Domande Storia Romana Cap.1 1) Quali sono gli storici antichi giunti fino a noi che in modo diffuso raccontano le origini di Roma e le loro narrazioni sono fededegne o a quali problemi di veridicità sono esposte? Tito Livio, Diodoro Siculo e Dionigi di Alicarnasso sono i 3 storici antichi le cui opere (la prima in lingua latina e le altre due in lingua greca) riferiscono gli eventi della Roma delle origini. Tuttavia, si tratta di autori vissuti in epoca cesariano-augustea, dunque che operarono a molti secoli di distanza rispetto ai fatti narrati e che a loro volta fanno riferimento a storici vissuti non prima del III secolo a.C. Le uniche registrazioni scritte dei principali eventi pubblici erano curate dal collegio sacerdotale dei pontefici, i quali ogni anno predisponevano una tavola imbiancata (tabula dealbata) su cui trascrivevano in forma sintetica le notizie di interesse collettivo. Tali documenti venivano poi trascritti e conservati nella Regia, che, però, sarebbe andata distrutta nel 390 a.C. a seguito di un’incursione celtica. Ricompilati per le parti andate perdute, vennero pubblicati in 80 libri sotto il titolo di Annali Massimi dal pontefice P. Mucio Scevola verso il 130 a.C. e furono utilizzati dagli storici latini, detti appunto annalisti, proprio perché scandivano la loro esposizione secondo un racconto anno per anno. Tuttavia, tale processo di ricomposizione degli Annali andati perduti, fa sì che i fatti avvenuti prima del 390 a.C. siano soggetti a numerose interpretazioni spesso poco veritiere. Ad es., spesso gli autori degli annali inserivano imprese eroiche attribuite ai loro antenati per glorificare la loro famiglia (es. Fabio Pittore e il protagonismo dei Fabi nell’età arcaica); numerosi sono poi gli episodi di retrodatazione, verosimilmente inventati e inseriti in un lontano passato per legittimare l’introduzione di nuove istituzioni grazie all’autorevolezza di un’illustre precedente (in quanto il nuovo e il cambiamento veniva sempre visto come qualcosa di negativo) ad es. alcune riforme attribuite a Servio Tullio in realtà sarebbero a lui posteriori; oppure alcuni episodi sono stati ellenizzati, facendoli coincidere con alcuni importanti episodi della storia greca (ad es. Tarquinio il Superbo viene descritto con il tiranno ateniese Ippia, oppure, l’assedio della città di Veio viene descritto sul modello dell’assedio di Troia). Di fronte ad una tradizione storiografica compromessa da tante ipoteche interpretative, sono state condotte numerose indagini archeologiche per cercare di ottenere delle informazioni più veritiere, ma sono state molto utili anche gli studi antropologici, i quali hanno fornito una chiave di lettura per miti, saghe e leggende, grazie al trasferimento al mondo antico delle metodologie di studio e di interpretazione delle società pre-statali. Tale duplice approccio ha consentito la valorizzazione di notizie provenienti dagli antiquaria, cioè le opere degli autori antichi (es. Catone e Varrone), che si impegnarono, a partire dal II a.C., a ricercare notizie di antichissime feste, cerimonie, culti e miti di fondazione. L’elaborazione di leggende, soprattutto riferite alle origini di Roma, serviva, da un lato per individuare soluzioni di facile memorizzazione degli eventi passati ritenuti fondanti per la storia cittadina e, dall’altro per costruire un passato comune che cementasse il rapporto tra le diverse componenti etniche della Roma arcaica e favorisse uno spirito di unità nazionale. 2) Quali sono le caratteristiche degli insediamenti nel Lazio Antico fra il X e il IX secolo a.C.? Si trattava di piccoli insediamenti di estensione tra i 5-10 ettari, ubicati a 5-10 km di distanza l’uno dall’altro e sempre in altura, poiché mancava nel paesaggio agrario dell’epoca qualsiasi forma di canalizzazione e di controllo delle acque, le aree di pianura erano dunque frequentemente esposte all’impaludamento e alla diffusione di epidemie, circostanza che ne limitava la frequentazione e le rendeva idonee solo ad ospitare i cimiteri. La struttura delle abitazioni è ricostruibile sulla base degli scavi che hanno portato alla luce pavimenti in terra battuta, fori di pali e tracce di incinerazione riferibili a focolai; tali resti sono pertinenti a capanne in legno, fango e frasche a forme ovale, rette da sostegni verticali, con tetto a spioventi e un piccolo ambiente aperto, antistante la porta di accesso. La forma delle case è, inoltre, comprovata da numerose urne sepolcrali, dette appunto “a capanna”, le quali sono state rinvenute nelle tombe, inserite insieme ad altri oggetti di corredo all’interno di grandi contenitori ceramici ed erano adibite ad ospitare le ceneri del defunto. La scelta di rappresentare la casa in contesti di tipo funerario rimanda direttamente al legame con il proprio gruppo familiare, avvertito come elemento fondante della realtà sociale e depositario di forti valori simbolici. L’economia praticata da tali clan era tipo silvo-pastorale. Ad un quadro di seminomadismo, che prevedeva limitati spostamenti in relazione al periodico sfruttamento dei pascoli, si adattava la natura precaria ma funzionale delle abitazioni: esse, infatti, erano costruite con materiali deperibili ma idonee ad essere agevolmente smontati e trasportati. L’agricoltura era circoscritta a mere forme di sussistenza: il solo cereale coltivato era il farro, compatibile con terreni paludosi e dotato di un buon potere nutritivo (esso rimarrà alla base dell’alimentazione romana fino al V secolo a.C., per poi venir soppiantato da altri cerali più pregiati e il farro verrà destinato quasi esclusivamente alle offerte sacrali). Per quanto concerne l’organizzazione politica, non si dispone di dati affidabili ma si ritiene che esistesse una regalità pre-statale connessa all’aspetto sacro, cui sarebbe riconducibile la figura del re-sacerdote del bosco sacro a Diana presso Nemi. 3) Esisteva il possesso privato dei beni prima della fondazione di Roma? Alcuni elementi suggeriscono di negare la proprietà privata: ad es., la qualità e la tipologia degli oggetti rinvenuti nelle tombe sembrano caratterizzati da grande omogeneità e prospettano delle differenze all’interno dei clan solo in funzione del sesso e dell’età, ma non a livello patrimoniale, che invece avrebbero potuto generarsi a seguito del possesso di terre o bestiame. Secondo alcuni studiosi, retaggio di una società egualitaria sarebbero due istituzioni che sono documentate solo in età successiva: l’ager publicus, cioè il territorio acquisito grazie alla conquista militare che veniva reso di proprietà comune e poi, eventualmente, suddiviso; così come l’ager compascus, cioè la parte indivisa delle proprietà fondiarie pubbliche, in cui i proprietari delle terre confinanti avevano facoltà di far pascolare le proprie greggi. Tuttavia, tali dati possono essere interpretati anche in altri modi: ad es., è possibile che la mancata esibizione del lusso nei corredi sepolcrali sia dovuta all’incapacità di produrli o l’impossibilità di approvvigionarsene altrove, oppure dalla scelta di affidare l’ostentazione di status ad altri indicatori diversi da quelli funerari. 4) Cos’è il pomerio e come è presente nella leggenda di fondazione? Il significato del termine pomerium deriva dalla contrazione dell’espressione post murum, cioè dietro le mura, ed è inerente alle procedure con cui veniva tracciato il limite cittadino. Nel mito di fondazione, tale limite è citato come giustificazione dell’uccisione di Romolo da parte di Remo, in quanto il gemello si sarebbe reso responsabile del suo attraversamento e per questo sarebbe stato punito con la morte. Il pomerio veniva tracciato servendosi di un aratro a cui erano aggiogati un toro e una mucca che andavano a costituire un terrapieno, il quale segnalava il perimetro dell’insediamento. Il rituale della delimitazione del pomerio verrà replicato per tutte le colonie che i romani fonderanno nel corso della loro espansione territoriale. Il pomerio poteva essere ribattuto da mura difensive, ma non necessariamente, in quanto si trattava di un limite sacro, che chi veniva dall’esterno non poteva oltrepassare in armi. Per Roma fu progressivamente ampliato, in connessione con l’espansione territoriale. Scavando la valle tra il colle Palatino e l’altura della Velia, un’equipe archeologica italiana ha accertato che nella seconda metà del VI secolo a.C. tutta l’area venne rialzata per mezzo di colmate, al di sopra delle quali venne costruita la Via Sacra. Sotto il riempimento sul lato palatino sono stati rinvenuti 4 muri successivi paralleli, il più antico dei quali risalente al 730720 a.C. (il che confermerebbe la cronologia di fondazione attestata da Cincio Alimento nel 728 a.C., più tarda della classica data individuata da Varrone tra il 20 e il 21 aprile del 753 a.C.). Non si trattava di mura di fortificazione che il luogo non richiedeva dato che la ripida pendenza del colle costituiva una sufficiente garanzia difensiva, ma di terrapieni di significato sacrale che sorgevano in corrispondenza del pomerium. 5) In cosa consiste l’ipotesi del sinecismo di Roma? L’ipotesi del sinecismo (dal greco “abitare insieme”) è stata elaborata a seguito dei ritrovamenti archeologici che documentano l’esistenza, già nell’età del bronzo, di insediamenti di 2 diversi gruppi di allevatori sui 3 colli Palatino, Celio ed Esquilino (la distinzione dei 2 gruppi si basa sulle differenti tecniche di confezione dei manufatti ceramici che li rende distinguibili). Il primo gruppo era di etnia latino-falisca, proveniva dai monti Albani e si era stabilito sul Palatino, mentre il secondo gruppo era di etnia osco-umbra, proveniva dai territori sabini e si era stabilito sui colli Celio ed Esquilino. Secondo l’ipotesi del sinecismo, a metà dell’VII secolo a.C. sarebbero maturate tra i 2 nuclei forme di aggregazione, le quali avrebbero progressivamente generato la fusione di comunità prima indipendenti. Tale processo sarebbe stato poi oscurato dal mito di fondazione, il quale aveva il merito di cementare più efficacemente l’orgoglio comunitario. Ricordo dell’originaria polarità dei 2 gruppi si può rinvenire nella bipartizione dei Salii, sacerdoti guerrieri danzanti, che nella Roma di età storica erano organizzati in 2 confraternite, quella dei Palatini e quella dei Collini. Inoltre, tracce del processo di coesione di queste 2 popolazioni è rinvenibile nella festa del Settimonzio, cui prendevano parte comunità di pastori insediate sui 3 colli (Palatino, Celio, Esquilino). 6) Quali erano le caratteristiche geografiche favorevoli allo sviluppo dell’insediamento di Roma? Innanzitutto, la natura scoscesa delle alture che le rendeva facilmente difendibili, la presenza di ricchi pascoli particolarmente apprezzati da comunità pastorali, la vicinanza rispetto al corso del Tevere dove l’isola Tiberina, all’altezza del Campidoglio, consentiva un agevole guado, l’ultimo prima della foce, e quindi luogo ideale per la costruzione di ponti (il più antico era il Ponte Sublicio). Inoltre, il sito in cui sorse Roma si trovava in corrispondenza di una tappa dell’antichissima strada, che in seguito sarà nota come Via Salaria, poiché attraverso il suo tragitto il sale giungeva dai bacini costieri tirrenici dove erano ubicati i centri di approvvigionamento per proseguire verso le regioni dell’interno appenninico (tutte popolate da comunità pastorali). Il sale era, infatti, un prodotto al tempo preziosissimo, perché, non solo consentiva la conservazione dei cibi ed era utilizzato per la loro preparazione, ma veniva utilizzato anche per l’integrazione nutrizionale del bestiame che lo rendeva indispensabile alla sopravvivenza delle greggi, nonché prezioso articolo di scambio per i pastori transumanti dell’Appennino. Perciò, Roma sorse al crocevia di vie di comunicazione funzionali all’importazione e all’esportazione di merci che, grazie a percorsi di terra e di fiume, si irradiavano a nord con il mondo etrusco, a est verso quello sabino e umbro e a sud verso la Magna Grecia. 7) Quali nuove conoscenze si fecero strada nel Lazio antico nell’VIII secolo a.C. e da chi furono introdotte? Le influenze di italici, etruschi e greci portarono in Roma notevoli innovazioni, quali l’introduzione della coltura della vite e dell’ulivo, nuove pratiche sociali come il banchetto (segno che si erano affermate delle élite aristocratiche), nuove usanze funerarie come l’inumazione (greci), l’espansione territoriale e la costruzione di mura difensive sul modello etrusco, ma soprattutto la scrittura. 8) Qual è il più antico documento scritto finora rinvenuto in Italia e dove è stato rinvenuto? Il testo scritto più antico d’Italia è stato rinvenuto nella necropoli di Osteria dell’Osa, corrispondente all’antico insediamento di Gabi, a 18 km da Roma. Si tratta di un’iscrizione graffita a cotto su un vaso a fiasco di produzione locale. La necropoli nel quale è stato rinvenuto ha restituito circa 600 tombe databili tra il IX-VII secolo a.C. Tra queste sono state individuate in un’unica fossa le deposizioni di 2 individui: uno di sesso maschile inumato e dotato di corredo di prestigio, l’altro di sesso femminile sottoposto ad incinerazione, al quale appartiene il vaso. L’iscrizione sembrerebbe essere in lingua greca, letta da sinistra a destra euoin, potrebbe essere un inno a Bacco che attesterebbe l’adesione della donna a culti misterici, oppure l’abbreviazione di eulinos (“che tesse bene”) da riferirsi alle doti manifatturiere della donna. Una recente interpretazione sostiene che si tratti di uno scritto in lingua latina e che quindi andrebbe letto da destra a sinistra come ni lue, cioè “non sottrarmi”, in riferimento all’intangibilità del sepolcro. L’adozione dell’alfabeto greco dimostrerebbe comunque che a Gabi era stata introdotta la scrittura da pre-colonizzatori che importavano nel centro latino usanze alimentari come il consumo del vino, pratiche sociali come il banchetto e nuove ritualità funerarie come l’inumazione affiancata all’incinerazione. Anche Dionigi di Alicarnasso conferma che Gabi era centro culturale, quando afferma che proprio nella città vennero istruiti Romolo e Remo. Ovviamente, anche se ciò non conferma la storicità del mito di fondazione, conferma però che Gabi era centro scrittorio e culturale da dove si irradiarono le conoscenze in tutto il Lazio, Roma compresa. Cap.2 1) Quali riti, istituzioni, cerimonie, documenti epigrafici confermano l’esistenza della monarchia in Roma? L’attività di figure regali è comprovata da molteplici indizi. Alcuni sono di tipo rituale: ad es., la presenza nel calendario, in corrispondenza dei giorni 24 marzo e 24 maggio, della sigla Q.R.C.F., cioè quando rex comitiavit fas, che indicava la data in cui era lecito per il re convocare il popolo in assemblea; analogamente, la cerimonia del regifugium consisteva in un sacrificio compiuto il 24 febbraio dal re che poi, non si sa per quale motivo cerimoniale, fuggiva rapidamente. Altre tracce della monarchia derivano da nomi di edifici o istituzioni: la denominazione della Regia per il palazzo sede del pontefice massimo evidenzia come, alle origini, essa dovesse corrispondere alla residenza del re; così l’istituto dell’interregno, cui si ricorreva in assenza di magistrati e che prevedeva la turnazione nella gestione del potere supremo tra i senatori, rappresenta una chiara sopravvivenza in età storica di una consuetudine adottata al tempo dei re in occasione della morte del sovrano. Si dispone anche di prove epigrafiche della presenza di re in Roma. Il famoso cippo del foro romano menziona per ben due volte tale carica e anche quella del kelator, che svolgeva la funzione di mediatore vocale tra il re e il popolo. Inoltre, gli scavi archeologici hanno riportato alla luce sul palatino una struttura abitativa che è stata interpretata quale dimora dei primi re di Roma. 2) Quali competenze e poteri possedeva il re a Roma? Le competenze del re comprendevano senza dubbio funzioni religiose, infatti, il sovrano in qualità di mediatore tra gli dei e gli uomini, presiedeva ai riti collettivi, traeva gli auspici, fissava il calendario e lo comunicava al popolo tramite il kelator. Al re spettava, inoltre, il comando dell’esercito, in virtù dell’imperium, cioè il potere in ambito militare da esercitare in guerra; egli era, però, anche arbitro della politica interna e della politica estera, in quanto riassumeva su di sé il ruolo di assoluta autorità di cui godeva il pater familias all’interno della famiglia e i capi clan all’interno dei clan. Infine, il sovrano amministrava la giustizia, ovvero giudicava e decretava sanzioni disciplinari. Tale attività, inizialmente, doveva essere piuttosto rara, poiché la vita sociale si svolgeva soprattutto all’interno dei gruppi familiari, che regolavano le controversie all’interno del clan. Comunque, in tutte le cause pubbliche e criminali il re sedeva in giudizio (presso il tribunal) e decideva incondizionatamente la vita, la morte e la libertà degli imputati. Egli aveva, inoltre, il diritto (ma non l’obbligo) di concedere che il condannato a morte si appellasse al popolo (provocatio ad populum) per chiedere la grazia. Egli personalmente non la poteva concedere, perché questa facoltà spettava solo al popolo sovrano. Quanto al re, non vi era nessuno che lo potesse condannare. Nell’esercizio delle sue funzioni, il re era preceduto ovunque dai suoi messi, i littori che portavano le scuri e i fasci, simbolo di potere di morte e fustigazione (i littori comparvero solo in età etrusca). La monarchia era una carica vitalizia che poteva interrompere solo la morte del sovrano, ma non era ereditaria. Quando il re moriva, il potere tornava nelle mani delle altre due componenti della vita pubblica: il senato e il popolo. 3) Quali altre istituzioni e assemblee sono documentate nella Roma monarchica? La tradizione letteraria menziona, fin dalla fondazione della città, una ristretta assemblea, il SENATO, che svolgeva la funzione di consiglio del re: essa riuniva i capi delle famiglie, chiamati “padri” (patres, da cui il termine patrizi) e contava approssimativamente 100 membri. Non sono note le modalità della loro selezione, anche se i senatori si distinguevano per anzianità (senatus da senex, cioè vecchio) e autorevolezza; i loro compiti non sono definiti con esattezza ma sembra che non avessero facoltà di promuovere campagne militari: erano infatti le famiglie dei padri a fornire i contingenti bellici. Il senato interveniva soprattutto in occasione della morte del sovrano perché nominava per estrazione a sorte tra i padri un interrex, una sorta di monarca temporaneo che reggeva lo stato per 5 giorni fintantoché il nuovo re non fosse stato designato dal popolo. Un limite ai poteri del re era costituito non solo dal senato ma anche dal POPOLO: il re, infatti, non aveva facoltà di promulgare o di cambiare leggi, poteva solo eseguirle. Alla volontà dei cittadini riuniti in assemblea e al consiglio dei capi famiglia (senato) spettava il potere di deliberare (però su proposta del re) le decisioni quali decreti-legge e dichiarazioni di guerra e di pace: il re sottoponeva la proposta al senato e tutti i padri erano chiamati a esprimersi (funzione consultiva del senato; ottenuto il parere del senato, il re consultava il popolo che votava a favore o contro. Il popolo, fin dai tempi di Romolo, possedeva diverse forme di aggregazione. Innanzitutto, risultava diviso in 3 tribù gentilizie (in quanto il figlio apparteneva alla tribù del padre) che servivano come base di reclutamento e unità di combattimento. Non è chiara l’origine di tali partizioni, né su quali basi un individuo appartenesse ad una tribù piuttosto che ad un’altra; non vengono in aiuto neanche i loro nomi che sembrano di origine etrusca: Tites, Ramnes, Luceres. C’è chi ha interpretato la suddivisione in chiave etnica, identificando i Tites come la componente sabina di Tito Tazio, i Ramnes come quella latina di Romolo e i Luceres gli Etruschi che si sarebbero aggiunti dopo la fondazione. Altri, invece, hanno proposto una tripartizione in base alle funzioni dello schema tipico indoeuropeo, considerando i Tites dediti alle attività agricole, assegnando ai Ramnes il primato politico e religioso e delegando i Luceres il ruolo di guerrieri. La popolazione maschile conosceva però un’ulteriore articolazione perché ognuna delle 3 tribù era suddivisa in 10 curie per un totale di 30 unità. Il termine curia deriva da ko-viria, cioè insieme di uomini, e passò poi ad indicare anche il luogo di riunione. I membri delle curie prendevano il nome di Quiriti e costuirono il corpo civico dei romani. Tali suddivisioni della popolazione maschile incidevano soprattutto nell’organizzazione dell’esercito: in caso di guerra ogni tribù forniva 100 cavalieri e 1000 fanti, per un totale di 3000 fanti e 300 cavalieri. La somma delle curie costituiva i comizi curiati, la più antica assemblea romana; essa si riuniva nel cosiddetto Comizio ed esercitava il potere di decidere provvedimenti in materia di diritto familiare, in particolare adozioni e testamenti. Inoltre, i comizi curiati avevano poteri anche in ambito religioso, ad es. si esprimevano in merito alla rinuncia da parte di un individuo ai culti familiari (destatio sacrorum). Avevano anche la facoltà di approvare o esprimere dissenso nei confronti delle proposte formulate dal re, ma non avevano il diritto di promuovere autonomamente alcuna iniziativa politica. Erano, cioè un organismo deliberativo, ma senza autonomia di proposta. Il loro compito di proposta consisteva nell’emanazione di una legge con cui ogni anno le curie investivano il re del comando militare (lex curiata de imperio) e con cui approvavano la designazione di un nuovo re dopo la morte del suo predecessore. Tale assemblea non verrà mai abolita, ma perderà progressivamente i suoi poteri, mantenendo solo una veste formale. In epoca successiva, infatti, ogni curia delegherà ad un littore il compito di rappresentarla e i 30 littori si riuniranno una volta all’anno per conferire l’imperium alle più alte autorità in carica, elette da altre assemblee (in particolare i comizi centuriati). Ai comizi curiati rimarranno solo il compito di ratificare le adozioni e altre questioni di diritto familiare. È nel corso dell’età regia che comparvero le prime MAGISTRATURE, per lo più in funzione di supplenza della figura del re quando questi, in particolari circostanze, non poteva assolvere a tutte le sue funzioni e designava un sostituto. Ad es., se il sovrano doveva assentarsi dall’urbe perché impegnato a combattere fuori Roma, indicava un prefetto della città (praefectus urbi) per gestirla in sua sostituzione; viceversa, quando il re era trattenuto a Roma e non poteva assumere personalmente il comando delle truppe in guerra, indicava un capo del popolo in armi (magister populi), forse affiancato da un capo dei cavalieri (magister equitum). 4) Quali prove militano a favore della multietnicità della Roma delle origini? Di tale processo di integrazione recano traccia sia le fonti letterarie che quelle documentarie: Romolo, per popolare la nascente città, avrebbe infatti concesso il diritto di asilo, cioè la possibilità per i rifugiati provenienti dal resto d’Italia di risiedere nel nuovo insediamento, di condividere a pieno titolo i diritti politici e di partecipare alla distribuzione dei bottini di guerra. Anche l’episodio del ratto delle Sabine, raccontato da molti storici antichi, costituisce un’espressione traslata di come dalla guerra, attraverso la pratica dei matrimoni misti, si pervenisse alla fusione tra Sabini e Latini, con un riconoscimento paritario delle due componenti etniche attraverso l’affiancamento a Romolo del re Tito Tazio. L’unione si tradusse anche nell’alternanza tra re latini (Romolo e Tullo Ostilio) e re sabini (Numa e Anco Marcio) e la città si andò caratterizzando sempre di più per la sua dimensione di “città aperta”. Nella seconda metà del VII secolo a.C. si assistette peraltro in tutta l’Italia centrale ad uno spostamento di interi clan di etnie diverse (greca, etrusca, sabina, latina) da una città all’altra in cerca di posizioni di dominio. Si trattò di una mobilità di tipo orizzontale, da ruoli di prestigio occupati in un insediamento a posizioni egemoniche assunte in un altro (lo documentano le evidenze archeologiche di tombe principesche i cui titolari presentano nomi di provenienza estera). La storia personale del 5° re di Roma, Tarquinio Prisco, è in tal senso assai significativa: egli era figlio di una donna etrusca e di Demarato, aristocratico rimasto soccombente nella lotta politica della città greca di Corinto, sua patria di origine, da cui era immigrato alla testa di un intero gruppo di artigiani trapiantandosi nella città etrusca di Tarquinia. Il figlio, Tarquinio, era stato accolto a Roma insieme alla moglie etrusca Tanaquil e al suo clan multietnico. 5) Quali nuovi saperi furono introdotti in Roma al tempo dei Tarquini e come cambiò il volto urbanistico della città? Tarquino Prisco fu il principale attore di una vera e propria “rivoluzione tecnologica” in quanto introdusse significativi cambiamenti, prodotto dei nuovi saperi di cui era portatore il suo clan etnicamente composito, presto seguito anche da altri gruppi familiari etruschi che si insediarono in forze: si trattava di artigiani, mercanti, costruttori, medici, esperti in materie religiose. Ne uscì rafforzato il profilo multietnico della comunità romana che per circa un secolo fu caratterizzata da bilinguismo e bigrafismo (latino ed etrusco). Fra le innovazioni importate dai clan etruschi figura in primo luogo la capacità di canalizzare le acque, la quale comportò un rapporto con l’ambiente molto più attivo e interventista, poiché volto ad incidere sul paesaggio in funzione del massimo sfruttamento delle risorse: si procedette, infatti, alla bonifica delle aree paludose e all’introduzione di nuove colture cerealicole (miglio) e arboricole (vite e ulivo). L’agricoltura, in precedenza subalterna alle attività silvo-pastorali, si avviò a divenire protagonista assoluta dell’economia romana, implicando la definitiva sedentarizzazione delle comunità rurali e la correlata prima monumentalizzazione delle residenze sia pubbliche che private (era, infatti, venuta meno l’esigenza di costruire capanne in materiale deperibile per movimentarle in relazione al micro-nomadismo pastorale). In città si procedette alla costruzione di una rete fognaria, la cosiddetta Cloaca Massima; l’area paludosa ai piedi del Palatino venne bonificata attraverso successivi riporti di terreno e, al posto dell’antico sepolcreto, trovò spazio la piazza del mercato pavimentata in pietra, chiamata FORO, su cui si affacciarono le sedi pubbliche del potere (la Regia, sede dei re; il Comitium, dove si riuniva il popolo; la prima curia Hostilia, sede del senato) e i negozi (tabernae) che contribuiranno a farne il cuore pulsante della vita economica e politica della città. Dal foro del Campidoglio venne poi lastricata la Via Sacra, che sarà percorsa da tutti i cortei cerimoniali. Nelle vicinanze del corso del Tevere venne costruito il Foro Boario che confinò il mercato del bestiame ai margini dell’abitato ma in connessione con la Via Salaria. Alle capanne di legno e fango si sostituirono progressivamente abitazioni private (domus) in materiale durevole, articolate intorno ad un atrio centrale. Nella valle tra il Palatino e l’Aventino, su un’area bonificata, venne costruito il Circo Massimo che ospitò per la prima volta i giochi, importanti momenti di aggregazione civica. Il volto della città, radicalmente rinnovato, si arricchì grazie all’edificazione dei primi templi, destinanti ad offrire delle residenze stabili alle divinità e che andarono gradualmente a sostituire il culto all’aperto. Si affermò, inoltre, nella vita pubblica il ricorso all’aruspicina, la scienza attraverso cui la classe sacerdotale si metteva in contatto con la divinità per interpretarne i voleri: d’allora in poi qualsiasi atto dell’autorità romana veniva preceduto dagli auspicia, cioè da apposite procedure religiose (osservazione del volo degli uccelli, delle viscere degli animali sacrificati, ecc.) tese a conoscere se la divinità fosse favorevole o meno all’azione che ci si accingeva a compiere. Conseguentemente a più mature conoscenza astronomiche fu l’adozione di un calendario che doveva provvedere alla scansione del tempo comunitario ma che per secoli rimase segreto, noto solo al re e ai suoi collaboratori che provvedevano a comunicare le periodiche scadenze civili e religiose ai cittadini, attraverso la figura del kelator. 6) Quali riforme sono attribuite a Servio Tullio e quali sono fededegne? Al re Servio Tullio la tradizione attribuisce un’intensa attività di riforme in vari campi, tuttavia alcune sono di storicità dubbia e potrebbero essere a lui posteriori, visto che i romani vedevano il nuovo come qualcosa di potenzialmente negativo poiché contraddiceva la tradizione, perciò cercavano di legittimare il cambiamento dimostrando che esisteva un precedente che avallasse la legittimità del “nuovo”. Comunque, l’azione politica di Servio Tullio sembrò ispirata dalla volontà di allargare il nucleo di quanti partecipavano alla gestione del potere. Così, aumentò il numero dei senatori a 300, con l’immissione di quelle che vennero chiamate minores gentes, cioè clan di recente accessione, e i nuovi senatori vennero chiamata conscripti (cioè iscritti nell’elenco dei senatori insieme ai precedenti). Servio Tullio procedette anche ad una riforma amministrativa: sostituì alle 3 tribù (Tites, Ramnes, Luceres), 4 tribù territoriali formate non su base gentilizia, ma in base al luogo di residenza (in quanto la popolazione, con l’arrivo di numerosi stranieri, era sensibilmente accresciuta e necessitava di una nuova suddivisione). Roma così divenne “quadrata”, cioè di divisa in 4 parti: Suburana, Esquilina, Collina, Palatina. La riforma dell’esercito è la più importante attribuita a Servio Tullio, tuttavia, sulla sua storicità ci sono notevoli dubbi. Alcuni ne vedono la conferma i successi militari che Roma registrò nel corso del VI secolo a.C., che sarebbero stati conseguenza dell’adozione di una nuova tattica bellica. Altri, invece, dubitano la paternità serviana dell’esercito oplitico a causa del mancato rinvenimento di panoplie, cioè set completi di armamento di fanteria, riferibili ad un’epoca tardo antica. Conseguentemente alla riforma militare, per quantificare la capacità patrimoniale di ogni cittadino potenziale soldato, egli dovette procedere al censimento dei cittadini. In tale occasione, per registrare il patrimonio di ognuno, si adottò per la prima volta come unità di misura un pane di bronzo sul quale era impresso un segno che ne garantiva il peso, detto dai moderni aes signatum. In realtà, tale riforma censitaria sembra ascrivibile ad un’epoca successiva, poiché solo al V secolo a.C. risalgono gli esemplari di lingotti di bronzo in funzione monetale. Per garantire una corrispondenza tra l’impegno profuso da ciascuno nell’esercizio delle armi e il peso politico esercitato dal singolo, Servio Tullio provvide all’istituzione di una nuova assemblea, i Comizi Centuriati, così chiamati perché si partecipava divisi proprio con nell’esercito, ovvero per centurie. La centuria costituiva l’unità di voto, ma il numero di cittadini iscritti in ogni centuria era variabile: le centurie delle prime classi erano poco affollate, diversamente erano densamente popolate quelle delle ultime classi. I comizi centuriati non rappresentavano, quindi, un’assemblea democratica: i cittadini abbienti e che più si impegnavano in guerra erano distribuiti in più centurie e il loro voto, dunque, pesava di più. Si trattava quindi di un sistema timocratico (in base alla ricchezza). La coalizione dei cavalieri e dei fanti della prima classe, spesso accomunati da interessi e obiettivi, garantiva la maggioranza dell’assemblea (98 centurie su 193). I non combattenti erano riuniti in una sola centuria e separati anche fisicamente dagli armati. I comizi centuriati eleggevano i magistrati supremi dotati di potere militare e decidevano della guerra. La nuova assemblea, che amministrerà Roma fino all’età augustea, sottrasse i poteri ai comizi curiati che furono relegati al solo compito di decidere su questioni di diritto familiare. Servio Tullio introdusse anche il culto della dea Diana, esteso a tutte le popolazioni sotto l’influenza romana (la futura Lega Latina), infatti, lo scopo era quello di tradurre anche in ambito religioso l’egemonia politica esercitata su di essi per garantire l’alleanza con Roma. 7) Quali erano le caratteristiche del nuovo esercito serviano? Le azioni militari precedenti alla riforma serviana erano disorganizzate e si configuravano per lo più come razzie. Con Servio Tullio, invece, nacque una fanteria oplitica, cioè una formazione di linea, armata pesantemente. Secondo una tattica acquisita dall’esperienza greca, lo scudo era tenuto con il braccio sinistro e difendeva il soldato vicino, perciò, lasciare il posto di combattimento significava esporre al pericolo il compagno di linea. L’individualismo venne superato dalla coesione civica, espressione di una forte aggregazione collettiva e di un addestramento all’azione coordinata. Nel nuovo esercito serviano ogni cittadino definiva qualitativamente il suo impegno bellico sulla base della personale capacità patrimoniale. Il soldato cittadino, infatti, doveva provvedere in proprio all’equipaggiamento; maggiore ricchezza sarebbe equivalsa a un armamento più completo, ad un più rilevante impegno nell’azione militare, ma anche ad essere più esposto al nemico. A tale onere, corrispondeva l’onore acquisito attraverso un bottino più alto, un più rilevante peso politico e un accrescimento del prestigio personale. La popolazione maschile venne bipartita in soggetti non arruolabili (infra classem), detti anche proletari, perché come unica ricchezza avevano la prole; e soggetti arruolabili (classis), perché dotati di patrimonio, i quali andavano a costituire la LEGIONE. Sulla base della loro capacità patrimoniale i cittadini vennero divisi in 193 centurie: 18 di cavalieri, 5 di corpi senz’armi (fabbri, carpentieri, suonatori, inservienti), 170 di fanti. Le centurie dei fanti erano distribuite in 5 classi: la prima classe era composta da 80 centurie di fanti (40 iuniores, 40 seniores), i quali combattevano corpo a corpo e possedevano un armamento completo, sia armi difensive che offensive; il censo richiesto per partecipare alla prima classe era dai 100.000 assi in su. la seconda classe era composta da 20 centurie di fanti (10 iuniores, 40 seniores), i quali combattevano corpo a corpo e possedevano sia armi difensive che offensive, possedevano lo scudo lungo ma non la corazza; il censo richiesto per partecipare alla seconda classe era dai 75.000 ai 100.000 assi. la terza classe era composta da 20 centurie di fanti (10 iuniores, 40 seniores), i quali combattevano corpo a corpo e possedevano sia armi difensive che offensive, possedevano lo scudo lungo ma non la corazza e neanche schinieri ed elmo; il censo richiesto per partecipare alla terza classe era dai 50.000 ai 75.000 assi. la quarta classe era composta da 20 centurie di fanti (10 iuniores, 40 seniores), i quali combattevano a distanza, possedevano solo armi offensive (come giavellotto e lance); il censo richiesto per partecipare alla quarta classe era dai 25.000 ai 50.000 assi. la quinta classe era composta da 30 centurie di fanti (15 iuniores, 15 seniores), i quali combattevano a distanza, possedevano solo armi offensive (come pietre e fionde); il censo richiesto per partecipare alla quinta classe era dagli 11.000 ai 25.000 assi. Ogni classe comprendeva centurie di iuniores (cioè combattenti dai 17 ai 46 anni) che costituivano l’esercito effettivo, e centurie di seniores (cioè soggetti dai 46 ai 60 anni) che rimanevano di presidio e riserva in città. Ovviamente, dall’esercito erano esclusi gli schiavi. 8) In quale modo la figura di Tarquinio il Superbo risulta deformata? La memoria del sovrano, di cui il soprannome “Il Superbo” ne denuncia la negatività, si dimostra falsata dalla tendenza a renderlo immagine per eccellenza, tipizzata, del tiranno. A lui si riconducono, infatti, tutti i luoghi comuni che la tradizione riserva ai regimi dispotici: la creazione di una guardia del corpo armata, l’ostilità dimostrata nei confronti dell’aristocrazia, una politica grandi lavori pubblici tesa a celebrare le proprie gesta. I punti salienti degli avvenimenti che portarono alla fine del suo regno sono questi: pare che la matrona romana Lucrezia, moglie del cugino del re, Collatino, avesse subito violenza da parte del figlio del re, Sesto. Ella si desse alla morte per il disonore, così il marito Collatino e Lucio Giunio Bruto, nipote del Superbo, scatenarono una rivolta. Tale insurrezione non rimase relegata alla cerchia familiare ma si dilagò grazie alla sollecitazione di Publio Valerio Publicola e Marco Orazio, al punto da provocare l’allontanamento dei Tarquini dalla città e la caduta della monarchia. Tuttavia, la memoria degli avvenimenti risulta pesantemente inquinata da 2 episodi che ne compromettono la veridicità: la contemporanea cacciata da Atene dei tiranni Ippia e Ipparco, innescati da reati di natura sessuale, e l’assassinio di Giulio Cesare, avvenuto molti secoli dopo, da parte di Giunio Bruto, presunto discendente dell’oppositore del superbo (si può presuppore che tale avvenimento sia stato utilizzato da Bruto per nobilitare la sua uccisione del tiranno Cesare come il suo predecessore fece con il re). Cap. 3 1) La cacciata dei Tarquini in quale scenario internazionale si inserisce? Nell’ultimo decennio del IV secolo a.C., in concomitanza con la cacciata dei Tarquini a Roma, in tutto il quadrante del Mediterraneo occidentale si consumò una lotta per il controllo della rotta commerciale tirrenica fra 3 elementi: quello etrusco, quello fenicio-punico e quello greco. Gli etruschi risultarono soccombenti e iniziarono a ritirarsi dalla Campania e dal Lazio meridionale, imboccando una strada di progressivo declino della loro egemonia territoriale. Le città etrusche, per mantenere il controllo delle percorrenze marittime attraverso le quali transitavano materie prime (ferro) e prodotti finiti (vasi e manufatti di pregio), adottarono diverse strategie, ad es. l’etrusca Cere siglò un patto con Cartagine, al fine di arginare l’intrapendenza commerciale e militare greca. 2) Il primo trattato fra Roma e Cartagine: chi lo preparò, chi lo siglò, in quale anno e quali ne furono i contenuti? Il trattato interstatale con Cartagine venne intavolato da Tarquinio il Superbo, ma venne siglato solo dopo il suo allontanamento dalla città nel 509 a.C. Il trattato riconosceva a Roma il suo controllo sul territorio del Lazio Antico (dove i cartaginesi non potevano pernottare in armi né istallare presidi), ma rinunciava al contempo all’espansione nel Mar Tirreno; le era consentita solo la frequentazione di un tratto limitato di costa, dalla foce del Tevere al promontorio di Bello (Capo Farina); il resto della rotta era lasciato al dominio di Cartagine. Nonostante le notevoli limitazioni, il trattato segnò a livello internazionale il riconoscimento dell’egemonia di Roma sul Lazio costiero. Il trattato verrà rinnovato fino al III secolo a.C. per 3 volte (348, 306, 279 a.C.). 3) Quali furono le magistrature di transizione che sono attestate tra la fine del VI e l’inizio del V secolo a.C.? Quali sparirono e quali si consolidarono? Innanzitutto, tra le magistrature di transizione, si registra la presenza del re addetto al sacro, che sembra corrispondere al sovrano il quale, privato ormai del potere militare e civile, mantenne dell’antica carica solo gli incarichi religiosi e cultuali, continuando a soggiornare nella Regia. La figura del kelator fu depotenziata di prestigio e autorevolezza, infatti, passo da essere il principale collaboratore del re, a svolgere in età repubblicana mansioni subalterne e marginali in ambito cultuale, legate soprattutto alla comunicazione al pubblico delle date calendariali. Una magistratura di eccellenza in ambito forse militare, ma limitata al periodo di transizione, fu quella di mastarna, documentata dalla leggenda di Servio Tullio e dalle pitture della tomba di Francois a Vulci: essa sembra corrispondere non ad un nome proprio, bensì alla dizione etrusca della carica latin del magister populi (capo del popolo in armi), di cui non si conoscono le precise prerogative. Di nuova istituzione fu, invece, la carica di pretore, il quale era in una posizione di vertice, forse di carattere militare. La carica di console fu quella che progressivamente si affermò al vertice del potere esecutivo e rimase sempre assegnata ad una coppia di magistrati. A costoro spettava il comando, sia quello civile dentro il pomerio, sia quello militare (imperium) fuori da esso. Il console aveva il diritto di convocare e presiedere il senato, di indire e sovraintendere i comizi centuriati (i quali ogni anno assolvevano al compito di eleggere i due consoli per l’anno successivo); parlavano al popolo nel corso delle assemblee informative, dette concioni, che si riunivano nel corso dei 24 giorni precedenti alla votazione delle leggi; eseguivano le cerimonie propiziatorie a nome della collettività e, soprattutto, guidavano l’esercito in guerra. Vi era poi la carica di dittatore che veniva adottata sporadicamente, solo in situazioni di emergenza, quando un incombente pericolo bellico suggeriva di unificare nelle mani di un solo soggetto la responsabilità del comando militare. Il dittatore, dotato di ampi poteri, nominava a sua scelta un capo della cavalleria (magister equitum) che lo coadiuvasse nell’esercizio delle sue mansioni; entrambi potevano rimanere in carica solo per 6 mesi. 4) Quali sono i principi che connotano le istituzioni repubblicane? I principi base che connotarono l’esperienza repubblicana sono: - Separazione dei poteri: si provvide ad affidare a magistrature indipendenti (consoli, pretori, collegi sacerdotali) le responsabilità di natura militare, giudiziaria e religiosa; - La durata temporanea delle cariche: le cariche erano impostate a cadenza annuale e il che consentiva una turnazione nella gestione del governo; - Il carattere collegiale delle magistrature: ciò garantiva un’amministrazione compartecipata e collettiva delle mansioni esecutive; - La scelta su base elettiva: che innescò una serrata concorrenza per l’assegnazione delle cariche e rese il popolo compartecipe del processo elettorale attraverso il voto esercitato nel corso dei comizi centuriati. 5) Quale città, e con che mezzi, contese a Roma l’egemonia sulla Lega Latina? Dove si consumò il conflitto e con quale esito? La città di Lavinio (odierna Pratica Mare) ambiva ad esercitare una supremazia in ottica antiromana. Le comunità latine approfittarono delle travagliate vicende che seguirono la cacciata dei Tarquini per dimostrare sempre maggiore insofferenza nei confronti dell’egemonia romana. Il conflitto si consumò nella battaglia campale presso il Lago Regillo nel 496 a.C. nei dintorni di Tuscolo. Il comandante Aulo Postumo Albino prima della battaglia invocò l’aiuto delle divinità del nemico (Castore e Polluce) promettendo accoglienza e culto se fossero passati dalla parte romana. La vittoria dei romani fu seguita dalla stipulazione del trattato di Cassio (siglato da Spurio Cassio) nel 493 a.C. (anche se gli storici propendono per una datazione più vicina alla battaglia nel 496 a.C.). Il trattato prevedeva perfetta reciprocità tra le parti contraenti: vicendevole aiuto bellico, equa spartizione dei bottini, scambievoli garanzie giuridiche (anche se nel corso del V secolo a.C. Roma riuscirà a riconquistare un ruolo egemonico all’interno della Lega Latina). 6) Cosa è l’evocatio? Importanza e conseguenze di tale rito. L’evocatio consisteva in una solenne preghiera che i romani rivolgevano alle divinità nemiche per assicurarsi il loro favore e quindi la vittoria. Sarà una pratica costante nella politica bellica romana e rappresenterà una delle strategie più efficaci di integrazione dei vinti: allargando il proprio pantheon alle divinità degli sconfitti, Roma aprirà la strada all’inclusione di questi ultimi, che non dovranno rinunciare alla propria identità religiosa. 7) In quante fasi si articolò lo scontro con Veio? Per quali motivi scoppiò la guerra? Chi fu il conquistatore di Veio? Quali esiti ebbe la guerra? La guerra contro la città di Veio scoppiò a seguito delle incursioni dei Volsci nella zona, che interruppero le vie verso la Campania, provocando una contrazione dei commerci dei veienti verso la magnagrecia, il che li indusse a volgersi allo sfruttamento delle saline alle foci del Tevere. Di conseguenza, entrarono in concorrenza con Roma, proprio nel momento in cui (a seguito della cacciata dei Tarquini) era prevalente l’elemento latino ostile a quello etrusco. La goccia che fece traboccare il vaso fu rappresentata dalla contesa per il controllo della cittadina di Fidene, la cui posizione sulla via Salaria ne faceva la chiave strategica per lo smercio dei prodotti verso il centro Italia. La guerra iniziò nel 480 a.C. e si articolò in 3 fasi: 1. Nella prima fase (480-477 a.C.) l’esercito romano (costituito dal clan dei Fabi) fu sterminato presso il fiume Cremera; 2. Dopo una lunga tregua lo scontro si riaccese (437-426 a.C.) e registrò la conquista romana di Fidene; 3. Il conflitto si concluse solo con l’espugnazione di Veio da parte dei romani, dopo un assedio decennale (406-396 a.C.). L’eroe romano nell’ultima fase della guerra fu Camillo che, in qualità di dittatore, la espugnò grazie a una galleria sotterranea che gli consentì di penetrare entro le mura. Rientrato a Roma Camillo sfilò come trionfatore sul cocchio tirato da quattro cavalli e con il volto dipinto di rosso. Ciò fu interpretato come una sua aspirazione alla divinizzazione e per questo fu esiliato a Cere. Veio venne rasa al suolo, tutto il suo territorio divenne agro pubblico e fu distribuito ai cittadini romani in lotti di 7 iugeri: gli abitanti vennero censiti in una nuova tribù territoriale, chiamata Tromentina. Cap.4 1) Quali poteri e funzioni deteneva il capo famiglia? Il pater familias gestiva il patrimonio della famiglia e aveva autorità assoluta (patria potestas) su tutti i suoi membri (moglie, figli, nipoti e schiavi). Egli assumeva anche le vesti di sacerdote, poiché officiava il culto degli antenati, rappresentava il nucleo dei congiunti nei confronti del mondo esterno ed esercitava il diritto di vita e di morte sui membri della famiglia, che gli rimanevano sottoposti fino alla sua morte, ad es. poteva vendere i figli come schiavi. 2) Come si diventava schiavi in età arcaica? Si poteva diventare schiavi in diversi modi: figli venduti dal capo famiglia nell’esercizio della patria potestas (il padre poteva anche ricomprarli), oppure servi per debiti, chiamati nexi (cioè legati) i quali, originariamente liberi, davano la propria persona a garanzia presso il creditore e venivano asserviti quando non potevano estinguere il debito nei tempi concordati; assai rari erano i prigionieri di guerra, in quanto nella società arcaica i nemici catturati spesso venivano riscattati in cambio di beni; più numerosi erano gli schiavi nati in casa da altri servi (vernae). 3) Cosa era la clientela e in cosa si sostanziava? Si trattava di un rapporto volontario ma non paritario, contratto da due soggetti liberi di nascita e basato sulla reciproca fides, cioè lealtà nutrita da fiducia. Fra i due contraenti quello di maggiore autorità, il patrono, esercitava il patrocinio, cioè la funzione di protezione paterna nei confronti del cliente, offrendogli sostentamento economico e assistenza giudiziaria; in cambio il cliente doveva al patrono obbedienza morale e politica. La convergenza di interessi si traduceva, infatti, nell’impiego dei clienti in attività economiche, rurali e commerciali per conto del patrono, nonché in azioni politiche per cui il cliente, quando andava a votare nelle sedi comiziali, doveva attenersi alle indicazioni di voto del patrono. Tale legame contribuì a stemperare le tensioni sociali, fornendo un canale di rappresentatività anche a soggetti in posizione di debolezza socioeconomica. 4) Quali erano i privilegi di cui godevano i patrizi e quale la piattaforma di rivendicazione dei plebei? I patrizi erano gli unici a poter prendere gli auspici, cioè a poter consultare gli dei circa la loro disposizione nei riguardi di qualsiasi iniziativa lo stato stesse per intraprendere. Tale privilegio era rivendicato dai patrizi come un diritto di sangue. Poiché gli auspici erano preliminari a qualsiasi azione politico-militare, i patrizi erano gli unici a poter accedere alle magistrature. Nella spartizione dei bottini di guerra potevano ottenere quote superiori a quelle dei plebei; in conseguenza di tale disuguale ripartizione dei profitti dell’attività bellica i patrimoni dei patrizi erano generalmente più cospicui di quelli dei plebei, ragion per cui, come creditori, i patrizi potevano assoggettare più schiavi per debiti. La piattaforma di rivendicazioni per cui si battevano i plebei si può riassumere in 3 punti: l’abolizione del nexum (schiavitù per debiti), l’equa spartizione dei bottini di guerra attraverso un’adeguata partecipazione alla distribuzione delle terre conquistate e rese ager publicus, l’ammissione alle magistrature, obiettivo che interessava soprattutto i plebei ricchi, assai numerosi. 5) Cos’è la secessione e quali obiettivi raggiunti dai plebei dopo la prima secessione? La secessione consisteva nel rifiuto della comunità plebea di partecipare alla vita religiosa e ai riti collettivi, ritirandosi in massa fuori dal pomerio; tale decisione comportava per la comunità la perdita del favore degli dei e, soprattutto in momenti di pericolo militare, implicava, a seguito del rifiuto di combattere e di partecipare alle assemblee (comizi curiati e centuriati), la necessità per la controparte di intavolare trattative conciliatorie. Il primo caso di secessione ci fu nel 494 a.C. (in concomitanza con le incursioni di Sabini e Volsci). La plebe rientrò solo dopo aver ottenuto il diritto di riunirsi in assemblea, il concilium plebis, le cui deliberazioni (i plebisciti) sarebbero risultati vincolanti solo per i plebei. Ogni anno l’assemblea eleggeva 2 edili, preposti alla manutenzione dei templi delle divinità care ai plebei, e 2 tribuni della plebe, con l’incarico di mantenere i contatti con la comunità patrizia. 6) Quali erano i poteri dei tribuni della plebe? Di quale garanzia godevano tali magistrati? I tribuni della plebe godevano di 2 diritti: lo ius auxilii (diritto di portare aiuto) grazie al quale prestavano assistenza giudiziaria ai plebei contro gli abusi di potere dei magistrati patrizi, e lo ius intercedendi (diritto di veto), per cui era sufficiente che un solo tribuno opponesse il veto alla deliberazione di un magistrato patrizio perché questa venisse annullata in quanto lesiva degli interessi della plebe. Inoltre, essi avevano il privilegio dell’inviolabilità in base alla legge chiamata “consacrata” diveniva sacer (ovvero vittima sacrificale alle divinità plebee Diana e Cerere) chiunque attentasse all’incolumità di un tribuno: poteva quindi essere impunemente ucciso senza che il suo assassino fosse perseguibile. 7) Quali i contenuti delle leggi Licinie Sestie? Esse stabilirono non abolirono la schiavitù per debiti, ma cercarono di ridurre il numero dei debitori insolventi, stabilendo forme di riduzione e rateizzazione dei debiti. In merito alla spartizione del bottino di guerra, si deliberò che nessun cittadino potesse possedere più di 500 iugeri di agro pubblico: l’imposizione di tale limite creò una maggiore disponibilità di terra per la distribuzione gratuita ai ceti subalterni. In merito alle magistrature, si stabilì che uno dei 2 consoli dovesse sempre essere plebeo. 8) Quando e con quale legge si mise fine al conflitto fra patrizi e plebei? Fu la Legge Ortensia (287 a.C.), la quale stabiliva che le delibere del concilium plebis, i cosiddetti plebisciti, fossero vincolanti anche per i patrizi. D’ora in poi, l’unica differenza fra le leggi e i plebisciti era che le prime venivano proposte dai consoli o dai pretori ai comizi centuriati, mentre i plebisciti venivano presentati dai tribuni della plebe al concilium plebis. 9) Da chi era composta la nobiltà senatoria e chi erano gli “uomini nuovi”? La nobiltà senatoria era in teoria un’élite aperta, per accedere alla quale bastava percorrere con successo la carriera politica fino al vertice (consolato e censura) e poiché le cariche pubbliche erano elettive, si potrebbe concludere che l’elemento generativo della nobiltà senatoria fosse la volontà popolare. Nella realtà, le magistrature stavano sempre nelle mani delle stesse ricche famiglie (sia di patrizi che di plebei), che tessevano alleanze attraverso matrimoni o adozioni incrociate per assicurarsi il successo elettorale attraverso solidarietà e convergenze clientelari. Gli “uomini nuovi” erano, invece, coloro che non potevano contare su predecessori in famiglia che avessero già ricoperto le cariche. Per loro era estremamente difficile farsi strada, infatti, con sforzi consecutivi di più generazioni, dovevano raggiungere una soglia patrimoniale adeguata, poiché le cariche erano non solo non retributive ma estremamente onerose, perché bisogna assicurarsi l’appoggio di esponenti della nobiltà che ne avrebbero agevolato l’accesso alle magistrature elettive. Cap. 5 1) Il primo sacco di Roma: quando si verificò e chi ne fu protagonista? Da dove provenivano gli invasori? Quale scenario internazionale fece da sfondo all’incursione nemica? Il primo sacco di Roma si verificò nel 390 a.C. ad opera di un contingente di Galli Sènoni capeggiati di Brenno. Tale tribù era stata l’ultima a stanziarsi in Italia e precisamente nel Piceno, a seguito di un imponente movimento di popoli celtici, che provenienti d’Oltralpe, erano penetrati nella pianura padana, avevano sbaragliato la resistenza degli etruschi padani, respinto i liguri e incontrato la sola resistenza dei veneti, per proseguire verso sud lungo l’area adriatica. L’esercito romano cercò di affrontarli, ma il 18 luglio fu sbaragliato presso il fiume Allia. Brenno lascio Roma solo dopo aver ottenuto un cospicuo riscatto in oro. È possibile inserire l’episodio del sacco di Roma all’interno di più complesse vicende internazionali. La banda celtica non avrebbe infatti agito di propria iniziativa ma per conto di un alleato, il tiranno greco di Siracusa Dionigi I, per il quale svolgevano la funzione di mercenari. Il tiranno di Siracusa perseguiva un’energica politica espansionistica che mirava a controllare le rotte commerciali in ambito sia adriatico che tirrenico. Per quanto riguarda la rotta tirrenica, Dionigi mirava ad impadronirsi del segmento settentrionale presidiato dai cartaginesi con l’appoggio della città etrusca di Cere. Probabilmente, Roma divenne obiettivo dei Galli per il suo legame di alleanza con Cere e Cartagine e il sacco si configurerebbe, quindi, come episodio dell’intraprendente politica di espansione marittima di Dionigi, che però dopo poco dovette desistere nel suo progetto per problemi interni alla città siciliota. 2) In cosa consistette il fenomeno della colonizzazione e quali furono le due forme che assunse in Roma? La crisi della Lega Latina, determinando per Roma la perdita dell’egemonia sul Lazio Antico, indusse la città ad adottare la colonizzazione come strumento di dominio ed espansione militare. La colonizzazione era un atto ufficiale assunto dallo stato che, in conseguenza dell’occupazione del territorio nemico, poteva procedere con 2 diverse modalità di distribuzione dell’agro pubblico: l’adsignatio, cioè l’assegnazione in proprietà a cittadini romani di appezzamenti terrieri a titolo individuale, oppure, la deductio, cioè la fondazione di una nuova città in cui si insediavano i cittadini romani che si trasferivano in quel nuovo centro urbano. In entrambi i casi i coloni ricevevano un lotto di terra, ma nel primo caso gli assegnatari restavano sotto la giurisdizione e l’amministrazione di Roma, anche se si trovavano a risiedere molto lontano dall’Urbe; mentre, nel secondo caso risultavano organizzati in una comunità auto-amministrata con un proprio centro civico, la colonia propriamente detta. La vocazione dei coloni non era solo agricola (come l’etimologia farebbe supporre), bensì soprattutto militare-strategica, in quanto i nuovi insediamenti venivano concepiti come guarnigioni ubicati in punti vulnerabili della costa o dell’interno più esposte agli attacchi nemici. Inoltre, la colonizzazione allontanò da Roma il proletariato indigente che, grazie all’assegnazione di lotti di terra, diveniva idoneo al servizio militare poiché rientrava nel censo minimo stabilito da Servio Tullio. In tal modo, si otteneva il duplice obiettivo di allentare le tensioni sociali e di incrementare gli effettivi dell’esercito e, conseguentemente, si aumentava la possibilità di annettere nuovi territori. Questo sistema circolare, destinato ad autoalimentarsi, stava alla base dell’espansionismo romano. 3) Come si svolgevano le pratiche di deduzione coloniaria e che cos’è la centuriazione? Una volta assunta la decisione della fondazione, l’attuazione pratica ricadeva nella responsabilità del senato (in seguito sarà dei tribuni della plebe, poi dei capi militari, infine dell’imperatore). Una commissione di 3 membri, solitamente ex consoli, sovraintendeva alla fondazione, provvedendo a delimitare i confini del nuovo insediamento, dividere e assegnare a sorteggio i lotti ai coloni, giudicare circa le dispute tra questi ultimi e i nativi, dare la costituzione alla nuova comunità, nominare i suoi primi magistrati e sacerdoti. I 3 commissari, quando partivano da Roma per adempiere al loro incarico, erano rivestiti di imperium (cioè di potere militare) e si recavano sul posto accompagnati da numeroso personale di servizio e da tecnici specializzati, chiamati agrimensori (perché deputati a determinare la misura dei campi). Ogni distribuzione di terra e fondazione di colonia era, infatti, accompagnata da un radicale intervento di organizzazione rurale che prevedeva il disboscamento delle aree di pianura, la loro bonifica attraverso la canalizzazione delle acque, la creazione di un’efficiente rete viaria. Protagonista del lavoro di bonifica era uno strumento, la groma, cioè una croce sostenuta da un’asta con 4 bracci perpendicolari fra loro e di uguali dimensioni, a cui erano appesi dei fili a piombo. Esso serviva a tracciare sul terreno linee dritte e angoli retti che disegnavano sul suolo una griglia ortogonale, chiamata CENTURIAZIONE, perché ogni tassello quadrato corrispondeva a 200 iugeri (tale misura era considerata in età arcaica l’estensione minima di terra per la sopravvivenza di una famiglia di agricoltori). Le centurie erano separate da linee di confine (che corrispondevano spesso a strade, canali, filari di alberi) che erano di 2 tipi: i cardini con direzione nord-sud e i decumani con direzione est-ovest che si intersecavano ortogonalmente. La città era divisa in una maglia di isolati ad andamento regolare e nel foro si intersecavano gli assi centrali, chiamati cardine massimo e decumano massimo. Non tutto il terreno delle colonie veniva centuriato, vi erano lotti esposti ad esondazioni di fiumi che non venivano distribuiti, aree destinante al pascolo comune, superfici di montagna e aree riservate agli indigeni. Copia della pianta del nuovo insediamento e copia della legge istitutiva della colonia venivano incise di tavole di bronzo o pietra esposte nel foro della città. 4) Quali tipi di rapporti interstatali Roma adottò dopo la vittoria nella grande guerra latina? Le comunità del Lazio aggiunto vennero inserite in 4 categorie: Municipio: era un’antica città libera vinta e sottoposta al dominio romano, cui era lasciata una certa autonomia interna poiché l’amministrazione restava in mano agli abitanti, che potevano eleggere proprie magistrature e osservare le proprie leggi, ma cui era imposto di assumere gli stessi obblighi che i cittadini di Roma avevano nei confronti dello stato. Essi erano, infatti, soggetti alla giurisdizione legale romana, gestita dal pretore a Roma, prestavano servizio militare, pagavano le tasse e la politica estera era interamente nelle mani dei romani. In cambio, gli abitanti del municipio godevano di una cittadinanza piena, cioè erano del tutto equiparati ai cittadini di Roma: beneficiavano dell’elettorato attivo e passivo (ius suffragii), del diritto a svolgere attività commerciali (ius commercii), di contrarre matrimonio con i cittadini romani (ius conubii) e di trasferirsi a Roma (ius migrandi); Città alleate: si trattava di una popolazione con cui Roma aveva stretto un trattato (foedus) di alleanza, manteneva l’indipendenza ma si impegnava a fornire truppe ausiliarie che combattevano a fianco dell’esercito romano; Colonie: erano città fondate dai romani e potevano essere di 2 tipi: - di diritto latino: gli abitanti godevano di 3 diritti (latinitas), ossia lo ius commercii, lo ius conubii e lo ius migrandi. Era invece precluso ai coloni latini l’accesso alle magistrature di Roma (ius honorum); per quanto riguarda il diritto di voto (ius suffragii) i coloni latini potevano esercitarlo se si fossero trovati nell’Urbe solo nei comizi tributi: essi votavano venendo inclusi in una sola tribù, scelta a sorte di volta in volta. Potevano ottenere la cittadinanza individualmente, grazie al favore di un magistrato romano oppure in virtù dei servizi resi. I latini erano poi obbligati a militare agli ordini di Roma in corpi ad essi riservati. La latinitas, con il tempo, smise di indentificare un gruppo etnico e venne individuato come status particolare determinato dal riconoscimento dei 3 diritti e considerata l’anticamera della piena cittadinanza; - di diritto romano: erano cittadini a pieno titolo e godevano di tutti i diritti connessi alla cittadinanza (ius suffragii, ius commercii, ius conubii, ius migrandi). Infatti, al bando coloniario potevano rispondere solo cittadini romani. In quanto estensioni della madre patria, ovvero comunità di cittadini residenti lontano dall’Urbe, tali colonie furono inizialmente amministrate direttamente attraverso i prefetti ma ben presto si dotarono di proprie istituzioni modulate sul modello di Roma: assemblee popolari, magistrature, senato. Comunità senza diritto di voto (civitates sine suffragio): erano città autonome che avevano conservato le loro istituzioni tradizionali ma a cui era stato accordato il diritto di commercio e di matrimonio con i cittadini dell’Urbe; non potevano, però, promuovere in proprio alcuna iniziativa politica estera e gli abitanti prestavano obbligatoriamente servizio militare per Roma e, se insediamenti marittimi, dovevano mettere a disposizione di Roma anche una flotta. 5) Le guerre sannitiche: motivazioni, fasi, popoli coinvolti, battaglia conclusiva. Il IV secolo a.C. fu il momento in cui si scontrarono le tribù di montagna contro le città stato di pianura. Infatti, Volsci, Sanniti, Lucani e Bruzi (tutti popoli di montagna) premevano sulle città costiere etrusche, latine e greche. Roma scelse di schierarsi con gli insediamenti urbani di pianura e protesse le città greche dell’Italia meridionale in quanto si considerava ad esse legata da una profonda affinità culturale: sedentarizzazione, urbanizzazione, economia agricola si qualificavano come elementi identitari accomunanti, che si opponevano, invece, allo stile di vita delle popolazioni dell’interno: seminomadi, disperse in insediamenti precari e privi di nucleo urbano, dedite ad un’economia silvo-pastorale e inclini alla predazione stagionale. Il conflitto si svolse nella seconda metà del IV secolo a.C. e i Sanniti furono il popolo appenninico che con maggior ostinazione e durezza si oppose per più generazioni a Roma, rappresentando un polo aggregativo per tutte le altre comunità dell’Italia meridionale ostili alla Repubblica. Le guerre sannitiche possono essere divise in 3 fasi: Prima fase (343-341 a.C.): Roma intervenne in favore della città greca Capua, insediata dalle ricorrenti incursioni dei popoli di montagna che si accingevano ad occuparla. Poiché aveva da poco siglato un trattato di alleanza con i sanniti che le avrebbe interdetto ogni intervento, la Repubblica ricorse ad un espediente di natura diplomatica: ottenne la resa di Capua che venne incorporata nello stato romano, il che le consentì di considerare legittimo il conflitto e di compromettere il favore divino, quando la città greca venne aggredita dai Sanniti. Liberata Capua e il pericolo di un’invasione sannita la guerra si riaccese solo dopo 15 anni; Secondo fase (326-304 a.C.): Roma affronto la stessa situazione per liberare la città greca di Napoli dall’occupazione degli Osci. Il conflitto si protrasse a lungo e conobbe episodi di grave difficoltà per Roma, quando le sue legioni, dopo aver liberato la città campana, si spinsero all’interno con l’intenzione di attaccare i Sanniti nelle loro montagne. Clamorosa fu la sconfitta subita nella valle di Caudio (321 a.C.) in cui l’esercito romano fu intrappolato nelle strette montagne e costretto alla resa, tanto umiliante da far ricordare l’evento con il nome di Forche Caudine. Nonostante tale infortunio, Roma riuscì a riportare alcune vittorie e l’isolamento indusse i Sanniti a chiedere la pace. Ma si trattò solo di una tregua temporanea. Infatti, l’aggressiva azione colonizzatrice romana aveva provocato diffuse ostilità nei popoli dell’Italia centrale, che si sentivano minacciati nella loro autonomia; Terza fase (298-290 a.C.): vide opporsi contro Roma una coalizione di Sanniti, Galli Sènoni, Umbri ed Etruschi e fu decisiva la battagli presso Sentino (295 a.C.) dove i romani vinsero a capo di Publio Decio Mure che si sacrificò volontariamente, seguendo una pratica rituale per trascinare con sé nell’oltretomba l’esercito nemico. Gli ultimi 5 anni di conflitto furono impiegati dalle legioni per rastrellare i territori e vincere la resistenza delle comunità sannitiche. 6) A quali strumenti Roma ricorse per sconfiggere i Sanniti? In primo luogo, la fondazione di colonie fu adottata per circondare i Sanniti e assicurare rifornimento alle legioni. Si trattava anche di colonie marittime, che, disposte a un’ora di navigazione l’una dall’altra, consentivano il rifornimento alla legione, quando questo era bloccato dai nemici via terra. La predisposizione di un’efficiente viabilità marittima e terrestre si rivelò un altro strumento efficace di conquista. Furono lastricate la Via Salaria, la Via Appia, la Via Erculea e altre, proprio per consentire il passaggio delle truppe e rifornimenti anche nella cattiva stagione. Altro importante elemento fu la riforma manipolare dell’esercito. 7) In cosa consistette la riforma manipolare? Si trattò di una modifica intesa ad assicurare alla legione, concepita fino ad allora solo per combattimenti in campo aperto, di avere quell’autonomia e flessibilità necessarie ad affrontare la guerra in montagna, dove, a causa della rigidità del precedente schieramento, rischiava di rimanere vittima di imboscate. Con la riforma manipolare la compattezza della legione venne spezzata da un’articolazione non solo orizzontale per funzioni, ma anche verticale per unità. Nel III secolo a.C. leva legionaria era comprensiva di 18.000 uomini, divisi in 4 legioni da 4.500 uomini ciascuna. Ciascuna legione era articolata in sezioni orizzontali che svolgevano un ruolo diversificato: sul fronte dello schieramento erano allineati 1.200 astati, truppe scelte con armamento completo che avevano il compito di sostenere il primo urto dell’esercito nemico; seguivano 1.200 principi, truppe di rincalzo che combattevano a falange, in quanto soldati di consolidata esperienza, sostenevano il maggior urto dello scontro e spesso determinavano l’esito della battaglia; alle spalle erano collocati 600 triari, truppe di riserva, che non sempre combattevano, ma intervenivano solitamente nelle fasi conclusive del combattimento, lanciandosi all’inseguimento dei nemici in fuga. Erano presenti con funzione di supporto anche 1.200 veliti, truppe di fanteria armate alla leggera, reclutate nelle classi censitarie più basse che venivano impiegate in azioni di disturbo e pattugliamento. A sinistra e a destra dello schieramento erano disposte le formazioni di cavalleria: 300 cavalieri divisi in 2 squadroni. Con la riforma manipolare la legione acquistò anche una divisione verticale: ognuna delle linee (astati, principi e triari) fu frazionata in 10 manipoli, per un totale di 30 manipoli; a tale nuova unità di combattimento fu aggiunta la coorte, risultato dell’unione di 1 manipolo di astati, 1 di principi e 1 di triari. Erano esclusi dal tale divisione veliti e cavalieri. La legione poteva quindi suddividersi in articolazioni autonome, capaci di fronteggiare la guerriglia in montagna; i segnali trasmessi con la tromba indicavano se il combattimento doveva svolgersi in linea, per coorti o per manipoli. Il comando della legione rispondeva anch’esso ad esigenze di flessibilità ed efficienza. Il comando di tutte le legioni era detenuto dai consoli, i quali spesso ne guidavano 2 ciascuno. L’ufficialità era rappresentata dai tribuni dei soldati, 6 per legione (24 in tutto), eletti ogni anno dai comizi centuriati. Erano coadiuvati dai centurioni, figure in posizione intermedia tra ufficiali e sottoufficiali, il loro numero in età repubblicana era di 10 per legione, 1 per coorte. Il centurione della prima coorte era detto primipilo, egli entrava nella tenda dello stato maggiore, era il capo dei centurioni e aveva responsabilità dell’aquila della legione. A fianco delle legioni combattevano anche le truppe ausiliarie, fornite dalle colonie latine e dagli alleati italici guidati da ufficiali romani con la carica di prefetti. Cap. 6 1) Su quali valori, nell’ottica dei protagonisti, si basava l’espansionismo romano? Quali vantaggi traevano da esso le singole componenti della società romana: ceti dirigenti, ceto medio, proletariato, alleati? I valori alla base dell’espansionismo romano erano: il diritto feziale che giustificava solo le guerre difensive, l’equità nei rapporti interstatali, la clemenza nei confronti dei vinti, la lealtà nelle relazioni con gli alleati. Tutte le componenti della società romana traevano vantaggio dall’espansionismo: - Le classi dirigenti ricavavano un rafforzamento della loro posizione in termini di prestigio politico, bottini e numero di clienti. In caso di esito vittorioso, il senato accordava al comandante e al suo esercito l’onore del trionfo, ma solo se erano stati soddisfatti alcuni - requisiti: se il generale aveva tratto di persona gli auspici, se era stato elevato il numero di nemici uccisi e basso il numero di perdite, se il successo era stato risolutivo e aveva comportato l’acquisizione di nuovi territori. La cerimonia produceva un grande impatto propagandistico sul popolo e faceva acquisire al comandante autorevolezza che si concretizzava in prosecuzione della carriera politica e accesso ad essa per i suoi figli. La riconoscenza del popolo era motivata anche dal bottino di guerra, per il cu utilizzo spettava al generale vittorioso avanzare proposte al senato: una parte era devoluta a scopo votivo come ringraziamento alla divinità che aveva propiziato la vittoria; il comandante poteva poi suggerire di dedurre colonie nel territorio nemico e indicarne il tipo (diritto romano o latino), per poi favorire l’adesione dei suoi clienti al bando coloniario. Il vincitore decideva anche quale trattamento riservare ai vinti, poiché si faceva mediatore tra il potere centrale e gli sconfitti, di cui diventava protettore; le popolazioni sottomesse, una volta inglobate nello stato romano, dovevano fare riferimento a lui e poi ai suoi eredi per dialogare con la Repubblica: nasceva così la clientela dei vinti; Il ceto medio era fortemente interessato ai profitti della guerra, poiché essa consentiva di aprire nuovi mercati dove esportare prodotti finiti e importare le materie prime; Il proletariato urbano e contadino traeva vantaggio dall’espansione perché essa spesso comportava la distribuzione di terre o la fondazione di colonie; Gli alleati traevano vantaggio perché potevano partecipare alla deduzione di colonie di diritto latino. 2) Cause, modalità e conseguenze della guerra contro Taranto. La guerra contro Taranto impegnò Roma dal 282 al 275 a.C. Taranto era più potente città magnogreca d’Italia, che si prodigava per salvaguardare la propria indipendenza dalle popolazioni indigene dell’interno (Sanniti e Lucani) ma anche il proprio ruolo egemonico sulle città italiote. Nel 302 a.C. aveva stretto un’alleanza con Roma in funzione anti-sannitica, con il quale Roma si impegnava a non navigare nel golfo di Taranto. A rompere l’equilibrio tra i due contraenti intervenne però la richiesta avanzata dalla città italiota di Turi di ricevere un presidio romano a scopo di difesa contro i Bruzi, l’invio dei soldati fu interpretato da Taranto come un’indebita ingerenza nella propria sfera egemonica, ma la situazione peggiorò quando una flottiglia romana nel 284 a.C., non si sa se per volontaria provocazione o per errore del comandante, penetrò nel golfo di Taranto. La città contrattaccò, forte dell’appoggio di Pirro re dell’Epiro, uno dei più brillanti comandanti del tempo, erede delle tattiche di Alessandro Magno. L’esercito di Pirro era formato da contingenti di mercenari, da fanteria di linea e di elefanti. I pachidermi gettarono inizialmente scompiglio nell’esercito romano, il quale poi escogitò la tattica di tagliare i garretti degli animali rendendoli zoppi. I romani subirono una grave sconfitta nel primo scontro ad Eraclea (280 a.C.), pur infliggendo pesanti perdite al nemico che non seppe sfruttare l’occasione per marciare sull’urbe. Subì una pesante sconfitta anche l’anno dopo ad Ascoli Satriano, ma decise di continuare la lotta per alcune ragioni: stavano emergendo dei dissensi tra Pirro e i tarantini, l’elevato numero di caduti che Pirro aveva subito nonostante i successi, la fedeltà di laziali e campani su cui Roma poteva contare e la pressione esercitata da Cartagine, con cui Roma rinnovò per l’ultima volta il trattato in funzione anti-greca. Pirro decise di trasferirsi in Sicilia per farsi promotore della lotta contro i Cartaginesi, insediati nella parte occidentale dell’isola. Nel frattempo, la lontananza di Pirro consentì a Roma di riorganizzare le proprie forze e quando Pirro tornò nella penisola riuscirono a sconfiggerlo, al comando del console Manio Curio Dentato, nella località di Malevento, che nell’occasione cambiò il nome in Benevento (275 a.C.). Come conseguenza, Taranto fu costretta a consegnare ostaggi e ad accogliere un presidio romano, ma le fu concesso di conservare i propri ordinamenti (in ossequio alla trazione culturale greca, che, per il suo prestigio, ispirava in Roma grande rispetto). Molti insediamenti magnogreci divennero soci navali di Roma e quindi tenuti a metterle a disposizione flottiglie di navi da guerra. Al termine del conflitto Roma aveva iniziato ad imporsi sullo scenario internazionale, inglobando nella sua rete di alleanze tutta l’Italia meridionale fino a Reggio. 3) Cause strategiche e pretesto contingente della prima guerra punica. Teatri di guerra e protagonisti del conflitto. Termini del trattato di pace. L’estensione del controllo in Italia fino all’estremità del Bruzio e la disponibilità non solo di truppe di terra ma anche delle prime flottiglie navali comportò per la Repubblica un radicale cambiamento di strategie espansive. Fino ad allora Roma aveva privilegiato le conquiste via terra e si era astenuta dalla competizione per il monopolio delle rotte marittime, lasciando all’alleata Cartagine il compito di contrastare l’intraprendenza greca. Il sensibile cambiamento di equilibri di forze, ora, invece, suggeriva la possibilità di contendere la supremazia nella frequentazione della rotta tirrenica, in particolare nello stretto di Messina. Tale ambizione egemonica implicava però una collisione con gli interessi della tradizionale alleata Cartagine, che rappresentava al tempo una grande potenza commerciale. Governata da un’aristocrazia mercantile, la città punica, grazie ad una flotta agguerrita e all’impiego di truppe mercenarie, era in grado di controllare le coste dell’Africa settentrionale, la Spagna meridionale, la Sardegna, la Corsica e la parte occidentale della Sicilia. La prima guerra punica (264-241 a.C.) fu il prodotto di una deliberata scelta della comunità romana; il senato, infatti, lasciò all’assemblea popolare il compito di decidere se accogliere o meno la richiesta di aiuto di Messina, città greca che era stata attaccata dai Mamertini. I Mamertini erano dei mercenari campani che erano passati al soldo dei cartaginesi ai tempi della guerra contro Pirro e si erano impadroniti con un colpo di mano della città sullo stretto. Ierone di Siracusa li aveva cinti d’assedio e loro avevano chiesto l’aiuto ai cartaginesi. Si trattò di un conflitto di lunga durata che si giocò su diversi fronti, in Sicilia e in Africa settentrionale, per terra e per mare. Nonostante i primi successi registrati (liberazione di Messina), per Roma fu presto chiaro che si sarebbe dovuta dotare di una flotta, che fu costruita sul modello delle navi cartaginesi. Tuttavia, i romani vi apportarono un’innovazione: i corvi, ossia passerelle mobili dotate di arpioni sommitali che agganciavano saldamente le navi nemiche e consentivano il combattimento corpo a corpo. Grazie a questo espediente i romani vinsero a Milazzo nel 260 a.C., celebrando il loro primo trionfo navale. Nel 256 a.C., il console Gaio Attilio Regolo decise di aprire un nuovo fronte in Africa sul suolo nemico: la campagna, però, si tradusse in una grave sconfitta e il console fu fatto prigioniero. Nonostante tali rovesci, i romani riuscirono a conquistare Palermo e la battaglia decisiva fu combattuta nel 241 a.C. sul mare presso le isole Egadi a capo di Quinti Lutazio Catulo. In questa battaglia l’ammiraglio punico Amilcare, soprannominato Barca (“fulmine”) subì una clamorosa sconfitta e fu costretto a trattare la resa. Le condizioni del trattato di pace furono durissime: i cartaginesi dovevano ritirarsi dalla Sicilia, restituire senza riscatto tutti i prigionieri romani e pagare una cospicua somma da versare in 20 anni. La Sicilia diventò provincia romana, così come la Sardegna e la Corsica nel 227 a.C. 4) Gli obiettivi del progetto annibalico. Le sconfitte romane e i teatri di guerra. I termini del trattato di pace. Il ruolo di Cornelio Scipione. La seconda guerra punica (219-202 a.C.) fu per Roma una guerra difensiva. La causus belli fu l’attacco di Annibale a danni di Sagunto, città che vantava con Roma un rapporto federativo. Mentre il senato discuteva vanamente i termini giuridici-diplomatici della questione, Annibale concepì un ardito piano di attacco: valicò i Pirenei, eluse la sorveglianza delle legioni romane inviate a sud della Gallia per intercettarlo e oltrepassò la catena alpina durante la stagione invernale con il suo composito esercito, cavalleria ed elefanti compresi. La strategia di Annibale si fondava su due direttrici progettuali: alienare a Roma l’alleanza con le comunità latine (che avevano garantito all’urbe la vittoria durante la prima guerra punica) e aprire nuovi fronti su cui Roma fosse chiamata a combattere, per allentare la pressione nei luoghi dove si scontrava con i cartaginesi. I celti padani e i liguri accettarono la proposta di Annibale e si unirono al suo esercito che comprendeva Libi, Iberi, Numidi. Le truppe romane furono sconfitte sul fiume Ticino e poi presso il fiume Trebbia (218 a.C.), perdendo così il controllo della Cisalpina. L’anno successivo furono attirate in un’imboscata presso il lago Trasimeno (217 a.C.) e, circondate dalla celebre manovra a tenaglia di Annibale furono annientate perdendo 15.000 uomini. La più pesante sconfitta si consumò nel 216 a.C. a Canne, nel quale i romani persero 50.000. I Cartaginesi riuscirono a penetrare nell’Italia meridionale e videro passare dalla loro parte la città di Capua (che sperava di sostituirsi a Roma nell’egemonia italica) e il re Filippo V di Macedonia (che non aveva gradito l’ingerenza romana sulla sponda dell’Adriatico durante le guerre illiriche). Tuttavia, di fronte ad un quadro tanto drammatico, dopo numerose sconfitte, Roma iniziò il recupero di importanti piazzeforti strategiche: nel 211 a.C. costrinse alla resa Capua e recuperò Siracusa, l’anno successivo Taranto e tutta la Sicilia tornavano sotto il controllo romano. Nel 209 a.C. iniziò ad operare in Spagna il giovane Publio Cornelio Scipione, in seguito soprannominato l’Africano: nonostante avesse solo 25 anni e avesse ricoperto solo la carica di edile, per voto popolare divenne proconsole al comando delle truppe in Spagna, dove riuscì ad annientare l’egemonia cartaginese e fondò la città di Italica. Nel 207 a.C. i rinforzi che Asdrubale stava conducendo in Italia al fratello Annibale vennero annientati presso il fiume Metauro e la testa del comandante fu gettata nell’accampamento del Cartaginese, il quale venne sempre più confinato all’estremità meridionale della penisola. Stretto d’assedio a Crotone, Annibale si rassegnò ad abbandonare l’Italia dopo 15 anni di guerra. Nel mentre, in Africa, Scipione era riuscito ad imporre sul trono di Numidia il re filoromano Massinissa, sottraendo all’esercito punico il contributo della cavalleria berbera che era stata la principale responsabile delle vittorie annibaliche. Nella pianura di Zama si venne nel 202 a.C. allo scontro finale dove Annibale fu sconfitto e fu costretto a fuggire in oriente, ospitato da Antioco III re di Siria. Scipione impose a Cartagine delle condizioni di pace durissime: consegnare tutti gli elefanti e tutte le navi (tranne 10 triremi), non potevano attaccare guerra a nessuno senza il consenso dei romani, dovevano rifornire di viveri l’esercito per 3 mesi, pagare ingenti somme dilazionate in 50 anni, restituire tutti i beni appartenenti a Massinissa e dare in garanzia 100 ostaggi che il generale romano avrebbe scelto tra i giovani di età tra 15 e 29 anni. 5) Cosa significa il termine “provincia”? Quali erano i poteri del governatore? Quali erano le procedure di provincializzazione e il destino degli sconfitti? Inizialmente, con il termine provincia si intendeva il territorio su cui un magistrato estendeva il proprio potere militare quando usciva fuori da Roma. Dal III secolo a.C. in poi, passò a designare il territorio nemico che avesse fatto atto di resa a un generale romano e i cui abitanti fossero entrati nella categoria di sudditi arresi e privi di diritti politici. La procedura per la costituzione di una provincia iniziava con l’estinzione di ogni precedente sovranità costituita, secondariamente veniva inviata una commissione di 10 delegati scelti dal senato con l’incarico di definire, insieme al generale vittorioso, lo statuto della nuova partizione amministrativa. Il territorio conquistato veniva quindi riorganizzato stabilendone i nuovi confini e individuando un nuovo capoluogo; si procedeva poi a definire i diritti e i privilegi delle entità che si erano mostrate favorevoli a Roma. Nella provincia vi era, dunque, un variegato mosaico istituzionale: città alleate (federate), citta che dovevano corrispondere un tributo (stipendiarie) e città autonome ed esentate dai pagamenti, secondo una gerarchia che si dimostrò vincente, in quanto produceva divisione tra i nemici di Roma. Veniva poi delimitato l’ager publicus, ossia la terra che andava a costituire la proprietà demaniale della Repubblica e si procedeva a fissare l’entità del tributo che doveva essere corrisposta a Roma o in denaro o in grano. Dopo l’emanazione dello statuto provinciale e il rientro in Roma del generale e della commissione decemvirale, la provincia veniva amministrata da un governatore: costui era sempre un magistrato dotato di potere militare (imperium) ma, a seconda delle circostanze poteva corrispondere o ad un pretore o ad un console cui veniva spesso concesso di prorogare la propria magistratura con il titolo di propretore o proconsole, per garantire continuità amministrativa. Il governatore quando partiva da Roma per amministrare la provincia era sempre accompagnato da personale tecnico di servizio (cohors praetoria), di solito un questore adibito a compiti amministrativi e finanziari e dei legati, e da uno stuolo di amici e clienti (cohors amicorum) tra cui consiglieri privati e, soprattutto giovani rampolli dell’aristocrazia che dal soggiorno in provincia intendevano ricavare esperienza. Il governatore aveva la responsabilità della sicurezza militare della provincia, ma non poteva autonomamente decidere di dichiarare guerra; rientrava tra le sue competenze l’invio a Roma del tributo, godeva inoltre di ampia discrezionalità nell’amministrazione provinciale, tant’è che spesso i governatori imponevano somme aggiuntive da versare. Tuttavia, il suo compito principale era l’esercizio delle funzioni giudiziarie. A tale scopo veniva annualmente allestito un tribunale itinerante che toccava tutti i centri più importanti della provincia. Cap.7 1) La prima guerra macedonica: l’accordo tra Filippo V e Annibale; le condizioni di pace. Ai tempi delle guerre illiriche Filippo V di Macedonia non aveva gradito l’ingerenza romana sui territori orientali. Per questo nel 215 a.C. aveva stretto un accordo con Annibale in funzione anti-romana. La prima guerra macedonica (214-205 a.C.) si configurava come un’appendice della seconda guerra punica. Tuttavia, i romani avevano stretto diverse alleanze con città stato greche in funzione antimacedone, guidate dalla Lega Etolica (212-211 a.C.). la guerra si concluse nel 205 a.C. con la pace di Fenice, la quale riconosceva gli equilibri di forze precedenti al conflitto, in quanto Roma, per il momento, non aveva interesse ad aprire nuove ostilità, perché non si era ancora giunti ad una conclusione nel conflitto con Cartagine. 2) La seconda guerra macedonica: l’ultimatum del senato romano a Filippo V; la battaglia decisiva; le condizioni di pace. Le ambizioni espansioniste che Filippo V in oriente e in Grecia, portarono ad un nuovo conflitto, la seconda guerra macedonica (200-197 a.C.). Le città greche che avevano in precedenza garantito il loro sostegno a Roma, come Pergamo e Rodi, sollecitarono l’urbe all’azione. Roma, perciò, attuò un’azione diretta: inviò un ultimatum a Filippo V, intimandoli di cessare le ostilità. Il ruolo di liberatori della Grecia era una scusa per arrivare al conflitto con il macedone. Nel 200 a.C. i romani varcarono l’Adriatico, ma inizialmente non ottennero vittorie risolutive. Nel 198 a.C. il comando fu affidato a Tito Quinzio Flaminino, il quale fece sgomberare i macedoni dalla Tessaglia e nel 197 a.C. sbaragliò le truppe macedoni nella battaglia di Cinocefale. La pace imposta a Filippo V fu durissima: la Macedonia manteneva la sua autonomia ma doveva rinunciare alla sua flotta e pagare una consistente indennità di guerra. Nel 196 a.C. durante i giochi istmici a Corinto, Flaminino proclamò la libertà della Grecia. 3) La guerra siriaca: l’accordo tra gli Etoli e Antioco III; gli scontri risolutivi; il trattato di pace. I nuovi equilibri in Grecia lasciarono insoddisfatta la Lega Etolica, la quale aveva sperato in un ampliamento territoriale. Per questa ragione gli Etoli raggiunsero un accordo con Antioco III re di Siria, il quale contestava l’ingerenza dell’urbe nell’Asia Minore. Forte dell’appoggio etolico, nel 192 a.C. mosse guerra a Roma, aveva inizio la guerra siriaca (192-188 a.C.). I romani, dopo numerosi scontri vittoriosi, sconfissero definitivamente i siriani a Magnesia sul Sipilo nel 189 a.C. e nel 188 a.C. siglarono con il re di Siria il trattato di pace di Apamea. Furono imposti la distruzione della flotta siriaca, il pagamento di una consistente indennità di guerra e lo sgombero dei territori a ovest e a nord della catena del Tauro, zona che venne divisa in 2 aree: Lidia e Caria. 4) La terza guerra macedonica: la strategia di Perseo; la battaglia decisiva; la riorganizzazione della Macedonia. Nel 179 a.C. morì Filippo V e gli succedette il figlio Perseo, il quale era animato da una volontà di rivalsa nei confronti di Roma e si adoperò al fine di sottrarle il ruolo di garante della libertà della Grecia. Egli sollecitò un’azione anti-romana nelle città greche. D’altra parte, il regno di Pergamo spingeva Roma all’azione. Così nel 171 a.C. ebbe inizio la terza guerra macedonica (171-168 a.C.). Dopo una serie di azioni di scarsa efficacia da entrambe le parti, si venne allo scontro risolutivo nel 168 a.C. a Pidna, dove trionfò il console Lucio Emilio Paolo. Il territorio della Macedonia venne diviso in 4 distretti indipendenti, ciascuno di essi tenuto a versare un contributo perpetuo alla Repubblica; Perseo fu condotto prigioniero a Roma. 5) Che cos’era il porto franco di Delo? Roma creò il porto franco di Delo, in Grecia, come luogo in cui i traffici commerciali non erano soggetti a dazi e che perciò contese l’egemonia commerciale che prima era propria di Rodi. Divenne anche luogo principale per lo scambio di schiavi. 6) La terza guerra punica: la decisione dei comizi per la guerra; il casus belli; la distruzione di Cartagine. Nel 149 a.C. i romani aprirono un nuovo fronte di guerra in Africa, con l’obiettivo di estirpare definitivamente la minaccia Cartaginese. Aveva inizio la terza guerra punica (149-146 a.C.). I timori di Roma stavano nel fatto che Cartagine aveva dimostrato grandi capacità di ripresa, a seguito del secondo conflitto punico. Infatti, Cartagine aveva ripreso la propria politica espansionistica, anche per pagare il pesante indennizzo di guerra a Roma. Il casus belli furono le tensioni maturate tra Cartagine e il regno di Numidia, quest’ultimo nelle mani di Massinissa, fedele alleato romano. Infatti, i romani, proprio per premiare la fedeltà del re avevano ampliato i territori del suo regno, ma ciò non piacque a Cartagine. Il comando della spedizione romana fu affidato a Publio Cornelio Scipione Emiliano e nel 146 a.C. Cartagine cedette e venne rasa al suolo. Il suo territorio fu acquisito dallo stato romano e divenne Provincia D’Africa. Con tale guerra non solo i romani smisero di temere quello che era stato il nemico storico, ma acquisirono un ricco territorio agricolo. 7) La provincializzazione delle Spagne. Nel 197 a.C. vennero istituite le province di Spagna Citeriore (costa orientale) e Spagna Ulteriore (costa meridionale). Tuttavia, l’interno della penisola (che era tanto ambito dai romani per via dei ricchi giacimenti minerari) fu a lungo teatro di scontri non di facile risoluzione. Anzitutto, per via della particolarità del territorio che rendeva inadatta la tecnica militare romana (abituata a scontri in campo aperto) e poi perché le tribù ispaniche (indipendenti le une dalle altre) operavano continue azioni di guerriglia senza arrivare a scontri risolutivi. Le strategie romane nei confronti della resistenza ispanica furono durissime. La resa definitiva si ebbe ad opera di Publio Cornelio Scipione Emiliano che nel 133 a.C. conquistò Numanzia e la rase al suolo. 8) L’egemonia romana nell’Italia settentrionale: l’approccio repressivo; la politica di colonizzazione; il potenziamento della rete viaria. Sul fronte padano, Roma adottò la strategia della durezza, procedendo a confische, deportazioni e veri e propri stermini di massa. Successivamente, si procedette a requisire e centuriare i territori di pianura che divennero meta dei coloni dell’Italia centro-meridionale. Il processo di romanizzazione dei territori si servì anche della realizzazione di un’estesa rete viaria che facilitava il passaggio dell’esercito e delle merci. Cap. 8 1) Come cambia l’aristocrazia senatoria nel III secolo a.C. e con quali mezzi mantiene il potere? In conseguenza dell’espansione cambiò anche l’apertura alla carriera senatoria. Si assistette ad una apertura geografica, anche alle famiglie di area tirrenica e ad un’apertura verso il basso ai cosiddetti uomini nuovi, che non vantavano membri nella loro famiglia che avevano già ricoperto cariche senatorie, ma che con grande fatica potevano iniziare la carriera grazie al legame con famiglie aristocratiche e ad un patrimonio consistente. L’aristocrazia poteva riusciva a mantenere il proprio ruolo egemonico grazie ad alcuni fattori: solo i magistrati potevano convocare le assemblee e quindi spesso evitavano di convocarle nei giorni del mercato per disincentivare la partecipazione delle masse contadine, che potevano alterare l’ordine precostituito; potevano corrompere il tribuno della plebe che tra i 10 aveva diritto di veto; disponevano di numerose clientele, soprattutto quelle dei vinti, che gli assicuravano il voto. 2) Quali contenuti della legge Claudia? La legge Claudia (218 a.C.) proibiva ai senatori di possedere navi commerciali con capacità superiore a 300 anfore (misura che si riteneva necessaria per il sostentamento di una famiglia senatoria per un anno). Perciò, consentiva ai senatori il trasporto di beni per autoconsumo ma non ai fini commerciali. Questo perché la pratica mercantile, fatta di introiti soggetti a fluttuazioni, era considerata disonorevole per un senatore, che invece doveva basare la propria ricchezza solo sui possedimenti fondiari, che davano un patrimonio stabile. 3) Quando si affermò in Roma un’economia monetaria e attraverso quali tappe? Nel corso del V secolo a.C. a Roma erano stati adottati come oggetto di scambio dei pani di bronzo di forma irregolare e senza alcuna impronta (aes rude). Nel III secolo a.C. comparve invece il cosiddetto aes signatum, cioè un lingotto bronzeo quadrilatero, pesato e contraddistinto dalla scritta ROMANORUM e caratterizzato dalla presenza di varie figure. Tra il 289-275 venne creata la prima moneta statale in bronzo, detta aes grave, di forma circolare e con il segno del valore. Nel 225 a.C. venne introdotto il quadrigato, che esibiva la testa di Giano bifronte e al rovescio la quadriga con la leggenda ROMA. Nel 211 a.C. la Repubblica coniò una nuova moneta, destinata a caratterizzare tutta la storia economica meditteranea per almeno altri 5 secoli: il denario. 4) Come cambia la schiavitù nel corso del III secolo a.C.? Abolita la schiavitù per debiti e caduta in disuso la pratica della vendita dei figli, la tipologia di schiavi prevalente divenne quella dei prigionieri di guerra. In età arcaica i prigionieri di guerra venivano riscattati perché si trattava di popolazioni vicine e affini dal punto di vista culturale e linguistico e anche perché non vi era necessità di una nutrita schiera di schiavi, in quanto l’economia non era così sviluppata e non vi era necessità di tantissima manodopera. Con l’avvento delle guerre espansionistiche, invece, i prigionieri di guerra appartenevano a popolazioni culturalmente molto distanti e soprattutto era esplosa la necessità di schiavi che lavorassero nei campi (dato che era aumentato notevolmente il numero di terre requisiti ai nemici). Quando lo schiavo raggiunta l’età senile diventava inabile al lavoro nei campi, veniva manomesso dal padrone, che però lo rendeva suo cliente e quindi lo usava come agente commerciale e lo teneva vincolato alle sue indicazioni di voto politico. 5) Profili della polarizzazione in senato all’inizio del II secolo a.C. All’inizio del II secolo a.C. l’aristocrazia senatoria era divisa in 2 componenti: una tradizionalista, capeggiata da Marco Porcio Catone, la quale condannava le attività mercantili, l’esibizione del lusso e la penetrazione della cultura ellenica in Roma, sostenendo invece la purezza dei costumi e il patrimonio fondiario; dall’altra vi erano invece i senatori disponibili al cambiamento, capeggiati dalla famiglia degli Scipioni, favorevoli all’apertura a nuovi mercati, all’incremento del ceto artigiano-commerciale e ben disposti ad accogliere usi e costumi greci. Si giunse ad un compromesso solo con la Legge Villia. 6) Quali sono i contenuti della Legge Villia? La legge Villia (180 a.C.) regolamentò l’ordine di successione delle magistrature, stabilì gli intervalli obbligatori tra una carica e l’altra e l’età minima per assumere ciascuna di esse. Prima dell’accesso alle cariche vere e proprie vi era, però, una sorta di apprendistato di carattere civile e militare. Per un anno bisognava aver ricoperto un incarico nel vigintivirato, cioè un collegio di 20 individui, eletto dai comizi tributi. Le cariche del vigintivirato venivano assegnate a sorte tra: - Addetti a derimere le liti (10), che giudicavano le controversie riguardanti cittadinanza, manomissioni e adozioni; - Preposti alle esecuzioni capitali (3); - Monetali (3), curavano la monetazione; - Curatori delle strade (4) sotto direzione degli edili. L’anno successivo si poteva ricoprire la carica di tribuno militare laticalvio, infatti, tra i 6 tribuni militari al comando di ogni legione, ve ne era uno giovane di famiglia senatoria che aveva funzioni amministrative e di rappresentanza, senza alcun incarico operativo. Egli viveva nella tenda del comandante ed imparava il funzionamento della legione. Queste 2 prime cariche pre-senatorie di apprendistato erano indispensabili per l’accesso al senato, in quanto il senatore doveva saper gestire con disinvoltura sia mansioni civili che militari. Dopo questa esperienza si apriva il cursus honorum vero e proprio. Il primo passo era ricoprire la questura, per il quale bisognava aver compiuto 25 anni. Il questore era chiamato ad amministrare il tesoro dello stato e a svolgere la funzione di archivista di tutti gli atti. Il numero dei questori crebbe fino ad arrivare a 40 al tempo di Cesare, infatti, essi sia durante le spedizioni militari, che nella gestione delle provincie, accompagnavano il console e gestivano l’amministrazione finanziaria. Dopo la questura era possibile candidarsi al tribunato della plebe o all’edilità, per le quali era necessario aver compiuto 27 anni e aver ricoperto per 2 anni la questura. Inizialmente i tribuni erano 2, poi il loro numero fu innalzato a 10. Si trattava di una magistratura esclusivamente plebea e se un patrizio avesse voluto accedervi, avrebbe dovuto compiere il passaggio da patriziato a plebe. Gli edili erano 4: 2 edili plebei e 2 edili curuli (poi ne vennero aggiunti altri 2 detti “cereali” perché si occupavano della distribuzione del grano). Gli edili dovevano provvedere all’approvigionamento della città, alla costruzione di edifici pubblici e alla manutenzione di strade acquedotti e alla prevenzione e tutela degli incendi. Successivamente si poteva accedere alla pretura, per il quale era necessario aver compiuto 30 anni e aver ricoperto per 3 anni la carica di tribuno o edile. Con la pretura iniziano le magistrature superiori dotate di imperium, cioè potere militare. I pretori potevano guidare una o più legioni, avevano facoltà di convocare il senato o i comizi, potevano presentare le proprie proposte di legge, nonché (in assenza di consoli) presiedere il senato. Però, il ruolo principale era quello di amministrare la giustizia: il pretore urbano amministrava la giustizia tra i cittadini romani, mentre il pretore peregrino amministrava la giustizia tra i cittadini romani e gli stranieri e tra stranieri. Successivamente si poteva accedere al consolato, per il quale bisognava aver compiuto 33 anni e aver ricoperto per 2 anni la pretura. Il consolato era la carica più importante che consentiva l’accesso alla nobiltà senatoria (privilegio in mano di circa 25 famiglia aristocratiche). I consoli, in numero di 2, esercitavano il comando militare supremo (avevano facoltà di arruolare truppe, nominare ufficiali, imporre contributi per esigenze militari) e governavano la città per quanto riguarda le questioni civili (convocavano e presiedevano il senato, i comizi centuriati e tributi, potevano proporre leggi ed erano limitati nell’azione solo dall’altro console e dai tribuni della plebe, svolgevano anche funzioni di polizia). Con l’aumento del numero del numero delle province, la carica di console divenne in un certo senso biennale, perché durante il primo anno egli amministrava gli affari di Roma, mentre l’anno successivo gli veniva prorogato l’imperium e assumeva il ruolo di proconsole per governare una provincia. Dopo il consolato si poteva accedere alla censura, per il quale non vi era un limite di età. Con il tempo, la carica di censore rappresentò il grado supremo nella carriera di un magistrato che veniva assegnato solo ad ex consoli. La sua funzione era procedere al censimento, alla revisione delle liste dei senatori e dei cavalieri e alla tutela del buon costume. In tal senso egli poteva infliggere una nota di biasimo verso i sentori o i cavalieri che avevano abusato del loro potere, avevano infranto la disciplina militare, si erano macchiati di eccessi di lusso e di troppi frequenti divorzi. La nota censoria implicava l’essere radiati dall’ordine senatorio o equestre e l’iscrizione ad una classe inferiore dell’ordinamento centuriato oppure ad una tribù con minor peso politico, si poteva addirittura arrivare ad essere privati dei diritti politici. Per accedere al senato era necessario avere un censo minimo di 100.000 denari (400.000 sesterzi). 7) La legge sulla restituzione dei cavalli sancisce l’ufficializzazione di un nuovo ceto: quale, con quali segni distintivi, da chi è composto? La legge sulla restituzione dei cavalli (129 a.C.) stabilì che i 300 senatori che appartenevano per censo alla prima classe dell’ordinamento di Servio Tullio (quella dei cavalieri) restituisse un cavallo a titolo onorifico. I 300 cavalli vennero assegnati ai 300 uomini più ricchi, che però erano esclusi dal senato perché i loro introiti giungevano non da ricchezze fondiarie ma commerciali. Nasceva così l’ordine dei cavalieri, che era composto da quel ceto imprenditoriale che si era arricchito con il commercio e con le attività finanziarie (in particolare le società dei pubblicani). Per accedervi bisognava aver un patrimonio pari a quello dei senatori (400.000 sesterzi). Oltre al cavallo, si distinguevano per altri segni di status: l’anello d’oro, la striscia sottile purpurea sulla veste, posti d’onore alle manifestazioni vicino ai senatori. Essi erano al secondo posto nella gerarchia sociale e costituiranno la dirigenza economica dello stato romano, andando lentamente a nobilitare e a far acquisire di dignità le attività commerciali. 8) Cosa sono le società dei pubblicani? Erano dei consorzi di privati cittadini che concorrevano alle gare d’appalto annualmente bandite dallo stato per la realizzazione di opere pubbliche, la conduzione delle miniere, l’esazione delle imposte e dei dazi nelle province. Gli appalti avevano in genere durata quinquennale e consentivano ai pubblicani di arricchirsi enormemente. Infatti, Roma delegava ai privati senza regolamenti vincolanti: ad es. per quanto riguarda l’esazione delle imposte, Roma fissava la quota delle tasse ma poi non si curava di quanto effettivamente riscuotessero i pubblicani. Perciò, spesso corrompendo i governatori provinciali (a cui devolvevano parte dei profitti illegali), i pubblicani adottavano metodi estorsivi richiedendo somme maggiori e tenendo la differenza per sé. Cap.9 1) Quali problemi si manifestarono alla fine del II secolo a.C. determinando la crisi della Repubblica? Dal 133 a.C. fino all’instaurazione del principato (27 a.C.) si palesarono alcuni gravi problemi che portarono alla crisi della repubblica: la questione agraria, le manchevolezze dell’esercito (che si manifestarono in particolare durante l’assedio di Numanzia e la guerra giugurtina combattuta dal 112 al 105 a.C.), la condizione giuridica degli alleati, la gestione dei territori provinciali e la crisi delle istituzioni romane. 2) La schiavitù nel II secolo a.C. a confronto con la schiavitù arcaica. Durante il II secolo a.C. la società romana si poteva definire schiavistica. Lo schiavo non era più percepito, come in età arcaica, come componente della famiglia, ma proprietà del padrone, che prevedeva costi di acquisto e mantenimento e, pertanto, in una logica di mercato, doveva essere posto nelle condizioni di rendere al massimo delle sue possibilità. Predominavano 2 tipologie di schiavi: quelli nati in casa figli di altri schiavi e gli schiavi di guerra. Questi ultimi erano perlopiù uomini nati liberi e rapiti dai pirati per essere rivenduti nei mercati. Si trattava di uomini nati in aree geografiche molto diverse, con lingua e cultura molto diverse tra loro. Anche le mansioni loro affibbiate erano notevolmente diversificate: il duro lavoro di miniera o nella piantagione, l’amministrazione dei complessi produttivi artigianali e delle attività agricole, la formazione intellettuale dei giovani delle famiglie aristocratiche. Per questo, essendo una categoria molto diversificata, gli schiavi non riusciranno a costituire un progetto comune di rivalsa quando animeranno le rivolte. Infatti, l’unico desiderio che li accomunava era il ritorno nelle terre natie, il loro progetto di rivalsa non si poneva alcuna rivendicazione di promozione sociale o miglioramento delle condizioni di vita all’interno dello stato romano. Le ribellioni delle masse servili causarono molti disordini e furono difficili da sedare, ma gli schiavi non ottennero l’abolizione della schiavitù. La conseguenza fu, bensì, un ripensamento del sistema economico romano. 3) La clientela romana: la forma tradizionale, la clientela dei vinti, la clientela militare. La forma di clientela tradizionale presupponeva la costituzione di un rapporto di fiducia tra due uomini liberi, ma in posizione non egualitaria: il ricco patrono garantiva protezione e sostentamento al cliente, che in cambio gli doveva obbedienza morale e politica (in particolare si atteneva alle sue indicazioni di voto). La clientela dei vinti, invece, nacque come conseguenza dell’espansionismo del III secolo a.C.: il generale vittorioso che era riuscito a conquistare un nuovo territorio si faceva da intermediario tra lo stato e il popolo vinto, di cui diventava il protettore. La popolazione sottomessa avrebbe continuato a fare riferimento a lui e ai suoi eredi per dialogare con la Repubblica. Tra il II e il I secolo a.C. nacque una nuova forma di rapporto clientelare: la clientela militare, secondo una trazione inaugurata da Scipione l’Africano e portata a piena maturazione con Mario, Silla e poi Pompeo e Cesare. Le spedizioni belliche si conducevano spesso fuori dall’Italia, per molti anni consecutivi e guidate dallo stesso comandante, perché divenne consuetudine prorogare il comando al generale vittorioso finché non avesse concluso la campagna. In tale contesto di campagne pluriennali si creava quindi un rapporto personale tra il comandante e le sue truppe, in molte occasioni da lui stesso reclutate dal suo bacino clientelare. Si instaurava così un rapporto di mutua solidarietà e convergenza di interessi tra il generale (patrono) i soldati (clienti): sui campi di battaglia le capacità del comandante determinavano la salvezza, ma anche i benefici economici per le truppe vittoriose, ma, al ritorno in patria, il generale si faceva garante politico della distribuzione di terra ai suoi veterani, i quali, come cittadini elettori, costituivano la base politica del suo consenso. 4) La riforma agraria di Tiberio Sempronio Gracco: cronologia, presupposti, contenuti, modalità di attuazione, esiti. Tiberio Sempronio Gracco seppe cogliere il rapporto di consequenzialità che vi era tra la questione agraria e la crisi che stava attraversando l’esercito. Infatti, la seconda guerra punica fu gravida di conseguenze in ambito di economia agraria. Il conflitto determinò profonde devastazioni nell’Italia centro meridionale che indussero all’abbandono di estese zone di pianura. Per di più nel II secolo a.C. si affermò un nuovo modello di conduzione agricola: la villa schiavistica. Si trattava di un’azienda polifunzionale di proprietà di ricchezza, direzionata alla produzione di colture pregiate arboricole (viti, ulivi, alberi da frutto). Si abbandonò la produzione di colture cerealicole, in quanto, con l’espansionismo, Roma aveva acquisito territori, come la Sicilia, che vantavano un’antica trazione di produzione di cereali e da cui lo stato poteva approvvigionarsi a basso prezzo. La villa schiavistica era, inoltre, dedita ad attività artigianali, come la produzione di vasellame, anfore da trasporto e materiali da costruzione. La produzione era in gran parte destinata ai mercati su vasta scala. La manodopera, interamente servile, risiedeva in alloggi definiti ergastula ed era organizzata secondo una gerarchia che prevedeva che ad alcuni schiavi spettasse l’organizzazione del lavoro degli altri schiavi. Grazie alla politica espansionistica romana, i prodotti della villa schiavistica potevano essere esportarti su tutto il bacino del mediterraneo. Il ricorso a lavoratori in condizione servile era necessario perché non vi era disponibilità di manodopera libera: infatti, il servizio militare rendeva gli agricoltori-soldati impossibilitati per le attività produttive, essendo lontani dai campi per periodi lunghi e di imprevedibile durata, mentre gli schiavi erano esentati dalla leva. Gli agricoltori-soldati, perciò, spesso abbandonavano i loro campi. Infatti, poiché nell’esercito del tempo militavano cittadini arruolati su base censitaria computata attraverso le stime della proprietà fondiaria, in molti vendettero i loro campi per sottrarsi alla leva. Inoltre, numerosi piccoli proprietari terrieri si trovavano costretti a cedere i propri appezzamenti perché le lunghe assenze da casa per la milizia li avevano costretti all’indebitamento: il servizio militare non era più compatibile con l’esercizio dell’agricoltura. Inoltre, i prodotti della piccola proprietà terriera non riuscivano più a competere con quelli della villa schiavistica. Dopo aver ceduto il lotto di terra, il piccolo proprietario poteva inurbarsi, diventando un proletario (quindi esente dal servizio militare perché privo di possedimenti e di ricchezze) dedito a piccole attività commerciali oppure entrava nei giri clientelari degli aristocratici; oppure poteva rimanere nella provincia dove aveva prestato servizio militare e dove, spesso aveva messo su famiglia. Vi erano anche casi di contadini che non vollero rinunciare ai proventi della terra e perciò si trasferivano in zone poco appetibili ai grandi latifondisti, perché lontane dai mercati urbani, in particolare nella pianura padana, dove rimase intatto il sistema della piccola proprietà che invece era diventato impossibile nell’Italia centro-meridionale. Queste le motivazioni che portarono in molti a rifuggire dalla leva e alla crisi dell’esercito. In precedenza, si era provato a risolvere abbassando il censo minimo richiesto per l’accesso all’esercito da 11.000 a 1.500 assi, ma non era bastato. Tiberio Gracco agì cercando di ripristinare quelle condizioni che in passato avevano garantito la grandezza di Roma. Egli apparteneva ad una ricca famiglia plebea di rango senatorio (la madre era Cornelia, figlia di Scipione l’Africano). Aveva ricevuto una sofisticata formazione culturale e durante il suo apprendistato militare in Spagna aveva compreso le difficoltà dell’esercito, così come la condizione in cui versava l’agricoltura italica nel suo viaggio attraverso l’Etruria. Rientrato a Roma si candidò al tribunato della plebe, proprio perché tale magistratura gli consentiva l’iniziativa legislativa e il suo scopo era varare una riforma agraria intesa alla ricostruzione di un ceto di piccoli proprietari terrieri che fossero arruolabili e risolvessero la crisi dell’esercito. La sua, infatti, non fu una riforma rivoluzionaria, bensì restauratrice. Rivitalizzò una delle leggi Licinie Sestie, quella relativa all’occupazione dell’agro pubblico, che fissava come limite massimo al suo possesso 500 iugeri. Tale legge non era mai stata abrogata, ma veniva disattesa nei fatti. Tiberio rinnovò l’indicazione di 500 iugeri, ma innalzò tale tetto a ulteriori 250 iugeri per ogni figlio maschio, fino ad un massimo di 1000 iugeri. Inoltre, stabilì che tali quote venissero concesse in proprietà a quanti già le detenevano, cessando di appartenere allo Stato. Però, il terreno che eccedeva dalla quota prefissata, veniva espropriato ai latifondisti, suddiviso in lotti di 30 iugeri e assegnato ai cittadini proletari che ne avessero fatto richiesta. Tali appezzamenti non sarebbero stati concessi in proprietà ma in possesso, tanto che i cittadini assegnatari avrebbero dovuto corrispondere allo Stato un canone d’affitto simbolico. La proprietà veniva negata per rendere i lotti inalienabili, ossia per evitare che i contadini rivendessero i loro lotti ai latifondisti e in tal modo sfuggissero alla leva. Comunque, sarebbe stato garantito il diritto di trasmissione ereditaria ai figli, mentre, nel caso l’assegnatario fosse morto senza prole, il lotto sarebbe ritornato allo Stato. La legge di Tiberio (Legge Sempronia, 133 a.C.) fu oggetto di violentissima opposizione dei senatori. Molti di loro, che detenevano vasti latifondi, affermavano di avere diritto all’agro pubblico per usucapione e avevano quindi tentato di bloccare la riforma inducendo il tribuno della plebe Marco Ottavio a interporre il veto. Si trattava di un atto clamoroso: era impensabile che un tribuno della plebe opponesse il veto in una riforma a vantaggio della plebe stessa. Tiberio agì in modo altrettanto clamoroso: propose ai comizi tributi di deporre il collega e, una volta ottenuto lo scopo, anche la legge agraria fu finalmente approvata. L’azione riformatrice di Tiberio, nonostante le forti resistenze che incontrò, era comunque espressione di un gruppo autorevole ed esteso di senatori, tra cui figurava il suocero Appio Claudio Plurco (l’allora più anziano e autorevole tra i senatori). Il favore dell’opinione pubblica era sicuramente dovuto anche agli avvenimenti in Sicilia: le ripetute rivolte servili avevano reso i cittadini consapevoli del pericolo costituito dai latifondi, che ospitavano masse di schiavi fuori controllo e nemiche dell’ordine pubblico. L’assegnazione della terra, che avrebbe comportato la sostituzione degli schiavi con cittadiniagricoltori, sembrava la soluzione più efficace. L’attuazione della riforma agraria comportava però un complesso e dispendioso lavoro di verifica, ridefinizione di diritti proprietari e assegnazione di nuovi lotti di terra. Per finanziarie tali operazioni agrimensorie, Tiberio si giovò del lascito testamentario del re Attalo III di Pergamo, che aveva destinato il popolo romano come erede del suo regno e con il quale la famiglia di Tiberio intratteneva da sempre ottimi rapporti. I comizi incaricarono del compimento del progetto riformatore una commissione triumvirale, composta dallo stesso Tiberio, dal fratello Gaio e dal suocero Appio Claudio Plurco. Concluso l’anno di mandato Tiberio ripropose la propria candidatura al tribunato della plebe, per vegliare sull’attuazione della riforma e mantenere il diritto di inviolabilità. La sua iniziativa fu oggetto di aspre discussioni: la legge Villia non aveva previsto il caso in questione, non era infatti pratica comune che un magistrato investisse ingenti risorse per ricoprire una secondo volta la stessa magistratura senza un avanzamento di carriera. Taluni sostennero che anche l’iterazione del tribunato richiedesse una pausa decennale, come accadeva per le altre magistrature. Al momento dell’elezione, quando i cittadini avevano già iniziato a votare ed era chiaro il loro favore verso la rielezione, i consoli sospesero le operazioni di voto. Scoppiarono tafferugli e lo stesso Tiberio fu ucciso insieme a 300 dei suoi sostenitori, il corpo gettato nel Tevere e privato di degna sepoltura. Tiberio era stato apertamente accusato di aspirare al regno, circostanza che ne legittimava l’uccisione. 5) L’azione riformatrice di Gaio Sempronio Gracco. Gaio Sempronio Gracco era il fratello minore di Tiberio. Nel 123 a.C. venne eletto tribuno della plebe e come il fratello si avvalse degli strumenti di azione garantiti dalla carica, ma a differenza sua per un periodo più lungo: nel 123 a.C., infatti, ottenne che i comizi tributi legittimassero l’iterazione delle magistrature e nel 122 a.C. si candidò una seconda volta al tribunato, per garantire l’attuazione delle sue riforme. Egli propose un pacchetto di 17 provvedimenti legislativi che ottennero tutti approvazione, tranne uno. Un primo provvedimento teso a migliorare le condizioni di vita del popolo fu l’attuazione della legge agraria. Essa riproponeva l’iniziativa di Tiberio, tuttavia la integrava di alcuni punti: infatti, stabiliva che nei territori in cui, dopo le confische, si fosse proceduto alle distribuzioni di agro pubblico in piccoli lotti ai nullatenenti, lo Stato avrebbe assunto l’onere di realizzare nuove strade perché agli agricoltori risultasse agevole vendere i loro prodotti nei mercati cittadini. In favore del proletariato urbano venne approvata anche la Legge Sempronia frumentaria, che attribuiva all’amministrazione centrale l’onere provvedere mensilmente alla distribuzione di grano a prezzo politico alla plebe romana. La legge colpiva al cuore del sistema clientelare: lo Stato si sostituiva infatti ai patroni, fino ad allora garanti del soddisfacimento delle esigenze alimentari primarie dei propri clienti. La Legge Rubria riavviava la politica delle deduzioni coloniarie, consentendo che venissero fondate nuove comunità non solo sul suolo italico ma anche extra-italico (il caso di Iunionia, nel sito della vecchia Cartagine). Tale provvedimento mirava a consentire l’esodo da Roma di numerose famiglie proletarie. A vantaggi di quei cittadini idonei sotto il profilo censitario, che in questa fase storica erano tenuti a servire la Repubblica, Gaio fece approvare la legge militare, secondo il quale lo Stato non avrebbe potuto reclutare cittadini sotto i 17 anni e avrebbe, inoltre, fornito ai soldati l’uniforme (che in precedenza era a loro carico). Gaio ottenne anche l’approvazione di una legge sulla pratica giudiziaria, secondo la quale un cittadino romano poteva subire una condanna a morte solo in seguito al pronunciamento dell’assemblea popolare, che perciò non rivestiva più solo la funzione di corte d’appello. A favore dell’ordine equestre, Gaio fece approvare la legge sulla provincia d’Asia, che attribuiva alle società dei pubblicani la riscossione delle tasse in quell’area. Un ulteriore legge a favore dei cavalieri, fu la Legge Acilia che ridimensionava la giuria preposta a giudicare i governatori delle provincie, accusati di malversazione. In precedenza, il tribunale era composto esclusivamente da senatori, ora la legge stabiliva che la maggioranza della giuria sarebbe stata di ordine equestre. Inoltre, mentre in passato il governatore come pena doveva versare solo il maltolto, adesso avrebbe dovuto restituire il doppio di quanto estorto ai provinciali. La sola tra le leggi proposte da Gracco a non essere approvata fu quella che prevedeva la concessione della cittadinanza romana ai latini e il diritto latino agli italici. Gracco puntò su tale legge per assicurarsi il favore delle comunità latine e italiche, che erano state colpite dalle confische dell’agro pubblico stabilite dalla legge agraria e si aspettavano quantomeno una compensazione in termini di diritti politici. Ma la proposta non trovò il favore dell’opinione pubblica, la quale temeva che un ampliamento del numero dei cittadini avrebbe portato i residenti romani a perdere dei privilegi dei quali godevano (come le terre e le elargizioni di grano). Nel 121 a.C. Gaio Gracco non riuscì nel tentativo di farsi nominare per la terza volta tribuno della plebe. Il fallimento elettorale gli fece perdere il diritto di inviolabilità e ciò lo rendeva esposto alle ritorsioni dii quanti avevano subito danni dalle sue leggi. Il senato per la prima volta emanò un senatusconsultum ultimum, cioè un provvedimento di emergenza che consentiva ai consoli di entrare in armi in città per placare le sommosse, anche con la forza. Gaio armò i suoi seguaci e scoppiarono tafferugli, morì egli stesso (dopo aver indotto un servo ad ucciderlo) e 3.000 dei suoi sostenitori. La riforma agraria promossa dai Gracchi in parte fallì. Nel 121 a.C. una legge stabilì che i destinatari dei fondi pubblici avevano facoltà di vendere i lotti loro assegnati; nel 119 a.C. si interruppero le operazioni di distribuzione della terra e nel 111 a.C. la nuova legge agraria abolì il canone d’affitto dei lotti che divennero di proprietà privata e furono presto rivenduti. In tal modo si diffuse nuovamente il latifondo, situazione che aveva spinto Tiberio Gracco ad agire. Cap. 10 1) La guerra giugurtina: la cronologia, le cause interne, le ragioni del coinvolgimento di Roma, lo svolgimento del conflitto, il suo esito. Succeduto nel 118 a.C. allo zio e padre adottivo Micipsa sul trono del regno di Numidia insieme ai cugini Aderlbale e Iempsale, Giugurta aveva assassinato quest’ultimo e messo in fuga Aderbale, che aveva richiesto aiuto ai romani. Nel 116 a.C. una commissione senatoria aveva stabilito una nuova ripartizione della Numidia, secondo la quale ad Aderbale sarebbe toccata la parte orientale (economicamente più prospera) e a Giugurta il governo dell’altra. Nel 112 a.C. questi aveva assediato il cugino a Cirta, la città più importante della parte controllata da Aderbale, e aveva sterminato anche i romani e gli italici che vi risiedevano per fini commerciali. Roma fino ad allora aveva limitato il suo intervento all’invio di due ambascerie ma le proteste per l’eccidio e i fortissimi interessi economici intrattenuti con l’Africa (in particolare per il commercio di olio e grano) resero inevitabile l’intervento armato. La guerra, iniziata nel 112 a.C. senza alcun risultato decisivo, registrò anche una grave sconfitta per l’esercito romano, fino a quando nel 109 a.C. il comando venne affidato a Quinto Cecilio Metello. Questi, coadiuvato dal legato Gaio Mario, ottenne dei risultati buoni ma non ancora risolutivi. Nel 108 a.C., nonostante l’opposizione di Metello, Mario si recò a Roma per presentare la sua candidatura al consolato, l’elezione gli consentì di accedere alla nobiltà senatoria e la conduzione della guerra in Africa. Suo questore era Lucio Cornelio Silla, esponente di un’illustre famiglia dell’aristocrazia romana caduta in dissesto finanziario. Silla si fece artefice di una sofisticata strategia diplomatica, grazie al quale nel 105 a.C. convinse il suocero di Giugurta, Bocco di Mauretania, a far cadere il sovrano in un’imboscata. Giugurta venne fatto sfilare nel trionfo di Mario e in seguito giustiziato; la Numidia fu in parte concessa a Bocco e in parte assegnata ad un sovrano della famiglia di Micipsa. 2) Le specificità dell’esercito riformato da Gaio Mario rispetto alla milizia istituita da Servio Tullio. La riforma dell’esercito di Mario prese spunto dalla sua esperienza con Scipione Emiliano durante l’assedio di Numanzia. Scipione Emiliano aveva infatti capito che sarebbe stato più proficuo arruolare militari su base volontaria e non costretti alla leva. I proletari vedevano, infatti, l’arruolamento come occasione di riscatto sociale, in previsione dell’assegnazione del bottino di guerra (da investire successivamente in attività agricole, artigianali o commerciali). Per questo, Scipione aveva fatto ricorso ad un esercito di volontari stipendiati. Mario, durante le operazioni di Numidia, procedette allo stesso modo, arruolando volontari. Ma questo non era il solo aspetto mutuato dalle sperimentazioni di Scipione Emiliano. Questi in Spagna aveva compreso che molti fallimenti delle operazioni militari erano dovuti all’indisciplina dei legionari, perciò li aveva costretti a faticosi incarichi di fortificazione. Mario ne seguì l’esempio e sottopose i suoi legionari a massacranti esercitazioni (tanato che i suoi soldati vennero chiamati “muli mariani”). La riforma militare dell’arruolamento volontario non abolì ma si limitò a non applicare il principio cardine della riforma di Servio Tullio, ovvero la leva obbligatoria su base censitaria che limitava il numero degli arruolabili. Conseguentemente, i legionari romani vennero sempre più reclutati su base volontaria e si trasformarono in soldati di professione. L’esercito romano si proletarizzò e divenne una valvola di sfogo sociale. Inoltre, lo Stato ora dovette provvedere all’equipaggiamento e al salario dei soldati. Emerse anche la necessità di corrispondere ai veterani, al termine della ferma, una buonuscita che consentisse loro la sopravvivenza dopo il servizio militare. In particolare, i veterani chiedevano terre, e la corresponsione di terre sarà uno dei problemi principali del I secolo a.C., che si risolverà con l’assegnazione di terre colonizzate. 3) La campagna di Gaio Mario contr Cimbri e Teutoni: il timore di una nuova invasione gallica, gli spostamenti dei clan del nord, le modalità dell’addestramento delle truppe romane, gli scontri decisivi. Intorno al 120 a.C., mentre Mario era ancora in Africa, orde di popolazioni germaniche si erano spostate dalla penisola dello Jutland verso sud. L’esercito romano aveva subito numerose sconfitte in Gallia. Mario, rieletto console senza soluzione di continuità dal 104 al 100 a.C., salvò la situazione. Addestrò duramente i suoi soldati, e anche gli schiavi, impegnandoli in opere utili e faticose, come la realizzazione della Fossa Mariana, un canale navigabile che metteva in collegamento il Rodano alla costa mediterranea ed era funzionale a garantire approvvigionamenti sicuri al suo esercito. I Cimbri si spostarono verso la spagna mentre i Teutoni rimasero in Gallia. Non si trattava solo di clan guerrieri, ma di intere popolazioni (compresi anziani, donne e bambini). Nel 102 a.C. Mario sconfisse i Teutoni ad Aix en Provence e i nemici persero più di 100.000 uomini e altrettanti furono fatti schiavi. Nel 101 a.C. vinse i Cimbri ai Campi Raudii, infliggendo loro perdite analoghe a quelle patite dai Teutoni. 4) Le iniziative del tribuno della plebe Lucio Apuleio Saturnino e Gaio Servilio Glaucia; la dominazione cinnana. Lucio Apuleio Saturnino era un tribuno della plebe di parte popolare, sostenuto dai soldati mariani. Egli proponeva provvedimenti di ispirazione graccana: l’attribuzione delle terre quale compenso ai veterani di Mario rientrati dalle spedizioni militari, la deduzione di colonie nelle province, la ripartizione in lotti e l’assegnazione ai cittadini romani di terre in Gallia, in precedenza occupate dai Cimbri. Sulla scena politica in quegli anni era attivo anche il pretore Glaucia, di parte fortemente filo-popolare che si candidò al consolato. Ma quando fu chiaro che al suo posto sarebbe stato eletto Gaio Memmio, Glaucia e Saturnino ne commissionarono l’assassinio. Il senato emanò il senatusconsultum ultimum, i due furono dichiarati nemici dello stato e uccisi dalla folla. Mario lasciò Roma per tornarvi nel 90 a.C. A seguito delle guerre mitridatiche, Mario fu eletto console per la settima volta nel 87 a.C., insieme al collega Cinna. I due avevano promosso una durissima repressione nei confronti dei sostenitori di Silla. Tuttavia, nel 86 a.C. Mario morì e Cinna fu console anche nel biennio successivo, esercitando una sorta di dittatura dal 87 al 84 a.C., tanto gli anni furono definiti dominazione cinnana. Ma nell’84 a.C. morì, ucciso da uno dei suoi soldati. 5) Le guerre mitridatiche: le premesse di guerra, la strategia di Mitridate del Ponto, le ricadute nella politica interna romana, i principali fatti d’arme. Nel 88 a.C. Mitridate VI Eupatore re del Ponto invase la Grecia, con ambizioni espansionistiche in tutta l’area orientale occupata dai romani. In breve tempo gli eserciti di Mitridate dilagarono in tutta l’Asia romana. Il loro successo era dovuto all’efficace propaganda del sovrano pontico, il quale si faceva portatore della libertà contro l’oppressione romana. In un solo giorno 80.000 commercianti romani e italici furono assassinati dal suo esercito (i cosiddetti vespri asiatici). Il senato affidò a Silla, allora console, la conduzione della guerra che si preannunciava difficile. Tuttavia, dopo disordini interni trasferì il comando a Mario. Silla, che nel frattempo aveva assunto il comando dell’esercito in Campania, marciò su Roma alla testa delle sue truppe e nell’urbe si consumò un bagno di sangue. Mario si diede alla fuga e raggiunse l’Africa. Silla, prima di partire in oriente come proconsole, fece approvare una norma che limitava il potere popolare: stabilì che ogni legge dovesse prima essere approvata dal senato per poi passare all’assemblea popolare e che solo i comizi centuriati avessero facoltà di votare provvedimenti legislativi, esautorando il ruolo dei comizi tributi. La campagna militare in oriente di Silla fu coronata dal successo e si venne alla stipula di un accordo nel 85 a.C. a Dardano, che stabiliva che Mitridate avrebbe dovuto pagare un’ingente indennità di guerra e il rientro dei suoi soldati nei confini del Ponto. Aveva così fine la prima guerra mitridatica (88-84 a.C.). Dopo la morte di Mario e il periodo di dominazione cinnana, nell’83 a.C. Silla rientrò nella Penisola, mentre in oriente scoppiava la seconda guerra mitridatica, nel quale Mitridate riuscì a conquistare la Cappadocia. La guerra si protrasse fino all’81 a.C. 6) Silla dittatore: cronologia e gestione politica. Nel 82 a.C., attraverso la Legge Valeria, Silla venne eletto dittatore con l’incarico di riscrivere le leggi e rifondare lo stato, carica senza limite temporale che egli mantenne fino al 79 a.C. Silla cercò di rinnovare l’architettura istituzionale dello stato in evidente crisi. Innanzitutto, ampliò il numero dei senatori portandolo a 600, favorendo l’immissione di cavalieri e di esponenti delle municipalità italiche. Rimodulò le giurie dei tribunali deputati a giudicare i reati di concussione nelle province che furono riconsegnate all’ordine senatorio. Incrementò il numero dei questori a 20 e dei pretori a 10, figure necessarie all’amministrazione delle province. Intervenne anche sul tribunato della plebe, che era diventato lo strumento con cui i demagoghi agivano per raggiungere fini personali: pose limitazioni al diritto di veto e alla facoltà di proporre leggi da parte dei tribuni, stabilì che l’assunzione della carica di tribuno della plebe pregiudicasse la prosecuzione della carriera politica, circostanza che rappresentò un forte deterrente per i giovani che avessero ambito alle magistrature. In merito alla successione delle cariche, stabilì che nessuna carica potesse essere reiterata se non dopo 10 anni e innalzò il limite di età: la questura non poteva essere assunta prima dei 30 anni, l’edilità non prima dei 36, la pretura non prima dei 39, il consolato non prima dei 42. Abolì le frumentazioni, strumento utilizzato dai demagoghi per assicurarsi il favore popolare. Ampliò il pomerium fino alla linea del Rubicone-Arno, in modo che non si potesse circolare in armi in quel territorio. La sua azione politica era volta da un lato ad ammodernare a struttura dello stato e dall’altro ad eliminare l’influenza della parte popolare che considerava pericolosamente destabilizzante. Nel 79 a.C. Silla abdicò, si ritirò a vita privata e morì nel 78 a.C. 7) La guerra sociale: i tentativi esperiti attraverso la via legislativa, la decisione in favore delle armi, l’organizzazione interna degli alleati, gli esiti del conflitto. La guerra sociale fu la guerra combattuta da Roma contro i suoi alleati italici dal 91 al 89 a.C. Gli alleati italici chiedevano da decenni il riconoscimento della cittadinanza romana e la fine delle discriminazioni che pativano rispetto ai cittadini, a cui invece venivano per molti aspetti equiparati in fatto di doveri. Gli italici costituivano un gruppo composito ma tutti individuavano nel riconoscimento della cittadinanza la soluzione per le loro diverse esigenze. La classe dirigente mirava ad ottenere l’elettorato attivo e passivo per esercitare un ruolo nella politica di Roma. Inoltre, molti cittadini italici erano stati colpiti dalle confische agrarie delle riforme graccane, perciò chiedevano almeno un risarcimento in termini di diritti politici. I ceti subalterni ambivano ad ottenere i vantaggi di cui godeva la plebe urbana, come le elargizioni frumentarie, l’arruolamento nelle legioni e non nelle truppe ausiliarie e l’opportunità di sostentarsi grazie alla clientela così come accadeva in città. Molti di loro si erano spesso finti cittadini dell’urbe per usufruire illegalmente delle distribuzioni di grano. In risposta, tra il 100 e il 90 a.C., avevano avuto luogo reiterate verifiche di cittadinanze ed espulsioni dalla città. Le richieste degli italici non erano viste di buon occhio né dalla plebe urbana (che temeva di dover condividere con nuovi cittadini i privilegi di cui godeva) né dall’élite (che temevano disordini e minacce agli equilibri consolidati). Nel 91 a.C. il tribuno della plebe Marco Livio Druso aveva sollecitato la concessione della cittadinanza agli italici, ma venne assassinato. Gli italici, che fino ad allora avevano cercato di fare pressioni sui magistrati romani per ottenere i loro obiettivi, capirono che era giunto il momento di prendere le armi. Tuttavia, non tutti gli italici scelsero questa opzione, in particolare, alcune élite locali avevano ottenuto la cittadinanza per particolari meriti nei confronti della Repubblica e temevano che se tale privilegio fosse stato esteso a tutti, avrebbero perso il ruolo di prestigio di cui godevano nelle loro città d’origine. Inoltre, vi era anche una legge che aveva stabilito che i magistrati delle colonie latine acquisissero automaticamente l’accesso alla cittadinanza attraverso l’assunzione delle cariche magistratuali locali. Nonostante ciò, la rivolta contro Roma si diffuse rapidamente in buona parte della penisola. Gli alleati diedero vita ad uno stato federale autonomo, sotto il profilo istituzionale (istituendo un senato, in cui sedevano i rappresentati di quanti avevano aderito alla ribellione) e militare. Stabilirono la loro capitale a Corfinio, e la rinominarono Italica; coniarono persino una moneta del tutto equiparabile al denario. I ribelli avevano grande familiarità con le tattiche militari romane, dato che vi avevano combattuto a fianco per secoli, perciò diedero molto filo da torcere all’esercito dell’urbe. Poiché non si riusciva a giungere ad un conflitto risolutivo, i romani promossero una serie di concessioni, che portarono dall’89 a.C. tutta la penisola e le colonie latine della Cisalpina ad avere il diritto romano, assumendo la veste giuridica di colonie romane o municipi. Inizialmente, i nuovi cittadini vennero iscritti in sole 10 tribù e il che, ovviamente, ne limitava il peso politico all’interno dei comizi; poi, nell’84 a.C. Cinna ottenne l’approvazione del provvedimento che iscriveva i cittadini italici in tutte le 35 tribù, ponendo fine alla loro marginalizzazione politica. 8) Le guerre servili: l’assenza di una progettualità politica, il ruolo degli schiavi armati (pastori e gladiatori), i protagonisti e le modalità di svolgimento, gli esiti. L’utilizzo intensivo della manodopera servile aveva portato a forti tensioni che erano esplose tra il 135 e il 71 a.C., imponendo a Roma un consistente impegno militare. La prima guerra servile ebbe luogo in Sicilia tra il 135-132 a.C.: promotori furono schiavi-pastori che erano armati in ragione delle loro mansioni (la quali prevedevano la difesa delle greggi da predoni e animali feroci). Gli schiavi ribelli, capeggiati da un indovino siriaco di nome Euno, raggiunsero le 200.000 unità, conquistando alcune città e mettendo alla prova l’esercito romano. Le rivolte furono sedate nel 132 dal console Publio Rupilio. La seconda guerra servile scoppiò sempre in Sicilia tra il 104 e il 101 a.C.: in quel periodo si stava discutendo sull’emancipazione promessa agli schiavi che avevano militato nell’esercito di Mario e, benché il senato avesse approvato, i padroni si rifiutavano di liberare gli schiavi. Gli schiavi insorsero e solo dopo 3 anni si riuscì a sedare la rivolta. La terza guerra servile prese corpo in Italia tra 74 e il 71 a.C.: i ribelli appartenevano alla scuola gladiatoria di Capua ed erano capeggiati dal trace Spartaco, che riuscì a radunare 120.000 uomini tra schiavi e liberi in condizione disagiata. Gli schiavi di Spartaco si diressero prima verso nord, forse nel tentativo di raggiungere la patria (molti di loro provenivano dalle Gallie e dalla Germania); poi ritornarono indietro, puntando verso sud, in quanto Spartaco aveva preso un accordo con i pirati che avrebbero dovuto traghettarli in Sicilia. Tuttavia, i pirati gli truffarono, prendendosi la somma pattuita ma disattendendo agli accordi. I ribelli ripiegarono in Puglia e qui si scontrarono con le legioni guidate da Marco Licinio Crasso. Lo scontro decisivo si ebbe in Lucania nel 71 a.C., dove lo stesso Spartaco perì. I superstiti furono crocifissi lungo la Via Appia, tra Capua e Roma, a scopo di monito. I pochi scampati vennero intercettati da Pompeo che rientrava dalla Spagna e vennero sterminati. Probabilmente, le rivolte servili fallirono perché vi era un’assenza di progettualità comune, non vi erano richieste precise per migliorare la propria situazione all’interno dello Stato romano, l’unico elemento che accomunava i soldati era il desiderio di rientrare nelle terre native. Perciò, a conclusione delle guerre servili, non si giunse all’abolizione della schiavitù, tuttavia, molti padroni capirono gli schivi rappresentavano una miccia pericolosa. Quindi, si procedette all’incremento delle emancipazioni e ad un ripensamento della funzione degli ergastula, che non vennero più utilizzati come alloggi notturni per tutti gli schiavi tenuti in catene, ma come luogo di punizione per gli schiavi che disattendevano agli ordini. Cap.11 1) Le infrazioni istituzionali della tarda repubblica: le condizioni che le determinarono, le diverse modalità in cui si produssero, coloro che se ne resero responsabili. Tra la fine del II e il I secolo a.C. emerse l’inadeguatezza delle istituzioni repubblicane vigenti, che si manifestarono soprattutto con la violazione della Legge Villia. Le reiterate violazioni scaturivano dalle mutate condizioni economiche, sociali, culturali del periodo. In pochi anni, infatti, si registrò una notevole mobilità sociale, che determinò un rimpasto della classe dirigente. A causa della pratica delle liste di proscrizione, molti senatori caddero in disgrazia, mentre il senato si apriva alle élite italiche. Divenne più semplice diventare “uomini nuovi”, in quanto l’appartenere a una famiglia di rango senatorio non era più l’unico requisito che consentiva di affermare sulla scena politica, bensì crebbe il peso attribuito alle capacità del singolo, in particolare alle doti militari. In conseguenza di tante novità, la vita politica subì pesanti trasformazioni. Ad es., il consolato venne conferito ad uno stesso individuo senza soluzione di continuità ad un solo individuo (come nel caso di Mario) oppure tale carica fu attribuita ad un solo individuo anziché ad una coppia (il caso di Pompeo nel 52 a.C.). Inoltre, il senato riconobbe comandi straordinari per missioni militari specifiche (il caso di Pompeo per la lotta contro i pirati e nella 3° guerra mitridatica), in violazione della norma che stabiliva per l’esercizio del potere militare un confine geografico e una durata temporale precisa, nonché il conferimento ad un magistrato e non ad un privato cittadino. Furono poi stretti accordi extraistituzionali tra leader politici per la gestione dello stato a vantaggio personale (così il primo triumvirato). Si consentì persino ai governatori di amministrare una provincia a distanza, rimanendo a Roma (il caso di Pompeo per le Spagne). Infine, la dittatura venne utilizzata in una nuova forma, che tradiva lo spirito per cui era stata istituita: nell’ordinamento repubblicano essa era una magistratura eccezionale di durata semestrale, conferita per fronteggiare minacce militare provenienti dall’esterno. Ora, invece, si auto-conferiva e solo dopo veniva legalizzata dai comizi, era motivata non da minacce esterne ma spesso da guerre civili e durò ben più dei 6 mesi previsti (per Silla durò 3 anni e per Cesare fu vitalizia), questa nuova forma di dittatura veniva giustificata con il compito di scrivere le leggi e ridisegnare la costituzione dello Stato. 2) La carriera di Gneo Pompeo Magno quale esempio di violazione della normativa repubblicana. Gneo Pompeo era figlio di Pompeo Strabone, uno dei consoli vittoriosi della guerra sociale. Pompeo si distinse fin da subito si distinse quando giovanissimo nel 83 a.C. ricevette da Silla la possibilità di arruolare soldati di sua iniziativa presso la sua clientela contro i soldati mariani, nonostante non avesse ancora ricoperto alcuna magistratura. Proprio in seguito alla guerra condotta contro i mariani in Africa ottenne il suo primo trionfo nell’81 a.C. Nel 78 a.C. Pompeo impedì un colpo di stato da parte del console Marco Emilio Lepido, il quale voleva modificare le norme sillane, agendo anche in tale occasione senza ricoprire nessuna magistratura ma essendo investito del comando propretrorio (anche senza essere mai stato pretore). Il mandato gli era stato attribuito come potere straordinario per riuscire a ad opporsi al console ribelle. Dal 77 al 71 a.C. Pompeo esercitò un comando proconsolare in Spagna per la lotta contro i soldati mariani esuli che lo vide trionfante (ancora una volta senza aver ricoperto la carica necessaria, in questo caso il consolato). Nel 70 a.C. fu finalmente eletto console, senza tuttavia aver ricoperto le cariche precedenti al consolato e senza avere i requisiti anagrafici. Suo collega era Marco Licinio Crasso, l’allora uomo più ricco di Roma (che aveva tratto le sue ricchezze da attività finanziarie e di speculazione edilizia). Entrambi erano di partito sillano, tuttavia i loro rapporti non erano buoni. 3) I nuovi poteri di Pompeo: la legge Gabinia per la guerra contro i pirati e la legge Manilia con il comando della terza guerra mitridatica. Nel 67 a.C. con la legge Gabinia per la guerra contro i pirati, Pompeo ottenne un comando proconsolare di durata triennale sull’intero bacino mediterraneo e sulle coste fino a 50 miglia nell’entroterra. L’incarico era finalizzato alla lotta contro i pirati che, da basi dislocate soprattutto sul suolo africano, in Asia Minore e a Creta, infestavano il Mediterraneo, provocando nell’urbe continue carestie per le difficoltà degli approvvigionamenti. La legge Gabinia riconobbe a Pompeo la facoltà di reclutare 20 legioni e una flotta di ben 500 navi; inoltre, lo autorizzò ad utilizzare i proventi delle province e ad attingere all’erario. Il suo era quindi un altro comando straordinario non sottoposto e norme e di imprecisata durata. Eliminato il pericolo dei pirati in un solo anno, nel 66 a.C., Pompeo, grazie alla legge Manilia, ottenne un comando proconsolare per porre termine al più che ventennale conflitto contro Mitridate re del Ponto e contro l’alleato Tigrane re dell’Armenia: era la 3° guerra mitridatica (73-63 a.C.). Nel 74 a.C. i romani avevano istituito la provincia di Bitinia, il cui territorio era stato annesso grazie al lascito testamentario del re Nicomede IV. Il controllo di tale area mutava gli equilibri di forze nella zona del Mar Nero, pertanto Mitridate l’aveva invasa. Si venne ad uno scontro risolutivo solo quando il comando passo nelle mani di Pompeo, il quale raggiunse il Ponto e mise in fuga Mitridate che si suicidò. Al termine del conflitto, il regno di Armenia fu confermato a Tigrane, ma sottraendo alla sua influenza la Siria che diventò provincia romana. Pompeo occupò poi la Palestina e la sua capitale Gerusalemme, lasciando autonomo lo stato giudaico ma rendendolo tributario. 4) La stipula del I triumvirato: il ruolo di Cesare nella definizione dell’accordo; gli obiettivi dell’alleanza; il rinnovo. Nel 60 a.C. fu inaugurato il primo triumvirato. Si trattava di un patto tra privati cittadini, le tre personalità più influenti a Roma (Cesare, Pompeo, Crasso) che si accordarono in forma segreta per ripartirsi il governo della Repubblica che avrebbero controllato attraverso la convergenza delle rispettive clientele. Il patto era stato orchestrato da Cesare, che grazie alla sua acuta visione politica, riuscì a far superare l’antica ostilità che divideva Pompeo e Crasso. Gli obiettivi immediati dell’accordo contemplavano l’ascesa di Cesare al consolato per il 59 a.C. e, attraverso il suo esercizio della magistratura suprema, la soddisfazione delle richieste dei veterani di Pompeo nonché la ratifica delle riforme promosse da quest’ultimo in Oriente. L’accordo tra i triumviri fu rinnovato nel 56 a.C. a Lucca per un ulteriore quinquennio e, mentre Pompeo e Crasso ottennero il consolato per il 55 a.C., Cesare ebbe assicurato per altri 5 anni il comando in Gallia, dove operava già dal 58 a.C. 5) L’eredità di Mario: Gaio Giulio Cesare a capo della parte popolare. L’esordio di Cesare in politica era stato rallentato sia a causa delle insufficienti disponibilità della famiglia (che era un’antica famiglia patrizia, i Giuli, che in quel periodo però era in condizione di ristrettezze economiche) sia perché egli rifiutò la proposta di collaborazione da parte di Silla. Cesare aveva infatti scelto la parte popolare, raccogliendo l’eredità di Mario (marito della zia) e di Cinna (padre di sua moglie). Egli perseguiva 2 obiettivi che seppe rendere complementari: l’affermazione della linea politica dei popolari contro lo schieramento ottimate e il successo personale. In particolare, egli si spese per l’abrogazione per l’abrogazione delle norme sillane che avevano esautorato in parte il ruolo dei comizi tributi e dei tribuni della plebe e raggiunse l’obiettivo sostenendo nel 70 a.C. la candidatura al consolato di Crasso e Pompeo che le cancellarono. 6) Elemento fondamentale nell’affermazione di Cesare fu l’armonizzazione del suo esteso e per alcuni aspetti inedito bacino clientelare. Quali gruppi rappresentavano la base del suo consenso e secondo quali modalità Cesare ricompensò la loro fedeltà? Cesare riuscì ad armonizzare gli interessi di clientele composite, ampliando la tradizionale base di consenso dello schieramento popolare. Un ruolo centrale nelle sue clientele era riservato ai provinciali che ricompensò in vari modi: patrocinò in tribunale la causa di quanti contestavano la cattiva amministrazione dei governatori romani di area ottimate; inoltre premiò i sostenitori nativi delle regioni occidentali dell’impero (Gallia, Spagna, Sicilia) attraverso un miglioramento della loro condizione giuridica. Alla Sicilia riconobbe il diritto latino; alla Traspadana conferì la piena cittadinanza romana (49 a.C.); inoltre in quello stesso anno numerosi provinciali furono ammessi al senato. Altra componente del suo bacino clientelare era la plebe, per il quale fece abrogare le norme sillane sul tribunato e i comizi tributi e organizzò numerosi spettacoli, giochi, cacce, banchetti pubblici per assicurarsi la popolarità. Una componente essenziale della sua clientela era rappresentata dai soldati, strumento fondamentale per imporsi sui campi di battaglia, prima contro i nemici esterni e poi nella futura guerra civile. Durante il suo proconsolato in Gallia, Cesare seppe guadagnare la fedeltà di un esercito forte, fedele e consapevole di poter esercitare un ruolo politico e di poter ottenere benefici economici. Cesare seppe, infatti, instaurare un legame particolare con i suoi soldati, condividendone le fatiche, le dure condizioni di vita, i pericoli nelle battaglie, mantenendo però un’autorevolezza indiscussa sulle proprie truppe. I legionari, che erano cittadini e votavano nelle assemblee, furono così l’elemento portante del suo successo negli scenari bellici ma anche nella politica a Roma. 7) Le riforme promosse da Giulio Cesare dittatore in merito ai senatori, ai magistrati, alla Transpadana, ai governatori provinciali, ai tribunali preposti ai reati di malversazione, alle frumentazioni, ai collegi professionali. Per quanto riguarda i senatori, Cesare ne accrebbe il numero a 900, comprendendo i suoi sostenitori che appartenevano all’élite italica e delle province d’Occidente. nel 49 a.C. concesse la piena cittadinanza ai Traspadani e accelerò il processo di integrazione delle classi dirigenti locali (quindi favorì l’immissione di alcuni tra i Galli più eminenti in senato). Per quanto riguarda i magistrati, egli ne aumentò il numero per rendere più efficiente l’amministrazione e garantire la promozione sociale a più individui: il numero dei questori da 20 passò a 40; il numero degli edili da 4 a 6; il numero dei pretori da 8 a 16 (questi ultimi, una volta concluso il mandato, avrebbero potuto assumere il governatorato di una provincia). Inoltre, definì la durata dei governatori provinciali: 1 anno per i propretori, 2 anni per proconsoli, imponendo un turnover che presupponeva la disponibilità di un buon numero di ex consoli ed ex pretori. Riformò il tribunale per il reato di malversazione in provincia, garantendo ai provinciali modalità adeguate per rivalersi sui cattivi amministratori. Con l’intendo di porre un limite alle condizioni che avevano facilitato le violenze della tarda repubblica, il dittatore ridusse di più della metà (150.000) i beneficiari delle frumentazioni, attraverso le quali i demagoghi in passato controllavano la plebe urbana. Normò l’attività dei collegi professionali. La plebe urbana fu tuttavia sostenuta in altri modi: con i bottini di guerra realizzò progetti edilizi che, oltre a garantire un progresso per le condizioni di vita della città, assicuravano lavoro alle maestranze. Inoltre, si fece promotore di una nuova politica di colonizzazione e distribuzioni di terre in Italia e nelle province occidentali e orientali, direzionata ai cittadini in difficoltà economica e ai suoi veterani. Riformò il calendario, il quale sarà utilizzato sino al 1582 (quando papa Gregorio XIII li apportò lievi modifiche). Coniò un apprezzabile quantitativo di monete d’oro di grande valore. 8) Il nuovo indirizzo della politica cesariana tra il 45 e il 44 a.C. Nel 45 a.C. Cesare fu eletto console senza collega e nel 44 a.C. fu nominato dittatore perpetuo. In questi ultimi anni la politica cesariana stava compiendo una svolta sempre più autocratica e accentratrice, che assomigliava per molti versi ad una monarchia (nonostante egli avesse rifiutato più volte il titolo di re che gli era stato proposto dai tribuni della plebe e da Antonio). Ciò non piacque ai senatori nostalgici del regime repubblicano e ai cesariani che ritenevano di non aver ricevuto la giusta ricompensa per i servigi a lui resi. Tali malcontenti, portarono la congiura ordita ai suoi danni, la quale culminò con il suo assassinio il 15 marzo del 44 a.C., allo scadere delle idi, 3 giorni prima della sua partenza in oriente (dove doveva guidare una spedizione contro i Parti per vendicare Crasso). I congiurati, capeggiati da Bruto e Cassio lo pugnalavano a morte, mentre altri trattenevano fuori dalla curia Antonio per risparmiarlo. Cap. 12 1) La famiglia di Ottaviano. Ottaviano era il figlio di Azia, a sua volta figlia della sorella di Cesare, Giulia. Il padre era Gaio Ottavio (uomo nuovo, il primo della sua famiglia ad entrare in senato), esponente della famiglia degli Ottavi, originaria di Velletri, a sud-ovest di Roma. Tale famiglia era espressione di quella categoria di famiglie originarie di piccoli centri dell’Italia, che si erano affermate nel tempo, avevano costituito solidi patrimoni e importanti relazioni di amicizia e parentela a Roma, ma ancora ai margini della vita politica dell’urbe. 2) Quali strumenti Ottaviano ritenne fondamentali per il suo successo fin dall’inizio della sua azione politica? Egli comprese si da subito l’importanza di assicurarsi un fedele e consistente esercito e di acquisire credibilità nel partito cesariano. Infatti, dopo la morte del leader, il suo successore più accreditato era Marco Antonio, braccio destro di Cesare nelle campagne militari. Egli all’indomani delle idi di marzo dovette raggiungere una mediazione con Bruto e Cassio e accettarne l’amnistia. Tuttavia, riuscì a celebrare i funerali pubblici per l’ucciso e a garantire il riconoscimento della validità di tutti i provvedimenti da lui assunti. Tuttavia, il consenso dei cesaricidi sulla nomina di Antonio come successore, non era unanime, vi erano, infatti, cesariani anti-antoniani. E proprio a questo gruppo dovette puntare Ottaviano per consolidare la propria posizione in vista di uno scontro con Antonio. Inoltre, egli proseguì con successo un’intesa con Cicerone, la cui autorevolezza era riconosciuta da molti repubblicani ma anche dai cesariani anti-antoniani; pagò al popolo il consistente lascito testamentario del dittatore ed egli, da privato cittadino, arruolò a proprie spese un esercito, richiamando in servizio numerosi tra i veterani delle campagne galliche e della guerra civile. 3) Le ragioni di un’alleanza di Ottaviano con i cesaricidi: Ottaviano nella guerra di Modena. Nei primi mesi del 43 a.C. Ottaviano si alleò contro Antonio, con il senato, che in questa fase promuoveva una politica favorevole alla causa dei cesaricidi e in particolare a Decimo Bruto. Bruto e Cassio dopo il tirannicidio non avevano ottenuto quei consensi sperati e non erano riusciti ad organizzare un’efficacie alternativa politica contro i cesariani, perciò avevano lasciato l’Italia per l’oriente. Ma altri cesaricidi si trovavano a Roma e combattevano contro gli eredi del dittatore per ripristinare la repubblica. In particolare, Decimo Bruto si scontrò contro Antonio nella battaglia di Modena (43 a.C.). Decimo Bruto, prima del cesaricidio, era stato nominato da Cesare come governatore della Gallia Cisalpina. La Gallia Cisalpina era stata integrata nello stato romano, tuttavia la trasformazione non era ancora stata completata, per cui il territorio necessitava ancora di un governatore. Cesare aveva inoltre stabilito che, mentre lui avrebbe condotto la campagna contro i Parti, Antonio avrebbe assunto il comando in Macedonia (punto chiave garantire i collegamenti con l’Italia all’esercito cesariano). Tuttavia, la campagna contro i Parti non si fece visto l’omicidio, per cui Antonio riteneva più proficuo assumere il governo della Gallia Cisalpina (provincia anche più vicina a Roma) e i comizi avevano emanato in suo favore la legge sulla sostituzione delle provincie. La legge però fu annullata dal senato e, inoltre, Decimo Bruto rivendicava il diritto di governare la regione attribuitogli da Cesare. Si venne, perciò, allo scontro in armi a Modena, in cui Ottaviano si schierò dalla parte del senato e vinse su Antonio. Tale vittoria gli diede quel forte prestigio militare che fino ad allora gli mancava. 4) Primo e secondo triumvirato: differenze ed analogie. Dopo la battaglia di Modena, Ottaviano fece un brusco cambio di rotta: smise di appoggiare il senato in quanto questi non voleva concedergli il consolato. Perciò, giunse ad un accordo con Antonio e Lepido e nell’estate del 43 a.C. marciò su Roma e riuscì ad ottenere il consolato. Il 27 novembre del 43 a.C., la legge Tizia, attribuì per 5 anni il potere supremo dello stato ad Antonio, Ottaviano e Lepido. A differenza del primo triumvirato, che era soltanto un’intesa privata fra 3 potenti personaggi politici, questa nuova alleanza sfociò in una vera e propria magistratura. I triumviri si spartirono il controllo del territorio, inoltre, avevano la facoltà di nominare i candidati alle magistrature e di convocare senato e comizi. 5) Le proscrizioni di Ottaviano, Antonio e Lepido: le specificità di questo provvedimento e le relazioni con le proscrizioni sillane. Una delle prime iniziative dei triumviri fu l’emanazione di nuove liste di proscrizione, sul modello sillano, che comportarono l’uccisione di ben 300 senatori, 2.000 cavalieri e la confisca dei loro beni. La vittima più illustre fu Cicerone. Si trattava di una soluzione cruenta per far uscire di scena i propri avversari politici e incamerare i loro patrimoni, necessari ai triumviri per la guerra in oriente che si accingevano a compiere contro i cesaricidi. 6) Cesariani contro cesaricidi: la battaglia di Filippi. La vendetta dei cesariani contro i cesaricidi si attuò a Filippi, in Macedonia, nell’ottobre del 42 a.C.: la campagna fu condotta da Ottaviano e Antonio, mentre Lepido rimase a Roma come console, per presidiare le sedi della politica. Nelle 2 battaglie di Filippi morirono sucidi sia Cassio che Bruto. Sul campo vinse Antonio, assai più abile del collega sul fronte militare, ma per la propaganda il vendicatore di Cesare fu Ottaviano. 7) Il legame di Antonio e Cleopatra, tra sentimento e ragioni politiche, nella realtà storica e nei condizionamenti della propaganda ottavianea. Il legame fra Antonio e Cleopatra fu sicuramente un rapporto passionale, tuttavia, la visione di Antonio come soggiogato dall’ammagliatrice Cleopatra è frutto dell’abile azione di propaganda di Augusto, il quale, per screditare il collega, lo dipinse come annebbiato dalla passione verso una donna straniera, traditore dei costumi romani per abbracciare lo stile di vita ellenistico. In realtà, gli storici non sono concordi con questa visione di Antonio, il quale non intesse relazioni con Cleopatra e l’Egitto solo per sentimento amoroso, bensì la sua azione faceva parte di un ampio progetto politico, acquisendo usanze e costumi orientali allo scopo di individuare un canale di dialogo con le élite locali, partner necessari per la gestione del territorio. 8) Lo scontro decisivo tra Antonio e Ottaviano. Lo scontro decisivo tra i due si ebbe il 2 settembre del 31 a.C. nelle acque di Azio, sulle coste dell’Epiro. Formalmente, Ottaviano aveva dichiarato guerra a Cleopatra non ad Antonio, travestendo una guerra civile come una guerra esterna, per non contravvenire ai principi su cui si basava la visione della guerra da parte dei romani. L’ammiraglio che portò alla vittoria della flotta ottavianea fu Marco Agrippa (amico fidato di infanzia di Ottaviano), grazie alla capacità manovriera delle sue veloci imbarcazioni (le liburne). Antonio e Cleopatra ripiegarono in Egitto, ma l’avanzata delle truppe di Ottaviano via terra non diede loro scampo: il 1° agosto del 30 a.C. assediarono Alessandria; Antonio e Cleopatra si suicidarono; Cesarione fu ucciso; l’Egitto divenne proprietà privata di Ottaviano. Cap. 13 1) Nel 27 a.C. Augusto compì la restitutio rei publicae: in quali provvedimenti concreti si tradusse la restaurazione delle istituzioni repubblicane? Quali poteri e quali onori vennero conferiti ad Augusto? Per decreto del senato fu conferito ad Ottaviano il titolo di Augusto, un titolo cultuale che sanciva la sua auctoritas, cioè la sua autorevolezza, conseguente ad una particolare predilezione divina (era figlio adottivo di Cesare che era stato divinizzato, quindi egli era figlio di un dio). Inoltre, gli venne conferito il titolo di imperator a vita, che gli riconosceva il rispetto in ambito militare e acquisì anche il titolo di principes, la qualificazione tradizionale di senatore più eminente (principes senatus) che, progressivamente fu privata dell’ambito di riferimento (il senato) e si riferì al suo primato generalizzato nella Repubblica. Gli venne, inoltre, attribuito il titolo di pater patriae, che definiva il ruolo da lui esercitato nella salvezza dello stato. Augusto, nonostante con la restitutio rei publicae formalmente avesse proclamato la prosecuzione delle istituzioni repubblicane e la rivitalizzazione della mos maiorum (costume degli antenati), di fatto egli mantenne il consolato dal 31 al 23 a.C.. Nel 27 a.C. fu attribuito al principe per 10 anni un esteso comando provinciale (Spagne, Gallie, Siria, Cipro, Cilicia). 2) Su quali poteri si fonda il primato di Augusto nello stato e quali sono le loro caratteristiche? Potestà tribunizia perpetua: assicurò al principe le prerogative dei tribuni della plebe, ovvero il diritto di veto, l’iniziativa legislativa, la facoltà di convocare il popolo e il senato, l’inviolabilità e l’opportunità di instaurare un rapporto di patronato nei confronti della plebe; Potere proconsolare superiore: consentiva al principe di esercitare un comando militare superiore a quello degli altri proconsoli, il che poneva il principe legalmente al di sopra degli altri governatori e ciò poteva risultare decisivo in caso di un conflitto di competenze; Pontificato massimo: attraverso questo potere il principe si fece artefice di numerose riforme in ambito religioso, dando reviviscenza a vecchi culti e riti (ormai caduti in disuso). 3) La riorganizzazione augustea delle province nelle sue modalità e nelle sue finalità dichiarate ed effettive. Augusto operò ad una ripartizione delle province in 2 categorie: da un lato le provincie non pacificate e ancora fioriere di conflitti divennero PROVINCE IMPERIALI, gestite in prima persona dal principe e sede di reparti legionari proprio perché non ancora pacificate; dall’altro le province pacificate e più sicure vennero definite PUBBLICHE O DEL POPOLO ROMANO e venivano gestite dal senato, ma prive di eserciti al loro intento. Sulla carta, Augusto diede la gestione delle province pacificate al senato perché più semplici da gestire, ma di fatto il suo obiettivo era utilizzare questo pretesto affinché i senatori non avessero la disponibilità di armi e non potessero muovergli guerra. 4) Il senato in età augustea fra continuità e trasformazione: composizione numerica, equiparazioni, censo minimo richiesto. Augusto riportò il senato a 600 membri (espellendo più di 300 senatori per escludere quanti avevano sposato la causa di Antonio). Innalzò il censo minimo richiesto ad 1.000.000 di sesterzi (prima erano richiesti 400.000) sia per individuare una netta distinzione patrimoniale tra senatori e cavalieri, sia per imporre a numerosi senatori, che non disponevano di patrimonio sufficiente per mantenere la carica, di dipendere dalle sue elargizioni, condizionandone in tal modo l’azione politica. Il ruolo del senato fu di fatto ridimensionato, sia perché l’autorevole consesso perse i propri poteri tradizionali in ambito di politica estera e finanziaria, sia perché subì la concorrenza di nuovi organismi paraistituzionali. 5) Nuovi organismi para istituzionali al fianco dell’imperatore: consilium principis e domus principis. Il consilium principis era un consiglio composto da coloro che il principe sceglieva tra i suoi amici o servitori e assunse competenze ed ambiti di azione che venivano di volta in volta decisi dall’imperatore ma comunque esercitavano un ruolo assai decisivo. La domus principis consisteva nella famiglia di Augusto, allargata ad amici, parenti acquisiti, intellettuali e rappresentava anch’essa un luogo di potere che agiva come un soggetto politico, divenendo una delle sedi di discussioni e decisioni pubbliche. 6) L’esercito riformato da Augusto. L’esercito con Augusto divenne stabile, permanente, costituito da soldati professionisti e articolato in diversi reparti. Le legioni che erano stanziate nelle province vennero ridotte a 28 unità (in quanto Augusto era consapevole un numero troppo alto di effettivi avrebbe potuto creare disordini), erano circa 170.000 uomini. Egli stabilì che la durata del servizio militare fosse di 20 anni. Come stipendio i soldati ricevevano 225 denari l’anno (ma il soldato doveva provvedere da sé alle spese per i viveri, il vestiario, le armi, ecc.). Per 30 anni Augusto spese enormi somme di denaro per assicurare un appezzamento di terra ai suoi veterani, poi nel 6 d.C. fece istituire un erario militare dal quale si attingevano i fondi per pagare la buona uscita ai soldati, pari a 3.000 denari, con il quale il soldato avrebbe cercato autonomamente terra, senza che dovesse procurargliela lo Stato. Inoltre, egli concesse che lo stipendio e la buona uscita del soldato andassero direttamente a lui, anche se era in vita il padre (in passato ogni bene di un figlio andava direttamente al padre famiglia). Tra il 27-26 a.C. istituì il corpo dei pretoriani. Si trattava in origine della guardia del corpo dell’imperatore e assolveva al compito di presidiare l’Italia, dove i legionari non potevano stanziare armati. I pretoriani erano organizzati in 9 coorti, prestavano servizio per 16 anni, ricevevano uno stipendio di 750 denari e una buona uscita di 5.000 denari. Le ali ausiliarie venivano fornite dai provinciali e dai re clienti, contavano circa gli stessi effettivi dei reparti legionari, venivano utilizzati soprattutto nella cavalleria, settore in cui l’esercito romano era da sempre carente. Al concedo gli ausiliari ottenevano la cittadinanza. Vennero isituite 2 flotte stabili, i marinai non erano cittadini romani ma sudditi delle province (in particolare dalla Dalmazia e dall’Egitto). A Roma erano attivi 2 corpi di polizia: i vigili (di numero tra le 500 e i 1.000 uomini) rispondevano agli ordini del prefetto dei vigili (di rango equestre), svolgevano servizio di pattugliamento notturno, ma la loro funzione principale era quella di prevenire e bloccare gli incendi, molto frequenti in una città popolosa come Roma; gli urbaniciani che si occupavano della sicurezza pubblica, al comando del prefetto della città (senatore di rango consolare). 7) L’istituzione di un apparato burocratico di stato: gli incarichi civili affidati ai membri del ceto equestre. Dopo aver occupato incarichi in ambito militare, i cavalieri potevano aspirare alla carriera burocratica diventando procuratori. Vi erano vari tipi di procuratori: - Procurator Augusti con mansione di carattere finanziario (in particolare nell’esazione delle imposte) a Roma, in Italia e nelle province; - Procurator province con funzioni amministrative e militari nelle singole province imperiali; - Procurator bibliotecarium, sovraintendente delle biblioteche del principe; - Procurator a libellis con l’incarico di gestire le petizioni rivolte all’imperatore; - Procurator ab epistulis, preposto alla corrispondenza imperiale; - Procurator rationibus, preposto alle finanze. 8) La riorganizzazione amministrativa di Roma e dell’Italia in età augustea. Roma venne divisa in 14 distretti (regioni) al loro interno ripartiti in quartieri. L’Italia venne divisa in 11 regioni, con l’obiettivo di agevolare le operazioni di censimento e di esazione fiscale (dato che le tasse imposte agli italici rappresentavano una voce importante del bilancio dello Stato). Cap. 14 1) La pace rappresenta una delle giustificazioni più forti utilizzate da Augusto a sostegno del suo primato nello Stato. Che cosa intende per patria victoriis pax? La victoriis pax propugnata da Augusto è una pace interna a spese di conflitti con l’esterno. Si tratta perciò dell’assenza di guerre civili ma la concomitante promozione di una politica espansionistica coronata da esiti positivi. Tale politica espansionistica, infatti, assicurava ai cittadini romani la possibilità di acquisire ricchezze, di cui beneficiavano tutti gli strati sociali. 2) Le conquiste militari in età augustea. Nel 30 a.C., dopo la sconfitta di Antonio e Cleopatra, fu conquistato l’Egitto, territorio preziosissimo per la sua posizione strategica e in quanto grande produttore di cereali. Dal 27 al 19 a.C. le legioni romane debellarono le ultime resistenza dei popoli della Spagna nordoccidentale (istituendovi le nuove province Tarraconense, Betica e Lusitania). Nel 25 a.C. furono annesse le Alpi occidentali, tra il 16-15 a.C. le Alpi centrali e orientali, tra il 14-19 a.C. la Pannonia. Tra il 35-34 a.C. venne acquisita anche l’area illirica, attraverso la guerra dalmatica. Tra il 12-7 a.C. Druso Maggiore e Tiberio ottennero la sottomissione della regione renana della Germania, stabilendo il confine dell’impero lungo il fiume Elba. Nel 25 a.C. fu acquisita la Galizia. 3) In età augustea in Oriente e in Occidente Roma applica strumenti egemonici diversi. Se ne illustrino le specificità e se ne individuino le aree di attuazione di queste modalità di gestione del territorio. L’estensione dell’egemonia fu assicurata mediante l’impostazione di rapporti clientelari con regni indipendenti (regni clienti), come la Tracia e la Cappadocia, e per mezzo dell’imposizione di re filoromani, come avvenne per l’Armenia. Inoltre, vennero creati stati cuscinetto deputati ad assorbire eventuali pressioni di popoli esterni all’impero. 4) La gestione augustea della questione partica: la scelta per l’accordo diplomatico, la reazione dell’opinione pubblica e le contromisure adottate dal principe. Augusto promosse intense negoziazioni con il re dei Parti, allo scopo di farsi restituire le insegne e di imporre sul trono di Armenia Tigrane, filoromano. Per questo inviò nel 20 a.C. in oriente Tiberio per giungere ad una mediazione, che ottenne un pieno successo diplomatico e riportò a Roma le insegne (custodite nel tempio di Marte Vendicatore). Dalla propaganda ottavianea, i Parti venivano dipinti come supplici, ma in realtà erano solo partner di un accordo. Di questo era consapevole la critica antiaugustea. Infatti, Augusto aveva deposto le armi, privilegiando la via compromissoria dell’accordo, proprio perché sapeva che il suo esercito versava in grandi difficoltà e voleva evitare di incorrere in insuccessi militari che avrebbero minato la sua immagine. 5) La disfatta di Varo: la rinuncia alla conquista dei territori prossimi al fiume Elba. Nel 9 d.C. Arminio, capo dei Cherusci (tribù germaniche) e in precedenza alleato di Roma, tese un’imboscata a 3 legioni romane guidate da Publio Quintilio Varo. Esse furono massacrate insieme a 3 ali di cavalleria ausiliaria e 6 coorti di fanteria, nella foresta di Teutoburgo: fu la cosiddetta strage di Varo. Il territorio verrà poi recuperato da Germanico, ma Tiberio divenuto imperatore stabilirà che il Reno segnasse il confine definitivo dell’impero. Infatti, Augusto sul letto di morte esortò Tiberio a non ampliare ulteriormente i confini. Probabilmente, Augusto prese questa decisione, anche in questo caso, per il timore di non riuscire ad imporsi in armi sulle popolazioni Germaniche (così come era stato per i Parti) e non incorrere in insuccessi. 6) L’opposizione antiaugustea: le diverse tipologie di dissenso. Possiamo individuare 3 fasi di dissenso antiaugusteo: 1. Le prime manifestazioni eversive presero corpo nel 31 a.C., i promotori erano senatori che temevano di perdere ogni potere in seguito al primato di Ottaviano. Essi miravano al ritorno alle istituzioni repubblicane e all’eliminazione fisica di Ottaviano, ma furono debellati; 2. Dopo il 27 a.C. vennero organizzate nuove congiure ai danni di Ottaviano, da parte di coloro che in precedenza avevano militato nelle file antiottavianee (con i repubblicani a Filippi e poi con Antonio) e, in seguito avevano accettato di inserirsi nell’organigramma statale promosso da Ottaviano, ritenendolo comunque lontano dalle precedenti esperienze autocratiche (Silla e Cesare). Quando, invece, fu chiaro il potere accentratore di Ottaviano, essi avevano congiurato per eliminarlo, senza riuscirci; 3. Nel periodo tra I secolo a.C. e il I secolo d.C. l’opposizione al principe maturò in seno alla sua stessa famiglia: avevano cospirato contro di lui sua figlia Giulia Maggiore, sua nipote Giulia Minore e anche gli eredi di Marco Antonio che Ottaviano aveva accolto nella sua casa, come Iullo Antonio. L’opposizione antiottavianea non riuscì mai nei suoi intenti soprattutto grazie all’efficace servizio di intelligence istituito dal principe e dalla scarsa coesione interna dei suoi promotori. La propaganda ottavianea ci restituisce un’immagine piuttosto fallace del dissenso: sembra fosse sporadico e propugnato da ale marginali o da folli motivati da animosità personale contro il principe. In realtà, un’attenta lettura dei pochi frammenti che ci sono giunti dell’opposizione, fa emergere che i cospiratori erano espressione della classe dirigente senatoria ed equestre, ed avevano elaborato un programma articolato e alternativo alle scelte compiute da Ottaviano. 7) Politica dinastica e repubblica restaurata: le ragioni che inibirono la designazione esplicita di un erede politico di Augusto. La ragione che inibì, da parte di Augusto, la designazione esplicita di un erede, era il fatto che formalmente non esisteva una monarchia ed egli aveva imposto il suo primato come una soluzione transitoria con il solo obiettivo di riordinare e restaurare la Repubblica. Inoltre, i poteri che egli aveva acquisito, non derivavano dall’assunzione di un ruolo monarchico esplicito, bensì dalla catalizzazione di più poteri in una sola persona, condizione che difficilmente sarebbe potuta transitare legalmente ad un suo successore. 8) Le diverse soluzioni successori sperimentate da Augusto. Augusto sperimentò 3 diverse tipologie di successioni: 1. Il legame di sangue, che prevedeva la successione di un erede diretto del principe e si uniformava alla pratica repubblicana secondo la quale gli eredi, del nome e del patrimonio, venivano individuati tra i consanguinei (è il caso di Marcello, Gaio e Lucio Cesari, Agrippa Postumo); 2. La scelta del migliore, che prevedeva la designazione del successore in un individuo non direttamente legato da un rapporto di parentale con il principe, ma che si era distinto per particolari meriti (il caso di Marco Agrippa); 3. La soluzione dinastica, che individuava il successore nella famiglia allargata di Augusto, per cui il prescelto non aveva un legame di sangue diretto con il principe ma era parente della moglie di costui, Livia (è il caso di Tiberio, figlio del primo matrimonio di Livia). Cap. 15 1) Quali eventi minacciarono il pacifico insediamento di Tiberio al soglio imperiale? Innanzitutto, l’iniziativa di Clemente (schiavo di Agrippa Postumo) che si finse il suo padrone, rivitalizzando l’opposizione della parte giulia della famiglia; fu ucciso. Poi le legioni in Pannonia e Germania che si sollevarono, chiedendo un aumento dello stipendio e incitando ad assumere il potere Germanico, che però rimase fedele al padre adottivo. 2) Germanico, l’erede ideale di Augusto: le ragioni che inducevano buona parte dell’opinione pubblica a caldeggiare la porpora per Germanico. Germanico era ben visto da tutta l’opinione pubblica, innanzitutto perché riuniva in sé il sangue dei giuli e dei claudi (era figlio di Druso Maggiore, fratello di Tiberio, e di Antonia, figlia di Marco Antonio e Ottavia, sorella di Augusto), poi perché era stato designato già da Augusto alla porpora, infatti aveva imposto a Tiberio di adottarlo, inoltre era un abile condottiero. Ma nel 19 d.C. morì in circostanze oscure nella campagna in oriente, avvelenato da Pisone, al quale lo stesso Tiberio aveva dato il compito di controllare il nipote. 3) Il ruolo dei pretoriani nella successione di Caligola. Tiberio aveva nominato come sui eredi Tiberio Gemello, figlio del figlio di Tiberio (Druso Minore) e Caligola (figlio di Germanico). Tuttavia, il governo passò esclusivamente nelle mani di Caligola grazie all’influenza dei pretoriani, che lo preferivano in quanto figlio dell’amato Germanico. D’ora in avanti, al criterio della scelta del consanguineo e dell’uomo migliore, si affiancava una nuova possibilità per diventare imperatore: la nomina da parte dei soldati (solo successivamente ratificata dal senato). 4) La congiura contro Caligola nel 39 d.C. Nel 39 d.C. Caligola sfuggì alla congiura ordita ai suoi danni da parte dei governatori di Germania Superiore e Pannonia, in accordo con le sorelle del principe Livilla e Agrippina Minore (la quale mirava ad imporre sul trono suo figlio Nerone). I congiurati furono messi a morte e le due sorelle esiliate. 5) La politica di Claudio a vantaggio dei senatori, militari, plebe, liberti e ordine equestre. Nei confronti dell’aristocrazia senatoria, Claudio rimpatriò gli esuli e sospese i processi per lesa maestà, inoltre aprì il senato alle élite delle province. Nei confronti dei militari si fece promotore, nel 43 d.C., della campagna vittoriosa di conquista della Britannia (nel corso del quale si distinse l’ufficiale Tito Flavio Vespasiano). Nei confronti della plebe realizzò numerose opere pubbliche che davano lavoro, promosse numerose frumentazioni e allestì giochi e spettacoli. Nei confronti dei liberti elaborò una riforma dell’apparato burocraticoamministrativo dello stato, istituendo nuove cariche da affidare ai liberti imperiali. Nei confronti dell’ordine equestre, attraverso lo strumento della censura, operò un’espulsione dei cavalieri indegni. 6) La successione di Nerone: sostenitori e motivazioni. Nerone era il figlio di primo letto di Agrippina, il quale aveva sposato Claudio, dopo che egli aveva condannato a morte la precedente moglie Messalina che lo aveva tradito con un altro uomo, la quale gli aveva dato 2 figli: Ottavia e Britannico. Nerone riassumeva su di sé il sangue dei giuli e dei claudi, perciò la sua ascesa era vista di buon occhio da parte dell’opinione pubblica per il mantenimento della stabilità. Inoltre, Agrippina aveva convinto Claudio ad adottare Nerone e dare in sposa al figlio sua figlia Ottavia. L’ascesa di Nerone era anche gradita dai pretoriani, in quanto i precettori di Nerone erano Seneca (prefetto e filosofo) e Afranio Burro (prefetto del pretorio). Nel periodo dal 54 al 59 d.C. tutti erano favorevoli a Nerone. 7) La congiura dei Pisoni. Tuttavia, dal 59 d.C. si registrò un progressivo cambio di rotta da parte di Nerone che fece uccidere la madre Agrippina e la moglie Ottavia (prendendo le distanze dalla tradizione giulio- claudia), inoltre Afranio Burro era morto e Seneca si allontanò dalla vita politica. Consiglieri di Nerone divennero la nuova moglie Poppea e il prefetto del pretorio Tigellino. Nerone iniziò a perdere il favore del senato, a causa dei suoi atteggiamenti istrionici. A peggiorare la situazione fu il catastrofico incendio che nel 64 d.C. distrusse 10 dei 14 distretti di Roma. Nerone attribuì la colpa ai cristiani, ma molti ritenevano che la colpa fosse sua, in quanto l’incendio gli avrebbe consentito di costruire la sua grandiosa villa (Domus Aurea). Gli storici sostengono che in realtà è molto probabile che l’incendio non fosse di natura dolosa, tuttavia il fatto accrebbe enormemente l’impopolarità di Nerone, nei confronti dei quali nel 65 d.C. fu ordita una congiura, capeggiata da Gneo Calpurnio Pisone, il quale voleva subentrargli. La congiura fu sventata, tuttavia nel 69 d.C. i malumori nei confronti di Nerone erano diventati insostenibili e avevano creato disordini, tant’è che Nerone si suicidò il 9 giugno del 68 d.C., senza lasciare eredi. Cap.16 1) Che cosa si intende con “anno dei 4 imperatori”? Nel 68 d.C. i governatori delle province occidentali rifiutarono obbedienza a Nerone e proclamarono imperatore l’anziano governatore della Gallia Tarraconense, Galba. Con lui si schierarono altri eserciti, province e il prefetto del pretorio. Il senato proclamò Nerone nemico pubblico (che si suicidò) e riconobbero Galba come principe. La sua nomina fu rispettata da tutte le province, tuttavia dopo poco la situazione precipitò. Galba adottò un altro esponente dell’aristocrazia senatoria, Pisone, indicandolo come proprio successore. Ma la sua scelta non fu gradita dai pretoriani, ai quali non era stato corrisposto il donativo secondo le loro aspettative. Essi linciarono Galba nel foro e al suo posto proclamarono principe Otone, governatore della Lusitania e uomo di fiducia dell’ordine equestre. Tuttavia, anche le legioni sul Reno erano insorte, nominando imperatore il governatore della Germania Inferiore, Vitellio. Questi scese in Italia e sconfisse Otone, che si suicidò. Tuttavia, Vitellio dovette affrontare un altro usurpatore: Tito Flavio Vespasiano. Vespasiano era stato proclamato imperatore dalle legioni orientali nel luglio del 69 d.C. All’epoca egli si trovava in Giudea, dove era stato inviato da Nerone per sedare una rivolta ebrea. Dopo la proclamazione lasciò il comando dell’area al figlio Tito per recarsi in Egitto, dove bloccava l’approvvigionamento annonario a Roma, in segno di sfida a Vitellio. Dopo, numerosi tumulti, la conquista completa di Roma da parte dei sostenitori di Vespasiano ci fu alla fine del 69 d.C., quando Vitellio morì linciato nel foro. A seguito di tali avvenimenti, il senato riconobbe Vespasiano come nuovo imperatore. 2) Quale dinastia vide la sua fine e quale il suo inizio nel biennio 68-69 d.C.? Nel 69 d.C., con Vespasiano imperatore, ebbe inizio la dinastia Flavia. Vespasiano non apparteneva all’aristocrazia senatoria, al contrario egli era un uomo nuovo, figlio di un pubblicano e originario di Rieti. 3) Quali sono i contenuti della Legge sul potere di Vespasiano e quali le sue finalità? La Legge sul potere di Vespasiano aveva la finalità di legittimare il potere del nuovo imperatore, il primo ad imporsi sulla scena per lungo tempo, dopo la dinastia Giulio-Claudia. Mentre, durante tale dinastia la somma delle prerogative veniva formalmente concessa ai principi dal senato in ragione della discendenza da Cesare e Augusto, egli non poteva vantare tale illustre parentela. Perciò, egli percepì la necessità di chiarire quali sarebbero stati i suoi poteri e di legittimarli con l’approvazione dei comizi. In tal modo, la figura del principe venne istituzionalizzata, diventando quasi una magistratura, con competenze ed ambiti di azione ben definiti. Il testo di legge prevedeva che l’imperatore potesse concludere trattati con controparti internazionali da lui stesso designate; convocare sedute legittime del senato; intervenire nell’elezione dei magistrati, esplicitando la propria raccomandazione nei confronti di un candidato; allargare la cinta del pomerio; l’imperatore godeva di amplissima libertà di iniziativa, essendo svincolato dal rispetto di leggi e plebisciti. 4) Che differenze si rilevano fra le fonti letterarie e quelle epigrafiche nella descrizione dei poteri imperiali di Vespasiano? Le Legge sui poteri di Vespasiano è considerata dagli storici come il testo più importante dell’epigrafia giuridica romana. Tale documento ci consente di comprendere meglio l’evoluzione delle istituzioni di epoca imperiale, a differenza delle fonti letterarie che si limitano a riportare la nomina di Vespasiano ad imperatore come fatto di mera consuetudine, con il quale il senato gli avrebbe concesso tutti i poteri attribuiti ai suoi predecessori. 5) Quale grande rivolta fu sedata agli inizi dell’epoca flavia? Nel 70 d.C. il figlio di Vespasiano, Tito sedò la rivolta giudaica, assediando Gerusalemme, distruggendone il tempio e dando inizio alla diaspora ebraica. 6) Quale evento distruttivo si consumò durante il regno di Tito? Nel 79 d.C. ci fu la devastante eruzione del Vesuvio, che distrusse le città di Pompei, Ercolano e Stabia. Tito colse l’occasione per dar prova della sua munificenza, edificando numerose opere pubbliche e celebrando i giochi per l’inaugurazione del Colosseo (80 d.C.), il che gli assicurò la benevolenza del popolo. 7) Quale fu l’atteggiamento di Domiziano in politica interna e quali le sue realizzazioni in politica estera? Per quanto riguarda la politica interna, egli garantì allo stato romano una buona amministrazione, caratterizzata da interventi in ambito economico, soprattutto a favore del territorio italico e da una valorizzazione del ceto equestre all’interno della burocrazia imperiale. Per quanto riguarda la politica estera, sul fronte germanico riportò importanti vittorie sui Catti, una popolazione che premeva nel medio corso del Reno, mentre nell’area basso-danubiana dovette stipulare una pace poco conveniente con il re dei Daci, Decebalo. 8) Chi furono i principali detrattori di Domiziano? Domiziano era visto in modo ostile dai circoli filosofici di ispirazione stoica, dall’aristocrazia senatoria e, di conseguenza, verrà così ricordato dalla storiografia tradizionale. Nel 96 d.C. il principe fu ucciso da una congiura di palazzo e il senato, ormai a lui del tutto ostile ne proclamò la cancellazione dalla memoria. Cap.17 1) Chi fu artefice della proclamazione di Nerva come imperatore? Dopo la violenta morte di Domiziano, furono gli stessi cospiratori a favorire l’ascesa al trono di Nerva, un anziano consolare che raggiunse il soglio imperiale grazie alla nomina senatoria. 2) Quali furono le esperienze personali che determinarono l’ascesa al trono di Traiano e con l’appoggio di quali centri di potere ottenne il principato? Traiano venne scelto come erede da Nerva, seguendo la scelta dell’uomo migliore, in quanto poteva valersi di numerosi meriti. Traiano apparteneva alla gens Ulpia, di origine italica (forse umbra) ma trasferitasi da molto tempo ad Italica, in Spagna. Egli si era distinto per il valore militare, per la sua popolarità tra i soldati e i successi riportati sul quadrante germanico, inoltre, era gradito da diversi gruppi di potere e proveniva da una delle regioni più influenti dell’impero. 3) Quali furono le regioni che Traiano annesse all’impero? Nel 106 d.C. era riuscito a sconfiggere Decebalo e ad annettere la Dacia, regione ricca di giacimenti minerari (in particolare d’oro). Nello stesso anno era riuscito ad entrare in possesso del regno dei Nabatei, che si estendeva tra l’attuale Giordania e la penisola del Sinnai. Sul territorio venne creata la nuova provincia d’Arabia. Inoltre, nel 114 d.C., Traiano invase l’Armenia, trasformandola in provincia. Nel 115 d.C. il confine venne portato al Tigri e venne creata la provincia di Mesopotamia. Nel 116 d.C. conquistò Ctesifonte, la capitale partica e portò il confine alla riva del Golfo Persico. 4) A quale atteggiamento si ispirò Adriano nel campo della politica estera e quali decisioni assunse in merito alla provincia di Mesopotamia? L’atteggiamento in politica estera di Adriano si ispirò a quello che aveva avuto Tiberio dopo la morte di Augusto (egli aveva arretrato il confine dal fiume Elba al Reno). Egli, infatti, contrariamente al suo predecessore Traiano, rinunciò all’espansionismo, cedendo l’Armenia, la Mesopotamia e l’Assiria e arretrò il confine dal corso del Tigri al corso dell’Eufrate. 5) Per quanto tempo regnò e dove preferì soggiornare l’imperatore Antonino Pio? Antonino Pio regnò per 23 anni, il suo principato fu terzo per durata, dopo quelli di Augusto e Costantino. Come Adriano, anche Antonino Pio rinunciò all’espansionismo territoriale. Tuttavia, mentre il predecessore si era distinto per i suoi numerosi viaggi nell’impero, al fine di migliorare la propria conoscenza del territorio che governava, Antonino Pio trascorse una vita sedentaria, risiedendo quasi esclusivamente a Roma. 6) Con chi condivise il potere l’imperatore Marco Aurelio durante i primi anni del suo regno? Adriano (sul modello di Augusto che aveva imposto a Tiberio l’adozione di Germanico), prima di morire aveva imposto ad Antonino Pio l’adozione di Marco Aurelio (figlio del fratello della moglie di Antonino Pio) e di Lucio Vero (figlio di Lucio Elio Cesare, il quale era la prima scelta di Adriano nella sua successione, ma morì prematuramente). Marco Aurelio aveva sposato Faustina Minore, figlia di Antonino Pio, perciò aveva una posizione di maggior rilievo rispetto a Lucio Vero, che era ancora adolescente. Tuttavia, una volta morto il predecessore, Marco Aurelio volle che il senato gli associasse su un piano di parità il fratello adottivo Lucio Vero. Si instaurava così per la prima volta una diarchia. I due augusti si ripartirono immediatamente i rispettivi ambiti di intervento. Lucio Vero tra il 161-166 d.C. si recò in oriente dove mosse guerra all’impero partico. Il pretesto bellico era stato offerto dal regno d’Armenia, sul cui trono i Parti avevano insediato un membro della propria dinastia, suscitando rimostranze nei romani. Le legioni riportarono buoni successi, tuttavia, Lucio Vero e le sue truppe dovettero tornare urgentemente in occidente perché vi era un nuovo pericolo. 7) A quando si data l’invasione dei Quadi e dei Marcomanni e quali conseguenze comportò? Che cos’è la peste antonina? Sul fronte danubiano, infatti, 2 gruppi di popolazioni germaniche, i Quadi e i Marcomanni, avevano infranto le difese dell’impero, momentaneamente sguarnite, dilagando nei territori delle province di Pannonia, Rezia e Norico. Dopo aver attraversato le Alpi Giulie, essi passarono addirittura nell’Italia nord-orientale e assediarono Aquileia. Nel 167 d.C. un intervento congiunto di Marco Aurelio e Lucio Vero determinò velocemente la fine dell’invasione barbara. Tuttavia, dal punto di vista psicologico si trattava per i romani di un evento epocale: si era riaccesa la paura atavica del nemico gallico (che ricordava il sacco di Roma nel 390 a.C. e le campagne mariane contro Cimbri e Teutoni). Tuttavia, la calata di Quadi e Marcomanni comportò conseguenze ben più gravi di quelle psicologiche: l’esercito di Lucio Vero che aveva combattuto contro i parti, accorrendo in occidente per sventare l’invasione barbara, aveva portato con sé una terribile epidemia: la cosiddetta peste antonina, che decimò la popolazione in diverse regioni dell’impero. Si trattava probabilmente di vaiolo. Lucio Vero nel 169 d.C. morì a causa di un ictus e per altri 11 anni Marco Aurelio governò da solo l’impero, sin quando, nel 180 d.C. morì anch’egli, colpito forse da una recrudescenza di un focolaio di peste antonina. 8) Chi succedette a Marco Aurelio e con quale metodo fu scelto? Alla morte di Marco Aurelio venne adottato, per la prima volta dai tempi dei Flavi, il criterio dinastico. Infatti, gli succedette il figlio Commodo. Il principato di Commodo fu caratterizzato da anni di corruzione nei costumi e nella politica. Infatti, l’imperatore favorì l’ascesa alla pretura di personaggi cruenti e dispotici, come Cleandro, causandosi l’ostilità del senato. Inoltre, si macchiò di negligenza per quei provvedimenti che avrebbero potuto garantire prosperità alle casse pubbliche e il benessere della popolazione. Egli aveva, però, il favore della plebe, in quanto era solito organizzare giochi circensi e spettacoli, nei quali egli stesso si esibiva come gladiatore. La sua deriva autocratica culminò la volontà di farsi considerare una divinità vivente, con il nome di Ercole romano. Alla fine, cadde vittima di una congiura di palazzo, ordita dalla cugina e amante Marzia (di fede cristiana) che lo avvelenò e poi lo fece strangolare. Egli fu condannato alla cancellazione dalla memoria. Cap.18 1) Quali furono i settori dell’economia romana che conobbero una particolare espansione nel I e nel II secolo d.C.? L’agricoltura continuò a svolgere un ruolo di spicco nel sistema economico, sia in zone di antica tradizione agricola (Sicilia, Africa, Egitto) sia in regioni arretrate sotto tale profilo (Pannonia), aree boschive che furono messe a coltura attuando delle vere e proprie deforestazioni. Si diffusero in particolar modo le proprietà fondiarie di dimensioni mediograndi, inizialmente sotto il modello della villa schiavistica. Poi, a partire dagli ultimi decenni del I secolo d.C., si assistette ad una netta diminuzione della presenza di schiavi (dovuta soprattutto alla fine dell’espansione territoriale), perciò, accanto alla manodopera servile, si affermò il sistema del colonato: i grandi proprietari terrieri davano in gestione un appezzamento di terra a dei contadini (coloni) che essi coltivavano, mentre il proprietario riceveva in cambio una parte del raccolto (di solito la metà) o un canone di locazione in denaro. A partire dall’età di Augusto, l’industria mineraria godette di una notevole espansione. Infatti, accanto ai bacini metalliferi tradizionali ubicati in Spagna, grazie all’espansione territoriale furono scoperti nuovi giacimenti d’oro in Dalmazia e in Dacia. Nel bacino del Mediterraneo ebbe grande diffusione anche l’estrazione del porfido, la pietra dalla quale si ricavava la tinta purpurea con il quale tingere le vesti degli imperatori. Nell’epoca del principato, anche la produzione artigianale fiorì considerevolmente, in particolare nella produzione fittile e di ceramica fine da mensa (è il caso della terra sigillata, la quale designava lo status symbol delle élite provinciali, mentre i cittadini più abbienti della capitale utilizzavano stoviglie d’oro e d’argento). 2) Quali furono le condizioni favorevoli e i limiti che caratterizzarono la formazione di un sistema economico nuovo nell’età del principato? Le condizioni favorevoli di questo nuovo sistema economico paleo-capitalista furono, innanzitutto la disponibilità di materie prime quasi inesauribili che si coniugava con la presenza di numerosi centri produttivi urbani; un’unica moneta in tutto l’impero si affiancava ad un sviluppato sistema economico e creditizio; masse di forza lavoro a basso costo convivevano con un sistema diffuso di lavoro salariato. Tuttavia, il principale limite che pose un freno alla crescita industriale fu di natura ideologica: infatti, le classi dirigenti preferivano evitare la diffusione delle innovazioni tecnologiche su larga scala per mantenere il controllo sulle masse lavoratrici. 3) Su quali equilibri e sperequazioni geografiche si basava il sistema economico romano in epoca alto-imperiale? Da un lato, i proprietari terrieri italici avevano destinato in prevalenza i loro fondi, che beneficiavano dell’esenzione fiscale, in prevalenza al pascolo estensivo o a colture arboricole specializzate (vite e ulivo); dall’altro il suolo di alcune province (Africa, Egitto, Sicilia, Sardegna) era interamente utilizzato per produrre cerali, che lo stato acquistava a prezzo politico e trasportava a Roma. Inoltre, diverse provincie di antica romanizzazione (Gallia Narbonense, Spagne) si dedicarono sempre di più alla produzione di olio e vino a prezzi concorrenziali, determinando il crollo delle importazioni dall’Italia. 4) Quali sono i 2 punti in cui consisteva il piano di riequilibrio economico di Traiano? Il progetto del piano di riequilibrio economico di Traiano era incentrato sulla rivalutazione del suolo italico e sulla parallela diminuzione della dipendenza di Roma dal prodotto cerealicolo delle province. Per prima cosa Traiano obbligò i senatori a investire almeno un terzo del loro patrimonio in beni terrieri ubicati in Italia, facendone così salire il prezzo. Il secondo punto consisteva in un complesso piano di assistenzialismo statale, denominato ALIMENTA (sussidi alimentari). Il progetto si fondava sull’investimento di parte delle cospicue risorse acquisite dal fisco (la cassa privata dell’imperatore), grazie ai proventi auriferi della nuova provincia della Dacia. Tali capitali imperiali venivano prestati, probabilmente in forma forzosa, a proprietari di fondi agricoli di dimensioni medio-grandi ubicati in Italia. Costoro dovevano corrispondere solo un modico interesse del 5% annuo, senza dover restituire il denaro ricevuto in prestito. La somma ricevuta doveva essere utilizzata da proprietari terrieri per la riconversione di parte delle loro colture da arboricole a cerealicole. Il tasso di interesse del 5% essi non dovevano restituirlo all’imperatore ma ai municipi italici dove erano ubicati i loro terreni. A loro volta i municipi utilizzavano queste entrate per finanziare sussidi mensili in grano o denaro ai ragazzi e alle ragazze che risiedevano nel loro territorio. I ragazzi potevano godere di tali elargizioni sino ai 18 anni, le ragazze sino ai 14. Si stima che in età traianea complessivamente beneficiarono di tali sussidi 40.000 giovani e vi aderirono 50 municipi. Sulla carta il progetto rappresentava solo un’operazione di credito fondiario, destinata a favorire il ritorno della cerealicoltura in Italia, ma gli studiosi moderni hanno sottolineato che in realtà si trattasse anche di un modo per fissare indirettamente una tassa fondiaria dal territorio italico, che formalmente ne era esente (a differenza delle province). Inoltre, anche il carattere filantropico degli alimenta propugnato dalla propaganda, si rivela in realtà un modo incentivare il reclutamento legionario, ufficiali e funzionari della burocrazia imperiale, altrimenti non si spiegherebbe il vantaggio di cui godevano i ragazzi di sesso maschile, i quali beneficiavano degli alimenta fino ai 18 anni, mentre le donne solo fino ai 14. 5) In cosa si distingueva la competizione elettorale delle colonie e dei municipi rispetto a quella di Roma in epoca alto-imperiale? Mentre a Roma i magistrati venivano designati esplicitamente dall’imperatore attraverso la pratica della commendatio, nei municipi e nelle colonie la competizione per assumere le cariche rimaneva molto viva, in quanto i magistrati continuavano ad essere eletti dai comizi locali. 6) Quali furono gli elementi di continuità e quali invece le innovazioni nella composizione della società romana durante l’epoca del principato? Rimasero inalterati la forte connotazione classista, l’ordinamento gerarchico e la dipendenza di tutti i comparti produttivi dall’economia schiavistica. Al vertice della piramide sociale vi era l’imperatore e la sua famiglia. Nell’epoca del principato vi fu una progressiva integrazione dei provinciali nella compagine statale. Inoltre, si produsse una bipartizione del corpo sociale: subito dopo l’imperatore vi erano i cosiddetti honestiores (letteralmente “i più onesti”), ossia i membri delle classi dirigenti, detentori di una posizione sociale ed economica elevata. Si trattava dell’ordine senatorio, dell’ordine equestre, l’ordine dei decurioni (una sorta di consoli delle singole città) e della familia Caesaris (ossia la servitù dell’imperatore, costituita dai ricchi liberti imperiali). L’altra metà della piramide sociale era costituita dai cosiddetti humiliores (letteralmente “i più umili”) a cui appartenevano i ceti subalterni. Tale dicotomia era evidente anche nei privilegi in ambito penale: infatti, i senatori rei di delitti capitali erano puniti con l’esilio anziché con la condanna a morte; i cavalieri che si erano macchiati di crimini, per i quali i cittadini ordinari erano condannati ai lavori forzati, venivano anch’essi semplicemente esiliati; anche i decurioni e i veterani erano esentati dalle punizioni più vergognose. 7) Quali funzioni assolse l’esercito in epoca alto-imperiale? Nei primi 2 secoli dell’età imperiale, l’esercito mantenne un ruolo di decisa centralità. Esso ricoprì, innanzitutto, l’incarico di garantire sicurezza sui confini e di tutelare l’ordine pubblico nei territori dell’impero; continuò, inoltre, ad essere un agente di mobilità sociale in senso ascendente, grazie alle possibilità di avanzamento offerte dalla carriera militare; si distinse ancora come potente elemento di romanizzazione delle aree periferiche, poiché la dislocazione delle legioni prevedeva che per anni migliaia di cittadini romani risiedessero nelle province. La presenza dei reparti militari si configurò, infine, come un fattore di grande stimolo economico, in virtù dei servizi e delle commesse richiesti per il sostentamento e l’equipaggiamento dei soldati, nonché per tutte le loro esigenze specifiche. 8) Si descrivano le due opzioni difensive alle quali ricorse l’impero romano a seguito della rinuncia all’espansionismo e si indichi in quali diversi quadranti geografici furono adottate. L’opzione difensiva del controllo diretto fu adottata lungo i confini occidentali dell’impero, che divennero stabili e non più in movimento. Tale scelta comportò la costruzione di opere fisse di difesa, tra le quali spicca per imponenza il vallo di Adriano in Britannia. Lungo il Reno e il Danubio fu approntato il sistema del LIMES (confine fortificato), costituito da una serie di fortilizi, terrapieni e opere murarie, che avevano lo scopo di incanalare più che di ostacolare il movimento lungo le frontiere, per assicurare l’esazione di dazi e imposte. L’opzione difensiva del controllo indiretto fu, invece, adottata lungo il confine orientale. Essa prevedeva il rafforzamento di un’area centrale ampiamente militarizzata, costituita dalla provincia di Sira e la predisposizione di una fascia esterna sottoposta ad influenza più flessibile, poiché affidata a stati clienti inizialmente autonomi (Giudea, Commagene) o regni formalmente indipendenti, come l’Armenia, ai quali si tentava di imporre un protettorato romano. Erano, insomma, stati cuscinetto. Cap.19 1) Chi furono i contendenti nella nuova guerra civile del 193-197 d.C. e da quali componenti sociali, militari e geografiche erano sostenuti? L’ordine senatorio favorì l’ascesa un anziano consolare, Pertinace, il quale però governò per i soli 3 mesi iniziali del 193 d.C. I pretoriani erano scontenti di quest’ultimo e lo uccisero. Al suo posto misero il ricchissimo senatore Didio Giuliano. Tuttavia, anch’egli non rimase a lungo al potere. Infatti, le legioni stanziate nei diversi quadranti dell’impero acclamarono contemporaneamente 3 usurpatori: Clodio Albino in Britannia, Settimo Severo in Pannonia, Pescennio Nigro in Siria. Ebbe così inizio una nuova guerra civile che durò ben 4 anni. Settimo Severo, assicuratosi il sostegno dei soldati danubiani e approfittando della loro prossimità geografica all’Italia, scese rapidamente verso Roma, riuscendo a sbarazzarsi di Didio Giuliano, ormai caduto in disgrazia. Nel 194 d.C. Severo sconfisse in oriente Pescennio Nigro, che aveva cercato di rinsaldare la propria posizione alleandosi con il regno partico. Successivamente, si produsse la resa dei conti con Clodio Albino, che dalla Britannia scese in Gallia: le sue truppe e quelle di Severo si scontrarono nel 197 d.C. a Lione, in una sanguinosa battaglia che vide combattere fra loro decine di migliaia di soldati romani. Alla fine, vinse Severo. 2) Perché il principato dei Severi è stato definito una “monarchia militare”? Perché i Severi instaurarono un rapporto privilegiato con l’esercito. I soldati erano diventati la base imprescindibile del potere imperiale, perciò ricevettero numerosi benefici da parte della nuova dinastia. Settimo Severo elevò la paga delle coorti pretoriane e degli ausiliari, nonché, consentì ai legionari di sposarsi durante il periodo di leva. Inoltre, egli aggiunse altre 3 legioni che vennero insediate in Mesopotamia. In più, aumentò la presenza dei corpi armati che presidiavano la capitale, innalzandone il numero di effettivi. 3) In quali quadranti geografici fu attivo militarmente Settimo Severo? Nel 198 d.C. intraprese una nuova guerra contro i Parti, rase al suolo la capitale Ctesifonte e spostò il confine dall’Eufrate al Tigri, istituendo la nuova provincia di Mesopotamia (dove fece stanziare 3 nuove legioni). Nel 208 d.C. intraprese una spedizione in Britannia, infatti, tale provincia era stata messa a repentaglio dai Caledoni (abitanti dell’odierna Scozia). L’imperatore cercò di ripristinare il vallo antonino e provincializzare la zona ad esso circostante, ma senza successo. Nel corso di queste operazioni, morì per malattia nel 211d.C. a York. 4) Quando fu emanato l’editto di Caracalla, che conseguenze comportò e quali erano i suoi scopi? Nel 212 d.C. Caracalla emanò un editto con il quale veniva concessa la cittadinanza a tutti gli abitanti liberi dell’impero. Tale provvedimento è noto come la Costituzione Antoniniana (infatti Caracalla, a seguito dell’auto-adozione dei Severi nella dinastia degli Antonini, assunse come nome ufficiale quello di Marco Aurelio Antonino). Dal punto di vista ideologico, tale decisione era estremamente importante, in quanto eliminava le differenze giuridiche che spesso ancora intercorrevano tra italici e provinciali. Di fatto però il suo fine era prevalentemente fiscale, perché estendeva a tutti i cittadini dell’impero le tasse pagate dai cittadini romani (più numerose di quelle pagate dai peregrini), e in tal modo accrescere le entrate statali. Infatti, raddoppiò le tasse pagate dai cittadini romani, istituite già da Augusto, come le tasse di successione e di manomissione che egli elevò dal 5 al 10 %. 5) Perché il comportamento di Elagabalo diede scandalo a Roma? Innanzitutto, per le sue credenze religiose orientali, infatti, egli cercò di sostituire il culto di Giove Ottimo Massimo con quello del dio Sole. Poi, per la sua condotta sessuale, decisamente antitradizionalista. Infatti, pare che Elagabalo avesse 5 mogli (nonostante la sua giovane età, era salito al trono a 15 anni), fra cui una vestale e numerosi amanti maschi. Inoltre, assunse condotte che i romani respingevano in quanto ritenute devianti (travestitismo, depilazione, prostituzione sacra). In realtà, probabilmente, più che comportamenti devianti erano comportamenti legati alle sue credenze religiose orientali. Per queste motivazioni non era affatto ben visto e tutti furono favorevoli alla sua sostituzione con il cugino Alessandro Severo. Infatti, nel 222 d.C., nel corso di un’insurrezione dei pretoriani, Elagabalo e sua madre Giulia Mesa furono uccisi, e al suo posto fu proclamato imperatore il cugino. 6) Quale importante novità si registrò nel campo della politica estera durante il regno di Alessandro Severo? Durante il regno di Alessandro Severo, la posizione dei Parti si era fortemente indebolita. La svolta ci fu quando, nel 224 d.C., la dinastia degli Arsacidi fu sconfitta da quella dei Sassanidi, di provenienza iranica e assai più bellicosa della precedente. L’iniziatore di tale dinastia fu Arshadir I, questi abbandonando il filo-ellenismo che aveva caratterizzato per secoli il regno dei Parti, volle fondare un nuovo impero persiano. Il suo obiettivo era assicurare al regno uno sbocco sul mar Mediterraneo e per questo attaccò i romani lungo il loro confine orientale. Alessandro Severo riuscì a contrastare i nuovi nemici e l’aggressione per il momento vene arginata. Allo stesso tempo però un nuovo pericolo si presentò sul fronte settentrionale dell’impero: popolazioni germaniche varcarono il limes, dilagando nella Gallia e nell’Illirico. L’imperatore dovette, perciò, tornare in occidente, dove trovò la morte nel 235 d.C. a Magonza, in seguito ad un’insurrezione delle truppe. 7) Quali ipotesi sono state avanzate dalla critica storiografica per motivare lo scoppio della crisi del III secolo d.C.? Gli studiosi di tendenza idealista sostengono che la crisi sia dovuta al diffondersi del cristianesimo e di religioni che sostenevano la salvezza individuale, perciò, esse incentivarono il pragmatismo tipico dei romani e il loro spirito di servizio nei confronti dello stato, le cui strutture vennero erose dall’interno. Gli studiosi di matrice liberale sostengono che si trattò di un conflitto tra la borghesia urbana e le masse popolari rurali, alleate con l’esercito. Tale conflitto, si risolse nella crisi delle città e nella loro progressiva decadenza, che determinò il fenomeno della deurbanizzazione. Gli storici di scuola marxista sostengono che la svolta sia stata determinata dal tracollo dell’economia servile, basata sul modo di produzione schiavistico, ovvero quando la cessazione dell’espansionismo territoriale fece terminare l’afflusso di grandi masse di schiavi che un tempo reggevano il sistema economico romano. In realtà, sarebbe inesatto cercare una sola causa a giustificazione della recessione del sistema economico registratosi nel III secolo d.C. Addirittura, alcuni studiosi ritengono che le cause della crisi siano già rintracciabili ai tempi di Marco Aurelio, nei quali la peste antonina decimò la popolazione. Gravi ripercussioni ebbero poi le invasioni di Quadi e Marcomanni, che costrinsero Marco Aurelio e Commodo a rafforzare i presidi dei soldati stanziati sul limes e promuovere nuove costose campagne militari. Nonostante le finanze imperiali furono rafforzate dalla politica fiscale dei Severi (si pensi all’aumento delle tasse imposto da Caracalla), nel campo privato si registrò una grave carenza di manodopera. Essa era determinata da diversi fattori: anzitutto, il calo demografico (a causa di frequenti epidemie, carestie, guerre e incursioni), poi all’aumento del reclutamento (che impediva ai soldati di lavorare nel mondo produttivo) e, infine, alla progressiva scomparsa della schiavitù. Anche questo fattore era a sua volta dovuto ad altri nuovi elementi: la cessazione dell’espansionismo territoriale determinò l’assenza di prigionieri di guerra e poi la diffusione del cristianesimo e di altre religioni che propugnavano l’uguaglianza tra esseri umani incentivò le operazioni di manomissione, così molti cessarono di essere schiavi e diventarono cittadini liberi. Ovviamente, la scomparsa della schiavitù determinò il tracollo dell’economia romana, che si basava sull’intenso sfruttamento della manodopera servile. Il calo demografico, inoltre, portò al collasso delle grandi attività artigianali e anche il commercio si interruppe, spesso a causa della guerra. 8) In quali modi lo stato romano fece fronte all’incremento delle spese militari a partire dall’epoca dei Severi? Innanzitutto, procedendo ad ampie confische nei confronti di coloro che al tempo della guerra civile (193-197 d.C.) avevano caldeggiato per gli avversari politici dei Severi. Poi, incamerando grandi bottini a seguito delle campagne partiche. In aggiunta, Settimo Severo svalutò il denario, riducendo del ben 50% la presenza di metallo prezioso al suo interno. Tuttavia, nonostante qualche successo inziale, questa politica si rivelò ben presto fallimentare. Infatti, la popolazione venne a conoscenza di ciò, per cui i prezzi iniziarono a salire e si creò una spirale inflazionistica. In più, si realizzò la cosiddetta Legge di Greshaman, secondo cui la moneta cattiva scaccia quella buona, per cui le monete migliori (ossia quelle con percentuale più alta di metallo prezioso) vennero tesaurizzate. Caracalla adottò una politica simile a quella paterna, infatti, pur non adulterando ulteriormente il denario, egli coniò una nuova moneta, l’antoniniano, di poco più pesante del denario, ma che ufficialmente doveva valere il doppio di esso. Il titolo dell’antoniniano si mantenne comunque abbastanza costante nei decenni successivi e andò sostituendosi al denario. Inoltre, Caracalla aumentò notevolmente le imposte gravanti sui cittadini. Per sopperire alle esigenze dell’esercito furono richieste forniture coatte e il governo imperiale procedette spesso con requisizioni di tutto ciò che gli era necessario: prodotti alimentari, materie prime, servizi di trasporto. Parallelamente, i Severi soddisfarono la domanda la domanda degli eserciti tramite la produzione agricola delle grandi tenute fondiarie dell’imperatore, che con le confische si erano accresciute enormemente. Cap.20 1) In cosa consiste il periodo della cosiddetta “anarchia militare” e quali sono le sue coordinate cronologiche? Alla morte di Alessandro Severo emerse ancora di più l’instabilità politica ed ebbe inizio un periodo di circa 50 anni (235-284 d.C.), che i moderni definiscono “anarchia militare”, durante il quale si succedettero circa 25 imperatori. Si è soliti indicare tali sovrani come signori della guerra in quanto quasi tutti furono acclamati in contesti di conflitto civile, restarono al potere per poco e vennero assassinati da altri pretendenti. Nel 235 d.C. i soldati renani, che avevano ucciso Alessandro Severo, acclamarono imperatore un loro ufficiale di rango equestre, Massimino il Trace, di umili origini. Il nuovo imperatore procedette ad una serie di offensive belliche, che gli consentirono di sconfiggere Alemanni in Germania e Sarmati nei Balcani. A causa dell’aumento delle spese militari, incrementò la pressione fiscale. Ciò causò molto malcontento, così si venne a creare un nuovo conflitto civile che portò a diversi sovrani di rango senatorio a contendere il potere a Massimino. Questo, proclamato nemico pubblico fu ucciso nel 238 d.C. A Massimino succedette Gordiano III. Quest’ultimo si scontrò sul fronte orientale contro Shapur I (che aveva succeduto il padre Ardashir I) e morì nel 244 d.C. nella battaglia di Misiche. L’esercito allora acclamò imperatore il prefetto del pretorio Filippo l’Arabo. Il nuovo sovrano stipulò una pace disonorevole con i persiani, ai quali i romani pagarono un consistente tributo. Dopo 5 anni di governo, nel 249 d.C., egli fu spodestato e fu acclamato imperatore il senatore Decio. Egli fronteggiò a più riprese i Goti sul fronte basso danubiano e rimase ucciso nella clamorosa sconfitta che i romani subirono a Abritto (nell’odierna Bulgaria) nel 251 d.C. In un clima di continue guerre civili, nel 253 d.C. venne nominato imperatore il senatore Valeriano, il quale si affiancò subito al figlio Gallieno, nominandolo augusto. Valeriano verrà fatto prigioniero nel 260 d.C., a seguito della battaglia di Edessa, e trascorrerà in prigionia il resto dei suoi giorni. Nel 268 d.C., a seguito di una congiura ordita da un gruppo di ufficiali equestri, Gallieno venne ucciso. Gli assassini proclamarono imperatore Claudio II, originario della Pannonia e il primo di una serie di imperatori illirici. Nel 270 d.C. egli riuscì a sconfiggere i Goti e per tale motivo è noto come Claudio II il Gotico. Tuttavia, nello stesso anno morì di peste. Gli succedette un altro degli ufficiali che aveva partecipato alla congiura contro Gallieno, ossia il comandante della cavalleria Aureliano. Nel 275 d.C. egli fu assassinato in una congiura per mano dei suoi stessi ufficiali. Dopo di lui si susseguirono una serie di imperatori illirici, di cui l’ultimo fu Carino. Ma nel 284 d.C. le truppe orientali acclamarono un nuovo imperatore, Diocleziano, che sconfisse Carino e si affermò come sovrano incontrastato dell’impero. 2) Per quale editto di contenuto religioso è ricordato l’imperatore Decio? Nel 250 d.C. Decio emanò un editto che obbligava tutti a dichiarare apertamente la propria adesione al paganesimo, religione ufficiale dello stato romano, certificando di aver correttamente espletato i sacrifici alle divinità del pantheon e all’imperatore. Coloro dimostravano ciò ottenevano un certificato (libellus). L’editto si configurava di fatto come la prima persecuzione attuata sistematicamente contro i cristiani. 3) Quale grave sconfitta militare fu inflitta ai romani nel 260 d.C.? Da chi, dove e con quali conseguenze? Nel 260 d.C. i romani subirono una pesante sconfitta nella battaglia di Edessa contro i persiani, nella quale venne imprigionato lo stesso imperatore Valeriano. La disfatta dimostrò la fragilità del tradizionale sistema di difesa dell’impero romano. 4) Si illustrino i 2 episodi di separatismo che si produssero nella seconda metà del III secolo d.C., definendone le motivazioni, i limiti cronologici e i protagonisti. Il primo episodio secessionista si verificò nelle Gallie, dove venne proclamato “l’impero delle Gallie”, che durò dal 258 al 274 d.C. Ne furono promotori alcuni ufficiali dell’esercito stanziati sul Reno (Postumo, Vittorino, Tetrico), originari del luogo, che si fecero portavoce dell’insoddisfazione delle province occidentali, i cui abitanti pagavano forti tasse, ma non si sentivano più protetti da Roma. Tale impero, nella sua massima espansione, comprese anche la Britannia e parte della Spagna, che grazie alle miniere di queste ultime poté coniare una moneta, di qualità superiore a quella battuta dalle zecche ufficiali dell’impero. Tale impero volle restare romano, ma autonomo: si dotò di un proprio imperatore, una propria capitale (Treviri), un proprio senato e propri consoli. Tale parentesi secessionista si estinguerà nel 274 d.C. per conflitti interni. Il secondo caso di separatismo si verificò nella provincia romana di Siria e durò dal 260 al 272 d.C. Aveva come centro propulsore la ricca città di Palmira. Dopo la sconfitta subita dall’esercito romano da parte dei persiani a Edessa, i siriani temevano di essere invasi, ma la l’avanzata persiana fu bloccata da un senatore palmireno: Odenato, che si pose alla guida del regno di Palmira. Nel 268 d.C. egli morì e la guida del regno era passata formalmente a suo figlio, che però era minorenne, quindi la reggente fu la madre Zenobia. L’esercito palmireno occupò militarmente buona parte dei territori orientali dell’impero, incluso l’Egitto. Nel 272 d.C. Aureliano riuscì a sconfiggere Zenobia e a riannettere il territorio. 5) Perché il III secolo d.C. si può qualificare come il secolo dei cavalieri? Nel III secolo d.C. si assistette ad una progressiva estromissione del ceto senatorio dalla politica attiva, mentre crebbe l’importanza della burocrazia equestre e del gabinetto imperiale. I principali incarichi amministrativi e i comandi militari, precedentemente riservati ai senatori, vennero trasferiti ai cavalieri. In particolare, Gallieno nel 262 d.C. promosse una riforma con la quale assegnò il governatorato delle province ai cavalieri e trasformò l’antica carica di comandante delle legioni di rango senatorio in una prefettura equestre. I legionari ebbero sempre di più la tendenza a proclamare imperatori i propri comandanti, e dato che questi erano ormai tutti di rango equestre, si spiega il perché tutti i vari imperatori illirici appartenevano all’ufficialità equestre. Si assistette ad un incremento delle procuratele che, da 20 sotto Augusto, passarono a 200 nel III secolo d.C. La classe dei cavalieri divenne, quindi, per buona parte un ceto di funzionari statali, stipendiati nella burocrazia e nell’esercito. Essi diventarono sempre più ricchi e investivano i propri guadagni in tenute fondiarie, dotandosi di quella tipologia patrimoniale che un tempo era esclusivo appannaggio dei senatori. 6) Si elenchino i privilegi di cui godevano i membri dell’esercito nel III secolo d.C. L’esercito aveva assunto una vitale importanza, dato che ormai esso era determinante nella scelta dell’imperatore. Lo stipendio dei soldati era passato da essere di 225 denari sotto Augusto, 550 sotto Settimo Severo a 750 sotto Caracalla. La liquidazione era passata da 3.000 denari sotto Augusto a 5.000 denari sotto Caracalla. Inoltre, i veterani al concedo ricevevano un appezzamento di terra e a cadenza saltuaria numerosi donativi. Solitamente, i veterani entravano a far parte dello strato sociale superiore nelle località in cui decidevano di abitare, spesso prossime agli accampamenti in cui avevano risieduto durante il servizio. L’instabilità diffusa conferì grande potere all’esercito e la necessità di combattere su più fronti determinò il rafforzamento dei reparti di cavalleria. 7) Da quali fenomeni giuridici, sociali ed economici furono investiti i ceti subalterni nel III secolo d.C.? Le masse lavoratrici furono oberate dal peso fiscale e dall’aumento dei prezzi dovuto all’inflazione. L’editto di Caracalla del 212 d.C. aveva eliminato le differenze giuridiche tra italici e provinciali, ma allo stesso tempo aveva accresciuto la pressione fiscale. Si ebbe una netta diminuzione della schiavitù, tuttavia, in parallelo alla formazione dei grandi latifondi (appartenenti all’imperatore e alla sua famiglia o a ricchi cittadini di ordine senatorio o equestre), iniziò a diffondersi il colonato, che si basava sullo sfruttamento dei contadini di stato libero, ma vincolati alla terra da contratti vessatori. Mentre nei strati agiati continuava ad esserci mobilità sociali, per i ceti subalterni vi fu un appiattimento della loro condizione. Cap. 21 1) In che cosa consisteva la svolta istituzionale che subì l’impero romano a partire dalla fine del III secolo d.C. e che i moderni sono soliti chiamare “dominato”? Tale definizione deriva dal termine “dominus” che in latino significa “padrone”. In quest’epoca, infatti, il rapporto che tradizionalmente esisteva tra padrone e subalterni iniziò a regolamentare non solo le relazioni dell’imperatore con il vastissimo numero di schiavi e liberti alle sue dipendenze, ma anche con i suoi sudditi. I documenti ufficiali dell’epoca definiscono esplicitamente il sovrano come “dominus noster” (nostro padrone): si trattò dunque di una rivendicazione di potere spinta fino all’estremo, che richiedeva a tutti i cittadini dell’impero una dedizione totale. L’epoca del dominato è chiamata anche età tardoantica, un periodo che le recenti correnti storiografica non considerano più di decadenza, come avveniva in passato, ma di transizione con il mondo medioevale. 2) Si analizzi il processo genetico della tetrarchia, indicando chi furono i primi tetrarchi, da dove provenivano e quale ruolo sociale ricoprivano al momento della nomina. Salito al potere Diocleziano, egli comprese subito che per poter fronteggiare i problemi del vastissimo impero era necessario ricorrere alla delega del potere. Già nel 285 d.C. egli si associò Massimiano, al quale conferì il titolo di augusto, rendendolo a tutti gli effetti un coimperatore. Nel 293 d.C. ciascun augusto nominò un proprio cesare: Diocleziano scelse Galerio, Massimiano scelse Costanzo Cloro. I 4 coreggenti erano tutti ufficiali illirici di umili origini ma di comprovato valore militare. I due augusti tra loro si definivano fratelli e adottarono i rispettivi augusti. Inoltre, Galerio sposò Valeria (figlia di Diocleziano) e Costanzo Cloro sposò Teodora (figlia di Massimiano). Si venne quindi a creare una vera e propria famiglia, rinsaldata dai vincoli di adozione e matrimonio, che da sempre a Roma avevano cementato i sodalizi politici. Nacque così la tetrarchia (governo dei 4). 3) Quale impronta religiosa conferì Diocleziano al proprio regno e quale fu il successivo atteggiamento dei tetrarchi nei confronti della comunità cristiana? Diocleziano conferì al proprio regno un’impronta fortemente tetrarchica, includendo la valorizzazione della religione tradizionale, in particolare rinvigorendo il culto della principale divinità del pantheon romano, Giove Ottimo Massimo, che egli scelse come proprio nume tutelare. Analogamente, Massimiano si pose sotto la protezione di Ercole: tali associazioni consentirono ai 2 sovrani di fregiarsi rispettivamente degli epiteti di Giovio e Erculeo. L’esempio fu seguito anche dai due cesari: Galerio aderì al culto di Marte e Costanzo Cloro a quello del dio Sole. La politica religiosa dei tetrarchi si distinse dunque per il conservatorismo e la condizione di semi-divinità che caratterizzava i 4 sovrani. Questo, però, urtava la sensibilità dei cristiani, la cui comunità era crescita notevolmente grazie alla tolleranza che era stata garantita loro nel quarantennio della piccola pace. A partire dal 303 d.C. i tetrarchi misero in atto un’imponente campagna di governo contro i cristiani. Emanarono 4 editti che ordinavano di individuare i cristiani, obbligandoli a ripudiare la loro fede. Chi obbediva a tali disposizioni otteneva un certificato di abiura (libellus), mentre chi restava fedele al cristianesimo veniva incarcerato e giustiziato. La persecuzione fu ancora più dura di quella che era stata attuata da Decio e Valeriano, infatti, mentre essi si erano rivolti prevalentemente alle gerarchie ecclesiastiche, Diocleziano provocò l’eccidio dell’intera comunità cristiana (soprattutto in oriente), inoltre, furono chiusi i luoghi di culto e vennero confiscati i beni della chiesa. A lungo ci si è chiesti cosa spinse Diocleziano a questo repentino cambio di rotta, dopo 20 di convivenza pacifica. Innanzitutto, bisogna ricordare che i romani ritenevano che l’equilibrio del mondo fosse garantito dalla pax deorum (benevolenza degli dei) che la comunità si garantiva con l’ossequio della normativa religiosa, l’esecuzione di riti e sacrifici collettivi. Poiché i cristiani erano un gruppo dissenziente, che si rifiutava di partecipare a tali riti, si riteneva che essi turbassero la pax deorum, provocando la perdita della protezione divina. Inoltre, bisogna aggiungere ragioni squisitamente economiche: i beni di proprietà dei cristiani erano ormai divenuti molto consistenti e non è certo un caso che uno dei 4 editti dei tetrarchi impose la confisca dei patrimoni delle comunità cristiane. 4) Quando e tra quali contendenti fu combattuta la battaglia del ponte Milvio? La battaglia di Ponte Milvio fu combattuta nel 312 d.C. tra le armate di Massenzio (figlio di Massimiano) e quelle di Costantino (figlio di Costanzo Cloro). La battaglia fu vinta da Costantino e Massenzio trovò la morte. Secondo alcuni autori cristiani, alla vigilia di questa battaglia, Costantino avrebbe avuto la celebre visione, che lo avrebbe indotto a convertirsi e a combattere contro Massenzio in nome di Cristo. 5) Dove e da chi fu emanato l’editto che nel 313 d.C. costituì la vera svolta politica dell’impero? Quale principio di base affermava tale provvedimento? Nel 313 d.C. Costantino e Licinio emanarono il cosiddetto editto di Milano. Il provvedimento riaffermò la piena libertà di culto in tutto il territorio imperiale. Alla base della concezione teologica propagandata dai due imperatori rimaneva la volontà, tipicamente romana, di garantire la pax deorum: nel novero delle divinità di cui si richiedeva la benevolenza però ora era incluso anche il Dio dei cristiani. Di fondamentale importanza fu anche la decisione di restituire alle comunità cristiane i beni confiscati nelle precedenti persecuzioni: si trattò del primo accordo tra stato e chiesa. 6) Quali furono le riforme attuate da Diocleziano e Costantino nell’ambito militare? Diocleziano riorganizzò l’esercito costituendo unità militari mobili e indipendenti, da affiancare alle guarnigioni fisse di frontiera. I nuovi distaccamenti erano costituiti prevalentemente dalle vessillazioni, reparti di cavalleria di retroguardia, che agivano come unità di pronto intervento nei quadranti dell’impero in cui si verificavano incursioni di popolazione esterne. Tali reparti erano uniti ad alcuni corpi di cavalleria, tra cui si distinguevano i giovani (sotto la protezione di Giove) e gli ercolani (sotto la protezione di Ercole). L’insieme di queste truppe costituiva il nucleo dei COMITATENSI, che accompagnavano gli spostamenti dell’imperatore. Di stanza lungo i confini rimanevano invece le unità stabili, chiamate LIMITANEI (da limes), vere e proprie guarnigioni di linea, che avevano il compito di intercettare e rallentare le infiltrazioni nemiche, in modo che le retrovie potessero successivamente bloccarle in maniera definitiva. La distinzione tra unità mobili e stabili determinò un sensibile aumento del numero dei soldati. Costantino, dopo la battaglia di Ponte Milvio, abolì le coorti dei pretoriani che, come aveva dimostrato il caso di Massenzio, potevano agevolmente sfuggire al controllo imperiale e offrire sostegno agli usurpatori. D’altronde la presenza a Roma di un corpo armato così consistente era ormai ingiustificata, dal momento che i sovrani non risiedevano più nell’antica capitale. Al posto dei pretoriani, Costantino istituì un nuovo corpo di guardiani di palazzo, i PALATINI, che seguiva l’imperatore nei suoi spostamenti ed era formato prevalentemente da soldati originari del mondo non romano. Crebbe il fenomeno del cosiddetto “imbarbarimento delle truppe”, infatti, nell’epoca di Costantino il numero di barbari che militavano nell’esercito crebbe non solo nelle truppe ausiliarie, ma anche nei ruoli dell’ufficialità e nei reparti scelti dell’esercito, come i comitatensi. 7) Si descrivano i nuovi metodi di tassazione ordinaria e addizionale istituiti da Diocleziano e Costantino e se ne esaminino le conseguenze in campo economico e sociale. Già con Diocleziano, il rafforzamento delle spese militari determinò per le casse pubbliche un grave onere finanziari, che comportò riforme imponenti. In ambito fiscale fu introdotto un nuovo metodo universale di riscossione dei tributi, che venne esteso a tutti i territori dell’impero, consentendo di superare il precedente sistema basato sulle diversità regionali. Fino ad allora, infatti, l’Italia era rimasta formalmente esente dalle imposte fondiarie, l’Africa e l’Egitto avevano corrisposto un tributo in frumento, mentre altrove la tassa sul suolo veniva pagata in denaro. Il nuovo meccanismo si basava su unità astratte, denominate CAPITA, che venivano calcolate per ogni contribuente stimando tutti i beni in suo possesso: non solo terreni (il cui valore variava in base alla superficie e al tipo di coltivazione praticata) ma anche la manodopera, comprese le donne e gli schiavi, gli animali utilizzati in agricoltura, ecc. A seguito di questa riforma, fu possibile applicare ovunque un’imposta omogenea. Il calcolo dei capita consentiva al governo di conoscere meglio le risorse dell’impero e stilare un bilancio di previsione. Tuttavia, un limite di tale sistema fu che non teneva conto di variabili come le cattive annate di raccolto, le epidemie e gli effetti delle invasioni. Alle imposte ordinarie furono aggiunte altre tasse che si pagavano in circostanze particolari (es. in occasione degli anniversari di proclamazione degli imperatori). Tali tributi, seppur riscossi una tantum, equivalevano di fatto ad una forma di tassazione addizionale. Costantino, inoltre, aggiunse il CRISARGIRO, cioè una tassa sull’oro e sull’argento, che colpiva in particolar modo i commercianti. Tutte queste imposte, però, gravarono pesantemente sulle masse lavoratrici. 8) Qual era la suddivisione territoriale e amministrativa dell’impero romano agli inizi del IV secolo d.C.? L’intera estensione geografica fu distribuita in province, molto più piccole di quelle augustee, raggruppate regionalmente in distretti più ampi, detti DIOCESI. A capo di ogni diocesi vi era un funzionario, chiamato vicario, fra le cui mansioni spiccava la raccolta delle imposte. Ogni diocesi disponeva di una zecca imperiale, dove le entrate derivanti dal gettito fiscale venivano trasformate in nuove monete. Le province dell’Italia furono raggruppate in 2 vicariati: l’Italia Annonaria, che comprendeva le attuali Austri, Baviera e territori che gravitavano attorno alla pianura padana, i quali fornivano il rifornimento annonario agli eserciti sul fronte settentrionale; l’Italia Suburbicaria, comprendente i territori prossimi all’Urbe, comprese anche la Sicilia, la Sardegna e la Corsica. Agli inizi del IV secolo d.C. si contavano 12 diocesi e un centinaio di province. Costantino completò questa riforma raggruppando le diocesi in 4 macro aree chiamate PREFETTURE DEL PRETORIO. Pur avendo abolito il corpo dei pretoriani a Roma, l’imperatore infatti mantenne la carica di prefetti del pretorio, che diventarono 4, furono privati delle mansioni militari, ma ricevettero in cambio mansioni di carattere civile. Cap.22 1) Con che criterio furono scelti i successori di Costantino e quali orientamenti di politica religiosa assunsero? Alla morte di Costantino, nel 337 d.C. fu adottato il criterio dinastico per la successione. Infatti, il governo dell’impero venne tripartito nei figli: Costantino II ricevette la Britannia, la Gallia e la Spagna; Costante l’Italia, l’Africa e la Pannonia; Costanzo II l’Oriente. I tre, per evitare che qualcuno potesse contendere loro il potere, eliminarono tutti i parenti maschi (tranne i due nipoti di Costantino Gallo e Giuliano, che riuscirono a mettersi in salvo). Ben presto, però, anche tra i fratelli si accesero le ostilità: nel 340 d.C. Costantino II mosse guerra a Costante, ma fu ucciso in un’imboscata e Costante assunse il governo anche dei suoi territori. I due fratelli rimasti, anche se entrambi cristiani, aderivano a 2 concezioni diverse: Costante aderiva alla dottrina stabilita dal concilio di Nicea, mentre Costanzo II era seguace dell’arianesimo (dottrina fortemente rigorosa, contri i lapsi, cioè coloro che avevano abiurato durante il periodo di persecuzione dei cristiani). I due fratelli si trovano comunque d’accordo nel contrastare i culti pagani, infatti, nel 346 d.C. emanarono congiuntamente un editto che stabiliva la chiusura dei templi pagani e proibiva i sacrifici. 2) Si esamini il rapporto dell’imperatore Giuliano con il cristianesimo. Giuliano (salito al potere nel 361 d.C., in seguito alla morte di Costanzo II) era cresciuto nella segregazione della vita di corte dove, nonostante la rigida formazione cristiana, ebbe come precettori degli intellettuali pagani di spicco, da cui apprese i modelli etici e letterari della civiltà greco-romana. Disgustato dalle lotte fratricide degli eredi di Costantino, Giuliano maturò un progressivo distacco nei confronti del cristianesimo, del quale tutti i suoi parenti si dichiaravano adepti. Egli si guadagnò così il soprannome di apostata (cioè colui che ha abbandonato la fede cristiana). Divenuto imperatore, Giuliano cercò di ripristinare gli antichi culti politeistici, ma lo fece non perseguitando i cristiani, bensì estromettendoli dall’apparato statale (esercito e burocrazia) e dagli incarichi di insegnamento, nonché privandoli dei numerosi privilegi economici di cui avevano goduto sotto Costantino e i suoi successori. La scelta di Giuliano di abbandonare il cristianesimo è frutto di una vivacissima curiosità intellettuale dello stesso, che lo aveva avvicinato alla filosofia neoplatonica e al culto del Sole. Egli morì nel 363 d.C., dopo la vittoria inflitta ai persiani, per una ferita di freccia. 3) Quando si svolse la battaglia di Adrianopoli, chi combatté e con quali esiti? Nella battaglia di Adrianopoli (9 agosto 378 d.C.) l’esercito romano fu rovinosamente annientato dall’esercito dei Goti. Nella battaglia lo stesso imperatore Valente morì sul campo. Tale sconfitta determinò un vuoto di potere nel settore orientale dell’impero. Inizialmente Graziano resse anche i territori precedentemente governati dallo zio, poi si rese conto che era necessario condividere l’autorità imperiale anche al di fuori della propria famiglia. Per questo, nel 379 d.C. nominò augusto un esperto comandante militare di origine spagnole: Teodosio. Questi evitò lo scontro campale con i barbari e cercò di istigarli gli uni contro gli altri, insediandone larghi gruppi all’interno dell’impero. In particolare, nel 382 d.C. stipulò un trattato di alleanza con i Goti, che ricevettero la Mesia e la Tracia, che poterono governare in totale autonomia: esenti da imposte e liberi di seguire le proprie costumanze, essi mantennero infatti la propria struttura politica e sociale, dovendo solo fornire alcuni contingenti mercenari di rinforzo, che combattevano sotto propri comandanti, senza essere inquadrati nell’esercito romano. Erano, insomma, una sorta di “stato nello stato” e godevano di indubbi privilegi. 4) Quale politica estera perseguì Teodosio? Nel 389 d.C. Teodosio stipulò un importante trattato di pace con i persiani, che, pur assegnando ai rivali il sostanziale controllo dell’Armenia, evitò l’insorgere di conflitti tra i due imperi per tutto il V secolo d.C. 5) Qual era il contenuto dell’editto di Tessalonica e quali ne furono le conseguenze? Nel 380 d.C. Teodosio, Valentiniano II e Graziano emanarono l’editto di Tessalonica, in base al quale il cristianesimo (nella versione stabilita dal concilio di Nicea) divenne religione di Stato, parallelamente fu avviata la persecuzione dei seguaci dei culti pagani. Gli imperatori avevano subito l’influenza del carismatico vescovo di Milano Ambrogio, che predicava l’adozione di misure severe contro pagani e ariani. Di conseguenza, nel 382 d.C. Graziano rinunciò al titolo di pontefice massimo, visto che ormai da tempo il papa, vescovo di Roma, deteneva lo stesso titolo nell’ambito della religione cristiana. Inoltre, venne rimosso dalla Curia Giulia l’altare della Vittoria, presso il quale, fin dagli albori del principato, i senatori inauguravano le sedute con un sacrificio, in memoria della vittoria riportata da Ottaviano ad Azio. La decisione suscitò forti proteste nell’ambiente senatoriale romano, ultimo baluardo del paganesimo, tuttavia ben presto furono sedate. 6) In che cosa consiste la coercizione professionale e quali mestieri per primi coinvolse? Consisteva in un vincolo che lo Stato imponeva ai lavoratori, ossia quello di non abbandonare il proprio mestiere e di tramandarlo di padre in figlio (nel caso un lavoratore fosse morto senza prole, chiunque fosse subentrato nella sua proprietà doveva accollarsi l’onere del suo mestiere). Tale provvedimento venne emanato in prima istanza per quei mestieri che erano considerati di pubblica utilità, in particolare panettieri, produttori di carne ovina, bovina e suina, produttori di vino e mercanti che trasportavano prodotti alimentari via mare. 7) L’ordine senatorio nel IV secolo d.C.: numero dei membri, titoli, risorse patrimoniali. L’ordine senatorio nel IV secolo d.C. fu perlomeno triplicato. Infatti, si calcola che a Roma vi fossero circa 2.000 senatori e altrettanti nella nuova capitale Costantinopoli. Tutti costoro godevano di notevoli privilegi: erano esentati da oneri e tasse ordinarie, nei procedimenti penali non incorrevano in provvedimenti severi come la tortura, ma erano giudicati in tribunali speciali adatti al loro rango. I senatori erano però tenuti a rispettare alcuni obblighi: dovevano versare una tassa annuale sulla proprietà terriera e si dovevano impegnare nell’allestimento dei giochi pubblici della città di residenza. I senatori continuavano ad essere grandi proprietari terrieri. Lo sviluppo economico dell’impero tardo-antico, che mandò in rovina le piccole medie tenute agrarie, favorì la formazione dei grandi latifondi. Il consistente numero di senatori era però caratterizzato da forti differenze interne. In epoca valentiniana si fissarono nuove gerarchie: i senatori più potenti potevano fregiarsi del titolo di insigni, riservato a coloro che raggiungevano i vertici della carriera. Fra gli uffici più prestigiosi ve ne erano alcuni di antica istituzione come la prefettura urbana o i proconsolati di Asia, Africa e Acaia. Anche la prefettura del pretorio, dopo l’abolizione del corpo dei pretoriani ad opera di Costantino, era divenuta una magistratura civile di rango senatorio. Vi erano poi incarichi di nuova creazione, fra cui se ne distinguevano 4 che costituivano il nucleo del concistoro (consiglio privato dell’imperatore): il maestro degli uffici, una sorta di ministro dell’interno; il questore del sacro palazzo, il principale consulente imperiale in materia giuridica; il conte delle sacre elargizioni, corrispondente ad un ministro del tesoro e delle finanze; il conte del patrimonio privato, capo del dipartimento di sovraintendenza dei possedimenti privati del sovrano. Il ceto medio dei senatori era costituito dagli spettabili, titolo concesso ai vicari e ai governatori provinciali, le cui mansioni furono suddivise in civili (ricoperte da un preside) e militari (ricoperte da un duce). Tutti i senatori potevano invece indistintamente accedere all’appellativo di illustrissimi, che divenne ormai inflazionato e raggiungibile da chiunque avesse occupato anche solo posizioni minori. Probabilmente, l’alto numero di senatori fu dovuto anche al fatto che i cavalieri di rango più alto furono assorbiti dall’ordine senatorio, mentre l’ordine equestre cessò di fatto di esistere (i cavalieri ordinari di più basso rango, che rimanevano fuori dall’ordine senatorio, furono assorbiti nel ceto dei notabili locali). 8) Quali forme di asservimento furono praticate nel IV secolo d.C.? Nel corso del IV secolo d.C. si affermò sempre di più il colonato, il quale costringeva contadini, che sulla carta erano liberi, a non poter scegliere il luogo dove risiedere o la professione da esercitare ed erano inoltre obbligati a svolgere prestazioni lavorative (di conseguenza, anche la teoria giuridica smise di distinguere tra liberi e non-liberi). I coloni vennero legati giuridicamente alla terra che coltivavano e comprati o venduti assieme ad essa. Si affermò il fenomeno della adscriptio glebae (letteralmente “vincolo del podere”), che precorre, anche dal punto di vista terminologico, la servitù della gleba altomedioevale. Molti coloni divennero perciò “ascrittizi”, in quanto il loro nome era scritto nei registri catastali accanto a quello del podere agricolo in cui lavoravano. Essi non potevano rescindere i loro contratti e si vedevano aumentare gli obblighi di consegna ai proprietari: prodotti della terra, legna, fieno, ecc. Erano inoltre loro negati il diritto patrimoniale, l’accesso all’esercito e al clero, il matrimonio fuori dal proprio ambito sociale e il riposo domenicale. Cap. 22 1) Come fu spartito il governo dell’impero fra i successori di Teodosio? Nel 395 d.C. l’impero, secondo l’indicazione di Teodosio, fu spartito tra i suoi 2 figli: Arcadio governava l’oriente e Onorio l’occidente. Le due metà dell’impero restavano formalmente congiunte: i due sovrani emanavano leggi congiuntamente, il latino rimase la lingua ufficiale, continuavano ad essere eletti 2 consoli per entrambe le parti. Di fatto, però, le differenze tra 2 quadranti geografici erano notevoli: in oriente le condizioni economiche erano più favorevoli, qui sopravvisse la piccola e media proprietà terriera, il territorio era densamente popolato e non arrivano le minacce di invasione delle popolazioni barbariche; in occidente, invece, si produsse una profonda frattura tra stato e società, le continue invasioni rendevano i confini molto fragili, si diffuse ampiamente il latifondo e il fenomeno della deurbanizzazione. 2) Chi era Stilicone, quale carica detenne e quali legami intrattenne con la famiglia imperiale? Stilicone era un generale vandalo che ricopriva il ruolo di comandante capo della fanteria e della cavalleria. Costui fu posto dallo stesso Teodosio come tutore di Onorio, che quando era salito al trono aveva solo 11 anni. Per la prima volta nella storia romana di delineò una chiara dicotomia: l’imperatore si limitava a regnare, mentre un suo ministro si occupava nei fatti di governare in sua vece. Nonostante la sua origine semi-barbara, Stilicone entrò a pieno titolo nella famiglia imperiale: infatti, già prima della morte di Teodosio, egli si era sposato con Serena (nipote dell’imperatore e cugina di Arcadio e Onorio); inoltre, egli diede in sposa sua figlia Maria allo stesso Onorio. Nonostante tutti i servigi resi all’imperatore, egli verrà giustiziato nel 408 d.C. per ordine di quest’ultimo, in quanto era stato accusato di tradimento. 3) Quali saccheggi di Roma si verificarono nel V secolo d.C. e chi ne furono gli artefici? Nel 410 d.C. Roma fu saccheggiata per 3 giorni dai Visigoti guidati da Alarico. Fu poi nuovamente saccheggiata nel 455 d.C., questa volta ad opera dei Vandali guidati da Genserico, per ben 2 settimane. 4) Si commentino la presenza di Attila in Italia e la sua breve parabola di conquista. Ezio (ufficiale di origine gotica, comandante capo della cavalleria e della fanteria, tutore di Valentiniano III) per contrastare i diversi nuclei barbarici attivi nel quadrante dell’impero, si appoggiò agli Unni che ottennero lo statuto di federati: vennero così scacciati i Burgundi dall’area renana e i Visigoti subirono un ridimensionamento. Inizialmente, Ezio assegnò agli Unni la Pannonia (odierna Ungheria), a partire dalla quale essi crearono un enorme organismo territoriale sovranazionale con a capo il loro re Attila. Seguaci del paganesimo, gli Unni non rimasero a lungo fedeli all’alleanza con i romani e perseguirono una politica aggressiva ai danni di entrambi le parti dell’impero. Dopo essersi rivolti contro l’Oriente e aver saccheggiato i Balcani, giungendo alle porte di Costantinopoli, essi attaccarono la Gallia, ma subirono una battuta d’arresto. Infatti, nel 451 d.C. vennero sconfitti ai Campi Catalaunici da una coalizione di romani e altri barbari federati, guidati dallo stesso Ezio. L’anno successivo, nel 452 d.C., Attila decise di invadere l’Italia: assediò Aquileia e Milano. Tuttavia, l’armata unna era stremata, perciò, dopo il celebre incontro di Attila con Valentiniano III e papa Leone I, il sovrano barbaro si convinse abbandonare il suolo italico. L’anno dopo, nel 453 d.C., Attila morì e il suo regno si dissolse con la stessa rapidità con il quale si era formato. 5) Quando e in quali circostanze avvenne la deposizione di Romolo Augustolo? In seguito alla morte di Valentiniano III ed Ezio, l’autorità imperiale d’occidente rimase in piedi per altri 20 anni, durante i quali si succedettero circa una decina di sovrani. Tuttavia, gli imperatori, molti dei quali saliti al trono come usurpatori, riuscirono a malapena a controllare i territori italici e le province contigue. Nel 475 d.C., il comandante capo della cavalleria e della fanteria Flavio Oreste scacciò il legittimo imperatore Giulio Nepote (riconosciuto anche dal collega d’oriente Zenone) e al suo posto insediò suo figlio ancora adolescente, Romolo Augustolo. Ben presto, però, le truppe barbariche stanziate in Italia si ribellarono al nuovo sovrano e a suo padre: nel 476 d.C., il capo degli Eruli, Odoacre, fece uccidere Oreste e depose Romolo Augustolo, inviando le sue insegne imperiali a Costantinopoli. Odoacre non poteva ambire a diventare imperatore, in quanto non aveva la cittadinanza romana, perciò, si accontentò del titolo di re delle milizie barbariche conferitogli da Zenone. L’impero romano d’occidente, ormai esauritosi da alcuni decenni, concluse anche formalmente la sua esistenza. 6) I fenomeni delle proprietà private protette e del patrocinio: se ne descrivano le modalità, le cause e le conseguenze. In età tardo-antica, molte tenute agricole senatorie erano divenute entità politiche ed economiche indipendenti, veri e propri nuclei autarchici. A differenza del passato, i proprietari terrieri tendevano ora a risiedere sempre più stabilmente nei loro latifondi, dove esercitavano di fatto i poteri dello stato: potevano infatti giudicare di persona i coloni o nominare i giudici a proprio arbitrio, imporre punizioni corporali e perfino condannare a morte. Molti latifondisti occidentali provvedevano direttamente alla difesa dei loro possedimenti, armando di tasca propria il personale. Erano queste le proprietà private protette. A tale fenomeno si associò quello del patrocinio. Si trattava di una forma di fuga dalla pressione fiscale operata da singoli, famiglie e intere comunità, che si ponevano sotto la protezione di una persona influente, spesso un grande proprietario terriero. Questi veniva ripagato con prodotti agricoli o denaro, da prima in qualità di dono, poi a titolo di regola imposta. Tra i grandi proprietari terrieri e gli strati inferiori si determinò così una comunanza di interessi ai danni dello Stato, infatti, tale fenomeno implicò un’ampia insolvenza fiscale. 7) Il rapporto dei romani con i barbari in età tardo antica: si analizzino le fasi della sua evoluzione. In epoca tardo-antica le forme di compartecipazione civile e militare tra barbari e romani furono favorite dalla comune adesione ad un sistema di valori etici e religiosi condivisi, rappresentato dal cristianesimo. La fede comune tra romani e barbari agì come fattore di coesione e determinò la caduta di un’antica barriera ideologica, che individuava questi ultimi come il “nemico naturale”. In precedenza, finché era rimasto in vigore il sistema di valori della mos maiorum, un confine invalicabile separava romani e non-romani. Nell’ottica tradizionale i barbari non erano una razza o una specie diversa, semplicemente erano visti come in una condizione inferiore, una sorta di umanità incompleta, in quanto essi erano privi di determinate prerogative: non utilizzavano una lingua conosciuta ai più, non usavano la scrittura, non erano organizzati politicamente e non aderivano al modello urbano. Tutti fattori che, invece, contraddistinguevano la civiltà greco-romana. Nella fase conclusiva della storia dell’impero romano d’occidente, invece, l’etica e la religione condivise favorirono processi di osmosi: di conseguenza, non furono più i barbari ad essere percepiti come nemici, ma gli apparati statali. In realtà, l’organismo statale nel quale i romani e i barbari riuscirono a convivere all’insegna della comune fede cristiana non risultò essere l’impero romano d’occidente, bensì i nascenti regni romano-barbarici. 8) Si illustrino le diverse ipotesi di datazione per la fine del mondo antico e l’inizio del Medioevo. Molti sono gli avvenimenti che i moderni hanno individuato per indicare la fine dell’età antica: - Il trasferimento della capitale a Costantinopoli nel 330 d.C.; - Il riconoscimento del cristianesimo come religione di stato nel 380 d.C.; - La divisione dell’impero tra i due figli di Teodosio, Onorio e Arcadio nel 395 d.C.; - Il sacco di Roma ad opera dei Visigoti nel 410 d.C.; - La deposizione di Romolo Augustolo nel 476 d.C.; - La discesa dei Longobardi in Italia nel 568 d.C.; - L’espansione araba nel Mediterraneo tra il VII e VIII secolo d.C. In realtà, è proprio questa pluralità di date a indicare come l’idea di un passaggio brusco e repentino sia del tutto artificiosa. Il cosiddetto mondo medioevale non nacque da una cesura netta con quello precedente, bensì il tardo-antico fu quel lungo periodo di transizione che portò alla genesi, tra continuità e innovazione, di quei nuovi stati nazionali medioevali.