviluppo delle ZES non porti una crescita territoriale complessiva ma
si limiti al rafforzamento di alcune realtà conservando o addirittura
aumentando le disparità tra i territori (Aggarwal, 2006a). L’istituzione
della ZES genera inevitabilmente un effetto di competizione fra territori che si contendono la localizzazione della Zona che, per definizione,
deve essere circoscritta e limitata. Questo fenomeno, apparentemente
Le Zone Economiche Speciali nel Mezzogiorno d’Italia
21
secondario, rappresenta invece una delle principali criticità della misura: la costruzione di un’enclave soggetta a regime di vantaggio non
produce automaticamente benefici per il territorio circostante, ma anzi
rappresenta in alcuni casi una realtà in grado di danneggiare il sistema
economico-produttivo dei territori contermini alla Zona. Per questa
ragione le pressioni politiche per la selezione dell’area sono tali e tante
da inficiare la serena valutazione strategica fondata sul capitale territoriale, unico elemento da considerare perché la ZES produca uno sviluppo economico resiliente e diffuso.
1.2. Uno sguardo all’Unione europea: l’esperienza delle ZES
e le lagging regions.
L’esperienza delle ZES ha raggiunto da diversi anni i paesi dell’Unione
europea (Ue), dove sono all’incirca novanta le zone sulle quali vigono
esenzioni dalle regolamentazioni fiscali. Tra queste, particolare importanza assume il noto caso della Polonia, dove 14 ZES sono state istituite a partire dal 1994 nelle regioni meno sviluppate, al fine dichiarato di
attrarre investimenti e favorire la crescita economica e sociale e rafforzare la competitività dei territori rimasti in ritardo in seguito alla dissoluzione del blocco sovietico e alla conseguente trasformazione politica dell’Est Europa. Agli investitori interessati lo Stato garantì incentivi
diretti e forti riduzioni delle imposte sul reddito (Ambroziak, Hartwell, 2018) ottenendo un ottimo risultato in termini di sviluppo regionale complessivo.
Come ricostruito da Ambroziak e Hartwell, la costituzione delle
ZES polacche fu pensata per essere compatibile con le regole
dell’Unione europea: l’istituzione delle Zone Economiche Speciali in
un territorio dell’Unione è infatti possibile soltanto nel rispetto di alcune norme fondamentali a garanzia del meccanismo di funzionamento del sistema di rapporti tra Stati Membri.
22
Capitolo 1
Mappa 1.1. Lagging Regions in Europa.
FONTE: Rodrìguez-Pose A., Ketter 2019, p. 13.
In quanto aiuto di Stato, l’esenzione da alcune tasse per gli investitori in alcuni territori è una misura non riconosciuta dall’Ue
nell’utilizzo di fondi comunitari e in grado di minare la competitività
di mercato, azione vietata dall’articolo 107 del Trattato per il Funzionamento dell’Ue che prevede l’incompatibilità con il mercato interno
di qualunque aiuto concesso dagli Stati e in grado di favorire talune
produzioni falsando la concorrenza. La fattispecie che permette la costituzione delle ZES è contenuta nello stesso articolo che elenca le uni-
Le Zone Economiche Speciali nel Mezzogiorno d’Italia
23
che deroghe ammesse, che consistono nell’aiuto a carattere sociale a
singoli, negli aiuti conseguenti calamità naturali o destinati a promuovere progetti di interesse europeo (cooperazione), negli aiuti per agevolare lo sviluppo di talune attività o per promuovere la cultura, e negli aiuti destinati a favorire lo sviluppo economico delle regioni ove il
tenore di vita sia anormalmente basso rispetto alla media europea e
nazionale (GUUE, 2008/C 115/01 art. 107 c. 3 lettera a).
Nel caso della Polonia, essendo un Paese comunitario dal 2004 ed
essendo caratterizzato da una ricchezza generale inferiore al 75% della
media Ue, la misura ha potuto essere estesa a tutto il territorio, considerato in ritardo di sviluppo nel suo complesso (Ambroziak, Hartwell,
2018).
L’Unione europea riconosce le regioni in ritardo di sviluppo come
lagging regions: a queste sono riservati specifici fondi, e sono rivolte
precise politiche di sviluppo (Fondi di Coesione). Sono definite lagging
due tipi di regioni (EC, 2017):
- Le regioni a bassa crescita, cioè quelle che non hanno raggiunto
il PIL pro capite medio europeo tra il 2000 e il 2013 (in particolare in Italia, Grecia, Spagna e Portogallo);
- Le regioni a basso reddito, cioè quelle con un PIL pro capite inferiore al 50% della media Ue nel 2013 (in particolare in Bulgaria, Ungheria, Polonia e Romania).
La principale sfida per l’Ue riguardo le lagging regions consiste nel
trovare politiche e strategie per risolvere il problema legato alla bassa
crescita e, in particolare, alla sostenibilità a lungo termine dei percorsi
di crescita; inoltre, obiettivo comunitario è la stabilizzazione della performance economica finalizzata a garantire a questi territori di intraprendere un percorso di convergenza con le economie più prospere
dell’Ue.
Secondo lo specifico rapporto della Commissione europea (EC,
2017), nelle lagging regions di entrambi i tipi si riscontrano alcuni elementi comuni:
- Agricoltura e manifattura non tecnologica rappresentano una
grande percentuale dell’occupazione complessiva. La struttura industriale spesso risente dell’incapacità di adattarsi alle sfide della modernità industriale;
24
Capitolo 1
- La forza lavoro residente ha una ridotta proporzione di lavoratori qualificati rispetto alla media nazionale, e spesso anche rispetto alla media europea: per questa ragione, installare in questi territori università è stata considerata da tempo una misura in grado di generare
effetti positivi di spill-over, ferma restando la necessità di prevedere
misure complessive per permettere alla manodopera specializzata di
trovare occupazione sul territorio (EC, 2017).
Il Mezzogiorno d’Italia rientra nella categoria della lagging region a
bassa crescita, il cui PIL pro capite medio risulta inferiore alla media Ue
e oramai vicino a quello di alcune regioni dell’Est Europa: nel 2017 il
Sud ha registrato 18.900€, le Isole 18.200€, rispettivamente il 64% e il
62% della media Ue, che è pari a 30.000€. Le regioni a basso livello di
crescita si concentrano principalmente nel Sud Europa, in quanto la loro condizione deriva innanzitutto da una posizione geografica svantaggiata: si tratta dei territori più isolati geograficamente rispetto al core economico del continente, come Grecia e Portogallo (dove comprendono la maggior parte del territorio) ma anche il Sud della Spagna,
dove la distinzione fra Nord e Sud rispecchia anche differenze storiche
e culturali.
Le dinamiche delle lagging regions europee, pur avendo caratteristiche comuni, sono geograficamente diversificate e dipendono dalle specificità delle singole realtà territoriali. Il Mezzogiorno, in particolare, a
differenza di altre zone, oltre all’economia agricola (SVIMEZ, 2016)
può far leva su un tessuto industriale esistente e ben impiantato – pur
se incapace di rappresentare un sistema di rete – proveniente
dall’epoca dell’Intervento Straordinario (dal 1951 fino alla fine degli
anni Settanta), e da un’economia caratterizzata fortemente dai servizi
(anche in virtù della carenza infrastrutturale): queste caratteristiche
rappresentano un potenziale elemento di forza ma anche di fragilità.
Per esempio, laddove le principali lagging regions a bassa crescita hanno risentito della recente crisi in maniera minore rispetto alle regioni
più sviluppate, in quanto meno industrializzate e già caratterizzate da
alti tassi di disoccupazione e a bassa specializzazione, il Mezzogiorno
ha sofferto più del Centro-Nord Italia, evidenziando la debolezza
strutturale del sistema produttivo meridionale nel suo complesso (cfr.
Mazzetti, 2008).
Le Zone Economiche Speciali nel Mezzogiorno d’Italia
Tabella 1.1. Tasso di occupazione, 15-64, anni 2000-2015.
2000
2007
2015
Δ 2000-
25
Δ 2007-
2007
2015
Italia
55,5
58,6
56,3
5,59%
-3,92%
Mezzogiorno
57,8
46,5
42,5
-19,55%
-8,6%
Ue27
62,1
65,2
65,7
4,99%
0,77%
FONTE: EC, 2017, p. 366
Una caratteristica comune a tutte le lagging regions, comprese quelle
italiane, è la scarsa qualità del capitale umano disponibile. La continua
emigrazione verso le regioni del Settentrione ha comportato un progressivo depauperamento delle risorse umane soprattutto di qualità, a
svantaggio della capacità competitiva del sistema meridionale. La migrazione oramai storica sulla direttrice Sud-Nord, infatti, negli ultimi
anni ha visto un’importante crescita percentuale dei laureati: tra il 2010
e il 2016 la quota di laureati sale dal 25% a quasi il 30%, mentre il saldo
migratorio netto degli studenti universitari ammonta a 157.386 persone (SVIMEZ, 2018, p. 145/146). Secondo il Final Report Economic Challenges of Lagging Regions della Commissione europea (EC, 2017), la popolazione residente al Mezzogiorno d’Italia con una formazione di livello universitario è in percentuale la metà della media europea (meno
del 15% contro il 30%): su questo dato pesa l’importantissimo numero
di cittadini meridionali formati al Sud ma trasferitisi al Nord, che fa il
paio con il forte tasso di inattività che descrive il Meridione come una
terra dalle basse competenze, regolamenti insufficienti o inappropriati
e un mercato poco competitivo: tutti limiti che pesano sull’attrattività
per gli investimenti.
Capitolo 2
Il progetto di ZES per il Mezzogiorno d’Italia
2.1. Le ZES come strumento di sviluppo del Mezzogiorno
d’Italia.
Nell’ambito del percorso di rilancio della competitività portuale del
Meridione la legge 123/2017 e il successivo DPCM 12/2018 recepiscono
i risultati di crescita di altre esperienze stabilendo l’istituzione delle
Zone Economiche Speciali (ZES) nelle regioni del Mezzogiorno.
Il decreto-legge n. 91 del 20 giugno 2017 si inquadra nel contesto
delle politiche di sviluppo regionale con un pacchetto di politiche che
già il nome del decreto definisce “Disposizioni urgenti per la crescita
economica del Mezzogiorno”.
Nella norma – modificata in sede di conversione il 3 agosto successivo (legge 123) – il legislatore inserisce un pacchetto di incentivi che
mirano a contribuire al recupero del ritardo di competitività del Mezzogiorno nei confronti del Settentrione e dell’Europa continentale favorendo in particolare lo sviluppo delle imprese già operanti sul territorio e a localizzazione di nuove.
L’Art. 4, in particolare, prevede l’istituzione di Zone Economiche
Speciali, definite aree geograficamente delimitate all’interno delle quali, alle aziende già operative e di futuro insediamento, saranno garantite speciali condizioni finalizzate a incentivarne lo sviluppo.
La localizzazione di dette aree riguarda solamente le regioni meno
sviluppate e in transizione secondo i parametri riconosciuti
dall’Unione europea per il settennato 2014-2020, che considerano cioè:
- Regioni meno sviluppate, quei ritagli amministrativi a NUTS 2 il
28
Capitolo 2
cui PIL pro capite risultava, all’inizio del periodo di programmazione,
inferiore al 75% della media Ue a 27 all’inizio del periodo di programmazione (segnatamente Campania, Puglia, Basilicata, Calabria e
Sicilia);
- Regioni in transizione, quelle regioni il cui PIL pro capite risultava, all’inizio del periodo di programmazione, inferiore al 90% ma superiore al 75% della media Ue a 27 (cioè Abruzzo, Molise e Sardegna).
La limitazione della misura alle sole suddette regioni mira a recuperare il divario di competitività che le interessa direttamente, ma come
visto è anche necessaria alla compatibilità della misura con le restrizioni previste dal Trattato di funzionamento dell’Unione europea
(GUUE, 2008/C 115/01 art. 107 c. 3 lettera a).
La legge prevede che la localizzazione di ogni ZES debba interessare una o più aree che comprendano almeno un’area portuale tra quelle
dotate delle caratteristiche stabilite dal regolamento n. 1315/2013 del
Parlamento europeo e del Consiglio sugli orientamenti dell'Unione per
lo sviluppo della rete transeuropea dei trasporti, cioè avere un traffico
merci o passeggeri pari o superiore a un millesimo del traffico complessivo europeo, secondo i dati rilevati da Eurostat su base triennale
(GUUE, 2013, art. 20, c.2) (TEN-T) (GUUE, 2013).
Gli scali sono organizzati in una rete “Centrale”, che comprende
quelle parti della rete che rivestono la più alta importanza strategica
rispetto all’evoluzione della domanda di traffico e alle necessità del
trasporto multimodale (GUUE, 2013, art. 38, c. 1), e una rete “Globale”
costituita da tutti gli altri porti.
La decisione di istituire ZES attorno ai principali scali portuali del
Mezzogiorno rientra dunque nella strategia che tende a far leva
sull’economia marittima, anche nell’ottica compensativa rispetto alla
posizione di svantaggio geografico con il continente e al grave ritardo
infrastrutturale che rappresenta un difetto di competitività la cui soluzione è di grande urgenza.
Le Zone Economiche Speciali nel Mezzogiorno d’Italia
29
Mappa 2.1. Rete globale e centrale: vie navigabili interne e porti.
FONTE: Regolamento Ue 1315/2013.
Senza un investimento in termini di adeguamento infrastrutturale
soprattutto nel collegamento multimodale fra porto ed entroterra, e in
particolare fra porti del Sud Italia ed Europa continentale, la questione
dell’accessibilità delle regioni meridionali continua a rappresentare un
elemento di criticità in grado di inficiare non soltanto sulla competitività regionale, ma sulla stessa coesione territoriale. L’integrazione del-
30
Capitolo 2
la rete ferroviaria meridionale con quella settentrionale, sia nel traffico
persone che merci, è ancora oggi un tema di centrale urgenza nella realizzazione di una rete competitiva e nell’attrazione dei traffici merci.
Questo vale sia nella concezione dei porti meridionali come gateway
delle merci del mercato globale verso l’Europa continentale, sia per la
localizzazione stessa delle industrie: queste ultime, nel rapporto sistemico terramare previsto dalla riforma dei porti, beneficerebbero di efficienti infrastrutture di collegamento terrestre sia nell’acquisto delle
materie prime sia nella distribuzione commerciale dei beni (in particolare prodotti di eccellenza Made in Italy) nei mercati Ue ed extra-Ue
(MIT, 2015, p. 24).
Tuttavia, nell’attuale condizione di minorità infrastrutturale terrestre, la scelta di installare le Zone Economiche Speciali attorno agli scali portuali rappresenta un tentativo di rilancio di una competitività
della produttività meridionale che sfrutti al massimo, nell’attuale politica della Blue Growth, le infrastrutture marittime proprio per aggirare
l’attuale isolamento terrestre.
La già citata centralità dei porti meridionali nel sistema mediterraneo, infatti, rappresenta un elemento localizzativo da considerare vantaggio strategico sia nell’attrazione di flussi merceologici destinati ai
ricchi mercati dell’Europa continentale (attraverso, per esempio, il rafforzamento del trasporto Short Sea Shipping-SSS), sia come corridoi di
sbocco in grado di liberare il sistema produttivo meridionale permettendo lo sfruttamento delle infrastrutture marittime per l’export di beni
del manifatturiero meridionale.
Nel 2017, infatti, la quota di esportazioni del Mezzogiorno sul totale
nazionale ha registrato un dato pari al 10,7%, significativamente inferiore al contributo produttivo dell’area (SVIMEZ, 2018, p. 57). Questo
dato mostra come il settore secondario nelle regioni del Sud si trovi
come in un cul de sac, impossibilitato ad accedere ai mercati esteri e ridotto a una dipendenza dal mercato interno dovuta principalmente
all’inadeguatezza infrastrutturale.
Le Zone Economiche Speciali nel Mezzogiorno d’Italia
31
Tabella 2.1. I porti del Mezzogiorno nella Rete globale e centrale.
Regione
Nome del nodo
Porto marittimo
Calabria
Campania
Puglia
Sardegna
Sicilia
Gioia Tauro
Centrale
Reggio Calabria
Globale
Napoli
Centrale
Salerno
Globale
Bari
Centrale
Brindisi
Globale
Taranto
Centrale
Cagliari
Centrale (Porto Foxi, Cagliari)
Carloforte
Globale
Golfo Aranci
Globale
La Maddalena
Globale
Olbia
Globale
Palau
Globale
Porto Torres
Globale
Portovesme
Globale
Augusta
Centrale
Gela
Globale
Messina
Globale
Milazzo
Globale
Palermo
Centrale
(Palermo,
Termini
Imerese
terminal)
Siracusa
Globale
Trapani
Globale
FONTE: Regolamento Ue 1315/2013.
La centralità del carattere portuale delle ZES è confermata in particolare dalla governance delle stesse, che secondo la legge sarà caratterizzata dalla composizione di un Comitato di indirizzo presieduto dal
Presidente dell’Autorità di Sistema Portuale interessata: la gestione
strategica dell’area sarà quindi responsabilità dell’Autorità portuale, e
la direttrice di sviluppo partirà dalle aree retroportuali. La priorità data all’economia marittima è dovuta anche alla centralità della stessa nel
32
Capitolo 2
sistema economico meridionale, decisamente superiore in termini percentuali all’incidenza della stessa nell’economia del Settentrione, per
via delle carenze infrastrutturali terrestri e della posizione geografica,
lontana dai mercati continentali. L’istituzione di ZES strettamente collegate alla governance strategica del sistema portuale sul quale sono
imperniate, si sposa con la recente riforma dei porti che istituisce Autorità di Sistema Portuale che ambiscono a superare il localismo competitivo fra territori in un’ottica di maggior sinergia strategica. Inoltre,
il rafforzamento del sistema portuale intende superare il ritardo infrastrutturale terrestre, e ribadire nel complesso il nesso strategico fra
economia marittima e sviluppo del Mezzogiorno, già riconosciuto dal
Piano Strategico Nazionale della Portualità e della Logistica (MIT,
2015).
La misura ha il fine di moltiplicare le potenzialità economiche attraverso il riconoscimento del carattere fondamentale dei sistemi portuali ai fini della competitività complessiva del Sud Italia: i vantaggi
previsti per le imprese operanti nelle ZES (già operanti o di futuro accesso) consistono principalmente in vantaggi fiscali in relazione al credito d’imposta e in procedure semplificate, anche in deroga ai regolamenti nazionali.
La scelta di quest’ultimo vantaggio, in particolare, denuncia la debolezza strutturale del sistema portuale del Mezzogiorno proprio in
termini di procedure, finora ritenute dagli operatori troppo macchinose, lente e foriere di inefficienza anche a causa della già citata debolezza amministrativa.
Per accedervi le imprese dovranno impegnarsi a conservare
l’investimento per almeno sette anni, pena la revoca dei vantaggi.
All’Agenzia per la Coesione Territoriale è affidato il compito di verificare lo stato di avanzamento del Piano di sviluppo strategico presentato da ciascuna ZES all’atto della costituzione, e il monitoraggio dei benefici concessi e dei relativi risultati, attraverso specifici indicatori:
a) numero di nuove imprese insediate nella ZES suddivise per settore merceologico e classe dimensionale;
b) numero di nuovi occupati in imprese insediate nella ZES;
c) valore del fatturato delle imprese insediate nella ZES suddivise
per classe dimensionale;
Le Zone Economiche Speciali nel Mezzogiorno d’Italia
33
d) valore totale dei nuovi investimenti e suddivisione per classe
dimensionale.
La scelta degli indicatori caratterizza le ZES italiane come Zone Industriali di Trasformazione ed Esportazione, secondo la classificazione
di
Sosnovskikh
(Sosnovskikh,
2017,
p.
179),
orientate
all’industrializzazione delle aree retroportuali, individuata come misura-traino dell’economia meridionale. L’insediamento di nuove imprese
e la crescita degli occupati nelle imprese esistenti, e ancora l’aumento
di fatturato delle stesse e il valore degli investimenti generati in conseguenza dei vantaggi, rappresentano la misura attraverso la quale lo
Stato si accerterà dell’efficacia dello strumento introdotto in termini di
ricaduta economico-occupazionale complessiva sul territorio a ridosso
dello scalo, e sui territori individuati nel Piano di sviluppo strategico
come località chiave sulle quali imperniare lo sviluppo regionale. Questa selezione geografica risulta dunque di cruciale importanza ai fini
della efficacia della misura, in quanto la localizzazione
dell’investimento dovrà tenere conto delle reti infrastrutturali di collegamento esistenti e previste per permettere la distribuzione dei vantaggi occupazionali anche alle aree depresse e localizzate lontano dalla
costa.
Attraverso questa valutazione, ex ante ed ex post, sarà dunque possibile quantificare effettivamente l’impatto della misura sull’attrazione
di nuovi investimenti e sull’approdo di nuove imprese, e conseguentemente sull’economia complessiva dei territori di sistema portuale, il
cui sviluppo dovrebbe garantire il prolungamento della rete TEN-T al
Meridione e di conseguenza l’apertura del gateway Sud per il continente. Fra i benefici di lungo termine le ZES mirano a costruire e ricostruire un sistema produttivo meridionale in grado di aumentare
l’attrattività delle regioni e moltiplicare i benefici derivanti dai vantaggi fiscali.
Da sottolineare come la legge costringa le Regioni a dialogare al
proprio interno e tra loro, e a superare così interessi localistici e campanilismi finora radicati e dannosi allo sviluppo, incentivando così la
qualità dell’azione politica.
La legge 123/2017 prevede che le aree inserite nella delimitazione
delle ZES possano essere anche territorialmente non adiacenti, ma
34
Capitolo 2
debbano presentare un chiaro nesso economico funzionale tra di loro e
con il porto della rete.
Ogni Regione del Mezzogiorno può richiedere l’istituzione di una
ZES, o due laddove siano presenti più aree portuali aventi le caratteristiche indicate. Le regioni prive di questi scali (Abruzzo, Molise e Basilicata) possono richiedere l’istituzione della ZES solamente in associazione con un’altra Regione contigua o con un’area portuale dotata delle caratteristiche richieste. Come accennato, a capo della ZES è nominato, a titolo gratuito, un Comitato di indirizzo presieduto dal Presidente dell’Autorità di Sistema Portuale e composto da rappresentanti
delle Regioni coinvolte e del Governo (Presidenza del Consiglio dei
ministri e Ministero delle Infrastrutture e dei Trasporti).
Compito del Comitato di indirizzo è quello di assicurare e promuovere i vantaggi previsti nell’area, anche stipulando accordi e convenzioni con finanziatori privati.
I vantaggi riconosciuti dalle imprese operanti nella ZES sono finalizzati innanzitutto al superamento dei gravi ritardi procedurali (specialmente nelle operazioni di sdoganamento), considerati elementi di
debolezza strutturale della competitività meridionale. Alle imprese sarà anche garantito l’accesso alle infrastrutture individuate nel Piano di
Sviluppo Strategico.
È inoltre garantito, a coloro che investiranno nelle ZES, un credito
d’imposta di 50 milioni di euro per ciascun progetto, da distribuire in
percentuale commisurata alla quota del costo complessivo dei beni acquisiti, entro il 31 dicembre 2020. I fondi per la copertura di questi vantaggi provengono dal Fondo per lo Sviluppo e la Coesione.
Per accedere alle agevolazioni le imprese dovranno mantenere
l’attività nell'area ZES per almeno sette anni dopo il completamento
dell'investimento oggetto delle agevolazioni, pena la revoca retroattiva
dei benefici già concessi.
All'Agenzia per la Coesione Territoriale è affidato il compito di monitorare interventi e incentivi verificando l'efficacia delle misure di incentivazione concesse, secondo un piano di monitoraggio concordato
con il Comitato di Indirizzo. Con il DPCM 12/2018, pubblicato in Gazzetta Ufficiale il 26 febbraio 2018, il Governo ha poi stabilito il Regolamento che definisce le modalità per l’istituzione delle ZES, la durata e i
Le Zone Economiche Speciali nel Mezzogiorno d’Italia
35
criteri per l’identificazione e la delimitazione delle aree, i criteri di accesso delle aziende e di coordinamento generale degli obiettivi.
Il Regolamento esplicita la necessità di individuare aree geografiche
anche non adiacenti, ma legate da un evidente nesso strategico funzionale con le aree portuali sulle quali la ZES è imperniata. La dimostrazione del nesso deve essere esplicitata nel piano di sviluppo strategico
attraverso la segnalazione di presenza, o di potenziale di sviluppo, di
attività produttive correlate o di importanti infrastrutture di collegamento.
Il testo risente ancora di un approccio che rispecchia una concorrenza di competenze tra Regioni e Stato, che rischia di rappresentare
un vulnus nella competitività complessiva. Questo elemento risulta trasparire in particolare nell’identificazione dei parametri dimensionali
massimi assegnati a ogni Regione: il Regolamento stabilisce una formula con la quale viene individuata l’estensione massima della perimetrazione della ZES:
1,6‰S * (dr/dn) + 0,6‰S
dove per S sta la Superficie regionale (espressa in km2 o in ha), per dr
la densità abitativa regionale al 1° gennaio 2017 e per dn la densità abitativa nazionale al 1° gennaio 2017.
La debolezza del calcolo consiste nell’individuazione di un parametro oggettivo, pari per tutte le Regioni, che tiene conto della popolazione residente, della superficie regionale e della densità abitativa ma
non di parametri quali il traffico merci esistente, la specializzazione
produttiva, la posizione geografica, la vocazione economica… Nel tentativo di individuare un parametro in grado di prevenire contestazioni
da parte dei territori, il Regolamento rinuncia a una seria valutazione
del capitale territoriale potenziale, delegando a freddi parametri oggettivi la scelta della dimensione massima delle aree interessate.
Il risultato nella distribuzione dei parametri dimensionali presenta
indubbiamente delle criticità: alla Calabria, che vanta uno tra i maggiori porti d’Italia, è assegnata una percentuale pari a quella del Molise, mentre la Sardegna, che ha otto scali di livello europeo, è penultima
nella scala della percentuale di superficie da dedicare alle ZES.
36
Capitolo 2
La scelta dimensionale rischia di rappresentare una battuta
d’arresto nella piena realizzazione dei vantaggi competitivi previsti
dalla misura, e soprattutto riflette ancora la carenza di responsabilità
da parte del Governo nell’assunzione di una posizione complessiva di
carattere strategico sul tema dello sviluppo regionale e in particolare
dell’economia marittima: questa stessa carenza è stata individuata negli ultimi anni come grandemente influente nella perdita di competitività degli scali italiani, tanto da richiedere una riforma della portualità
che ha permesso al Ministero delle Infrastrutture di avocare a sé il
compito di imposizione di un indirizzo strategico, superando
l’eccessiva frammentazione fondata sulla contrapposizione fra porti
vicini (MIT 2015, pp. 12-17).
Tabella 2.2. Massima estensione delle aree ZES, per Regione.
Superficie
regionale
Superficie
ZES
% Zes/S
(ha)
(ha)
Campania
1.367.095
5.467
0,40%
Puglia
1.954.090
4.408
0,23%
Sicilia
2.583.239
5.580
0,22%
Calabria
1.522.190
2.476
0,16%
Molise
446.065
516
0,16%
Abruzzo
1.083.184
1.702
0,16%
Sardegna
2.410.002
2.770
0,12%
Basilicata
1.007.332
1.061
0,11%
FONTE: DPCM 12/2018.
Fermo restando il parametro dimensionale stabilito per decreto, alle
Regioni è demandata la scelta delle aree: la richiesta di istituzione di
una ZES viene infatti formulata dalla Regione (o dalle Regioni, in caso
di Zona interregionale), attraverso la stesura di un Piano di sviluppo
strategico dettagliato nel quale devono essere indicate le aree selezio-
Le Zone Economiche Speciali nel Mezzogiorno d’Italia
37
nate, evidenziando le infrastrutture esistenti e quelle di collegamento
tra le aree eventualmente non contigue, le agevolazioni previste (tra
quelle di competenza regionale), e il nominativo del rappresentante
nominato dalla Regione nel Comitato di indirizzo. Inoltre il Piano deve
contenere l’analisi dell’impatto economico e sociale atteso, la specifica
circa le attività che si intende attrarre e quelle di specializzazione territoriale che si vuole rafforzare, la dimostrazione del nesso economicofunzionale e la presenza di infrastrutture di collegamento tra le aree
selezionate eventualmente non contigue e l’area portuale.
Terminate le valutazioni, un decreto del Presidente del Consiglio
istituirà la ZES, la cui durata sarà di massimo 14 anni prorogabili di altri 7 sulla base dei risultati del monitoraggio previsto dall’Agenzia della Coesione Territoriale.
La gestione della ZES è affidata, come detto, al Comitato di Indirizzo, che è garante del rispetto del Piano di sviluppo strategico e ha la
funzione di assicurare lo svolgimento delle attività amministrative di
gestione e degli adempimenti necessari all’insediamento e
all’operatività delle imprese, compreso l’accesso alle infrastrutture esistenti. Verifica inoltre che le imprese avviino il programma di investimenti previsto e che mantengano l’attività nell’area per il tempo previsto (minimo 7 anni dopo il termine dell’investimento).
2.2. Il sistema portuale driver di rilancio dell’economia del
Mezzogiorno.
Lo sviluppo del sistema portuale del Mezzogiorno italiano, la cui valorizzazione rappresenta un potenziale di competitività ancora altamente sottoutilizzato, ha assunto particolare rilevanza nell’ambito della
strategia europea finalizzata all’attuazione della Blue Growth, intesa
come “la dimensione marittima di Europe 2020” (ESPON, 2013. p.8).
La concezione dell’economia marittima come volano di crescita
economica complessiva è una sfida importante per l’Italia in generale e
per le regioni del Sud in particolare, nelle quali il rapporto fra terra e
mare rappresenta, oltre che un caposaldo del sistema economico locale
e delle relazioni interregionali, un elemento imprescindibile di coesio-
38
Capitolo 2
ne territoriale (MIT, 2015). La dimensione marittima della coesione territoriale è stata indagata da diversi studi, e in particolare nell’ambito
del programma ESPON 2013: il progetto ESATDOR, attraverso lo studio delle forme di interazione terra-mare, ha individuato gli elementi
chiave della gestione integrata delle zone costiere e disegnato le tipologie di territori marittimi europei, secondo l’attuale rapporto con il
mare (ESPON, 2013). Tuttavia anche in questo campo la disparità di
sviluppo incide in maniera significativa e costringendo la portualità
meridionale a un sottoutilizzo rispetto al potenziale strategico dettato
dalla posizione centrale nel mar Mediterraneo. Il bacino del Mediterraneo è infatti investito negli ultimi anni da un sempre maggiore potenziamento dei traffici commerciali dovuto ad alcuni fattori fra i quali
figurano il raddoppio del canale di Suez e l’ampliamento del canale di
Panama – che porteranno già nel breve periodo una sostanziale riduzione dei tempi di navigazione e dei costi, coinvolgendo i porti in una
riorganizzazione funzionale – e l’ingresso sul mercato globale dei porti
del Nord Africa e della Turchia, sempre più competitivi e in grado di
movimentare e attrarre nuovi flussi.
A pesare grandemente sulla ridotta competitività dei porti italiani è
nuovamente il ritardo infrastrutturale: la carenza di collegamenti rapidi con il centro del continente europeo rende scarsamente appetibili
questi scali rispetto ai porti dell’Italia settentrionale, della Francia e
della Spagna, o anche del Northern Range, cioè della costa settentrionale del continente che, da Le Havre ad Amburgo, per via della grande
efficienza gestionale e della rapidità dei trasporti retroportuali, continua a risultare maggiormente vantaggiosa anche per i traffici che transitano per il Mediterraneo, talora persino per quelli che hanno il Nord
Italia come destinazione finale (malgrado per raggiungerli siano necessari 4.500 km di navigazione, fino a 5 giorni in più) (SVIMEZ, 2016):
si calcola che il 31% del traffico proveniente dal Canale di Suez abbia
come destinazione la sponda Nord Europa, a fronte di un 19% rivolto
alla sponda Nord del Mediterraneo. Il vantaggio è stato ottenuto grazie a una politica di ammodernamento importante, che ha permesso la
creazione di sistemi condivisi di cargo community, di ampie aree di manovra e deposito gestite da sistemi meccanizzati, e soprattutto di un
sistema di interconnessioni fluviali/ferroviarie di grande efficienza, che
Le Zone Economiche Speciali nel Mezzogiorno d’Italia
39
uniti agli spazi destinati alla lavorazione delle merci fanno del sistema
una regione di grande competitività (Regione Sardegna, 2018, p.9).
L’Italia, di contro, ha visto ridurre la propria percentuale di traffico
container europeo dal 10% del 2007 all’8% del 2016 (Regione Campania,
2018, p.42-48).
Il ritardo di sviluppo competitivo del sistema portuale del fronte
Sud è così un elemento di svantaggio complessivo per l’intero continente, in quanto costringe le navi a diversi giorni di navigazione in
più, con relativi costi in termini economici e ambientali.
La forte competizione fra Autorità portuali italiane, inoltre, è stata
negli ultimi anni un ulteriore elemento di svantaggio in quanto gli scali – privi di una visione strategica organica e sistemica – hanno cercato
nel tempo di accaparrarsi quote di traffico le une a danno delle altre
invece che cercare di attirarne del nuovo. Questa competizione interna
ha portato un importante spreco di risorse destinate a lavori infrastrutturali finalizzati a un vantaggio competitivo rispetto ai porti vicini,
spesso inadatto alla conformazione fisica e alla posizione geografica
del terminale e non senza la giustificazione di un’effettiva richiesta di
mercato.
In questo senso la tradizionale prospettiva di valorizzazione della
sponda Sud del continente come gateway di accesso al mercato continentale (Celant, 1976) non si è mai sviluppata a causa di una scarsa capacità di governance globale nel superare gelosie e miopie della gestione locale a favore di una visione complessiva del “sistema” portuale,
in grado di coordinare l’organizzazione della rete valorizzando le potenzialità intrinseche dei singoli porti in un’ottica sistemica e sinergica.
Allo scopo di trovare una soluzione a questo problema è intervenuta la Riforma del Sistema Portuale (D.Lgs. 169/2016) che punta a una
riorganizzazione generale delle Autorità Portuali in 15 Autorità di Sistema Portuale in grado di pianificare una progettazione di area concorde con le indicazioni strategiche nazionali. La riforma prevede che
le Autorità di Sistema Portuale provvedano alla valorizzazione del
rapporto con il territorio attraverso una pianificazione sistemica che
favorisca il trasferimento sulla terraferma di attività portuali e, in particolare al Sud, l’installazione di industrie di eccellenza che sfruttino i
porti per l’export (MIT, 2017). Elemento di massima novità è soprattut-
40
Capitolo 2
to la razionalizzazione e la semplificazione della governance e la centralizzazione degli indirizzi strategici nazionali per mezzo di un Tavolo
di indirizzo al Ministero dei Trasporti, al fine di superare la dannosa
eccessiva frammentazione degli indirizzi strategici, che i singoli porti
hanno spesso mal gestito.
Negli ultimi anni la competitività dei porti meridionali si è ulteriormente ridotta a causa della difficoltà ad affrontare i cambiamenti
del mercato con una prospettiva strategica: in particolare, dopo che la
diffusione delle mega navi container ha svantaggiato i porti di piccole
dimensioni, alcuni porti meridionali hanno investito ingenti somme
per l’adattamento infrastrutturale per accogliere questi scafi a fronte di
una carenza di mercato potenziale in grado di giustificare la spesa.
Inoltre, a causa di gravi disparità economico-normative, i porti di
Gioia Tauro, Taranto e Cagliari, prima fondamentali hub di transhipment, hanno perso posizioni riducendo del 13% la propria quota di
mercato dal 2008 al 2012, equivalenti a un calo da 9,5 milioni di TEU a
8,8 milioni. Nello stesso periodo i porti greci e turchi, quelli della costa
nordafricana e quelli del Nord Italia sono cresciuti, mostrando una resilienza superiore (SRM, 2017).
Il Piano Strategico Nazionale della Portualità e della Logistica approvato nel 2015 (MIT, 2015) definisce l’economia marittima «un architrave della politica di coesione e della crescita del Mezzogiorno» (MIT,
2015. p. 9), evidenziando la centralità dei porti del Sud Italia ai fini del
rafforzamento della competitività nazionale e della stessa coesione territoriale, attraverso lo sfruttamento del vantaggio di una posizione
centrale rispetto al Mediterraneo per realizzare la spesso auspicata
apertura del gateway meridionale per l’Europa continentale. Questo
nuovo ruolo contribuirebbe tra l’altro alla riduzione sensibile
dell’inquinamento derivante dal traffico marittimo e permetterebbe di
risolvere il problema dello sbilanciamento commerciale fra Nord (la
cui vocazione andrebbe rivolta maggiormente al traffico verso
l’Atlantico) e Sud Europa (da dedicare maggiormente al commercio
con l’Oriente e con l’Africa) (MIT, 2015, p. 15/16).
Il sistema portuale meridionale potrebbe così rafforzare il già presente e fruttuoso interscambio commerciale con le economie emergenti
dell’area MeNA (Medio Oriente e Nord Africa): l’Italia è il secondo
Le Zone Economiche Speciali nel Mezzogiorno d’Italia
41
Paese europeo per traffico con l’area (dopo la Germania), con una crescita nell’interscambio del 96,9% tra il 2001 e il 2015 (al netto dei prodotti energetici), un quinto del quale legato al Sud Italia (Regione
Campania, 2018, p.47). Questo commercio ha sull’economia del Mezzogiorno un impatto 3 volte superiore a quello del resto d’Italia, con
un interscambio che rappresenta il 20% del totale italiano, pari a 14 miliardi di euro (SRM, 2017).
Oltre al necessario adeguamento infrastrutturale, la competitività
dei porti del Meridione passa attraverso un adeguamento in termini
normativi, elementi questi in grado di attrarre investimenti e traffici
che oggi trovano nei porti del Nord Europa una maggiore efficienza,
rapidità nei tempi di sdoganamento e affidabilità complessiva. In questo senso, come nota SVIMEZ, il previsto trasferimento di alcune attività portuali (principalmente lo sdoganamento delle merci) in adeguato spazio retroportuale, e le agevolazioni procedurali e amministrative
previste dalle ZES rappresentano elementi chiave. Oltre a questi è necessario prevedere un ulteriore investimento in specializzazione, intesa sia nell’attrazione di manodopera qualificata sia nella distribuzione
strategica delle competenze attraverso i diversi porti, per garantire
un’offerta complessa integrata e di sistema, superando la frammentazione e il generalismo che hanno contribuito a ridurre, negli ultimi anni, il vantaggio competitivo complessivo.
Alcune opportunità legate alle prospettive di sviluppo strategico
europeo investono il Sud Italia: innanzitutto i corridoi multimodali
TEN-T, uno dei quali attraversa le regioni del Meridione per connettere Malta a Helsinki passando per il Centro Europa. La strategia di connessione multimodale prevede poi il rafforzamento dei canali di comunicazione Short Sea Shipping (SSS), che trova applicazione concreta
nel progetto delle Autostrade del Mare, considerato strategico
dall’Unione europea in quanto permetterà il potenziamento del traffico persone e merci riducendo le tratte su strada con infrastrutture portuali in grado di garantire servizi di trasporto combinato terra-mare a
elevata frequenza. Scopo è quello di migliorare l’efficienza e la competitività del trasporto, riducendo incidenti, impatto ambientale e costi.
L’Italia si trova al centro tra due delle quattro macro direttrici previste:
la Sud-Occidentale (Mediterraneo occidentale, Spagna-Francia-Italia) e
42
Capitolo 2
la Sud-Orientale (Mediterraneo orientale, dall’Adriatico/Jonio alla Turchia) (SVIMEZ, 2016), ed è già in posizione di vantaggio essendo il
primo paese del Mediterraneo e il terzo in Europa nel trasporto SSS,
dopo Regno Unito e Paesi Bassi (Eurostat, 2015); il Mediterraneo, inoltre, è il primo bacino europeo di questo genere di traffico marittimo
con il 40% del traffico totale, sfruttato ancora soltanto per il 50% della
propria capacità e quindi in grado di essere raddoppiato senza spese.
In prospettiva si renderà tuttavia necessario prevedere lo sviluppo delle infrastrutture portuali, terrestri e di collegamento, da cui il trasporto
SSS dipende.
Capitolo 3
La capacity building e i progetti di sviluppo dei territori
3.1. La metodologia usata.
Al fine di realizzare una complessiva valutazione di impatto territoriale (Territorial Impact Assessment) dei territori interessati dai progetti di
prossima realizzazione delle ZES, in questo capitolo si intende indagare le condizioni territoriali delle Regioni del Mezzogiorno attraverso i
risultati ottenuti con la metodologia STeMA (Sustainable Territorial
environmental/economic Management Approach3), che è in grado di
territorializzare a diverse scale i fenomeni permettendo una valutazione “geografica” delle azioni politiche sulla base della effettiva realtà
territoriale dell’area interessata (Prezioso, 2005; Prezioso, 2006),
nell’analisi del capitale territoriale ex ante a scala NUTS 2 e NUTS 3 (di
tutto il territorio italiano) svolta da diverse unità partecipanti al Progetto di Ricerca PRIN 2015 “Territorial Impact Assessment della coesione territoriale delle regioni italiane. Modello, su base place evidence,
per la valutazione di policy rivolte allo sviluppo della green economy
in aree interne e periferie metropolitane”4. Attraverso la lettura dei dati
relativi alla determinante “Risorse e Fondi”, qui riportati, è possibile
evidenziare la capacità delle amministrazioni di spendere i fondi nazionali ed europei nel corso dell’attuale programmazione: come visto,
Versione 3.0, 2015.
Il progetto è guidato dalla prof.ssa Prezioso dell’Università degli studi di Roma
“Tor Vergata”. I primi risultati sono stati presentati a Roma nell’ambito della Conferenza Internazionale che si è svolta l’11 e il 12 aprile 2019, e saranno inclusi in una
prossima pubblicazione.
3
4
44
Capitolo 3
infatti, l’importanza assunta da questo parametro nella definizione di
una institutional capability appare elemento di capitale importanza nella
costruzione di una competitività duratura, in particolare nelle lagging
regions a bassa crescita.
Tabella 3.1. Albero logico della Determinante Risorse e Fondi, STeMA.
Livello
Nome
RF_SpR&S
Indicatore
Spesa per ricerca e Sviluppo
RF_SpSvEc
Indicatore
Spesa per sviluppo economico e competitività
Settore
Innovazione Competitiva
IC
RF_SpOc
Indicatore
Spesa per l'Occupazione
RF_SpFoP
Indicatore
Spesa per formazione professionale
Settore
Capitale Umano
InCon
Tipologia
Livello di Intervento in Innovazione e Conoscenza
RF_SpSS
Indicatore
Spesa in Sviluppo Sostenibile
RF_SpTra
Indicatore
Spesa in Trasporti e Diritto alla mobilità
CU
CS
Settore
Competitività Sostenibile
RF_SpG
Indicatore
Spesa in politiche giovanili, sport e tempo libero
RF_SpSoc
Indicatore
Spesa per Diritti sociali, politiche sociali e famiglia
QV
Settore
Qualità della Vita
Sost
Tipologia
Livello di Intervento in sostenibilità
Vuln
Incrocio
Vulnerabilità
RF_FCP
Indicatore
Fondi di coesione utilizzati in progetti
RF_COOP
Indicatore
Fondi progetti europei spesi (Interreg)
UF
Tipologia
Uso dei Fondi
Determinante
Risorse e Fondi
R&F
FONTE: Prezioso, 2019.
Obiettivo dell’analisi è l’individuazione della realtà territoriale interessata a scala NUTS 3 al tempo t0, inteso come il momento precedente
l’istituzione delle ZES. Attraverso questo processo è possibile individuare il “Valore Territorializzato Iniziale” (VTI) delle determinanti,
che si fondano sui “pilastri” attraverso cui si esplicita la strategia
Eu2020: Smart Growth, Sustainable Growth, Inclusive Growth. Il VTI dei
territori del Mezzogiorno di fronte alle sfide individuate dalla Commissione europea nell’ambito della strategia Eu2020 (Prezioso et al.,
Le Zone Economiche Speciali nel Mezzogiorno d’Italia
45
2018c, p. 85) è ottenuto attraverso l’aggregazione degli indicatori di base selezionati dalla metodologia STeMA nella costruzione per livelli di
categorie, settori, tipologie e appunto determinanti.
STeMA ha così la funzione di individuare la base sulla quale costruire uno sviluppo competitivo territorial-based, fondato sulla conoscenza approfondita del livello di partenza del territorio sulla base degli indicatori selezionati, e finalizzato al raggiungimento degli obiettivi
di competitività del sistema europeo nell’attuale programmazione.
L’analisi si riferisce alla quarta determinante di STeMA (Risorse e
Fondi) che misura gli aspetti relativi alla capacità di spesa (Prezioso,
2008).
L’analisi ha utilizzato 10 indicatori di base che sono stati incrociati
in un confronto a coppie, attraverso la metodologia STeMA, per ottenere 4 categorie, 2 settori e 2 tipologie. I dati sono espressi in tabelle, a
scala provinciale e regionale (NUTS 3 e 2) attraverso una scala da A-D,
intendendo per A la performance di spesa migliore e per D la peggiore 5.
I dati ottenuti sono stati messi in relazione con i documenti strategici
elaborati dalle Regioni nell’ambito della richiesta di istituzione delle
ZES: i Piani di sviluppo strategico. Il Piano è lo strumento previsto dal
Regolamento per l’istituzione della ZES, che all’art. 6 impone alle amministrazioni di redigere un documento che deve contenere, tra l’altro:
- l’indicazione delle porzioni di territorio individuate;
- l’elenco delle infrastrutture esistenti;
- l’analisi dell’impatto socioeconomico atteso dall’istituzione della
ZES;
- l’indicazione delle attività di specializzazione territoriale che si
intende promuovere o rafforzare nella ZES, evidenziando il nesso economico-funzionale con la Zona;
I dati degli indicatori sono stati raccolti da Alessandro Fessina e Michele Pigliucci
dell’Università degli studi di Roma “Tor Vergata” nell’autunno 2018 nell’ambito del
citato progetto PRIN 2015. I dati relativi ai soli indicatori FCT (Fondi di Coesione utilizzati nei progetti) e EU (Fondi progetti europei spesi) sono stati raccolti rispettivamente dalle unità dell’Università del Sannio e dell’Università di Genova. Si ringraziano di cuore i proff. Bencardino, Cresta e Greco dell’Università del Sannio, e i proff.
Ugolini e Mangano dell’Università di Genova per averne autorizzato la pubblicazione.
5
46
Capitolo 3
- la scelta delle semplificazioni amministrative di propria competenza da offrire alle attività imprenditoriali nella ZES;
- le modalità con cui le amministrazioni si impegnano ad assicurare l’espletamento degli interventi previsti (DPCM, 12/2018).
Il risultato ottenuto è un documento di riflessione sulle condizioni
del territorio regionale e sulle specificità settoriali ritenute strategiche
ai fini del recupero di competitività territoriale complessiva. In questo
senso, l’analisi dei Piani di sviluppo strategico, incrociata con la performance regionale nella spesa, permette di indagare la percezione che
un territorio ha di se stesso e del proprio Capitale territoriale, e la qualità dell’azione di governo (capacity building) misurata nella capacità di
impiego dei fondi per raggiungere gli obiettivi di sviluppo prefissati.
Approvato il 28 marzo 2018, quello della Campania è stato il primo
Piano di sviluppo strategico approvato in seguito all’entrata in vigore
della legge sulle ZES. Al suo interno la Regione si occupa di fornire un
quadro complessivo della situazione socioeconomica, nel quale emerge molto chiaramente la consapevolezza di una scarsa capacità di resilienza del tessuto produttivo di fronte alla crisi, che ha rapidamente
consumato i risultati positivi raggiunti dal territorio negli anni precedenti la crisi, causando un ritorno, nel 2013, del livello degli indicatori
socioeconomici a livello precedente quello del 1995, a fronte di una ben
diversa performance realizzata dal Centro-Nord e financo dal Mezzogiorno. Tuttavia, il sistema industriale, pur piegato dalla crisi, ha saputo ricominciare rapidamente a crescere, permettendo alla Regione di
totalizzare un recupero di quasi sei punti percentuali nel biennio
2015/2016, contro i tre del Centro-Nord e i due del Sud (Regione Campania, 2018, p. 15). La buona capacità di ripresa è tuttavia distribuita in
maniera geograficamente non omogenea: spicca, infatti, la funzione di
traino della città di Napoli, che con produce una quota di PIL superiore alla propria quota di popolazione su base regionale, cui seguono
Caserta e Salerno. Benevento e Avellino si confermano, come evidenziato dagli indicatori del modello STeMA, le province con il maggior
ritardo; Benevento, in particolare, registra una perdita pari a 7,5 punti
percentuali in termini di PIL pro capite (fatta 100 la media regionale).
Le Zone Economiche Speciali nel Mezzogiorno d’Italia
47
3.1.1. La ZES Campana
Mappa 3.1. ZES Campania. Comuni interessati.
FONTE: Elaborazione dell'Autore su base ©Google Satellite 2019.
Il dato maggiormente preoccupante rimane l’occupazione: nel periodo
2008-2016 la Regione ha perso il 2,1% della propria forza lavoro, ma
questo dato è reso particolarmente grave dalla distribuzione regionale,
che penalizza particolarmente la provincia di Benevento (-13,8%). Alto
anche il numero di NEET, che secondo il Piano ammontano a 559mila
persone tra i 15 e i 34 anni, quasi un terzo del totale del Mezzogiorno,
tra i quali soltanto 198mila risultano in cerca di occupazione (Regione
Campania, 2018, p. 22).
L’analisi di dettaglio della distribuzione territoriale dei dati evidenzia come siano stati i sistemi locali specializzati di dimensione mediopiccola a resistere maggiormente alla crisi, soprattutto nel campo del
turismo, dell’agroalimentare e del tessile. La ripresa risulta, come evidenziato nel paragrafo precedente, trainata principalmente dal sistema
locale di Napoli, mentre maggiori difficoltà vengono ancora riscontrate
48
Capitolo 3
nelle aree interne e nei territori urbani di Caserta, Avellino e Benevento (Regione Campania, 2018, p. 27).
Tabella 3.2. Aree ZES Campania.
Tipologia
Porti
Aree
Napoli;
Salerno;
Castellamare di Stabia;
Interporti
Sud Europa (Marcianise/Maddaloni);
Campano
Aeroporti
Napoli Capodichino;
Salerno – Costa d’Amalfi
Agglomerati
Acerra;
industriali
Arzano-Casoria-Frattamaggiore;
(ASI)
Calvano;
Foce Sarno;
Marigliano-Nola;
Pomigliano;
Calaggio;
Pianodardine;
Valle Ufita;
Ponte Valentino – stralcio;
Aversa Nord – stralcio;
Marcianise – San Marco;
Battipaglia;
Fisciano – Mercato San Severino;
Salerno
Altre
aree
Bagnoli – Coroglio;
industriali e
Napoli Est;
logistiche
Piattaforma Contrada Olivola;
Area PIP Nocera inferiore “Fosso imperatore”;
Area PIP di Sarno “Ingegno”;
Area PIP Nautico di Salerno;
Castel San Giorgio
FONTE: Regione Campania, 2018, p. 70.
Le Zone Economiche Speciali nel Mezzogiorno d’Italia
49
Il modello adottato dalla Regione Campania nella selezione delle
aree si fonda su una distribuzione territoriale imperniata sulle aree
portuali di Napoli, Salerno e Castellammare di Stabia e relative aree
retroportuali (compresi gli aeroporti di Napoli e Salerno).
La selezione delle aree ha seguito principalmente l’esistenza di un
nesso economico-funzionale tra le zone portuali e retroportuali e i territori, anche distanti, a specializzazione produttiva nei diversi settori
strategici, fra i quali figurano anche i territori gestiti da Consorzi ASI
(Aree di Sviluppo Industriale) e le aree PIP (Piano per gli Insediamenti
Produttivi). Ad essi si aggiungono alcune aree a vocazione industriale
la cui sopravvivenza rappresenta oggi una particolare criticità in quanto situati in aree interne distanti dalle principali infrastrutture: la scelta
di includere questi territori nella ZES rappresenta la volontà di orientarvi investimenti in grado di invertire il segno del declino economico.
A riguardo, il Piano individua una serie di interventi di adeguamento
infrastrutturale programmati, che permetteranno il collegamento fra le
zone portuali sulle quali sono imperniate le ZES, e le aree coinvolte, fra
le quali figurano alcune della Strategia per le Aree Interne individuate
sulla direttrice Napoli-Bari, che il Piano intende si debba sviluppare
anche per il traffico merci.
Il Piano sottolinea in particolare la necessità di grandi interventi di
adeguamento infrastrutturale, che si perita di elencare nei dettagli e
che intendono interessare:
- il Porto di Napoli, che intende consolidare la propria funzione
di snodo centrale delle Autostrade del mare e di collegamento con le
aree produttive: gli interventi programmati potenzieranno i collegamenti autostradali e ferroviari dello scalo;
- il Porto di Salerno, che si intende dotare di un collegamento autostradale, di cui ancora risulta privo;
- la rete ferroviaria regionale nel suo complesso, che si vuole potenziare in diverse tratte;
- le infrastrutture di telecomunicazione, che permetteranno alle
aree ZES l’accesso alla banda ultralarga ad almeno 100Mbps (Progetto
Strategico nazionale per la Banda Ultralarga);
le infrastrutture di trasporto e distribuzione dell’energia, attra-
50
Capitolo 3
verso le quali la Campania intende diventare l’hub energetico nello
scambio di energia elettrica tra Nord Africa e Nord Italia/Europa (Regione Campania, 2018).
Mappa 3.2. ZES Campania e Strategia aree interne.
FONTE: Elaborazione dell'Autore su base ©Google Satellite 2019.
Le ricadute attese dall’istituzione della ZES sono principalmente rivolte al “rinnovamento della base produttiva” attraverso la localizzazione di nuove imprese e il “consolidamento delle realtà esistenti
nell’ottica della valorizzazione delle eccellenze produttive degli asset
strategici, della costruzione di filiere produttive complete, e
dell’aumento di efficienza produttiva” (Regione Campania, 2018, p.
243). L’obiettivo è dunque la localizzazione di imprese avanzate e sostenibili, che facciano da traino per il recupero e l’efficientamento delle
infrastrutture esistenti (p.e. l’area industriale di Bagnoli) e l’attrazione
di investimenti anche attraverso le potenzialità esistenti nell’ambito
degli strumenti finanziari innovativi. Il tutto nel quadro di un piano
strategico di politica industriale che la Regione intende mettere in
campo, finalizzato a un’industrializzazione fondata sulla valorizzazio-
Le Zone Economiche Speciali nel Mezzogiorno d’Italia
51
ne delle specificità locali, delle vocazioni produttive del territorio e soprattutto del capitale territoriale. A tal riguardo, i settori produttivi ritenuti strategici per il territorio sono individuati ne: l’aerospazio,
l’agroalimentare, l’autotrasporto, l’industria automobilistica, la cantieristica e la moda. Tra questi, particolare importanza assume il settore
agroalimentare, per via della notorietà globale dei prodotti campani,
che la Regione intende sostenere incentivando l’economia circolare, la
bioeconomia e la sostenibilità, orientando il territorio verso prodotti di
alta qualità, la cui filiera è riconoscibile e rispettosa dell’ambiente.
Mappa 3.3. Aree ZES Campania e reti infrastrutturali.
FONTE: Regione Campania, 2018, p. 227.
Nell’idea dei relatori del Piano, gli indicatori di efficacia della ZES
saranno dunque:
- l’aumento delle esportazioni, sia da parte delle attività esistenti,
sia per le industrie di futura localizzazione;
- la valorizzazione industriale e il trasferimento tecnologico;
- l’aumento dell’occupazione (Regione Campania, 2018, p. 365).
Un altro aspetto sottolineato nel Piano è l’investimento regionale in
capitale umano, la cui centralità nello sviluppo delle Regioni in ritardo
è già stata evidenziata. A riguardo, la Regione sottolinea l’importanza
del sistema formativo superiore, che fa il paio con una spesa regionale
in R&S dell’1,32% del PIL, in linea con la media nazionale (1,38%) e
con la Lombardia (1,33%), e superiore alla media del Mezzogiorno
52
Capitolo 3
(1,05%), ma anche al dato di regioni come il Veneto (1,12%) e la Provincia Autonoma di Bolzano (0,72%) (Regione Campania, 2018, p. 253):
l’istituzione della ZES si accompagna quindi a una forte attenzione
nella formazione del capitale umano e nel collegamento tra ricerca e
impresa, al fine di stimolare non solo il trasferimento di imprese esogene, ma tanto più la formazione endogena di realtà produttive “intelligenti”, in grado di trainare un recupero di competitività fondato
sull’innovazione.
In particolare, il Piano mostra con particolare dettaglio la previsione di sviluppo industriale per le diverse aree della ZES:
- Porto di Napoli: cantieristica, attività logistiche, approvvigionamenti energetici;
- Area di Napoli orientale: lavorazione merci imbarcate e sbarcate;
- Area di Bagnoli: rifunzionalizzazione dell’area;
- Interporti di Nola e Marcianise: attività a servizio delle movimentazioni portuali;
- Porto di Castellammare di Stabia: potenziamento e modernizzazione delle attività cantieristiche;
- Porto di Salerno: aumento traffico automotive e ro-ro, stoccaggio
e lavorazione merci del porto, attività industriali connesse al ciclo logistico;
- Agro nocerino-sarnese: efficientamento della produzione agroalimentare, soprattutto finalizzata all’export;
- Area di Battipaglia: attività logistiche e produttive e riconversione degli insediamenti produttivi dismessi;
- Area di Valle Ufita: rafforzamento delle attività produttive esistenti, soprattutto in relazione al potenziamento della linea ferroviaria
Napoli-Bari;
- Consorzi ASI: consolidamento dei processi produttivi esistenti,
anche in chiave di innovazione tecnologica (Regione Campania, 2018,
p. 281/282).
In conclusione, vengono elencati gli impatti attesi dall’istituzione
della ZES a pieno regime:
- Aumento dell’occupazione tra 15mila e 29mila unità;
- Coinvolgimento di 16mila aziende nei settori di interesse;
Le Zone Economiche Speciali nel Mezzogiorno d’Italia
53
- Incremento dell’export marittimo di 1,50 miliardi di euro;
- Attivazione di investimenti tra 830 e 933 milioni di euro;
- Valore aggiunto per la Regione tra 750 e 1.440 milioni di euro
(Regione Campania, 2018, p. 378).
R&F
C
A
B
B
A
A
UF
B
B
B
B
B
A
RF_COOP
D
C
D
D
D
B
RF_FCP
A
A
A
A
A
A
Vuln
C
A
B
B
A
A
Sost
C
A
B
B
A
A
QV
D
A
C
B
A
A
RF_SpSoc
D
B
D
C
B
A
RF_SpG
D
A
C
B
A
A
CS
B
A
B
B
A
A
RF_SpTra
B
A
B
A
A
A
RF_SpSS
B
A
B
B
A
A
InCon
C
B
C
C
B
A
CU
C
B
C
C
B
A
RF_SpFoP
C
B
C
B
A
A
RF_SpOc
C
B
C
C
B
A
IC
C
C
C
C
C
A
RF_SpSvEc
B
A
B
B
A
A
C
C
C
C
C
A
Avellino
Salerno
Napoli
Benevento
Caserta
Campania
RF_SpR&S
Tabella 3.3. SteMA, Determinante Risorse e Fondi, Regione Campania.
FONTE: Prezioso, 2019.
Il piano di sviluppo si inserisce in una realtà regionale che, in termini di efficienza della spesa misurata con la metodologia STeMA, è di
grado C. Si tratta di un dato decisamente basso, che evidenzia una difficoltà nell’allocazione efficiente dei fondi da parte delle amministrazioni pubbliche territoriali, tra le quali spiccano in particolare lo scarso
investimento nelle voci più legate alla formazione del capitale umano,
54
Capitolo 3
come la formazione professionale (livello C), e la spesa per diritti sociali, sostegno alla famiglia, sport e tempo libero (livello D).
La performance di spesa migliore è registrata nell’indicatore legato
all’utilizzo dei fondi di coesione nei progetti sul territorio, unica A
raggiunta a livello regionale.
Scendendo di scala a livello provinciale è possibile notare come i
migliori risultati siano raggiunti dalle province di Caserta, Salerno e
Napoli: quest’ultima, in particolare, raccoglie risultati di massimo livello (A) in tutte le voci, esclusa quella legata ai fondi Interreg, dove il
risultato è B.
Benevento e Avellino, invece, mostrano gravi carenze nella gestione
della spesa pubblica nei settori della Ricerca e Sviluppo, per
l’Occupazione (C), mentre nei servizi sociali Benevento si colloca persino al fondo della classifica (D). Interessante notare come l’unico indicatore nel quale tutte le province si mostrano pienamente efficienti sia
quello dell’utilizzo dei fondi di coesione, attraverso i quali in Campania diversi progetti sono in corso di realizzazione.
La localizzazione della ZES andrà dunque a interessare una fascia
di territorio centrale, che collegherà le aree portuali alle zone interne
verso la Puglia, attraverso una direttrice diagonale passante principalmente per i territori provinciali di Napoli, Benevento e Avellino,
quindi quelli a maggior ritardo in termini di capacità di spesa nei settori maggiormente legati alla competitività industriale. Questo elemento, qualora non superato, rischia di rappresentare un significativo disincentivo all’investimento in grado di ridurre le potenzialità legate alla ZES che, come abbiamo visto, per svilupparsi adeguatamente hanno
bisogno di una pianificazione olistica di sviluppo complessivo che
passi inevitabilmente per una virtuosa gestione dei fondi pubblici.
3.1.2. La ZES Calabrese
All’approvazione della legge istitutiva delle ZES, due processi regionali erano già avviati verso la definizione di un Piano di Sviluppo Strategico che permettesse la creazione in tempi rapidi della Zona: quello
della Calabria e quello della Campania.
La Giunta Regionale di Catanzaro ha approvato il Piano previsto
Le Zone Economiche Speciali nel Mezzogiorno d’Italia
55
per l’istituzione il 29 marzo 2018, un giorno dopo quello della Campania.
Nel documento, redatto seguendo le indicazioni contenute nel Regolamento per le ZES pubblicato sulla Gazzetta Ufficiale del 26 febbraio 2018 (DPCM, 12/2018), si individuano due principali elementi in
grado di condizionare lo sviluppo regionale: la burocrazia e l’assenza
di un piano di investimenti. La responsabilità della burocrazia viene
individuata nel processo di formazione dello Stato unitario al tempo
dei Savoia, mai superato nel meccanismo di sottomettere le esigenze
sociali a un proceduralismo che avrebbe ingabbiato le energie migliori,
deresponsabilizzando la politica a favore degli apparati burocratici, incapaci di affrontare scelte complesse.
La causa dell’assenza di un piano di investimenti, invece, si fa risalire alla responsabilità dello Stato unitario nel non aver previsto un
piano di sviluppo adeguato alle necessità delle regioni in ritardo, come
invece fatto dalla Germania dopo l’unificazione. Oltre a un ridotto investimento economico, si addita l’interpretazione sostitutiva, invece
che aggiuntiva, dei fondi europei rispetto al fondo ordinario: «È necessario pertanto un ampio e finalizzato piano per il Sud che impegni nei
prossimi 5 anni almeno 100 miliardi di risorse del Paese. L’esperienza
della Germania dimostra che investire nelle zone più arretrate è vantaggioso. Se oggi la Germania è sempre più la locomotiva europea lo
deve al coraggio di investire nell’Est (…) È evidente che per fare salire
il PIL del Paese deve salire la parte più debole, perché quella più forte
sta già ai massimi europei e mondiali» (Regione Calabria, 2018, cap. I,
p. 2).
Il Piano si incarica poi di individuare, come elementi di forza del
tessuto produttivo regionale su cui investire, i settori agroalimentare
(fortemente orientato all’export), del metalmeccanico e della meccanica
leggera, dei trasporti e del magazzinaggio. Elemento chiave
dell’efficacia della misura è il superamento del ritardo infrastrutturale,
uno dei principali limiti del territorio: l’efficientamento infrastrutturale
e dei trasporti, e la qualità della logistica territoriale, sono i pilastri sui
quali il Piano intende fondare l’espansione dei settori manifatturiero,
metalmeccanico e agroalimentare.
56
Capitolo 3
Mappa 3.4. Agglomerati industriali calabresi.
FONTE: Regione Calabria, 2018, cap. II, p. 26.
Il modello localizzativo proposto per la regione è di carattere policentrico, imperniato (come d’obbligo) sul porto di Gioia Tauro, ma
esteso poi su tutta la regione attraverso la valorizzazione dei poli in-
Le Zone Economiche Speciali nel Mezzogiorno d’Italia
57
frastrutturali di trasporto (porti, aeroporti). Lo scopo è quello di sfruttare al meglio le porte d’accesso e di sbocco delle merci incentivando la
localizzazione e il rafforzamento della capacità di import/export delle
industrie attraverso la connessione con le grandi infrastrutture di trasporto presenti, in particolare il porto di Gioia Tauro, la cui programmazione strategica è pienamente integrata con il Piano di sviluppo della ZES (Regione Calabria, 2018, cap. I, p. 5). Contestualmente, obiettivo
del Piano è quello di rafforzare le aree regionali già dotate di vocazione produttiva, estendendo le semplificazioni amministrative anche alle
aree non ricadenti nelle ZES.
Tabella 3.4. Aree ZES Calabria.
Aree
Porti
Denominazione
Gioia Tauro
Reggio Calabria
Villa San Giovanni
Crotone
Vibo Valentia
Corigliano Calabro
Aeroporti
Lamezia Terme
Reggio Calabria
Crotone
Aree retroportuali di ca-
Gioia Tauro,
rattere produttivo
San Ferdinando,
Rosarno, Crotone,
Vibo Valentia Porto Salvo,
Corigliano Calabro Schiavonea,
Lamezia Terme
FONTE: Regione Calabria, 2018, cap. IV, p. 27.
Gli impatti economici attesi dall’istituzione della ZES sono identificati in:
- crescita dell’export per le aziende nei settori strategici individuati, e da eventuale diversificazione;
- crescita dei livelli occupazionali;
58
Capitolo 3
-
crescita degli investimenti di capitale estero;
upgrading industriale e trasferimento tecnologico;
guadagni in valuta estera;
impatti sul bilancio (Regione Calabria, 2018, cap. VII, p. 3).
Mappa 3.5 ZES Calabria. Comuni interessati.
FONTE: Elaborazione dell’Autore su base ©Google Satellite 2019.
L’analisi della determinante Risorse e Fondi della matrice STeMA ci
restituisce il dato relativo alla situazione ex ante al tempo T0, equivalente al tempo precedente l’istituzione della ZES, nella capacità pubblica
di spesa.
Analizzando la matrice è possibile evidenziare come, in questi termini, la Calabria rappresenti una regione virtuosa, totalizzando un risultato su scala nazionale pari ad A. La peggior performance è registrata
tra gli indicatori legati all’utilizzo dei Fondi usati nei progetti europei
Interreg, nel quale la regione raggiunge un livello D, contro un livello
B totalizzato dalla spesa in Ricerca e Sviluppo e in competitività, in
formazione professionale e in trasporti, e un livello A raggiunto in
spesa per l’occupazione, lo sviluppo sostenibile (scelta politica sottoli-
C
C
C
A
C
B
B
A
C
B
D
D
D
C
C
C
D
C
C
C
C
B
C
B
B
A
C
B
D
D
D
C
C
A
C
B
C
Vibo Valentia
C
Reggio di Calabria
FONTE: Prezioso, 2019.
A
B
C
B
A
A
B
B
B
A
A
A
A
A
B
A
A
A
A
Catanzaro
B
C
D
C
A
A
B
B
B
A
A
A
A
A
B
A
B
B
B
Crotone
A
B
C
A
A
A
A
A
A
A
A
A
A
A
A
A
A
A
A
Cosenza
A
B
D
A
A
A
B
B
B
A
B
A
A
A
B
A
B
B
B
Calabria
R&F
UF
RF_COOP
RF_FCP
Vuln
Sost
QV
RF_SpSoc
RF_SpG
CS
RF_SpTra
RF_SpSS
InCon
CU
RF_SpFoP
RF_SpOc
IC
RF_SpSvEc
RF_SpR&S
Le Zone Economiche Speciali nel Mezzogiorno d’Italia
59
neata anche nel Piano di sviluppo strategico) e utilizzo dei fondi di
coesione.
Tabella 3.5. SteMA, Determinante Risorse e Fondi, Regione Calabria.
60
Capitolo 3
Fra le cinque province calabresi, le migliori performance sono registrate da Cosenza – che presenta tutti gli indicatori di livello A, escluso
quello legato ai fondi Interreg – e Catanzaro, che registra un livello
leggermente inferiore ma che comunque permette di totalizzare un
complessivo A, mentre Vibo Valentia e Reggio Calabria non vanno oltre la lettera C. Crotone si colloca nel mezzo, a livello B. Interessante
notare come tutte le province totalizzino un livello massimo nella spesa in sviluppo sostenibile.
Il livello di qualità della spesa ex ante è dunque tendenzialmente
buono, e rappresenta un buon punto di partenza ai fini di una futura
gestione efficiente delle opportunità generate dalla Zona, che andrà a
interessare principalmente la zona costiera tirrenica, in particolare le
province di Catanzaro, Vibo Valentia e Reggio Calabria che presentano
livelli di spesa inferiori alle altre province, ma comunque di livello sufficiente a garantire potenzialmente un buon risultato nel recepimento
delle potenzialità offerte dalla ZES.
3.1.3. La ZES Ionica
Tra agosto e settembre 2018 la Regione Puglia e la Regione Basilicata
hanno approvato il Piano di sviluppo strategico della ZES ionica interregionale, inviando al Ministero formale richiesta di costituzione.
Prevista dalla legge, la ZES interregionale è una formula che permette di creare un’unica Zona sul territorio di due Regioni, passaggio
necessario laddove una delle due, come la Basilicata, risulti priva di un
porto della rete europea: l’obiettivo è quello di coinvolgere i territori
retroportuali anche collocati oltre il confine amministrativo, valorizzando il nesso funzionale delle realtà produttive con lo scalo individuato, che in questo caso è il Porto di Taranto.
Il Piano di sviluppo strategico della ZES Ionica recepisce dunque il
Piano precedentemente approvato dalla Basilicata, che integra nelle
valutazioni socioeconomiche effettuate dalla Regione Puglia nella definizione di una strategia areale sul bacino ionico in grado di generare
uno sviluppo complessivo. Per far questo, si evidenzia come la realtà
esistente sia caratterizzata principalmente da piccole imprese, prive
Le Zone Economiche Speciali nel Mezzogiorno d’Italia
61
degli strumenti di adattamento tecnologico e strutturale richiesti dai
mercati. Elemento, questo, che si sposa con la scarsa adeguatezza delle
infrastrutture logistiche e trasportistiche, soprattutto nei collegamenti
con il sistema portuale e con le principali reti di trasporto, sbilanciate
verso il settore adriatico (Regione Puglia, 2018, p.4/5).
La Basilicata, dal canto suo, propone il proprio territorio come
“triangolo di sviluppo economico” che faccia da cerniera logistica in
grado di connettere e stabilizzare lo sviluppo di Puglia, Campania e
Calabria. Nell’idea espressa nel Piano, la Basilicata sarebbe dunque
una terra industrialmente vivace, “ponte” tra area Adriatica e Area
Tirrenica passando per l’affaccio ionico attraverso il porto di Taranto,
sbocco naturale dell’area.
Mappa 3.6. Il sistema logistico della Basilicata.
FONTE: Regione Basilicata, 2018, p. 6.
62
Capitolo 3
La ZES ionica si intende quindi come motore di uno sviluppo fondato sul capitale territoriale esistente, da sviluppare in un’ottica di
economia circolare su base marittima a partire dai settori che vengono
individuati come caratteristici del tessuto produttivo della zona:
- agroalimentare, da rafforzare facendo leva sull’importante vocazione agricola delle Regioni;
- industria automobilistica;
- meccanica;
- gomma;
- tessile, abbigliamento, calzature;
- legno-mobilio;
- imballaggi;
- ICT;
- grande distribuzione;
- turismo (Regione Puglia, 2018, p. 5/6).
Il modello di distribuzione geografica della ZES si fonda su alcuni
poli, che garantiscono una buona base in termini di produttività e di
connessione con il porto di Taranto a livello economico e logistico, oltre a un buon livello di specializzazione:
- Aeroporto di Grottaglie;
- Grottaglie;
- Melfi;
- Ferrandina;
- Galdo di Lauria.
La selezione delle aree da destinare a ZES ha quindi interessato, dal
versante pugliese, la provincia di Taranto, con il coinvolgimento delle
aree tradizionalmente legate alle attività siderurgiche e agroalimentari.
Ad esso si è aggiunto il territorio di Grottaglie, snodo logistico terrestre e
aeroportuale e area industriale specializzata negli ultimi anni nel settore
aeronautico e aerospaziale: il modello pugliese di selezione delle aree per
la ZES ionica si fonda quindi su questo duopolio geografico e di specializzazione produttiva. Il processo di selezione si è svolto coniugando
l’architettura identificata in modalità top-down con il processo bottom-up di
coinvolgimento degli attori del territorio regionale, secondo precisi criteri:
- Includere le aree portuali e i principali snodi logistici (aeroporto
e piattaforme logistiche);
Le Zone Economiche Speciali nel Mezzogiorno d’Italia
63
- Privilegiare aree produttive e commerciali che si trovano nel sistema portuale regionale (per incentivare import ed export);
- Privilegiare aree che offrano una significativa disponibilità di
superfici libere per nuovi insediamenti produttivi o commerciali (Regione Puglia, 2018, p. 59).
Dal versante lucano, la selezione ha interessato principalmente i poli logistici di Ferrandina, Melfi e Galdo di Lauria, già dotati di chiare
vocazioni produttive nei settori dell’industria automobilistica, dei mobili, della chimica e dell’agroalimentare, ma anche dei servizi e della
logistica (Regione Basilicata, 2018, p. 9). Lo sviluppo imperniato sui tre
nodi logistici si fonda sullo stretto nesso economico-funzionale esistente tra gli stessi e il porto di Taranto, il cui rafforzamento permetterebbe
alla Basilicata di uscire dall’“isolamento logistico” rispetto alle direttrici della rete TEN-T.
Mappa 3.7. ZES Ionica. Comuni interessati.
FONTE: Elaborazione dell'Autore su base ©Google Satellite 2019.
Risulta di particolare interesse notare che il processo di selezione delle aree abbia coinvolto tutti i territori nella fase interlocutoria, ma so-
64
Capitolo 3
prattutto abbia permesso ai territori rimasti esclusi l’accesso attraverso
avviso pubblico, con il quale sono state messe a bando 88,85 ettari dal
lato pugliese. La modalità scelta, per quanto lodevole in termini di condivisione del percorso da parte delle diverse realtà locali, rischia tuttavia di pregiudicare la compattezza della proposta strategica che dovrebbe risultare da valutazioni complessive in grado di tenere conto di
una visione organica della Zona, e soprattutto dei nessi economicofunzionali tra le diverse aree della Zona. Il Piano di sviluppo strategico
si incarica di fornire il punto di vista delle due Regioni sul tema delle
potenzialità di recupero della competitività da parte dei territori interessati. A riguardo, la crescita registrata dall’industria manifatturiera meridionale, con un incremento di oltre il 7%, rispetto al 3% di media nazionale, rappresenta un risultato positivo, a fronte di limiti strutturali
del tessuto produttivo meridionale, incapace di accedere agli strumenti
di politica industriale nazionale: questa sarebbe una tra le principali ragioni dell’incapacità del Mezzogiorno di resistere all’urto della crisi
economica, a cui va aggiunta la riduzione significativa delle agevolazioni concesse al Sud di oltre tre quarti in quindici anni (passando da 6,8
a 1,6 miliardi medi annui) (Regione Puglia, 2018, p. 10).
L’analisi affronta poi gli elementi di maggior criticità per la crescita meridionale in generale e pugliese e lucana in particolare, soffermandosi poi con maggiore dettaglio all’indagine sul livello di
esportazioni raggiunto dai principali settori dell’economia locale,
elementi che caratterizzano la specializzazione produttiva nei campi precedentemente indicati, e in particolare:
- Il settore aerospaziale pugliese ha saputo crescere nonostante la
crisi, triplicando il proprio fatturato in export in otto anni;
- Le esportazioni del settore agroalimentare sono cresciute in Puglia più di ogni altra Regione (esclusa la Campania) con un valore
esportato di 0,801 miliardi di euro nel 2015, pari al 2,6% del totale nazionale di settore. I mercati di destinazione sono individuati in Stati
Uniti d’America, Australia e Giappone, interessati principalmente a
olio, pasta e conserve di ortofrutticoli;
- Il settore dell’industria automobilistica pugliese ha subito la crisi ma ha saputo riprendere la propria vitalità, diventando il secondo
settore per export;
Le Zone Economiche Speciali nel Mezzogiorno d’Italia
65
- Il settore farmaceutico, con esportazioni di valore superiore al
miliardo di euro, risulta il terzo settore regionale, ma fatica a recuperare la competitività perduta in occasione della crisi economica;
- Le aziende pugliesi produttrici mobili fatturano il 4,2% del totale nazionale del settore, avendo perso un terzo della propria competitività in occasione della crisi;
- Anche il settore tessile, pur rappresentando un’eccellenza strategica nella competitività pugliese, ha subito un grave ridimensionamento in seguito alla crisi economica, riducendosi al solo 1,4% del totale nazionale settoriale;
- I prodotti energetici, metallurgici e chimici rappresentano la
merce principale in partenza dal porto di Taranto: anche questo settore
ha subito le conseguenze della crisi, a cui si aggiungono le note questioni legate allo stabilimento ILVA di Taranto: le esportazioni si sono
ridotte di due terzi in dieci anni (Regione Puglia, 2018).
In generale, la ZES viene vista come uno strumento di forte incentivo al recupero di vitalità dei diversi settori produttivi, e anche del porto di Taranto: quest’ultimo vive una costante flessione del traffico
merci, che nel 2018 ha toccato quota 20.433.433 tonnellate di merci, con
una perdita del 53% dei beni movimentati l’anno dal 2008 (Autorità
Portuale di Taranto, www.port.taranto.it).
I benefici previsti dall’istituzione della ZES riguardano dal lato pugliese principalmente la mitigazione degli impatti sociali legati alla
crisi ambientale e alle conseguenti misure nel campo della produzione
siderurgica; inoltre, si prevede uno sviluppo dell’occupazione nel settore agroalimentare e del settore transhipment nel quadro dei corridoi
europei TEN-T, e una specializzazione nel settore dello smantellamento (decommissioning) navale e aeronavale rispettivamente a Taranto e a
Grottaglie.
La Basilicata prevede dal suo canto una crescita economica pari a
una media dell’1,1% annuo nel valore aggiunto, e dell’1,4% nel numero degli occupati, con una distribuzione più vantaggiosa per Matera,
per via del maggior interesse geografico e della concomitanza con la
nomina a capitale europea della cultura, che per Potenza (Regione Basilicata 2018, p. 23). La proposta di ZES interregionale si inserisce in un
quadro complessivo di una buona capacità di spesa (B) da parte della
66
Capitolo 3
Regione Puglia. In particolare, attenzione viene riservata dalle istituzioni pugliesi allo sviluppo economico, alla formazione professionale,
allo sviluppo sostenibile e alle politiche sociali, per le famiglie, per i
giovani e per il tempo libero, così come risultano molto ben spesi i
fondi di coesione (A). Scarsi risultati sono raggiunti, invece, nella Ricerca e sviluppo, e nelle politiche di sostegno all’occupazione (C).
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Lecce
Brindisi
Taranto
Puglia
RF_SpR&S
Tabella 3.6. SteMA, Determinante Risorse e Fondi, Regione Puglia.
FONTE: Prezioso, 2019.
67
Le Zone Economiche Speciali nel Mezzogiorno d’Italia
Osservando la divisione per province è possibile apprezzare come
tutti i territori dedichino particolare attenzione allo sviluppo economico e alla formazione professionale, allo sviluppo sostenibile e alle politiche giovanili (A). Foggia, BAT e Lecce rimangono indietro rispetto a
Bari, Taranto e Brindisi, soprattutto nella Ricerca e Sviluppo (Foggia e
BAT raggiungono appena un D).
La delimitazione della Zona riguarda quasi completamente il territorio provinciale di Taranto, del quale la ZES andrà a interessare 10
comuni su 29. L’intento è quello di garantire un recupero di competitività a un territorio interessato da una crisi strutturale significativa dovuta al crollo di centralità dello scalo portuale e alla ben nota vicenda
dell’acciaieria locale. La riuscita dell’operazione e l’efficacia della misura è quindi resa possibile da un buon utilizzo dei fondi per lo sviluppo territoriale da parte delle amministrazioni del territorio, in particolare per quanto riguarda le spese per lo sviluppo economico, per la
formazione professionale e per i trasporti, centrali per l’attrazione di
investimenti.
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A
Matera
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Basilicata
RF_SpR&S
Tabella 3.7. STeMA, Determinante Risorse e Fondi, Regione Basilicata.
FONTE: Prezioso, 2019.
68
Capitolo 3
Un buon livello (B) è anche registrato nell’incrocio degli indicatori relativi alla spesa della Regione Basilicata, che mette in evidenza una realtà regionale lucana di medio-alta efficienza. Potenza mostra un’efficienza maggiore rispetto a Matera soprattutto nei temi
che riguardano la protezione sociale delle famiglie e dei giovani, e
le politiche per il tempo libero. Entrambe le province mostrano un
ritardo nella spesa in formazione professionale. Nota dolente per
Matera risulta la spesa dei fondi di coesione e la partecipazione ai
progetti Interreg (C).
Performance positiva è invece registrata in entrambe le province nella spesa per lo sviluppo economico e il superamento del limite infrastrutturale legato ai trasporti e ai collegamenti con lo scalo portuale di
riferimento.
3.1.4. La ZES Adriatica
La quota di territorio che la legge riserva alla Puglia per la delimitazione delle ZES è stata ripartita, oltre che nella ZES Ionica, nella ZES
Adriatica, grazie alla quale la Puglia guadagna il primato di prima Regione italiana dotata di due Zone Economiche Speciali. Come la Ionica,
anche la ZES Adriatica è costituita in modalità interregionale in concerto con la Regione Molise, priva di un porto di livello europeo.
Il Piano di sviluppo strategico individua nella ZES Adriatica
un’occasione di sviluppo per due regioni interconnesse nel tessuto infrastrutturale e produttivo, e nella condivisione di un’economia che ha
nel mare Adriatico il proprio perno. Entrambi i territori hanno sofferto
grandemente a causa della crisi economica, perdendo competitività e
vedendo un serio ridimensionamento della propria capacità produttiva. Malgrado tiepidi segnali di miglioramento, la realtà economica di
questo territorio fatica a dare segni stabili di ripresa: questa situazione
si ripercuote su tutto il sistema industriale molisano e pugliese, che
abbisogna di un’occasione di rilancio “straordinaria” per invertire la
tendenza negativa.
L’architettura della ZES Adriatica è stata immaginata in un’ottica
multipolare, fondata sui principali “poli” produttivi del territorio che
raccolgono le PMI distribuite sul territorio, scelti secondo un parame-
Le Zone Economiche Speciali nel Mezzogiorno d’Italia
69
tro che privilegia la connessione interna (economica e logistica), la
specializzazione e la connessione fisica e funzionale con i porti. I settori caratteristici e di maggior interesse per la realtà produttiva del territorio vengono individuati in:
- Agroalimentare;
- Metalmeccanico e industria automobilistica;
- Chimico;
- Energetico;
- Aeronautico;
- Tessile, abbigliamento e calzature;
- Legno e mobilio;
- Imballaggio;
- Servizi di grande distribuzione e turismo (Regione Puglia, Regione Molise, 2019, p. 11).
La ZES costruita “per poli” distribuiti sul territorio intende incentrare la crescita su diversi sistemi portuali, fornendo loro il ruolo di attrattori per i flussi delle merci in entrata e in uscita. Per questo fine sono stati individuati i porti di Manfredonia, Barletta, Bari, Brindisi e
Monopoli, nonché le aree aeroportuali di Foggia, Bari e Brindisi e le
aree produttive che gravitano intorno ai cinque poli principali di Foggia, Barletta, Bari, Brindisi e Lecce sul lato pugliese. La sezione molisana della ZES si sviluppa invece seguendo un asse est-ovest che dal
porto di Termoli giunge alla città di Venafro, al confine con Lazio e
Campania. La scelta di questa direttrice è dovuta alla distribuzione
delle attività produttive esistenti funzionali al raggiungimento degli
obiettivi strategici.
Anche in questo caso, la Puglia e il Molise hanno scelto una modalità
di coinvolgimento dei territori che prevede la messa a bando di una quota di Zona pari a 261,10 ettari in Puglia e 149,61 in Molise. L’avviso pubblico è rivolto alla candidatura di aree comprendenti aree retroportuali,
piattaforme logistiche e interporti o comunque aree non residenziali che
presentino un nesso economico-funzionale esistente o potenziale con gli
scali. Fra i parametri di selezione, nel bando figura la disponibilità di superficie libera, che evidenzia la vocazione all’installazione di nuovi insediamenti produttivi, la disponibilità di collegamenti ferroviari e di servizi,
e soprattutto la presentazione della domanda da più enti locali composti
70
Capitolo 3
in “sistema territoriale integrato” (BURP-Bollettino Ufficiale della Regione Puglia, n. 84 del 25 luglio 2019).
Il Piano riduce a tre macroaree i principali obiettivi della ZES:
- Attrazione di investimenti nazionali ed esteri, che permettano di
assorbire la manodopera dei settori in crisi e rafforzare le catene produttive esistenti;
- Promozione di investimenti da parte delle PMI locali nei settori
di riferimento dell’economia regionale;
- Promozione dell’integrazione delle catene del valore attraverso
il rilancio del ruolo dei sistemi portuali coinvolti e degli snodi logistici
regionali parti della ZES.
Mappa 3.8. ZES Adriatica. Comuni interessati (prima della chiusura dell'avviso pubblico).
FONTE: Elaborazione dell'Autore su base ©Google Satellite 2019.
La scelta ha dunque riguardato:
- Gli scali portuali di Manfredonia, Barletta, Bari, Monopoli, Molfetta, Brindisi, Termoli;
- Le aree retroportuali di: Molfetta, Termoli;
Le Zone Economiche Speciali nel Mezzogiorno d’Italia
71
- Le aree industriali di Pettoranello del Molise, Carpinone, Venafro, Isernia, Bojano, Campobasso, Larino, Valle del Biferno, Matino,
Casarano, Galatina-Soleto, Nardò-Galatone, Lecce-Surbo, Ostuni, Fasano, Brindisi, Gravina, Altamura, Monopoli, Bitonto, Bari, Modugno,
Barletta, Candela, Ascoli Satriano, Manfredonia, Foggia Incoronata,
Cerignola;
- Gli scali aeroportuali: Foggia, Bari, Brindisi;
- L’interporto regionale della Puglia (Bari) e l’interporto di Termoli;
- Il Centro intermodale di Melissano (Regione Puglia, Regione
Molise, 2019).
La scelta delle aree è stata effettuata tenendo conto di cinque fattori
principali:
- L’esistenza di un nesso funzionale con gli scali pugliesi;
- La connettività tra i poli esistenti e da coinvolgere nel progetto;
- La presenza di aree libere per ospitare nuovi insediamenti, anche per imprese di dimensioni medio-grandi;
- L’effettiva fattibilità delle misure, tenuto conto di idoneità, assenza di vincoli e piena disponibilità;
- La possibilità di ottenere impatti positivi concreti, anche attraverso l’attivazione di meccanismi di filiere locali (Regione Puglia, Regione Molise, 2019, p. 78).
Le province interessate nel territorio pugliese sono dunque tutte
quelle della costa adriatica, cioè tutte le province regionali esclusa Taranto. Tra esse, Bari e Brindisi rappresentano un traino di sviluppo
importante nella capacità di spesa, elementi che permettono una buona scommessa sul funzionamento della ZES e l’attrazione di investimenti industriali.
Di diverso segno la realtà della Regione Molise, che come emerge
dall’analisi dei dati raccolti, evidenzia un ritardo molto grave nella capacità di spesa pubblica per il raggiungimento degli obiettivi Eu2020.
La Regione totalizza un livello complessivo pari a D sulla Determinante: nella sua composizione, spicca la sola spesa in politiche per i giovani, lo sport e il tempo libero, che guadagna un livello A, a fronte di una
performance bassa (livello D) per tutti gli altri indicatori.
Scendendo a scala provinciale, entrambe le province non superano il
72
Capitolo 3
livello D in tutti gli indicatori, fatti salvi la politica per sport e tempo libero, nella quale Isernia raggiunge un livello B, e la partecipazione ai progetti Interreg, per la quale Campobasso presenta un ottimo risultato (A).
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Campobasso
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RF_SpR&S
Tabella 3.8. SteMA, Determinante Risorse e Fondi, Regione Molise.
FONTE: Prezioso, 2019.
3.1.5. La ZES Sarda
L’approvazione del Piano di sviluppo strategico della Zona Economica
Speciale sarda ha seguito un lungo dibattito pubblico che, come in altre Regioni, ha coinvolto l’opinione pubblica e la politica locale creando, talora, anche forti competizioni tra i territori candidati. Al termine
delle interlocuzioni il Piano è stato approvato, dopo numerosi rinvii,
nel novembre 2018, e presenta caratteri di originalità che puntano alla
distinzione dai Piani approvati dalle altre regioni.
Nell’idea della Regione, infatti, la ZES della Sardegna è concepita
come rete portuale distribuita completamente sulla costa di tutta
l’isola, a motivazione dell’insularità e della posizione nel contesto mediterraneo (Regione Sardegna, 2018, p. 3).
Le Zone Economiche Speciali nel Mezzogiorno d’Italia
73
Il punto di partenza è un sistema economico-produttivo regionale
che conta un valore di 33,2 miliardi di PIL in moderato ma continuo
aumento, dato che ha portato la regione nel gruppo dei territori in
transizione verso l’uscita definitiva dallo stato di ritardo socioeconomico. Il Piano insiste infatti su un contesto globale regionale di crescita
costante sotto diversi indicatori, con una tendenza positiva superiore
alla media del Mezzogiorno anche nel numero di occupati, fondata su
un buon comparto agroalimentare che rappresenta un quarto della ricchezza produttiva regionale. La crescita è tuttavia rallentata da problemi strutturali nel tessuto produttivo, composto principalmente da
PMI, e nella capacità di generare valore aggiunto, per unità di lavoro,
che si pone sotto la media nazionale: elementi che abbisognano di
sfruttare le potenzialità delle ZES per dare vitalità e slancio a una realtà imprenditoriale consolidata, che già vede crescere l’export con dati
significativi.
I settori produttivi caratteristici dell’isola, sui quali si fonda il sistema economico regionale, sono individuati nei seguenti:
- Petrolchimica e farmaceutica;
- Alimentare e bevande;
- Metallurgia;
- Articoli in gomma, materie plastiche e altri prodotti della lavorazione di minerali non metalliferi;
- Industria del legno, della carta e dell’editoria;
- Computer ed elettronica.
Fra tutti, il settore alimentare è ritenuto di primaria importanza sia
per i risultati di crescita ininterrotta (dell’1,3% annuo) anche durante la
crisi, sia per il contesto favorevole dal lato della domanda e dell’export,
che permette di elaborare previsioni di un’ulteriore significativa crescita che lo rendono un settore strategico per l’economia regionale: lo sviluppo del settore, soprattutto nelle potenzialità legate all’export (ancora sottodimensionato) prevede il superamento dell’attuale priorità al
mercato centro-meridionale italiano e il rafforzamento della produttività per superare l’attuale saldo netto negativo pari a 1.682 milioni di
euro (Regione Sardegna, 2018, p. 25-39).
La selezione delle aree da destinare a ZES parte dunque
dall’obiettivo di rafforzare in particolare la capacità di export dei pro-
74
Capitolo 3
dotti alimentari, sfruttando la posizione geograficamente vantaggiosa
in termini di accesso ai traffici mediterranei, ma svantaggiosa per
quanto riguarda la scarsa infrastrutturazione dovuta all’insularità.
Far leva sulla rete portuale dell’isola diviene quindi necessità strategica, sulla quale la Regione può contare da una realtà di partenza
composta da un porto core della rete TEN-T (Cagliari), a cui si aggiunge un sistema di porti minori, dotati comunque di buone potenzialità,
come Porto Torres, Olbia, l’approdo petrolifero di Sarroch-Porto Foxi,
Oristano, Palau e Arbatax.
Mappa 3.9. ZES Sarda. Comuni interessati.
FONTE: Elaborazione dell'Autore su base ©Google Satellite 2019.
Per queste ragioni, la scelta localizzativa dei 2.700 ettari da destinare a ZES si fonda su sei nuclei principali, tutti costieri:
- Il porto di Cagliari, composto da un porto commerciale, caratterizzato da traffico passeggeri, crocieristi, merci ro-ro e rinfuse solide
(principalmente cereali e minerali), e da un porto industriale, specializzato in transhipment e traffico petrolio;
- Il porto di Olbia, che movimenta sei milioni di tonnellate di
merci su gomma e tre milioni di passeggeri l’anno;
Le Zone Economiche Speciali nel Mezzogiorno d’Italia
75
- Il porto di Oristano, a vocazione prettamente industriale, dotato
di fondali profondi che permettono l’attracco di grandi navi e sul quale è in costruzione un rigassificatore che permetterà all’isola l’accesso
al mercato del gas naturale liquefatto;
- Porto Torres, specializzato nel ro-ro, nel trasporto passeggeri e
merci e, fino a qualche anno fa, nella movimentazione combustibili;
- Portovesme, che movimenta merci, passeggeri e ro-ro;
- Arbatax, specializzato principalmente in attività da diporto e nel
trasporto passeggeri da e per Genova, Civitavecchia e Fiumicino.
La selezione delle aree sulla base dei “perni” portuali tiene anche in
considerazione l’importante ritardo infrastrutturale terrestre dell’isola,
ritenuto elemento di debolezza importante la cui risoluzione si rende
necessaria al funzionamento della misura. Il rafforzamento delle infrastrutture terrestri è ritenuto elemento imprescindibile per garantire un
collegamento funzionale tra i nodi logistici selezionati (Regione Sardegna, 2018, p. 78). Tuttavia la scelta localizzativa non include i tre scali
aeroportuali (Cagliari, Alghero e Olbia), che sono comunque identificati come importanti elementi di connessione.
Gli obiettivi di sviluppo dell’economia regionale attraverso le potenzialità offerte dalla ZES sono legati principalmente alla crescita del
settore alimentare, principalmente attraverso il potenziamento
dell’export. Inoltre, la Regione punta a liberare l’economia del territorio
dall’eccessiva dipendenza dal settore energetico e in particolare dal
commercio petrolifero, che rappresenta l’88% del commercio estero. Il
piano prevede un importante incremento della componente container
nel traffico portuale, per via del maggior impatto occupazionale, soprattutto legata a merci da lavorare nelle aree retroportuali.
Per raggiungere questi obiettivi, sono individuate alcune azioni strategiche fondamentali per integrare la ZES con il sistema produttivo sardo:
- L’integrazione tra il Piano di sviluppo strategico e il Piano di
sviluppo della Autorità di Sistema Portuale (AdSP), che permetta infrastrutturazione e servizi logistici ai fini dello sviluppo competitivo
dei servizi marittimi;
- L’integrazione della ZES della Sardegna con le costituende zone
franche doganali intercluse dell’isola per il rafforzamento dell’export
extra Ue;
76
Capitolo 3
- Il coinvolgimento delle filiere produttive, in particolare
dell’agroalimentare, nei vantaggi previsti dalla ZES;
- L’integrazione amministrativa tra la ZES e il sistema dello Sportello Unico delle Attività Produttive;
- Un progetto di marketing territoriale della ZES Sarda imperniato
presso l’AdSP;
- La riduzione degli ostacoli alla partecipazione alle opportunità
comunitarie di finanziamento;
- La formazione e la valorizzazione delle risorse umane implicate
nella ZES (Regione Sardegna, 2018, p. 127/128).
La localizzazione della Zona riguarda dunque le sole realtà costiere
delle diverse province, che vengono coinvolte tutte. In particolare, la
superficie interessa il territorio delle province di Cagliari e di Sassari.
Come evidenziato da diversi indicatori, anche nella Determinante
Risorse e Fondi la Regione Sardegna risulta ottenere performance di livello massimo (A). A livello regionale, unico rallentamento si registra
nell’investimento sulla formazione professionale (C), mentre buoni ma
non ottimi risultati (B) sono raggiunti nella voce relativa alle spese per
sviluppo economico e competitività e alla partecipazione ai progetti
Interreg.
L’analisi a scala provinciale fa riferimento ancora ai ritagli amministrativi precedenti la riforma del 2016: questo limite compromette parzialmente la leggibilità del dato, la cui indagine ci permette comunque
di verificare la situazione dei territori anche nel loro nuovo assetto. A
questa scala è possibile verificare come i territori di Ogliastra e Medio
Campidano risultino complessivamente più in ritardo soprattutto negli indicatori che riguardano i fondi di coesione, la formazione professionale e le politiche per i giovani e per il tempo libero.
Il massimo livello (A) è registrato invece da Cagliari e Sassari, mentre il resto del territorio si ferma un passo indietro (B). Tra gli elementi
di maggior forza si riscontra la spesa in Ricerca e Sviluppo, che raggiunge un livello A in tutti i territori (esclusa l’Ogliastra). Forte attenzione si riscontra anche nella spesa per lo sviluppo sostenibile, dove
però Ogliastra, Medio Campidano e Carbonia-Iglesias riscontrano un
risultato di livello B.
77
Le Zone Economiche Speciali nel Mezzogiorno d’Italia
R&F
A
A
B
A
B
B
C
B
C
UF
A
A
B
A
C
A
D
C
D
RF_COOP
B
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B
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C
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D
D
D
RF_FCP
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Vuln
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RF_SpTra
A
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A
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RF_SpSS
A
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B
B
InCon
B
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B
C
B
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CU
B
A
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B
C
RF_SpFoP
C
B
C
B
C
C
D
C
D
RF_SpOc
A
A
B
A
B
B
B
B
C
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A
A
A
A
A
A
B
A
B
RF_SpSvE
B
A
B
A
B
B
C
B
C
A
A
A
A
A
A
A
A
B
VS
CI
OG
OT
OR
CG
NU
SS
Sardegna
RF_SpR&S
Tabella 3.9. STeMA, Determinante Risorse e Fondi, Regione Sardegna.
FONTE: Prezioso, 2019.
L’efficacia della misura incentivante trova quindi un valore iniziale
in termini di efficienza amministrativa importante, che rappresenta un
buon presupposto per l’attrazione di incentivi industriali e per un
buon uso delle potenzialità legate all’installazione della ZES sul territorio dell’isola.
78
Capitolo 3
3.1.6. La ZES Abruzzese
Priva di un porto di livello europeo, la Regione Abruzzo iniziò interlocuzioni con il vicino Molise per la creazione di una ZES interregionale
in accordo con quanto previsto dall’art.8 comma 2 del Regolamento
per l’istituzione delle ZES, pensato proprio per Abruzzo e Molise: “Le
regioni nel cui territorio non sono ubicate Aree portuali, qualora contigue, possono presentare istanza di istituzione di una ZES in forma
associativa, includendo uno o più porti che non rientrino nella categoria di Aree portuali” (DPCM, 12/2018).
Mappa 3.10. ZES Abruzzo. Comuni interessati.
FONTE: Elaborazione dell'Autore su base ©Google Satellite 2019.
Tuttavia, nell’agosto 2018, il Molise deliberò l’accordo con la Puglia
per l’istituzione della ZES Adriatica, gettando in confusione l’Abruzzo
che contestualmente deliberava un inesistente accordo con Campobasso, ritrovandosi ad affrontare il rischio di non poter più accedere ai
vantaggi previsti dalla misura. La decisione della Regione contermine
crea infatti un problema di interpretazione della legge che, nella forma
usata nel DL 91/2017, recita “Le regioni che non posseggono aree por-
Le Zone Economiche Speciali nel Mezzogiorno d’Italia
79
tuali aventi tali caratteristiche possono presentare istanza di istituzione di una ZES solo in forma associativa, qualora contigue, o in associazione con un'area portuale avente le caratteristiche di cui al comma
2”: la risposta proviene dal capo di gabinetto del Ministro del Sud
(prot. 0000628-P del 12 settembre 2018) che – interrogata – dichiara che
l’Abruzzo può costituire la propria ZES in modo “regionale” in quanto
i porti di Ortona e Pescara fanno capo all’Autorità di Sistema Portuale
di Ancona, che è porto principale da regolamento Ue 1315/2013.
Nel febbraio 2019 è stato approvato il Piano di Sviluppo Strategico della ZES Abruzzese. Nel documento si presenta la situazione
socioeconomica del territorio, che si pone come la Regione economicamente più avanzata del Mezzogiorno, con dati riferiti al PIL,
all’innovazione e all’export in continua crescita. A fare da traino, i settori produttivi indicati come maggiormente competitivi, che vengono
individuati per province (Regione Abruzzo, 2019, pp. 13-23):
Nella provincia di Chieti:
- Industrie alimentari, delle bevande e del tabacco;
- Industrie del legno e prodotti in legno;
- Fabbricazione articoli in gomma;
- Produzione metallo;
- Fabbricazione mezzi di trasporto.
Nella provincia di Pescara:
- Prodotti igienicosanitari;
- Fabbricazione di macchine ed apparecchi meccanici;
- Industria tessile e dell'abbigliamento;
- Industria alimentare;
- Produzione di metallo e di prodotti in metallo;
- Fabbricazione di macchine e apparecchiature elettriche e ottiche.
Nella provincia de L’Aquila:
- Information and Communication Technology;
- Agroalimentare.
Nella provincia di Teramo (tessuto industriale composto quasi
completamente da PMI a bassa specializzazione):
- Artigianato;
- Moda e abbigliamento;
- Attività turistiche.
80
Capitolo 3
La scelta delle aree da destinare a ZES ha seguito, nell’ambito di un
percorso di condivisione con gli attori territoriali, un principio fondato
su tre direttrici principali:
- Ortona-Vasto, con le aree industriali di Val di Sangro e San Salvo;
- L’asse Pescara-Civitavecchia, passante per le aree produttive e
logistiche di Manoppello, Sulmona-Pratola Peligna, Avezzano e Carsoli;
- L'autoporto di Roseto.
R&F
C
C
C
C
C
UF
B
C
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B
B
RF_COOP
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D
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D
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D
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D
D
D
D
D
RF_SpSvEc
D
D
D
D
D
D
D
D
D
D
Pescara
Chieti
Teramo
L'Aquila
Abruzzo
RF_SpR&S
Tabella 3.10. STeMA, Determinante Risorse e Fondi, Regione Abruzzo.
FONTE: Prezioso, 2019.
A differenza delle altre proposte di ZES, quella dell’Abruzzo è
orientata principalmente alle aree industriali collocate lungo le direttrici principali, e lascia in secondo piano la realtà costiera: della superficie totale, pari a 1.703 ettari, solamente 47 – pari al 2,76% – sono di
Le Zone Economiche Speciali nel Mezzogiorno d’Italia
81
competenza di scali portuali (32 ettari a Ortona, 15 a Vasto), mentre
643,1 ettari (37,76%) sono occupati da aree produttive.
Anche in questo caso, il punto debole del territorio risulta essere la
qualità della rete infrastrutturale, per la quale sono previsti interventi
ordinari e straordinari, parzialmente finanziati dall’Unione europea
anche in previsione di un aumento dei traffici merci sia navale, sia su
strada sia su ferro.
Il Piano riporta anche l’obiettivo di policy di trasferire la competenza
degli scali regionali al porto di Civitavecchia (che non è un porto core
ma fa parte della rete come scalo “centrale”), nell’obiettivo di restituire
centralità alla sponda dell’Abruzzo nel progetto di corridoio intermodale Tirreno-Adriatico che doti Roma di uno sbocco diretto verso Est e
la Regione di una funzione commerciale dell’asse trasversale Civitavecchia-Ortona-Pescara, per la relazione tra i porti del Mediterraneo
Occidentale (la Penisola Iberica), e le Regioni dei Balcani su cui sviluppare il trasporto combinato marittimo-terrestre mediante navi ro-ro
(Regione Abruzzo, 2019, p. 89). La questione ha generato un vivo dibattito nella politica locale soprattutto in riferimento alla possibilità di
istituire la ZES facendo leva sul porto di Civitavecchia. Il Ministro per
il Sud ha affermato, a marzo 2019, che l’istituzione della ZES sarebbe
dipesa dal mantenimento di Ancona come porto di riferimento, per via
della presenza di maggiori nessi infrastrutturali e funzionali e soprattutto per via del fatto che la Regione Abruzzo aveva già presentato
domanda in questo senso.
Gli obiettivi regionali per lo sviluppo della ZES sono indicati in:
- Attrazione di investimenti diretti, locali ed esterni all’area, per
rafforzare la vocazione industriale e aumentare la competitività delle
imprese insediate;
- Incremento delle esportazioni;
- Creazione di nuovi posti di lavoro e aumento complessivo del
PIL pro capite regionale;
- Rafforzamento della rete infrastrutturale.
Il livello di efficienza della spesa mostrato dagli indicatori raccolti
nella matrice Risorse e Fondi restituisce l’immagine di un Abruzzo poco efficiente, con un livello globale pari a C. Il risultato è composto da
diverse voci, fra le quali l’unica di livello massimo risulta la spesa dei
82
Capitolo 3
fondi di coesione. Scarsissimi i livelli di spesa nel settore
dell’Innovazione competitiva e del capitale umano, mentre maggior
attenzione è riservata alla qualità della vita e alla competitività sostenibile 6.
La ZES, distribuita abbastanza equamente su tutto il territorio (con
una prevalenza per le aree costiere) troverà quindi una realtà amministrativa bisognosa di significative migliorie nell’efficienza della spesa,
per garantire l’attrazione di un buon livello di investimenti e la capacità, attraverso essi, di generare conseguenze positive per tutto il territorio.
3.1.7. Le ZES Siciliane
A dispetto di risultati nella spesa pubblica che segnano ancora un significativo (e crescente) ritardo, la Regione Siciliana è stata l’ultima, tra
le Regioni dotate di porti di livello europeo, a elaborare il Piano di sviluppo strategico, passo obbligato per l’istituzione della ZES.
Per l’elaborazione del documento è stata incaricata un’apposita cabina di regia, istituita il 28 marzo 2018 (Deliberazione di Giunta Regionale n. 145) con il compito anche di individuare e selezionare le aree
da destinare a ZES.
La data di pubblicazione del documento è stata inizialmente prevista per la fine del 2018, in linea con le altre Regioni, ma questo organo
ha invece elaborato una relazione di sintesi sui “Criteri per
l’identificazione delle aree candidate a ZES” recepita dall’Assessorato
alle attività produttive, contenente le Linee guida da seguire nella selezione delle aree:
-
Valorizzare aree sub-regionali con significative potenzialità di
È importante notare come, essendo alcuni dati desunti dai bilanci regionali, nel
caso dell’Abruzzo questi risultino in alcuni casi problematici, e contenenti elementi di
difficile composizione in un quadro coerente. Tuttavia, trattandosi di bilanci votati e
pubblicati, l’analisi ha dovuto tenerne conto senza indagare le ragioni di una costruzione deficitaria e a tratti poco credibile. I risultati complessivi, tuttavia, potrebbero
risentire di questo problema.
6
Le Zone Economiche Speciali nel Mezzogiorno d’Italia
83
sviluppo, evitando però l’eccessiva frammentazione;
- Integrare le aree portuali senza dimenticare le aree interne;
- Individuare aree con sufficiente disponibilità di spazi liberi, facendo attenzione a non creare sperequazioni con le attività produttive
esistenti;
- Privilegiare le aree produttive che già trovano nei porti principali aree di sbocco per l’export;
- Privilegiare le aree pubbliche prive di vincoli;
- Includere le aree SIN (Siti di Interesse Nazionale) (Regione Siciliana, 2019a).
Il documento è frutto delle interlocuzioni avute dalla Cabina di Regia con i soggetti interessati, e soprattutto con le Autorità di Sistema
Portuale e con l’Autorità portuale di Messina, ed è stato recepito dalla
Giunta Regionale e inserito nella Deliberazione n. 187 sulle “Linee
guida per la definizione del procedimento di delimitazione delle Zone
Economiche Speciali”, nella quale viene stabilito anche il cronoprogramma da rispettare, che prevede l’invio del Piano al Ministero entro
il 30 giugno 2019 (Regione Siciliana, 2019a).
L’8 agosto 2019 il Presidente della Regione Siciliana ha presentato i
Piani di Sviluppo Strategico per le due ZES, che avranno a disposizione 5.580 ettari di terreno, 1.696 dei quali destinati alla ZES della Sicilia
occidentale e 3.422 a quella della Sicilia orientale: le due Zone sono difatti imperniate sui due porti di livello “centrale” della rete TEN-T,
Augusta e Palermo-Termini Imerese. Della superficie totale prevista,
anche la Regione Siciliana, come già la Puglia e il Molise, ha deciso di
mettere una parte (462 ettari, pari a circa l’8,5%) a disposizione dei
comuni attraverso un avviso pubblico.
Il bando, pubblicato il 9 agosto stesso, è rivolto ai territori comunali
che vogliano proporre un’area non residenziale di propria pertinenza,
sottolineando il nesso economico-funzionale esistente con l’area portuale, la dotazione infrastrutturale di base e la vocazione produttiva
che trovi nel porto il naturale sbocco per l’export.
84
Capitolo 3
Mappa 3.11. ZES Sicilia Occidentale. Comuni interessati.
FONTE: Elaborazione dell'Autore su base ©Google Satellite 2019.
La Regione Siciliana ha poi avviato un’interlocuzione con il Ministero delle Infrastrutture e dei Trasporti finalizzata all’istituzione della
XVI Autorità di Sistema Portuale con sede a Messina, alla quale attribuire la responsabilità dei Porti di Reggio Calabria e di Villa San Giovanni, altrimenti di competenza dell’AdSP del Tirreno Meridionale. Il
MIT ha espresso parere positivo nel novembre 2018, generando fermento (e diverse polemiche) soprattutto nella richiesta, da parte delle
autorità politiche messinesi, affinché l’Autorità sia dotata anche di una
sua Zona Economica Speciale autonoma, che sarebbe la terza nella Regione.
La ZES della Sicilia Occidentale è imperniata sul Porto di PalermoTermini Imerese e comprende i porti di Trapani, Mazara del Vallo,
Marsala, Licata e Porto Empedocle, i rispettivi retroporti, l’aeroporto
di Trapani, alcune zone della città di Palermo e diverse aree industriali
(Aragona-Favara, Caltanissetta, Carini, Palermo-Brancaccio, Termini
Imerese e Trapani), alcune delle quali oramai dismesse e dotate quindi
di ampi spazi liberi. L’obiettivo è specializzare l’area come distretto
Le Zone Economiche Speciali nel Mezzogiorno d’Italia
85
culturale per le arti moderne, fondato anche sull’area di Carini dove
sorgerà un importante centro di ricerca.
Mappa 3.12. ZES Sicilia Orientale. Comuni interessati.
FONTE: Elaborazione dell'Autore su base ©Google Satellite 2019.
La ZES della Sicilia Orientale si fonda sull’area portuale di Augusta,
e comprende i porti di Catania, Pozzallo, Milazzo e Messina con i rispettivi retroporti, l’aeroporto di Comiso, gli interporti di Catania e di
Melilli e alcune aree industriali (Gela, Paternò, Belpasso, MessinaLarderia, Villafranca Tirrena, Augusta-Melilli, Priogo Gargallo, Siracusa, Milazzo-Giammoro, Tremestieri ed Enna), oltre ad alcune aree industriali di Catania e di Messina.
I Piani sono stati redatti in contemporanea e contengono valutazioni
complessive analoghe. L’obiettivo dichiarato di entrambi è quello di
rafforzare la competitività delle aree portuali e industriali esistenti,
puntando in particolare alla crescita degli investimenti e soprattutto
all’aumento dell’export: quest’ultimo elemento, come nel caso della
Sardegna, si rende di particolare urgenza per restituire competitività al
sistema produttivo siciliano, che ad oggi paga un isolamento dovuto
86
Capitolo 3
all’insularità e all’assenza di infrastrutture terrestri adeguate.
Tabella 3.11. L’impatto previsto delle ZES Siciliane.
Sicilia
Sicilia Orientale
Sicilia
Occidentale
Agevolazioni
102
198
300
Investimenti indotti
263
562
825
Esportazioni
614
1.330
1.944
56
117
173
PIL/Agevolazioni (%)
54,9%
59,2%
57,7%
PIL/Base (%)
0,1%
0,1%
0,2%
Importazioni nette
216
460
676
Investimenti totali
266
568
834
Occupati (#)
402
797
1.199
poten-
ziali
Impatto investimenti
PIL
Impatto investimenti ed esportazioni
PIL
181
398
579
177,8%
200,8%
193,0%
0,2%
0,4%
0,6%
Importazioni nette
111
233
344
Investimenti totali
276
595
870
1.964
4.408
6.372
PIL/Agevolazioni (%)
PIL/base (%)
Occupati (#)
FONTE: Regione Siciliana, 2019b, p. 2
Gli uffici statistici regionali hanno quindi previsto un incremento
dell’export con un impatto non radicale sul PIL (+0,6%) e la creazione
di oltre 6mila posti di lavoro, attraverso la promozione dei settori individuati come strategici nello sviluppo della produttività regionale: in
particolare:
- Attività estrattive;
- Attività manifatturiere;
- Logistica;
- Servizi.
La Regione ha previsto, oltre ai vantaggi comuni a tutte le ZES, di
Le Zone Economiche Speciali nel Mezzogiorno d’Italia
87
inserire nel Documento di Economia e Finanza Regionale 2020/2022 la
previsione di un credito d’imposta, da erogare alle imprese che operano all'interno delle ZES, proporzionato ai ricavi derivanti dall'attività
svolta nella Zona.
Inoltre, sono previste agevolazioni all’imprenditoria, fra le quali un
Fondo di garanzia per l’accesso al credito delle PMI, un credito
d’imposta per la formazione e l’esenzione dall'imposta regionale sulle
attività produttive per cinque periodi d’imposta alle imprese:
- Turistiche e alberghiere;
- Artigianali;
- Dei beni culturali;
- Agro-alimentari;
- Del settore dell'Information Technology;
- Di qualunque settore, nate dopo il 2004 e con sede legale in Sicilia, che non superino i 10 milioni di euro di fatturato.
Questi vantaggi andranno a sommarsi alla prossima delimitazione
delle Zone Franche Doganali Intercluse, come nel caso della Sardegna,
che andranno a comporre un quadro complessivo e organico di vantaggio per la realtà produttiva regionale (Regione Siciliana, 2019b, p.
4/5).
Il territorio previsto per l’istituzione delle due ZES riguarda l’intera
regione, e coinvolge in maniera abbastanza uniforme le nove province.
Tuttavia, la misura rischia di risentire del significativo ritardo della
Regione Siciliana nel raggiungimento degli obiettivi di spesa previsti
per la strategia Eu2020.
Nel suo complesso, l’isola totalizza un risultato di livello C, composto tuttavia da indicatori di diverso segno: l’unico indicatore che registra un ottimo livello risulta essere quello legato all’utilizzo dei fondi
di coesione anche se questo sappiamo essere attualmente oggetto di
approfondimenti da parte della Commissione europea nel riconoscimento delle spese effettuate.
Tutti gli altri indicatori presentano livelli medi o medio-bassi, in
particolare per quanto riguarda la spesa in Ricerca e Sviluppo, in formazione professionale, nei trasporti e nelle politiche di sostegno
all’occupazione (D). Livelli appena superiori si incontrano
nell’indicatore che misura la partecipazione a progetti Interreg.
88
Capitolo 3
R&F
C
C
B
B
C
C
C
C
C
B
RF_COOP
UF
B
C
A
A
B
C
B
C
B
A
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D
A
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C
C
C
B
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C
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QV
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C
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B
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B
D
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B
C
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D
D
D
B
RF_SpSoc
B
C
A
B
B
D
D
C
C
A
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D
D
B
C
D
D
D
D
D
B
RF_SpTra
CS
C
C
A
B
C
C
C
C
C
B
D
D
B
C
D
D
D
D
D
C
RF_SpSS
B
B
A
B
B
C
C
B
B
A
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C
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CU
C
C
B
B
C
C
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C
B
D
D
C
D
D
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D
D
D
C
RF_SpOc
B
B
A
A
B
B
C
B
B
A
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D
D
D
D
D
D
D
D
D
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RF_SpSvEc
D
D
C
D
D
D
D
D
D
D
D
D
D
D
D
D
D
D
D
D
RG
SR
CT
EN
CL
AG
ME
PA
TP
Sicilia
RF_SpR&S
Tabella 3.12. STeMA, Determinante Risorse e Fondi, Regione Sicilia.
FONTE: Prezioso, 2019.
Scendendo a scala provinciale emerge evidente la disparità territoriale tra tre province maggiormente efficienti, Palermo, Messina e Catania (B), e le altre sei, tutte di livello C. Le tre province principali mostrano un uso consapevole dei fondi destinati all’occupazione e dei
fondi di coesione, mentre sullo sviluppo sostenibile Messina rimane
indietro.
Vera nota dolente risulta, a livello regionale, la capacità di spesa per
l’innovazione competitiva, sulla quale tutte le province raggiungono
Le Zone Economiche Speciali nel Mezzogiorno d’Italia
89
un livello D (eccezion fatta per Palermo, che nel solo indicatore legato
allo sviluppo economico si distingue con un C). Anche nella formazione professionale le province si mostrano poco competitive, con
l’eccezione di Catania e Palermo che con un livello C si distinguono
appena dal livello D delle altre.
La capacity building regionale, dunque, appare significativamente
bassa nella capacità di allocare le risorse regionali nelle voci utili alla
formazione del capitale umano, alla valorizzazione delle specificità
economiche, al rafforzamento del sistema produttivo, al superamento
delle
carenze
infrastrutturali
e
occupazionali.
L’efficacia
dell’istituzione delle ZES, come abbiamo visto, presuppone un impegno significativo nel conseguimento di buone performance territoriali, e
soprattutto nel rafforzamento della capacità dell’azione amministrativa, presupposto insostituibile perché la misura abbia gli effetti sperati,
e produca impatti positivi per l’intero territorio.
Capitolo 4
La Questione meridionale: un problema geopolitico
4.1. Diversi approcci alle politiche di sviluppo.
Il pluridecennale problema della “Questione meridionale” è da tempo
al centro degli studi meridionalisti di differenti discipline, impegnati a
indagare da differenti punti di vista le cause (geografiche, socioeconomiche, storiche, culturali, politiche) all’origine della profonda disparità di sviluppo economico e sociale delle regioni del Mezzogiorno
d’Italia rispetto alle regioni del Centro-Nord. Fra i principali studiosi
va menzionato Francesco Compagna, considerato il caposaldo dalla
scuola geografica meridionalista napoletana, che comprese come la
questione andasse affrontata da una prospettiva geografica, economica
e politica da compenetrare con le esigenze della politica pubblica
(D’Aponte, 2012), alle quali la geografia economica può fornire una visione complessa e autorevole7. Fu Compagna a insistere affinché si
comprendesse come la cosiddetta “questione meridionale” fosse in
gran parte un problema di organizzazione interna delle risorse nazionali, gli effetti della cui disparità sarebbero stati distribuiti anche a
svantaggio delle regioni settentrionali e – in ottica di integrazione europea – dell’economia continentale nel suo insieme. Al ben radicato
«meridionalismo piagnone che chiede privilegi»8, Compagna contrap-
Lo stesso Compagna mise impegno personalmente nell’attività giornalistica e politico-istituzionale, in particolare con la rivista Nord e Sud, di cui fu fondatore.
8 Intervento del Ministro Barca in occasione della presentazione del Rapporto della
SGI 2011, disponibile su https://www.radioradicale.it/scheda/345819/il-sud-i-sudgeoeconomia-e-geopolitica-della-questione-meridionale.
7
92
Capitolo 4
pose l’urgenza strategica per l’intero sistema nazionale di investire risorse ed energie non tanto nella compensazione di un divario economico, bensì nel recupero attivo di un capitale umano di partenza perduto a partire dalle grandi migrazioni del secondo dopoguerra, attraverso il quale il Sud avrebbe saputo realizzare uno sviluppo autonomo
e liberarsi dalla piaga dell’assistenzialismo e del clientelismo. Elemento fondamentale del suo pensiero fu infatti proprio la convinzione che
l’inferiorità del Mezzogiorno non fosse una realtà di cui prendere atto
e verso la quale studiare misure compensative, bensì un’insopportabile
situazione contingente che esigeva l’individuazione di soluzioni complesse in grado di sradicare le cause a monte, e non soltanto di ridurre
l’impatto a valle. In questo senso il pensiero di Compagna rinnovava il
monito di un altro autorevole meridionalista, Gaetano Salvemini, che
già a inizio Novecento intuì che il ritardo di sviluppo del Meridione
d’Italia non rappresentava una realtà locale da liquidare attribuendole
motivazioni endogene, bensì era da considerare «la condizione pregiudiziale per la trasformazione dell’Italia in un paese civile» (Arfé,
1968, p. XIII), da affrontare non con misure palliative ma con una «riforma della politica generale» (Lopez, 2015), cioè con interventi di politica pubblica che mirassero alla definitiva risoluzione delle carenze
strutturali e conseguentemente alla valorizzazione del capitale territoriale potenziale.
L’importante risultato culturale raggiunto da Compagna sarebbe da
rintracciare nel riconoscimento della necessità di uno sviluppo economico e sociale endogeno, fondato sul capitale territoriale potenziale del
Meridione, da intendersi come obiettivo strategico per l’intero sistema
Paese a vantaggio della competitività nazionale. Tuttavia, dal secondo
dopoguerra i governi dell’Italia repubblicana hanno individuato differenti e multiformi misure che hanno portato alterni risultati, insufficienti a risolvere il divario che tuttora pesa sulla competitività delle regioni meridionali e dell’Italia intera.
La storia dei provvedimenti ordinari e straordinari che i diversi governi hanno messo in campo nel tentativo di risolvere o compensare il
ritardo di sviluppo del Meridione è ad oggi una storia sulla quale pesa
grandemente la mancanza di quella “riforma della politica generale”
auspicata da Salvemini, resa difficoltosa anche da una sorta di deter-
Le Zone Economiche Speciali nel Mezzogiorno d’Italia
93
minismo geografico post litteram, che indugia facilmente nel pregiudizio di un’originale scarsità di capitale umano.
La più nota e complessa misura per lo sviluppo del Meridione è stata l’“Intervento Straordinario” concretizzato nell’istituzione della Cassa per il Mezzogiorno (CasMez), la cui esistenza è stata riassunta nei
tre periodi: pre-industrializzazione (1951-1961), industrializzazione
(dal 1962 alla fine degli anni Settanta) e stasi (1983-1992), quando lo
strumento si estinse (Lepore 2012, p.110; Prezioso, Servidio, 2012).
L’“Intervento Straordinario” aveva lo scopo di individuare progetti e
adeguati finanziamenti che rendessero possibile l’esecuzione di opere
finalizzate al progresso economico e sociale del Sud: per raggiungere
questo risultato, alla CasMez fu concessa larghissima autonomia finanziaria (con una dotazione iniziale di 100 miliardi l’anno)
nell’elaborazione di progetti che, finanziati attraverso fondi pubblici,
obbligazioni e finanziamenti privati, venivano sottoposti a tacita approvazione dai Ministeri allora competenti (Tesoro, Agricoltura e Lavori Pubblici). La misura aveva lo scopo di recuperare il divario industriale del Meridione incentivando l’impianto di attività del settore
primario e secondario che garantissero il raggiungimento dei prerequisiti di uno sviluppo duraturo, superando l’isolamento strutturale e
la marginalità delle regioni del Sud per far emergere i punti di forza di
un Mezzogiorno “industrializzabile” (D’Aponte, 1986, pp. 5-6), creando un apparato industriale stabile e competitivo tramite meccanismi di
incentivazione anche attraverso contributi a fondo perduto per gli investimenti industriali. La misura portò alla nascita di un discreto numero di industrie e aree industriali nel Mezzogiorno che tuttavia apportarono all’area un vantaggio soltanto parziale a causa di un approccio completamente spaziale, centralizzato e disattento rispetto alle
esigenze e al capitale potenziale dei territori: gli incentivi hanno permesso la creazione di singole realtà di eccellenza in un contesto sfavorevole, mancando l’obiettivo della costruzione di un tessuto industriale forte, connesso e legato al territorio e proponendo invece la stessa
ricetta per contesti differenti (Celant, 1990).
Trattandosi di una politica economica imitativa, caratterizzata da
un approccio top-down, centralizzato e spaziale, l’efficacia
dell’intervento è risultata soltanto parziale e ha pagato il mancato
94
Capitolo 4
coinvolgimento dei territori nella programmazione sistemica degli interventi sulla base di una preventiva analisi del capitale territoriale. Il
risultato è un tessuto industriale frammentato, “a macchia di leopardo”9, che non riesce a comporsi come sistema industriale (Capello,
2016).
L’Intervento Straordinario ebbe fine nel 1992 con lo scioglimento
dell’Agenzia per la promozione e lo sviluppo del Mezzogiorno (che
nel 1986 aveva sostituito la CasMez), e con esso terminò la politica di
gestione centralista delle politiche per le aree del Mezzogiorno:
l’affermazione di una prima politica comunitaria per lo sviluppo regionale e il contestuale rafforzamento del regionalismo in Italia produssero negli anni Novanta l’effetto di una frammentazione delle politiche per lo sviluppo, anche in risposta a una diffusa tendenza autonomista crescente al Settentrione ma anche nel Meridione. Gli obiettivi
della programmazione comunitaria dei fondi strutturali permisero
l’identificazione di aree deboli anche al Centro-Nord, portando al superamento di una concezione di straordinarietà dell’intervento pubblico nei confronti del solo Mezzogiorno.
Con l’orientamento politico rivolto al rafforzamento dei poteri regionali, e con la conseguente devoluzione prevista dalla riforma del Titolo V della Costituzione del 2001, e ancor prima con il rafforzamento
in sede europea del principio di sussidiarietà (CE, 1992, art. 5), le politiche di sviluppo hanno subito un processo di regionalizzazione soprattutto in termini di utilizzo dei fondi strutturali e nazionali (Carabba, 2012). La politica nazionale, di conseguenza, ha colto l’occasione
per una sostanziale “deresponsabilizzazione” (De Vincenti, 2017) rispetto al divario di sviluppo del Sud, anche in risposta al rigetto della
tradizionale impostazione centralista slegata dal territorio. Questa tendenza si è consolidata nei diversi cicli di programmazione comunitaria
nell’allocazione dei fondi strutturali europei, che rafforzavano il ruolo
delle Regioni nel rapporto diretto e sempre meno mediato con
l’Unione europea, deresponsabilizzando ulteriormente le competenze
statali nella tendenza all’interpretazione dei fondi europei come sostitutivi dei fondi nazionali invece che aggiuntivi – in disaccordo con la
9
L’immagine è stata rilanciata da De Vincenti nel 2017.
Le Zone Economiche Speciali nel Mezzogiorno d’Italia
95
necessità di compresenza di entrambe le fonti sottolineata in ambito
europeo (Di Taranto, Mascolo in Coco, Lepore, 2018, p. 104) –, e causando così un ulteriore smarcamento dello Stato e una crescente devoluzione alle Regioni, con ampi margini di autonomia nella responsabilità delle politiche. Nel regionalismo si è voluta vedere concretizzata
l’opportunità rivendicata dai territori di dar vita a uno sviluppo incentrato sul potenziale degli stessi, attraverso la responsabilizzazione della politica locale e regionale che, tuttavia, non ha prodotto il risultato
auspicabile di valorizzazione sinergica del capitale territoriale potenziale, portando al contrario spesso a politiche di minor impatto strategico nel Mezzogiorno, talora condizionate dall’influenza di potentati
locali, da inefficienze strutturali nella gestione della cosa pubblica e
soprattutto dal rafforzamento di meccanismi di competizione fra regioni, laddove sarebbe risultata necessaria una programmazione sinergica; la devoluzione dei poteri e delle risorse alle competenze regionali ha messo in evidenza quello che è spesso considerato il vero deficit del Sud: la scarsa capacità di valorizzazione del capitale sociale
(Costabile, 2012) e la scarsa qualità di governo. Diversi studi hanno infatti dimostrato come, mentre le lagging regions caratterizzate da basso
reddito potrebbero beneficiare ancora di strumenti tradizionali di sviluppo economico, nelle regioni a bassa crescita la scarsa qualità
dell’azione governativa rappresenta la principale barriera allo sviluppo, in particolare in Italia, dove i dati relativi alla institutional quality o
capacity building mostrano un continuo peggioramento (RodrìguezPose, Ketter, 2019).
Una nuova fase nel rapporto centro-territorio è sembrata volersi
inaugurare con l’istituzione, nel novembre 2011, del primo Ministero
in Unione europea per la Coesione Territoriale (MCT) guidato da Fabrizio Barca. Il nome del dicastero voleva interpretare la necessità di
recuperare il controllo centrale della politica di coesione, pur nel rispetto delle autonomie regionali, ponendo fine a una dannosa frammentazione delle politiche e alla deresponsabilizzazione dello Stato.
L’occasione è sembrata provenire proprio dal ritardo accumulato al
Mezzogiorno, nella spesa dei contributi europei per la coesione territoriale, con il conseguente rischio di disimpegno automatico dei fondi:
un ritardo definito «paradossale di fronte alla gravità e alla perseve-
96
Capitolo 4
ranza del ciclo economico avverso» (MCT, 2013, p.5). Il ruolo del MCT
si incarica così di fronteggiare le inefficienze delle Regioni, configurando una necessaria “azione di presidio nazionale” finalizzata alla responsabilizzazione degli amministratori locali attraverso strumenti di
controllo della gestione efficace dei fondi strutturali, sia da parte governativa sia da parte dei cittadini direttamente coinvolti nel processo
di monitoraggio delle politiche di sviluppo regionale. La ratio
all’origine di questa scelta è la necessità di conservare i livelli di autonomia delle Regioni nell’allocazione della spesa evitando di ricadere
nel centralismo, ma al tempo stesso sottoponendo le decisioni a un
controllo attento e continuo che garantisca la corretta gestione della
spesa.
L’efficacia delle attività di presidio ministeriale sono rese possibili
da strumenti di condizionamento virtuoso delle politiche locali quali il
supporto tecnico specializzato alle amministrazioni locali nella gestione degli strumenti di utilizzo dei fondi di coesione, sopralluoghi sulle
opere in corso di realizzazione e pubblicazione dei dati sullo stato di
avanzamento, coinvolgimento degli attori locali nella proposta di riorganizzazione delle priorità, identificazione di obiettivi chiari e raggiungibili e messa in atto di un sistema di open data concretizzato nella
realizzazione di un portale (opencoesione) di informazione sugli interventi finanziati con i fondi di coesione, con l’obiettivo di coinvolgere
direttamente l’elettorato regionale nella sollecitazione relativa alla realizzazione di opere di pubblica utilità e condizionare così le amministrazioni locali nella corretta e rapida gestione dei fondi. L’insieme di
questi strumenti, e in particolare il meccanismo di open data, rappresentano il tentativo di fare leva sul capitale umano-politico potenziale
esistente, rafforzando gli strumenti di controllo a disposizione della
cittadinanza per destabilizzare gli “equilibri perversi” (rendite di posizione, clientelismi, sprechi di risorse, illegalità) nei quali si annida la
malversazione (MCT, 2013. p.6).
L’azione del MCT, del Dipartimento per le Politiche di coesione
(presso la Presidenza del Consiglio dei ministri) e dell’Agenzia per la
Coesione Territoriale intendono rappresentare un cambio di passo nelle politiche di sviluppo regionale, che si cerca di rifondare su
un’impostazione multisettoriale fondata su una nuova collaborazione
Le Zone Economiche Speciali nel Mezzogiorno d’Italia
97
fra i diversi livelli dell’amministrazione fondata sulla responsabilità e
sulla valorizzazione delle potenzialità territoriali nella direzione di una
coesione amministrativa, da compenetrare con un controllo statale di
efficienza della spesa fondato sul sostegno alle amministrazioni meno
efficienti, sull’esecuzione di sopralluoghi sul territorio, sulla pubblicità
dello stato di avanzamento dei progetti, sulla realizzazione di specifiche azioni territoriali di interesse strategico nazionale, sulla valutazione ex ante ed ex post dei progetti e soprattutto sull’esercizio del potere
di sostituzione, secondo il principio di sussidiarietà verticale, da parte
dell’Ispettorato Generale per i Rapporti Finanziari con l'Unione Europea (IGRUE) del Ministero dell’Economia e delle Finanze nei confronti
delle amministrazioni locali che, malgrado il sostegno tecnico offerto,
non risultino in grado di effettuare le spese e pregiudichino così la realizzazione dei progetti e il recupero dei fondi europei.
Al di là dell’effettivo funzionamento del sistema, ancora da verificare sul lungo periodo (SVIMEZ, 2016, p. 352) questo approccio intende
individuare un nuovo equilibrio nei rapporti centro-territorio, superando le distorsioni causate dal centralismo e dal regionalismo in direzione di una equa distribuzione di poteri e responsabilità amministrative. Il ruolo dello Stato rimane fondamentale, in chiave sussidiaria,
nella proposta di politiche di sviluppo ai territori, che tuttavia necessiterebbero di una responsabilizzazione ulteriore in ottica di territorial
evidence (Prezioso, 2007), cioè nella scelta di politiche fondate sugli effettivi bisogni dei singoli territori nel quadro degli obiettivi 2020 e post,
in un contesto strategico complessivo nazionale.
4.2. Un divario ancora grave.
Il susseguirsi pluridecennale di differenti approcci politico-culturali
nelle politiche di sviluppo regionale ha prodotto scelte che non sono
state in grado di ridurre in maniera significativa e duratura il divario
economico tra le regioni meridionali e quelle del Centro-Nord. Questo
divario si è reso particolarmente evidente in occasione della recente
crisi economica globale del 2008, che ha messo in luce la debolezza
strutturale del sistema industriale meridionale di fronte alle crisi: dal
98
Capitolo 4
2008 al 2015 l’economia del Mezzogiorno ha subito una perdita di valore aggiunto cumulato pari all’11,6%, contro il 6,3% del Centro-Nord,
mentre il numero degli occupati si è ridotto di quasi un punto percentuale l’anno, contro un -1,6% del Centro–Nord complessivo nell’intero
periodo. Anche il PIL del Mezzogiorno ha subito un decremento, durante la crisi, in maniera significativamente più importante del PIL delle regioni del Settentrione: -12,3 punti percentuali contro i -7,1 del Centro-Nord, dato formato da una riduzione della domanda interna del
16,4% e degli investimenti fissi lordi addirittura del 40,9%10 (SVIMEZ,
2016, pp. 10-12). Il calo degli investimenti ha messo alla prova il tessuto industriale del Sud, all’interno del quale maggiore resilienza è stata
mostrata dal turismo e dall’export di prodotti di eccellenza, mentre
maggiormente penalizzati sono risultati i settori industriali che più risentono dei problemi strutturali, in particolare il settore manifatturiero
(-32,5% contro il -12% nazionale) che ha perso imprese vivaci ma impreparate di fronte a una depressione economica di vasta portata.
La scarsa resilienza dimostrata in occasione della crisi non ha però
cancellato una certa vitalità industriale (sotto alcuni aspetti sorprendente), che riguarda in particolare alcune realtà territoriali e non
l’intero sistema meridionale. I dati pubblicati da Infocamere relativi al
tasso di crescita imprenditoriale evidenziano come, dalla crisi del 2009,
il saldo fra iscrizioni e cessazioni di imprese permanga al 2019 su numeri negativi per tutta Italia; rispetto a questo dato il Mezzogiorno
mostra una vitalità importante raggiungendo, a seconda dei trimestri
analizzati, livelli positivi o meno negativi del Nord. Analoga vitalità è
evidenziata dal tasso di crescita delle imprese digitali, rispetto alle
quali le regioni del Sud mostrano un crescente interesse vedendo in esse uno strumento per aggirare la cronica difficoltà infrastrutturale (Coco, Lepore, 2018, p. 77).
Secondo il VI e il VII Rapporto sulle Politiche di coesione redatti
dalla Commissione europea (2014 e 2017) il meccanismo di investimento sulla coesione territoriale finalizzato alla convergenza delle regioni lagging ha prodotto risultati significativi in termini di riduzione
La domanda del Centro-Nord si è assestata al -8,7%, gli investimenti al -26,1%
(SVIMEZ, 2016, pp. 10-12)
10
Le Zone Economiche Speciali nel Mezzogiorno d’Italia
99
generale del divario economico, anche in seguito alla crisi, che aveva
interrotto il processo virtuoso trovando il tessuto produttivo delle regioni in ritardo di sviluppo più debole e meno resiliente rispetto a
quelle sviluppate da più tempo (Commissione europea, 2014; Commissione europea 2017). Tuttavia, nel complesso delle lagging regions
europee, il Mezzogiorno registra nel complesso il minor tasso di crescita (Commissione europea, 2017, p. 15), con un aumento complessivo
del PIL pro capite del 12,9% nel periodo 2001-2014, che rappresenta il
peggior risultato fra le lagging regions Ue (dopo la Grecia) che arrivano
a una media di 64,6% (SVIMEZ, 2016, p. 337).
Il dato quantitativo del PIL non è sufficiente tuttavia a dipingere
adeguatamente l’entità del ritardo complessivo nello sviluppo del Meridione: altri indici aggregati mostrano una realtà sociale che rispecchia le problematiche economiche ampliandone la prospettiva.
L’Indice di Progresso Sociale (SPI), utilizzato per misurare a scala regionale la qualità del progresso sociale attraverso 50 indicatori posizionava nel 2013 le regioni italiane del Sud, con un valore di 50,8, al
fondo estremo della classifica delle regioni “convergenza” Ue a 28, dietro la Grecia, che raggiungeva un SPI di 55,5 (SVIMEZ, 2016, p. 343).
Tra le ragioni individuate alla base di questa perdurante situazione
prioritaria risulta la questione della qualità dell’azione amministrativa,
vero problema del Mezzogiorno in grado di rendere vani parte degli
sforzi di recupero del ritardo di sviluppo: la complessiva scarsa qualità
di governo delle amministrazioni pubbliche è forse il principale impedimento al raggiungimento degli obiettivi di crescita legati alla politica
di coesione: a questo fine, l’approccio place-based più volte richiamato
in Europa necessiterebbe di un contestuale investimento in capitale
umano soprattutto nelle amministrazioni locali chiamate alla realizzazione degli obiettivi contenuti nei Patti Territoriali nel rispetto
dell’Obiettivo Tematico 1111 della politica di coesione 2014-2020 (Coco,
Lepore, 2018, p. 101).
L’assenza di questo investimento ha pregiudicato i risultati, come
evidenziato dal Commissario Ue alle politiche regionali 2014-2019 Corina Cretu, che ha denunciato gli scarsi risultati raggiunti in termini di
11
“Migliorare l’efficienza della pubblica amministrazione”.
100
Capitolo 4
crescita a fronte di una maggiore spesa di fondi destinati alla coesione,
individuando il problema proprio nella “capacità amministrativa”
(ANSA, 2017).
L’evidenza di questa situazione si ha attraverso la verifica
dell’efficienza nella spesa dei fondi strutturali e poi dei fondi strutturali integrati da parte delle amministrazioni regionali del Sud nei diversi
periodi di programmazione. Nel 2000-2006, settennato nel quale l’Italia
beneficiò della quota maggiore di fondi strutturali di tutta Europa, le
risorse stanziate per gli interventi cofinanziati sul territorio nazionale
ammontavano a oltre 64.587 milioni di euro (di cui 31.655 milioni di
cofinanziamento nazionale), il 72% dei quali destinati all’Obiettivo 112,
mentre al finanziamento di azioni nelle zone del Centro-Nord, ricadenti all’interno degli obiettivi 2 e 3, era stato destinato, rispettivamente,
l’11% e il 14% del contributo totale (Coco, Lepore, 2018, p. 97).
Considerando un buon indicatore di efficienza della politica regionale la performance nella spesa dei fondi strutturali nell’ambito dei Programmi Operativi Regionali, alla data del 31 dicembre 2005, a un anno
dal termine del periodo di programmazione, le regioni dell’Obiettivo 1
avevano speso soltanto il 42,8% dei fondi totali, contro il 60,65% dei
POR delle regioni Obiettivo 3. Due anni dopo, il 31 dicembre 2007,
l’attuazione finanziaria dei POR delle regioni Obiettivo 1 era del
76,4%, contro l’87,3% delle regioni Obiettivo 3 (fra le quali il Friuli Venezia Giulia e la Provincia Autonoma di Trento, che avevano già raggiunto il 100% della spesa, e l’Emilia-Romagna, la Liguria, la Lombardia e la Provincia Autonoma di Bolzano che avevano superato abbondantemente il 90%).
La situazione non è cambiata nella programmazione successiva: al
31 dicembre 2012, sempre a un anno di distanza dalla conclusione del
periodo di programmazione, le regioni dell’obiettivo Convergenza
La programmazione 2000-2006 individuava 3 obiettivi principali. Le regioni
dell'obiettivo 1 erano quelle in cui il PIL pro capite (misurato secondo gli standard del
potere d'acquisto e calcolato sulla base dei dati disponibili al 26 marzo 1999) era inferiore al 75% della media comunitaria. Per quanto riguarda l'Italia, le regioni che rientravano nell'obiettivo 1 erano Basilicata, Calabria, Campania, Puglia, Sardegna e Sicilia. Il Molise risultava in sostegno transitorio o phasing out.
12
Le Zone Economiche Speciali nel Mezzogiorno d’Italia
101
avevano speso il 31% dei fondi disponibili sulla programmazione
2007-2013, contro il 49,1% spesi dalle regioni dell’obiettivo Competitività.
Malgrado poi i diversi meccanismi di controllo e di incentivazione
messi in campo dal Ministero della Coesione Territoriale (poi Ministero per il Sud), la situazione evidenziata dal monitoraggio dell’Agenzia
della Coesione Territoriale il 31 luglio 2018 per la programmazione
2014-2020 ha evidenziato ritardi analoghi sui fondi FSE, per i quali le
percentuali di spesa ammontavano a 27,3% delle regioni in ritardo di
sviluppo, 40,96% per le regioni maggiormente sviluppate e il 36,23%
delle regioni in transizione. Tendenza inversa per il Fondo Europeo di
Sviluppo Regionale (FESR), nel quale le regioni in ritardo di sviluppo
avevano totalizzato una spesa media pari a 70,46%, a fronte di un
62,78% delle regioni maggiormente sviluppate e un 54,23% delle regioni in transizione (dati Agenzia della Coesione).
L’evidenza
dell’importanza
dell’investimento
prioritario
sull’infrastruttura umana e sulla qualità dell’azione politica ha portato
al rafforzamento dell’Obiettivo Tematico 11 della politica di coesione
2014-2020 e all’approvazione dello strumento dei Patti per lo Sviluppo,
cioè accordi fra Governo nazionale, Regioni e Città metropolitane per
la realizzazione di progetti individuati di concerto nell’ambito di obiettivi prioritari. Si tratta di uno strumento che introduce una governance
paritetica fra i diversi livelli dell’amministrazione nella realizzazione
dei progetti, sotto il coordinamento e la sorveglianza dell’Agenzia della Coesione Territoriale (Galletta et al., 2019, p. 225). Il documento che
rilancia la nuova sinergia di sussidiarietà verticale nelle politiche di
coesione è il Masterplan per il Mezzogiorno (MCT, 2016), che partiva
dalla consapevolezza di una disponibilità residua potenziale di risorse
per le politiche di coesione territoriale pari a 115 miliardi nel ciclo di
programmazione, a dimostrazione di come non siano le risorse a mancare ma la capacità di spendere su progetti coesivi utili per il territorio.
I 16 Patti per il Sud (uno per ognuna delle 8 Regioni, uno per ognuna delle 7 Città Metropolitane e uno specifico per Taranto) siglati dal
Governo nel 2016 hanno l’obiettivo di definire gli assi prioritari di
azione, specificando le responsabilità, i fondi e le tempistiche. Si tratta
di strumenti differenti rispetto ai precedenti (e fallimentari) Patti Terri-
102
Capitolo 4
toriali, in quanto si fondano su obiettivi individuati dal territorio, le
cui azioni sono sottoposte a un rigido coordinamento nazionale
nell’attuazione. Nella definizione delle priorità, grande attenzione è
stata posta alla visione strategica che i territori hanno di se stessi,
all’attenta ricognizione delle risorse esistenti e individuabili, e
all’individuazione di chiare procedure e tempistiche che permettano la
responsabilizzazione della politica locale nella realizzazione degli impegni (Galletta et al., 2019, p. 227), allo scopo di ricucire un rapporto
virtuoso fra centro e periferia, fra amministrazione centrale e territorio,
che distribuisca a entrambi i livelli la responsabilità di una pianificazione strategica integrata dello sviluppo regionale (De Vincenti in Coco, Lepore, 2018, pp. 23-24/101).
Oltre alle misure citate, si sono rese necessarie anche iniziative in
grado di migliorare la capacità amministrativa, senza le quali i finanziamenti non si dimostrano utili alla realizzazione di uno sviluppo
complessivo e duraturo. In questa direzione vanno i Piani di Rafforzamento Amministrativo (PRA), uno strumento di rafforzamento
strutturale della capacità amministrativa attraverso cui gli enti locali
impegnati nell’attuazione dei Programmi avranno la possibilità di
rendere più efficiente la propria macchina amministrativa, per incrociare l’Obiettivo Tematico 11 della politica di coesione. I PRA hanno
una durata biennale, ed esplicitano, secondo una tempistica definita, le
modalità organizzative delle Amministrazioni e gli impegni introdotti
per migliorare le rispettive performance di gestione, garantendo così il
raggiungimento dei risultati previsti e contribuendo a colmare il ritardo di efficienza della macchina amministrativa. Il coordinamento è affidato al comitato di indirizzo per i Piani di Rafforzamento Amministrativo, guidato dal Segretario generale della Presidenza del Consiglio
dei ministri, e dalla Segreteria Tecnica del Comitato, coordinata
dall’Agenzia per la Coesione Territoriale. Un monitoraggio quadrimestrale garantisce la verifica sullo stato di avanzamento degli impegni
assunti, in accordo con l'Agenzia per la Coesione Territoriale.
Questi meccanismi amministrativi rappresentano dunque la nuova
generazione di soluzioni predisposte per far fronte a un divario di sviluppo economico e sociale tra le macroregioni del Mezzogiorno e le
macroregioni del Centro-Nord Italia che rappresenta ad oggi la più
Le Zone Economiche Speciali nel Mezzogiorno d’Italia
103
ampia disparità regionale all’interno di uno stesso Stato, la cui evidenza emerge attraverso l’analisi di tutti gli indicatori macroeconomici e
di sviluppo. In termini economici, in particolare, il PIL pro capite risulta
ancora quasi ovunque di gran lunga inferiore alla media europea, pari
in Calabria e Sicilia a meno della metà del PIL pro capite prodotto in
provincia di Bolzano o in Lombardia (Istat, 2018).
Mappa 4.1. Contributo regionale alla produzione del PIL nazionale 2017.
FONTE: Elaborazione dell'Autore su dati Eurostat 2019.
Il dato proporzionale ci restituisce un’immagine per alcuni aspetti
poco conosciuta della distribuzione del PIL sul territorio nazionale:
pur tra le ben note difficoltà, il Mezzogiorno produce a oggi il 22,48%
della ricchezza italiana, una quota di poco superiore a quella delle regioni del Centro, paragonabile all’incirca al PIL dell’Irlanda o della
Danimarca13.
13
Dati World Bank Group.
104
Capitolo 4
Tabella 4.1. Distribuzione PIL 2017 nelle regioni italiane (in valori assoluti e in
percentuale).
Regione
PIL 2017 (in milioni €)
% PIL Italiano
Italia
1.724.954,5
100
NordOvest
Piemonte
Valle d'Aosta/Vallée d'Aoste
Liguria
Lombardia
567.393,98
132.671,38
4.452,65
49.314,81
380.955,24
32,89
7,69
0,26
2,86
22,08
NordEst
P.A. di Bolzano/Bozen
Provincia Autonoma di Trento
Veneto
Friuli Venezia Giulia
Emilia-Romagna
398.789,36
22.273,39
23,12
1,29
19.472,99
162.224,14
37.641,57
157.177,28
1,13
9,40
2,18
9,11
Centro
Toscana
Umbria
Marche
Lazio
369.779,85
113.798,4
21.696,91
41.183,17
193.101,37
21,44
6,60
1,26
2,39
11,19
Sud
Abruzzo
Molise
Campania
Puglia
Basilicata
Calabria
265.590,13
32.558,47
6.121,07
106.430,6
74.751,5
12.022,54
33.705,84
15,40
1,89
0,35
6,17
4,33
0,70
1,95
Isole
Sicilia
Sardegna
122.077,37
88.112,23
33.965,03
7,08
5,11
1,97
FONTE: Elaborazione dell'Autore su dati Eurostat, 2019.
Il problema rimane tuttavia il rapporto fra questo dato e la percentuale di popolazione residente sul territorio. A riguardo è interessante
notare la differenza tra peso percentuale demografico e percentuale
Le Zone Economiche Speciali nel Mezzogiorno d’Italia
105
nella produzione del PIL: a questo fine è possibile organizzare i dati in
un indice di incidenza della popolazione regionale sul PIL nazionale,
ottenuto dividendo il contributo percentuale di ogni regione sul PIL
per la percentuale di popolazione residente nella stessa regione, sul totale nazionale.
Mappa 4.2. Indice di incidenza della popolazione regionale sul PIL nazionale.
FONTE: Elaborazione dell'Autore su dati riferiti all’anno 2017, Istat ed Eurostat, 2019.
Una simile classificazione evidenzia l’apporto del Nord Ovest (1,24)
e del Nord Est (1,20) rispetto a Sud (0,66) e Isole (0,64); è interessante
tuttavia evidenziare lo scivolamento di Toscana e Piemonte a ridosso
del dato medio nazionale (1,07 e 1,06), e di Marche e Umbria al di sotto
(0,94 e 0,86). Il Veneto (1,16) presenta un dato quasi uguale a quello del
Lazio (1,15).
106
Capitolo 4
Tabella 4.2. Indice di incidenza della popolazione regionale sul PIL nazionale.
Provincia Autonoma di Bolzano/Bozen
1,49
Lombardia
1,34
Provincia Autonoma di Trento
1,27
Emilia-Romagna
1,24
NordOvest
1,24
Valle d'Aosta/Vallée d'Aoste
1,23
NordEst
1,20
Veneto
1,16
Lazio
1,15
Liguria
1,11
Friuli Venezia Giulia
1,09
Centro
1,08
Toscana
1,07
Piemonte
1,06
Italia
1,00
Marche
0,94
Abruzzo
0,86
Umbria
0,86
Basilicata
0,74
Sardegna
0,72
Molise
0,69
Sud
0,66
Puglia
0,65
Campania
0,64
Isole
0,64
Sicilia
0,61
Calabria
0,60
FONTE: Elaborazione dell’Autore su dati riferiti all’anno 2017, Istat ed Eurostat, 2019.
Oltre che una delle più ampie, la Questione Meridionale risulta anche una delle più antiche disparità regionali del mondo le cui radici affondano all’Unità d’Italia e la cui soluzione – inseguita come abbiamo
visto con alterne fortune e metodologie – non è ad oggi ancora stata in
Le Zone Economiche Speciali nel Mezzogiorno d’Italia
107
grado di raggiungersi in maniera significativa, a differenza di quanto
avvenuto in analoghe situazioni in altri territori, come nel caso della
Germania orientale che in soli due cicli di programmazione europea ha
visto le proprie regioni dell’Est passare dall’ammissibilità all’obiettivo
“Convergenza” della programmazione 2007-2013, rivolto ai territori
con PIL pro capite inferiore al 75% della media europea, all’ammissione
al gruppo delle regioni “in transizione” nella programmazione 20142020, comprendente i territori il cui PIL pro capite rientrava fra il 75% e
il 90% della media europea. Lo stesso percorso in Italia ha riguardato
le sole regioni Abruzzo, Molise e Sardegna, il cui ritorno al livello precedente al termine della programmazione in corso non è improbabile
(escluso l’Abruzzo, che sembrerebbe uscito dalla condizione di ritardo
economico) (Istat, 2018).
Il rapporto sinergico e strategico fra le due aree del Paese è spesso
tenuto in scarsa considerazione: malgrado crisi e spopolamento i mercati del Mezzogiorno rappresentano ancora oggi il principale mercato
di sbocco della produzione del Centro-Nord (26,5%), superiore di tre
volte rispetto alle esportazioni nell’Ue (9,1%) e quindi fondamentale
per la sopravvivenza e lo sviluppo delle stesse. Inoltre, è stato evidenziato come la spesa per investimenti al Sud attivi un processo produttivo per il 40% in grado di coinvolgere il sistema industriale del Centro-Nord nella fornitura dei materiali, tanto che la riduzione dei trasferimenti pubblici al Sud ha sempre generato conseguenze depressive
importanti sull’intero sistema nazionale (SVIMEZ, 2016, p. 21). Riguardo al residuo fiscale trasferito da Nord a Sud, di 50 miliardi ben 20
ritornano come domanda di beni e servizi al Settentrione, rappresentando un mercato di sbocco di importanza primaria in grado di attivare circa il 14% del PIL del Centro-Nord. Recentemente è stato infine
quantificato in 2 miliardi l’anno l’investimento economico in istruzione
e formazione rappresentato da quella parte importante di popolazione
meridionale altamente qualificata che si forma a Sud e trova poi lavoro
a Nord (migrazione intellettuale), a cui si somma un trasferimento di
consumi pubblici e privati pari a circa 3 miliardi, per un totale di 5 miliardi di perdita per il Sud a vantaggio del Nord (SVIMEZ, 2018, p.
135; p. 147/148).
Inoltre, la lettura macroregionale dei dati a NUTS 1 (aggregazioni di
108
Capitolo 4
regioni) impedisce spesso di cogliere le differenze fra regioni. Questo
tipo di analisi permette di evidenziare, ad esempio, come le regioni del
Sud abbiano totalizzato una crescita complessiva del PIL nel decennio
2008-2017 del 2,46%, analoga a quella del Piemonte. Il dato macroregionale sintetico sul Mezzogiorno, inoltre, è la somma di performance
regionali di differente livello: analizzando il dato a NUTS 2 (regioni) è
possibile evidenziare per esempio come la crescita decennale
dell’Abruzzo e della Puglia (rispettivamente +5,21% e +5,68%, al settimo e ottavo posto per crescita) sia superiore a quella del Friuli Venezia
Giulia (+4,56%) e del Lazio (+4,09%), mentre in fondo alla classifica si
trovano regioni del centro come l’Umbria (-5,85%) e del Nord come la
Valle d’Aosta (-0,76%).
Mappa 4.2. Variazione PIL 2008-2017 a prezzi correnti.
FONTE: Elaborazione dell'Autore su dati Eurostat 2019.
Il dato decennale risente del crollo generalizzato del PIL dovuto alla
crisi economica 2009-2013. È utile dunque analizzare il dato relativo
alla capacità di recupero della competitività in seguito alla fine della
recessione: il raffronto fra il PIL 2013 (l’ultimo con segno negativo su
Le Zone Economiche Speciali nel Mezzogiorno d’Italia
109
base nazionale) e il PIL 2017 evidenzia una resilienza ancora più differenziata fra le regioni, che mette in luce come la sintesi macroregionale
sia inadatta nell’interpretazione del dato reale.
Il rapporto PIL 2013-2017 evidenzia come il ruolo di traino dello
sviluppo sia in mano a Lombardia, Veneto ed Emilia-Romagna, le uniche la cui crescita risulta superiore alla media nazionale. A seguire, tuttavia, la Campania registra il quarto miglior risultato (+6,79%), mentre
la Puglia si trova al nono posto (+6,20%). La performance peggiore è registrata dalla Valle d’Aosta (+1,11%) seguita da Sicilia (+1,58%) e Umbria (+2,43%).
Mappa 4.3. Variazione PIL 2013-2017 a prezzi correnti.
FONTE: Elaborazione dell'Autore su dati Eurostat 2019.
A seconda della selezione della scala amministrativa, dunque, il divario fra Mezzogiorno e Centro-Nord assume connotazioni differenti:
pur permanendo una distanza non indifferente fra il PIL pro capite delle diverse regioni, la capacità di crescita e la resilienza dimostrata dagli
enti regionali non è riducibile a una scala macroregionale di un generico Sud al traino di un generico Nord, ma piuttosto evidenzia elementi
110
Capitolo 4
di eccellenza e gravi ritardi in entrambe le macroaree del Paese.
L’importante resilienza dimostrata da alcune regioni del Sud, in
particolare da Campania e Puglia, che hanno recuperato buoni livelli
di crescita malgrado la crisi economica, è un elemento di particolare
significato soprattutto alla luce della riduzione della spesa pubblica
nazionale nelle regioni del Sud, in seguito alla già citata interpretazione da parte dello Stato delle risorse comunitarie di coesione come sostitutive di quelle nazionali, che hanno reso necessario, per fronteggiare il rischio di crollo della spesa pubblica e per garantire al Mezzogiorno una spesa ordinaria pubblica proporzionata, l’approvazione della
L. 18/2017 che ha stabilito che lo Stato debba dedicare alle regioni del
Sud una percentuale pari alla percentuale di popolazione abitante nelle stesse, pari all’incirca al 34%. Molto spesso lo Stato ha investito una
quota maggiore nelle regioni più sviluppate, rendendo necessaria una
legge per garantire che almeno un terzo della spesa pubblica ordinaria
giunga a finanziare lo sviluppo delle regioni in maggior ritardo.
Il vincolo del 34% deriva, secondo la stessa Agenzia per la Coesione
Territoriale, dalla presa d’atto dell’effetto sostitutivo delle risorse della
politica di coesione rispetto a quelle ordinarie dedicate al Mezzogiorno: si è dunque giunti a una situazione nella quale l’amministrazione
centrale dedica la maggior parte delle proprie risorse al Centro-Nord,
lasciando che i fondi europei si occupino delle lagging regions. Il principio del riequilibrio territoriale nella spesa d’investimento pubblico,
contenuto nell’art. 7bis della L. 18/2017, interviene dunque a invertire
questa tendenza restituendo al Mezzogiorno le risorse ordinarie, alle
quali i fondi di coesione debbono aggiungersi pena la mancanza di efficacia degli stessi: “Le risorse ordinarie verrebbero quindi orientate al
rispetto del principio di equità, finalizzato a far sì che il cittadino, a
qualunque area del Paese appartenga, possa potenzialmente disporre
di un ammontare di risorse equivalente, mentre le risorse della politica
aggiuntiva, prevalentemente destinate al Sud, hanno la funzione di garantire la copertura del divario ancora esistente, dando attuazione
all’art. 119, comma 5, della Costituzione” (ACT, 2018, p. 41).
L’analisi contenuta nella Relazione Annuale dei Conti Pubblici Territoriali dell’Agenzia della Coesione evidenzia infatti come la quota di
risorse ordinarie reali delle amministrazioni centrali giunta al Mezzo-
Le Zone Economiche Speciali nel Mezzogiorno d’Italia
111
giorno sia pari al 28,9% medio, ridotta al 28,4% nell’ultimo triennio
considerato, mentre al Centro-Nord la spesa ordinaria è pari al 71,6%,
di 6 punti superiore alla percentuale di popolazione dell’area (ACT,
2018, p. 41).
Analizzando la spesa pubblica è possibile evidenziare inoltre come
il Mezzogiorno risenta in particolare di una scarsa spesa in formazione
del capitale umano, presupposto per la crescita di competitività complessiva. Se prima della crisi quasi tutte le regioni del Mezzogiorno
spendevano in capitale umano e innovazione più della media italiana,
eccezion fatta per la Puglia, in occasione della crisi questa spesa è crollata più rapidamente che nel resto d’Italia, e di conseguenza gli investimenti pubblici per rafforzare la produttività e la crescita economica
del Mezzogiorno sono crollati rafforzando gli effetti negativi della crisi
e riducendo la capacità di crescita delle regioni del Sud. Il risultato è
una produttività stagnante e la mancanza di prodotti di esportazione
competitivi.
Questa situazione storica è stata favorita anche dal crollo dei trasferimenti statali dal 2000 al 2010 alle Regioni del Mezzogiorno, che rappresenta un’altra conseguenza dell’impostazione regionalista e di una
fase politica caratterizzata dal rifiuto di qualsiasi “straordinarietà” di
approccio nei confronti del Sud. L’intervento dei fondi europei e la
contemporanea deresponsabilizzazione nazionale nei confronti delle
regioni in ritardo di sviluppo, ha portato come conseguenza un lento
ma continuo declino della quota di trasferimenti.
Il perdurare di questa situazione, che appare nel tempo divenuta
cronica e irrisolvibile, sta negli ultimi anni minando la coesione nazionale, rappresentando un elemento in grado di indebolire in maniera
crescente lo spirito unitario faticosamente costruito al termine del processo di unificazione nazionale.
La cronicità del divario di sviluppo a fronte delle diverse politiche
messe in campo, la continua conferma della stagnazione evidenziata
dalla pubblicazione degli indicatori, e al tempo stesso la già citata affermazione di una concezione regionalista tendente a richiedere sempre maggiori livelli di autonomia, sono elementi che negli ultimi anni
hanno gravemente indebolito la capacità coesiva territoriale dello spirito nazionale e del sistema europeo, instillando un’idea – radicatasi
112
Capitolo 4
nel tempo – di una sostanziale “inutilità” delle politiche di sviluppo
regionale nei confronti di un Mezzogiorno incapace di sfruttarle a
proprio vantaggio per ragioni di carattere temperamentale o per ormai
insanabili differenze storico-culturali. Questa concezione, condita
spesso di un certo pregiudizio fatto di stereotipi e diffidenze, ha contribuito alla crescita e alla diffusione di spinte regionaliste nel Nord
Italia: consapevoli dell’importante contributo economico apportato alla
produzione nazionale, negli ultimi anni questi territori stanno rafforzando uno spirito identitario regionalista il cui fondamento non manca
di trovare sostegno nel confronto con l’alterità di un Sud ritenuto pigro, abituato a sopravvivere nell’assistenzialismo e incapace – o privo
di buona volontà – di costruire una competitività autoctona.
Figura 4.1. Spesa pubblica pro capite in educazione, formazione, ricerca e sviluppo.
FONTE: EC, 2017, p. 39.
Di contro, nei territori del Sud si è andato diffondendo un filone
culturale tendente alla rilettura della storia d’Italia come di una “predazione” da parte del Nord nei confronti di un Meridione potenzialmente ricco, ma depauperato da scelte faziose. Questo tipo di imposta-
Le Zone Economiche Speciali nel Mezzogiorno d’Italia
113
zione culturale rappresenta una reazione stizzosa alle accuse provenienti da certa politica settentrionale, finendo di contro per diventarne
inevitabilmente strumento di propaganda in un circolo vizioso nel
quale nessuno sente di volersi assumere la responsabilità di un divario
che dipende in realtà da uno svantaggio geografico di partenza, sul
quale si sono innestate politiche top-down disattente al territorio e incapaci di generare competitività resiliente, e una scarsa qualità
dell’azione amministrativa locale meridionale, sostenuta dal depauperamento di capitale umano conseguenza del ritardo stesso.
Nell’ottobre 2017 Veneto e Lombardia, due delle principali regioni
del Nord Italia, hanno indetto un referendum consultivo sulla richiesta
da formulare allo Stato di attribuire agli enti regionali maggiori competenze legislative e un superiore livello di autonomia finanziaria, in
forza della produzione, in questi due territori, di quasi un terzo della
ricchezza nazionale. Fra le ragioni, complesse, che hanno animato il
dibattito politico nelle due regioni e che sono state in grado di coinvolgere un’importante quota della popolazione (57,2% degli aventi diritto
in Veneto14, 38,34% in Lombardia15), ampio spazio ha trovato la tematica legata all’“esasperazione” di un Nord costretto a pagare i servizi
erogati a un Sud incapace di crescere. Diversi sostenitori di quella che
è stata ribattezzata “autonomia differenziata” si sono detti convinti che
al Sud servisse uno stimolo per superare una pigrizia fondata
sull’assistenzialismo, inaugurando una politica di competitività reale
con le regioni del Nord. Questo ragionamento non tiene conto
dell’investimento effettuato dallo Stato in infrastrutture al Nord, della
collocazione geografica delle Regioni e in particolare della stretta interconnessione economico-funzionale tra economia del Nord e del
Sud: in questo quadro alcuni movimenti politici del Mezzogiorno hanno lanciato campagne di boicottaggio per ridurre l’acquisto di prodotti
del Nord16, consapevoli della funzione del Meridione come primo
mercato di sbocco delle merci prodotte al Settentrione.
http://referendum2017.consiglioveneto.it/sites/index.html#!/affluenza
https://www.referendum.regione.lombardia.it/#/turnout/100000
16
Un
esempio
è
dato
dalla
campagna
“CompraSud”
https://www.progettocomprasud.com/
14
15
114
Capitolo 4
Il dibattito fra le due aree del Paese, inedito in questa forma e risonanza, ha messo in luce una crescente crisi nella coesione nazionale,
resa più evidente dallo scambio di lettere sul tema da parte dei governatori della Regione Veneto e della Regione Campania nell’inverno
2019. Il dibattito si sostiene, molto spesso, su scarse conoscenze della
realtà economica dei diversi territori, la cui interpretazione è spesso
viziata da letture ideologiche e da valutazioni politiche pregiudiziali
che portano al rafforzamento degli egoismi locali nella proposta di un
“federalismo infantile” (De Vincenti 2017). Si dimentica ad esempio di
considerare che il divario economico si fonda su un dato statistico percentuale rispetto alla crescita: nell’ipotesi in cui tutte le regioni italiane
crescessero allo stesso ritmo, il divario resterebbe immutato in quanto
differenza percentuale; questo giustifica e anzi rende necessaria la
messa in campo di strategie e di finanziamenti di sviluppo regionale
differenziati, che avvantaggino le regioni del Mezzogiorno garantendo
loro una “specialità” che permetta di registrare una crescita più rapida
del resto del Paese, senza la quale la disparità regionale è destinata a
non colmarsi.
Questo elemento risulta di particolare attualità nel dibattito circa la
redistribuzione fiscale, e in particolare nelle polemiche legate ai vantaggi previsti nei confronti degli investitori che vogliano orientare i
propri interessi al Sud: come visto, la pianificazione di simili vantaggi
per i soli territori del Mezzogiorno è infatti l’unica modalità conciliabile con le regole del Trattato di Funzionamento dell’Unione europea,
che permette allo Stato di riconoscere agevolazioni particolari in grado
di condizionare la libera concorrenza, soltanto a quei territori che giustifichino la misura con un ritardo di sviluppo cronico e significativo
(GUUE, 2008/C 115/01 art. 107 c. 3 lettera a).
Malgrado ciò, l’istituzione delle ZES rappresenta un motivo di crescente tensione fra le forze politiche e amministrative impegnate nel
dibattito legato alle proposte di autonomia differenziata: nate come
misura di sviluppo per le lagging regions del Mezzogiorno, l’istituzione
delle ZES è rivendicata da altri territori del Centro-Nord soggetti a periodi di crisi dei settori produttivi. È il caso, in particolare, della zona
del Polesine, i cui rappresentanti si sono fatti promotori, assieme
all’area industriale di Marghera, di una forte pressione nei confronti
Le Zone Economiche Speciali nel Mezzogiorno d’Italia
115
del Ministero per il Sud, affinché sia permessa a questo territorio la costituzione di una ZES. La stessa richiesta è stata formulata per il territorio di Livorno-Piombino. A riguardo torna in aiuto l’esperienza maturata sul territorio della Polonia: qui, dove come già visto le Zone
Economiche Speciali si sono potute distribuire sull’intero territorio,
l’effetto positivo è stato mitigato dalla riduzione di competitività dovuta alla preferenza data dalle imprese alle zona maggiormente infrastrutturate e geograficamente avvantaggiate: di fatto, in Polonia le ZES
hanno favorito dunque il recupero di competitività da parte delle imprese già impiantate sul territorio, ma non hanno generato la prevista
attrazione di nuove imprese sui territori maggiormente svantaggiati
(Ambroziak, 2009). Addirittura, la letteratura dimostra come i vantaggi delle ZES siano maggiori nelle regioni meno sviluppate, e tendano a
ridursi fino a diventare di segno negativo nelle regioni più ricche, dove l’istituzione delle ZES ha prodotto risultati nulli in termini di riduzione della disoccupazione, e persino negativi in termini di aumento
del valore delle immobilizzazioni (Ambroziak, Hartwell, 2018).
La generica superficialità con cui il dibattito pubblico tratta il tema
della Questione meridionale, ignorando spesso le pur numerose e approfondite analisi economiche e statistiche e i dati degli indicatori quali-quantitativi, contribuisce in misura significativa alla vulgata alimentata da pregiudizi e spesso rafforzata da certa propaganda di comodo.
Basti pensare, a riguardo, alla drastica riduzione della spesa pubblica
nelle regioni del Mezzogiorno, la consapevolezza della quale è molto
scarsamente diffusa, insieme ai già citati dati legati alle specificità regionali e alla complessità di un tema che merita e abbisogna di analisi
approfondite e serie.
In questo senso la Questione meridionale, intesa come la più grave
emergenza nella coesione territoriale italiana, è a tutti gli effetti un tema
di geopolitica (cfr. Pagnini, 1993; D’Aponte; 2013 Prezioso, 2018a). La
tenuta complessiva dell’architettura nazionale nel quadro europeo, e la
coesione interna alla stessa sono infatti sempre più elementi di rischio in
conseguenza di una situazione che spesso diviene strumento di propaganda politica e che fatica a imporsi nel dibattito nazionale per ciò che
di fatto è: una questione di urgenza nazionale, alla cui risoluzione è legato l’intero futuro del contesto nazionale ed europeo.
116
Capitolo 4
Lo sviluppo delle regioni del Mezzogiorno d’Italia, infatti, è il veicolo insostituibile di crescita economica complessiva e di consolidamento della competitività nazionale ed europea nel contesto globale
nel quale le regioni in ritardo rappresentano inevitabilmente un freno
all’economia continentale. Lo sviluppo economico del Sud Italia, e più
precisamente l’attualizzazione delle potenzialità esistenti nel territorio,
garantirebbe una crescita di significativa rapidità all’intero sistema nazionale, e di conseguenza europeo, rafforzando in maniera importante
il mercato interno grazie all’aumento della capacità di acquisto di una
parte consistente di popolazione (se fosse uno Stato indipendente, il
Mezzogiorno sarebbe il 7° membro dell’Unione europea per popolazione con quasi 21 milioni di abitanti) che già oggi rappresenta un insostituibile mercato di destinazione delle merci prodotte al Nord Italia.
La mancata crescita, inoltre, sta aumentando il fenomeno delle migrazioni interne, che a sua volta alimenta la disparità depauperando le
regioni di partenza del proprio capitale umano indispensabile per la
futura crescita, e costringendo le già provate Regioni del Mezzogiorno
a fronteggiare una spesa significativa in servizi per la popolazione in
età dipendente (sia giovane che anziana), senza potersi avvantaggiare
del valore aggiunto da essa prodotto in età lavorativa, che rimane invece quasi completamente nelle regioni di destinazione dei flussi in
uscita.
La Questione meridionale è dunque forse la più attuale emergenza
geopolitica per l’Italia, e una delle principali dell’Europa: alla sua definitiva risoluzione è legato sempre più il futuro dell’economia e
dell’intera società italiana. Nord incluso.
Capitolo 5
Conclusioni e policy recommendation
La condizione di divario economico e sociale tra le lagging regions del
Mezzogiorno e le più avanzate Regioni del Centro-Nord Italia, malgrado i più diversi provvedimenti messi in campo, continua ad ampliarsi seguendo una tendenza di apparentemente inesorabile declino.
Dopo una lieve riduzione nella disparità tra i territori, il Mezzogiorno ha ripreso la propria china verso il basso in conseguenza della
crisi economica, che ha messo a durissima prova la tenuta del sistema
economico-produttivo e industriale meridionale che si è rivelato, per
quanto dinamico, scarsamente resiliente.
La responsabilità di questa mancata resilienza è da individuare,
senza dubbio, in una molteplicità di fattori che fungono da deterrente
e che hanno impedito che le realtà produttive impiantate riuscissero a
produrre un effetto moltiplicatore di competitività per tutta l’area, restando invece singoli elementi di eccellenza in un contesto che rimaneva sfavorevole. Il processo di impianto di realtà economiche “imitative” deciso ai tempi della Cassa del Mezzogiorno ha senza dubbio rappresentato un palliativo in grado di arginare il divario creando realtà
che producessero occupazione e valore aggiunto, ma ha dimostrato
suo malgrado l’inefficacia di un modello di localizzazione industriale
top-down che ha permesso una distribuzione di attività produttive disordinata, che non teneva in adeguata considerazione il capitale territoriale e la vocazione del territorio.
La fine dell’Intervento Straordinario e la soppressione della Cassa
del Mezzogiorno hanno poi fatto mancare al Sud Italia il sostegno di
una “straordinarietà” di interventi, delegando la responsabilità delle
118
Capitolo 5
misure alle Regioni, la cui classe dirigente si è mostrata spesso inadeguata nell’affrontare criticità strutturali importanti che avrebbero richiesto valutazioni e misure di elevata complessità. L’ideologia regionalista (ben dissimile dalla sussidiarietà verticale di stampo europeo)
ha deresponsabilizzato lo Stato centrale nelle politiche di sviluppo regionale, lasciando un vuoto presto colmato dalle Politiche di Coesione
Territoriale varate dall’Unione europea. Queste politiche, tuttavia,
concepite come aggiuntive alle risorse ordinarie nazionali per il recupero di un divario di competitività, sono state interpretate per diversi
anni come sostitutive, e hanno aumentato la deresponsabilizzazione
dello Stato centrale nella gestione delle Regioni in ritardo:
un’interpretazione che ha fatto mancare al Mezzogiorno risorse vitali
da parte del Governo, e che ha vanificato gli sforzi europei aumentando di fatto, invece che ridurre, i meccanismi di dipendenza strutturale
delle Regioni del Sud.
L’esplosione della crisi economica, e la conseguente immediata inversione di tendenza di tutti i parametri di crescita, e soprattutto la
manifesta incapacità di recuperare il valore perduto, hanno costretto lo
Stato a istituire un Ministero per la Coesione territoriale, volendo così
inaugurare una nuova stagione di responsabilizzazione del Governo
centrale nelle politiche di sviluppo, che trova la propria più evidente
testimonianza nell’approvazione del vincolo del 34% sugli investimenti pubblici da destinare al Mezzogiorno, in ragione della quota di popolazione ivi residente: un tentativo di restituire al Sud le risorse ordinarie a cui i fondi europei si aggiungano in chiave complementare, generando un flusso virtuoso di iniziative di sviluppo. Il nuovo approccio ha anche coinvolto strutture centrali nella restituzione di una responsabilità diretta, da parte dello Stato, nella gestione della cosa pubblica nei territori del Sud, e in particolare nella gestione dei fondi europei per la coesione territoriale: il diritto di sostituzione esercitato dal
Governo nei confronti di amministrazioni territoriali che mostrino una
manifesta incapacità di gestione dei fondi va in questa direzione, anche se per dare i risultati sperati abbisognerebbe di una stabilità politica e di una coerenza nell’azione esecutiva che in Italia rappresenta invece il più grave limite all’efficacia delle misure. I dati sui livelli di
spesa raggiunti dalle Regioni nel periodo che si avvicina al termine
Le Zone Economiche Speciali nel Mezzogiorno d’Italia
119
della programmazione 2014-2020 mostra infatti gravi ritardi che sarà
difficile compensare in tempo e che rappresentano un limite strutturale in grado di disinnescare l’effetto positivo di qualunque misura.
Al termine di questo volume, si intende fornire – secondo la più
consolidata prassi europea – suggerimenti e raccomandazioni al mondo della politica e a quanti si troveranno a dover prendere decisioni in
grado di generare risultati duraturi per i territori. L’individuazione di
policy recommendation rispetta e rende attuale la concezione già incarnata da Francesco Compagna di una ricerca accademica che sappia uscire
dalle porte del campus per fornire alla politica strumenti di comprensione della realtà e suggerimenti di risoluzione delle criticità. Questo
ruolo politico della ricerca, inoltre, acquisisce una specifica caratterizzazione nel campo della disciplina geografica che, per via della propria
insostituibile conoscenza del territorio e capacità di comprensione delle dinamiche che in esso si muovono, può rappresentare il campo di
indagine di maggior utilità per la valutazione delle azioni di policy e
per la realizzazione di un legame virtuoso tra scienza e politica in grado di dare utilità alla speculazione teorica, e di fornire strutture concettuali ed elementi di conoscenza solidi alle scelte politiche, così da massimizzarne l’efficacia prevedendo e riducendone gli impatti negativi.
5.1. Raccomandazione n.1: Garantire coerenza alle politiche
di sviluppo regionale.
L’approvazione della legge istitutiva le Zone Economiche Speciali si
inserisce in questo quadro: le ZES sono parte di un pacchetto di misure
di rilancio della competitività concepite nel 2017 in chiave organica per
ottenere risultati complessivi e di sistema. La crisi politica intercorsa
poco dopo l’approvazione della legge e la conseguente ennesima radicale trasformazione dello scenario politico hanno pregiudicato in certa
misura l’efficacia della norma, allungando i tempi dell’interlocuzione
territoriale e vincolando i diversi passaggi propedeutici alla realizzazione delle ZES a uno scenario turbolento nel quale le stesse Zone sono
divenute strumento di propaganda politica a uso di un dibattito talora
effimero.
120
Capitolo 5
L’assenza di coerenza tra le politiche di sviluppo regionale è difatti
una delle principali limitazioni nell’efficacia delle stesse, che si trovano
a essere oggetto di valutazione e ridiscussione continua perdendo così
parte della propria capacità di portare competitività.
Una raccomandazione è quindi che le politiche di sviluppo del
Mezzogiorno trovino coerenza a prescindere dal contesto politico in
continuo mutamento. Perché questo avvenga, è necessario che la politica riconosca la funzione strategica geopolitica che sottende alle misure di sviluppo delle regioni in ritardo: la perdita di competitività complessiva nazionale, e la difficoltà riscontrata nel recuperare la vitalità
economica, sono elementi di grande criticità per il sistema Italia, la cui
risoluzione non può in alcun modo prescindere dalla prioritaria e urgente riduzione del divario socioeconomico tra le due aree del Paese.
Postulando per ipotesi che tutte le Regioni del Mezzogiorno fossero
portate a un livello di PIL pro capite pari alla media nazionale 2016
(29.000€ circa, secondo Eurostat), la ricchezza complessiva nazionale
sarebbe più alta del 12,38%: una differenza di quasi 214 miliardi rispetto ai valori 2017.
5.2. Raccomandazione n. 2: Superare la competizione tra le
Regioni.
Pur non potendo entrare in questa sede nelle questioni relative al percorso di devoluzione dei poteri centrali agli enti locali, è necessario registrare come una certa confusione si sia generata in seguito alla riforma del Titolo V della Costituzione (2001) e quindi alla cessione di alcune competenze statali alle amministrazioni regionali. L’obiettivo
coerente con il principio di sussidiarietà verticale di far sì che l’azione
di governo si svolga al livello più vicino ai cittadini, purché questo sia
in grado di adempiervi, si è tradotto in Italia in un approccio in alcuni
casi conflittuale, fondato su una talora aspra competizione fra territori.
È il caso, senza dubbio, del sistema portuale: l’eccessiva frammentazione delle Autorità competenti sui singoli scali ha prodotto una deleteria rincorsa all’accaparramento dei traffici a scapito dei vicini, portando i porti a investire ingenti risorse per adattare i propri fondali, le
Le Zone Economiche Speciali nel Mezzogiorno d’Italia
121
proprie banchine, le proprie infrastrutture retroportuali a diversi flussi
merceologici, senza tenere in adeguata considerazione né la realtà territoriale di partenza, né tantomeno una visione strategica organica che
vede nei singoli porti un elemento del più complesso sistema-Paese. A
tentare di risolvere la questione è intervenuta dunque la riforma dei
porti (MIT, 2017) che ha accorpato le realtà vicine sotto un’unica Autorità di Sistema Portuale incaricata di armonizzare gli interventi in una
visione strategica complessiva condivisa a livello centrale, producendo
così risparmi e aumentando l’efficienza attraverso la sterilizzazione
degli effetti deleterii della competizione fra territori.
Analogo problema, tuttavia, si crea in diverse altre materie, nelle
quali le pressioni politiche interne alla singola Regione riescono talora
a porre in subordine la visione strategica di sviluppo complessivo,
all’interno della quale il territorio dovrebbe trovare il proprio specifico
ruolo.
La riforma delle ZES non risulta in questa fase immune da questo
pericolo: la stessa scelta di un parametro dimensionale unico da parte
del legislatore, che ha individuato una formula standard con la quale
stabilire l’ampiezza massima di ciascun territorio da destinare alla misura a prescindere dalla realtà del territorio stesso, è la prova di una
deresponsabilizzazione della politica centrale nella selezione dei territori sulla base di parametri legati al Capitale territoriale potenziale e
alle necessità specifiche, elementi che non possono ridursi a un rapporto matematico (perlopiù arbitrario) tra popolazione e superficie.
Inoltre, la limitazione della misura alle sole Regioni del Mezzogiorno, motivata dal già citato articolo 107 del Trattato di Funzionamento
dell’Unione europea (GUUE, 2008/C 115/01 art. 107 c. 3 lettera a), lungi
dall’essere una scelta condivisa finalizzata al recupero di competitività
dei territori in situazione di svantaggio, ha creato crescenti dissapori
nelle realtà politiche del Centro-Nord, tra le quali è serpeggiata
l’insoddisfazione sfociata poi nella richiesta di estensione della misura
alle aree di crisi del Settentrione: questo cambiamento, se approvato,
rischierebbe di annullare l’effetto di vantaggio competitivo che intende
portare al Sud, e che è motivato soprattutto dall’assenza di infrastrutture e dalla debolezza del capitale umano non emigrato, elementi presenti al Sud e non al Nord, i quali – in assenza di situazioni di “specia-
122
Capitolo 5
lità” – riducono o annullano la competitività potenziale dei territori,
disincentivando l’investimento.
Il superamento delle dinamiche concorrenziali fra Regioni è un
elemento chiave dell’efficacia di politiche di sviluppo capaci di portare
vantaggio all’intero territorio nazionale: il riconoscimento di un superiore interesse nazionale, passante per lo sviluppo dei territori lagging è
il passaggio fondamentale di una maturazione politica generale, che
permetta il rilancio della realtà socio-economica dell’Italia.
5.3. Raccomandazione n. 3: Pianificare una strategia multilivello per il superamento definitivo del divario tra Sud e
Centro-Nord.
Paradossalmente, l’approvazione delle ZES rischia di rappresentare
uno strumento quasi di svantaggio per la realtà complessiva nazionale:
se lo Stato dovesse limitarsi a questa sola misura, considerandola bastevole in sé e scegliendo in conseguenza nuovamente la strada della
deresponsabilizzazione, il ritardo rischierebbe di aumentare invece che
ridursi. Secondo la concezione europea, il ruolo dei fondi di coesione
territoriale per lo sviluppo delle Regioni in ritardo, infatti, deve essere
realmente complementare all’investimento nazionale, che non deve in
alcun modo venir meno pena l’annullamento dei vantaggi potenziali.
Come ampiamente dimostrato dalla letteratura, l’istituzione delle ZES
rappresenta una misura dalle grandi potenzialità, ma solamente laddove sia parte di una più complessa strategia di sviluppo regionale, in
grado di mobilitare diversi settori. La “clausola del 34%”, cioè la norma che vincola gli investimenti pubblici ai territori in ragione della
quota di popolazione residente, è fondamentale che venga rispettata
anche dopo l’attivazione delle ZES, per creare un tessuto socio–
produttivo rassicurante, dinamico, realmente business-friendly, che
permetta al tempo stesso la formazione e conservazione in loco del capitale umano. L’investimento in questo senso è considerato
dall’Unione europea centrale per l’efficacia di qualunque politica di
sviluppo regionale per le lagging regions (Commissione europea, 2017).
Le Zone Economiche Speciali nel Mezzogiorno d’Italia
123
La stessa proficuità della ZES come strumento di sviluppo è subordinata a un serio investimento in capitale umano, e a un concreto impegno
finalizzato
all’adeguamento
infrastrutturale:
senza
quest’ultimo, le Zone rischiano di diventare “cattedrali nel deserto”,
annullando il proprio potenziale di investimento industriale nella
marginalità di una realtà periferica. La progettazione di un programma di investimenti credibile e cogente per superare l’ormai annoso (e
odioso) ritardo infrastrutturale del Mezzogiorno è un passaggio obbligato per evitare che la ZES produca un nuovo fallimento, e con esso il
tramonto delle speranze di poter realmente superare una situazione di
ritardo che – divenuta oramai realtà endemica – rischia di mettere a
repentaglio la stessa coesione territoriale.
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