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economia del lavoro

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Riassunti di Economia
del Lavoro
George J. Borjas
22/01/2013
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OFFERTA DI LAVORO
L’offerta di lavoro dell’economia nel suo complesso è data dalla somma delle scelte di lavoro di ogni
individuo della popolazione in ciascun istante. Nel modello di scelta “lavoro/tempo libero” le variabili
chiave sono il salario e il reddito.
Misurare la forza lavoro
Un individuo partecipa alla forza lavoro se lui o lei è occupato o disoccupato. La dimensione della forza
lavoro (FL) è data quindi, dalla somma tra disoccupati, U e occupati, E.
FL = E + U
Il tasso di partecipazione alla forza lavoro o tasso di attività è la percentuale della popolazione, di 15 anni
o più) che fa parte della forza lavoro ed è definita dal rapporto tra la forza lavoro (FL) e la popolazione (P). Il
tasso di occupazione è, invece, la percentuale della popolazione di età uguale o maggiore di 15 anni che è
occupata, ed è data dal rapporto tra gli occupati, E e la popolazione, P. Infine, il tasso di disoccupazione è la
percentuale dei partecipanti alla forza lavoro che sono disoccupati o in cerca di occupazione, ed è dato dal
rapporto tra il numero di disoccupati, U e il totale della forza lavoro, FL. Per essere considerato disoccupato
un individuo, di età compresa tra i 15 e i 64 anni, deve aver svolto almeno un’azione di ricerca nelle 4
settimane precedenti, e deve essere disposto a lavorare entro le 2 settimane successive. Gli individui che
invece hanno rinunciato o smesso di cercare lavoro non sono considerati disoccupati, ma fuori dalla forza
lavoro. Il tasso di occupazione presenta l’inconveniente di raggruppare gli individui che dicono di essere
disoccupati con quelli considerati fuori dalla forza lavoro.
Le preferenza del lavoratore
Lo schema analitico classico che gli economisti usano per analizzare il comportamento dell’offerta di lavoro
si chiama modello neoclassico della scelta lavoro/tempo libero. Il modello isola i fattori che determinano
se un particolare individuo lavora e, se lo fa, quante ore decide di lavorare. La funzione di utilità trasforma il
consumo di beni e tempo libero di una persona in un indice U che misura il livello individuale di
soddisfazione o felicità.
U=f(C,L)
Dove C è il consumo di beni e L il tempo libero. Combinazioni diverse di consumo e ore di tempo libero
portano allo stesso livello di utilità. Il luogo di questi punti si chiama curva di indifferenza. Le curve di
indifferenza hanno quattro importanti proprietà: sono inclinate verso il basso; curve di indifferenza più alte
indicano livelli più alti di utilità; non si intersecano; sono convesse rispetto all’origine.
L’utilità marginale del tempo libero (MUl) è definita come la variazione di utilità che deriva da un’ora in più
dedicata al tempo libero, tenendo costante la quantità di beni consumati. L’utilità marginale del consumo
(MUc), al contrario, è definita come la variazione di utilità di chi consuma un euro in più di beni,
mantenendo costante il numero di ore dedicate al tempo libero. L’inclinazione della curva di indifferenza
misura il tasso a cui un individuo è disposto a rinunciare ad un po’ di tempo libero per consumare più beni,
mantenendo costante l’utilità. Il suo valore assoluto è chiamato tasso marginale di sostituzione (MRS) del
consumo, ed è dato dal rapporto delle utilità marginali.
MRS = - MUl/ MUc
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L’ipotesi di convessità implica che il tasso marginale di sostituzione sia decrescente.
Il vincolo di bilancio
Il consumo di beni e tempo libero di una persona è vincolato sia dal suo tempo che dal suo reddito. La parte
del reddito dell’individuo che non dipende dal numero di ore che lavora è chiamata reddito non da lavoro.
Il vincolo di bilancio dell’individuo può essere scritto come:
C=wH+V
Dove w rappresenta il salario orario e h il numero di ore che l’individuo offre sul mercato del lavoro. Se il
salario è costante, è facile tracciare il suo vincolo di bilancio. L’individuo ha due usi alternativi del suo
tempo: lavoro o tempo libero. Il tempo totale dedicato ad ognuna di queste attività deve essere uguale al
tempo totale disponibile in quel periodo, diciamo T ore alla settimana, così che T = L + h. Possiamo quindi
riscrivere il vincolo di bilancio come :
C = ( wT + V ) – wL
Quest’ultima equazione rappresenta una retta e l’inclinazione è il negativo del salario, -w. Questa retta
prende il nome di retta di bilancio. I panieri di consumo e tempo libero che si trovano sotto la retta di
bilancio sono accessibili al lavoratore. La retta di bilancio, quindi, delinea la frontiera del set di opportunità
del lavoratore, l’insieme di tutti i panieri di consumo che un lavoratore può permettersi di comprare.
La decisione sulle ore di lavoro
Facciamo l’ipotesi che l’individuo scelga la particolare combinazione di beni e tempo libero che rende
massima la sua utilità. Questo significa che sceglierà il livello di beni e tempo libero che gli permette di
raggiungere il livello più alto possibile di utilità date le limitazioni imposte dal vincolo di bilancio. Il consumo
ottimo di beni e tempo libero è dato dal punto in cui la retta di bilancio è tangente alla curva di
indifferenza. Al livello di consumo e tempo libero scelto, il tasso marginale di sostituzione, cioè il tasso al
quale un individuo è disposto a rinunciare a ore di tempo libero per un po’ di consumo in più, è uguale al
salario, cioè il tasso al quale il mercato consente al lavoratore di sostituire un’ora di tempo libero con il
consumo.
MRS = MUl / MUc = w
La soluzione di tangenza indica che con l’ultimo euro speso in attività di tempo libero si compra lo stesso
numero di unità di utilità dell’ultimo euro speso in beni di consumo. Un aumento del reddito non da lavoro,
a parità di salario, espande il set di opportunità del lavoratore attraverso uno spostamento parallelo della
retta di bilancio. L’impatto della variazione del reddito non da lavoro sulle ore di lavoro è chiamato effetto
reddito. Un lavoratore che guadagna molto vuole godersi il suo ricco reddito e consumare più tempo libero.
Nello stesso tempo però, il suo tempo libero è molto costoso e quindi non può permettersi di togliere
tempo al lavoro. L’aumento del salario genera quindi due effetti: aumenta il reddito del lavoratore e
aumenta il prezzo del tempo libero. Lo spostamento al nuovo punto di equilibrio si può scomporre in due
tempi. L’effetto reddito varia il reddito del lavoratore, mantenendo costante il salario, isolando così, la
variazione nel paniere di consumo indotta da un reddito maggiore generato da un aumento del salario. Il
secondo spostamento è chiamato effetto sostituzione e mostra quello che accade al paniere di consumo
del lavoratore se il salario aumenta mantenendo costante l’utilità. L’aumento del salario, mantenendo
costante il reddito reale, aumenta le ore di lavoro. In conclusione, un aumento del salario aumenta le ore di
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lavoro se l’effetto sostituzione domina sull’effetto reddito, e le riduce se l’effetto reddito domina
sull’effetto sostituzione.
Lavorare o non lavorare?
Il salario di riserva è l’aumento minimo del reddito che ci rende indifferenti tra rimanere nel punto della
dotazione iniziale e lavorare la prima ora. La decisione di lavorare dipende dal confronto tra il salario di
mercato, che indica quanto un’impresa intende pagare un’ora di lavoro, e il salario di riserva, che indica
quanto il lavoratore richiede per lavorare la prima ora. Un aumento del salario di un non-lavoratore non
genera effetto reddito. L’aumento del salario rende semplicemente più costoso il tempo libero e di
conseguenza è più probabile far entrare il non-lavoratore nella forza lavoro.
La curva di offerta di lavoro
La relazione prevista dalla teoria tra ore di lavoro e salario si chiama curva di offerta di lavoro. All’inizio
l’offerta di lavoro è inclinata positivamente e le ore e i salari crescono insieme. Non appena il salario
aumenta sopra una certa soglia, domina l’effetto reddito e le ore di lavoro diminuiscono al crescere del
salario, creando un segmento della curva di offerta di lavoro che ha un’inclinazione negativa. La curva di
offerta aggregata nel mercato del lavoro è data dalla somma delle ore che tutte le persone sono disposte a
lavorare a quel dato salario ed è ottenuta sommando orizzontalmente le curve di offerta di tutti i lavoratori.
Per misurare la risposta delle ore di lavoro alle variazioni del salario, definiamo l’elasticità dell’offerta di
lavoro come il rapporto tra la variazione percentuale delle ore di lavoro e la variazione percentuale del
salario. L’elasticità dell’offerta di lavoro dà la variazione percentuale delle ore di lavoro associata ad una
variazione dell’ 1% del salario. Il segno dell’elasticità dell’offerta di lavoro dipende dal fatto che la curva di
offerta di lavoro è inclinata positivamente o negativamente e quindi è positivo quando domina l’effetto
sostituzione ed è negativo quando domina l’effetto reddito. Quando l’elasticità dell’offerta di lavoro è
inferiore a 1 in valore assoluto, la curva di offerta di lavoro è detta inelastica, ovvero c’è una piccola
variazione nelle ore di lavoro per una data variazione di salario. Se invece è maggiore di 1 in valore
assoluto, le ore di lavoro sono fortemente influenzate da una variazione del salario, e l’offerta di lavoro è
detta elastica.
L’offerta di lavoro femminile
Le variazione del salario hanno avuto un ruolo decisivo nell’aumento della partecipazione femminile al
mercato del lavoro. In particolare, quando il salario aumenta, le donne che non lavorano hanno un
incentivo a ridurre il tempo che dedicano al settore domestico e sono più disposte ad entrare nel mercato. I
tassi di partecipazione femminile sono stati influenzati anche dai cambiamenti tecnologici nei processi di
produzione domestica che fanno risparmiare tempo. Hanno giocato un ruolo importante, inoltre, anche
l’evoluzione della cultura e delle leggi per le donne che lavorano, come pure le crisi sociali ed economiche.
La maggior parte degli studi sull’offerta di lavoro femminile trova una correlazione positiva tra le ore di
lavoro di una donna e il suo salario, cioè possiamo dire che per le donne che lavorano l’effetto sostituzione
domina l’effetto reddito. Per effetto degli enormi cambiamenti negli ultimi decenni, l’offerta di lavoro
femminile è percepita come più elastica dell’offerta di lavoro degli uomini. Essa risponde principalmente ai
fattori economici che riguardano la decisione se lavorare oppure no, piuttosto che la scelta del numero di
ore da offrire una volta entrata nella forza lavoro.
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OFFERTA DI LAVORO NEL TEMPO, PRODUZIONE FAMILIARE E NATALITA’
Il modello statico dell’offerta di lavoro non fornisce una spiegazione completa di come allochiamo il nostro
tempo. Dopo tutto noi prendiamo decisioni sull’offerta di lavoro in continuazione nel corso della vita. Le
nostre decisioni di oggi influenzano le opportunità economiche del futuro e sono ovviamente influenzate
dalle decisioni che abbiamo preso nel passato.
L’offerta di lavoro nel ciclo vitale
Poiché le decisioni sul consumo di beni e tempo libero sono prese durante tutta la vita lavorativa, i
lavoratori possono scambiare un po’ di tempo libero oggi per avere un po’ di consumo domani. Molti dati
suggeriscono che il tipico profilo età-guadagni della vita di un lavoratore abbia un percorso prevedibile: i
salari sono bassi quando il lavoratore è giovane, più alti in età matura, raggiungono un picco a 50 anni e si
mantengono stabili o si riducono leggermente dopo i 50. Una variazione nel salario del profilo età-guadagni
è chiamata variazione salariale evolutiva, perché indica come i salari di un particolare lavoratore si
evolvono nel tempo. La variazione salariale evolutiva non ha alcun tipo di impatti sul reddito totale della
vita del lavoratore. Questo modello di offerta di lavoro nel ciclo vitale implica che le ore di lavoro e il salario
dovrebbero muoversi insieme nel tempo per un particolare lavoratore. Questa implicazione differisce da
quanto affermato nel modello statico dove un aumento del salario genera sia effetti di reddito che di
sostituzione e che ci dovrebbe essere una relazione negativa tra salari e ore di lavoro se dominano gli effetti
di reddito. Nel modello statico, un aumento del salario espande il set delle opportunità del lavoratore e
quindi crea un effetto reddito che aumenta la domanda di tempo libero. Nel modello del ciclo vitale, una
variazione salariale evolutiva non varia il reddito totale disponibile nella vita di un particolare lavoratore e
lascia intatto il suo set delle opportunità nell’arco del ciclo della vita. Al contrario se confrontassimo de
lavoratori con diversi profili età guadagni, le differenze nelle ore di lavoro di questi due lavoratori
sarebbero influenzate sia da effetti reddito che da effetti sostituzione. Per ipotesi il salario di A è superiore
al salario di B in ogni età. Sebbene sia A che B lavorino più ore quando il salario è elevato, A lavora più ore
di B solamente se domina l’effetto sostituzione. Se dominasse l’effetto reddito, A lavorerebbe meno ore di
B. Il modello del ciclo vitale suggerisce anche un legame tra i salari e i tassi di partecipazione alla forza
lavoro. Dato che è più probabile che un individuo entri nel mercato del lavoro quando il salario è elevato, i
tassi di partecipazione sono bassi per i giovani, alti per i lavoratori nei primi anni lavorativi, e ancora bassi
per i lavoratori anziani. La variazione teorica che gli individui allocano il loro tempo nel ciclo vitale in modo
da trarre vantaggio dalle variazioni del prezzo del tempo libero è chiamata ipotesi di sostituzione
intertemporale.
L’offerta di lavoro nel ciclo economico
Il lavoratore adegua la sua offerta di lavoro anche alle opportunità economiche indotte dai cicli economici.
L’effetto del lavoratore aggiunto fornisce un possibile meccanismo che spiega la relazione tra ciclo
economico e tasso di partecipazione alla forza lavoro. In base a questa ipotesi, quando il reddito familiare
diminuisce a causa di una recessione, i cosiddetti lavoratori secondari che sono al momento fuori dal
mercato, come i giovani e le madri di figli piccoli, cercano lavoro per compensare le perdite. Per effetto del
lavoratore aggiunto quindi, il tasso di partecipazione alla forza lavoro dei lavoratori secondari ha un
andamento anti-ciclico, cioè si muove in direzione opposta rispetto al ciclo economico. Un’altra relazione
tra ciclo economico e tassi di partecipazione alla forza lavoro può verificarsi a causa dell’effetto del
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lavoratore scoraggiato. Molti disoccupati, a causa della recessione, trovano impossibile cercare un lavoro e
interrompono la ricerca. In questo caso, il tasso di partecipazione ha un andamento pro-ciclico. In base ai
dati, nella maggior parte dei casi domina l’effetto del lavoratore scoraggiato; ma in paesi dove le ore di
lavoro sono più flessibili e dove è meno costoso entrare ed uscire dal mercato del lavoro, prevale il
lavoratore aggiunto.
La produzione della famiglia
Quello che chiamiamo tempo libero è in realtà una forma di lavoro quando lo usiamo per produrre beni in
casa o sul settore non di mercato, come la cura dei figli, cucinare e pulire la casa. A differenza delle ore
dedicate al mercato del lavoro, le ore dedicate al lavoro familiare non portano maggiori guadagni.
Considerate una famiglia di due persone marito e moglie. Per acquistare beni sul mercato, la famiglia ha
bisogno di denaro e l’unico modo per avere denaro è entrare nel mercato del lavoro. La funzione di
produzione della famiglia ci dice quanto output domestico devono generare per ogni data allocazione di
tempo. Probabilmente avranno capacità differenti nel produrre beni nel settore domestico e le loro
funzioni di produzione potrebbero essere diverse. Per ipotesi, il marito ha un salario di 20€ all’ora. Se
dedicasse tutte le 10 ore disponibili al lavoro guadagnerebbe 200€ per acquistare beni di mercato. La
moglie invece ha un salario di 15€ e se dedicasse tutto il tempo al lavoro potrebbe acquistare 150€ di beni.
Il prodotto marginale nel settore domestico è, invece, per il marito 10€ al’ora, e per la moglie 25€ all’ora. Se
dedicassero il loro tempo interamente al settore domestico otterrebbero, rispettivamente, 100€ e 250€ di
output. Questi estremi rappresentano i vincoli di bilancio dei due individui da single, all’interno dei quali
possono prendere le proprie decisioni di produzione. Se si sposassero, non sarebbero vincolati da queste
linee di bilancio ma il loro set di opportunità si espanderebbe perché ognuno potrebbe specializzarsi nel
settore nel quale è più produttivo.
Nel punto E marito e moglie dedicano tutto il loro tempo nelle attività domestiche. Se decidono di
acquistare beni di mercato, il marito va a lavorare perché è più produttivo sul mercato del lavoro,
spostandosi sul segmento di frontiera delle opportunità FE, dove la moglie dedica tutto il suo tempo
disponibile al settore domestico. Una volta esaurite tutte le ore disponibili del marito, se vogliono
acquistare altri beni, allora la moglie va a lavorare generando il segmento di frontiera GF. Il set domestico
delle opportunità è delineato dalla frontiera GFE. Una famiglia che massimizza l’utilità sceglie il punto sulla
più alta curva di indifferenza. Vi sono tre possibili soluzioni: lavora solo il marito e la moglie dedica tutto il
suo tempo al settore domestico; il marito lavora e la moglie si divide tra i due settori; e infine la moglie
dedica tutto il suo tempo al settore domestico e il marito si divide tra i due settori. Il nostro esempio
suggerisce che le differenze del salario di mercato tra i membri di una famiglia giocano un ruolo importante
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nel determinare l’allocazione del lavoro all’interno di essa. In particolare, maggiori tassi di salario creano
incentivi per specializzarsi nel settore di mercato. L’aumento del salario reale delle donne ha fatto crescere
il numero delle famiglie nelle quali il salario della moglie è uguale o superiore a quello del marito. Questa
riduzione del divario del salario riduce gli incentivi per la specializzazione. Inoltre, i cambiamenti tecnologici
nella produzione domestica riducono anche le differenze tra il prodotto marginale del marito e della
moglie.
Natalità
Le decisioni di natalità fatte dalle famiglie giocano un ruolo chiave nel determinare l’offerta di lavoro nel
lungo periodo. L’analisi economica della natalità risale agli studi del reverendo Thomas Malthus. Nella
visione di Malthus quando i redditi aumentano, uomini e donne si sposano in giovane età e fanno nascere
più figli. Le risorse naturali, però, non sono sufficienti a sostenere la nuova popolazione più ampia e quindi i
redditi tornano ad abbassarsi. Il risultato Malthusiano secondo cui i redditi tornano sempre al loro livello di
sussistenza, è basato su una correlazione positiva tra reddito e natalità. Il modello maltusiano della
natalità ha però sbagliato le previsioni sul reale comportamento della natalità nelle moderne economie.
Quando aumenta il reddito procapite, i tassi di natalità in realtà diminuiscono. La moderna analisi
economica della decisione di natalità generalizza il modello di Malthus mettendo in evidenza che la natalità
delle famiglie dipende non solo dai redditi, ma anche dai prezzi.
Le attività di consumo della famiglia sono vincolate dal reddito, I. Pn è il prezzo dei bambini e Px il prezzo
dei beni. L’utilità della famiglia dipende dal numero di bambini e dal consumo di beni. Una famiglia che
massimizza l’utilità sceglie il punto P e decide di avere 3 figli. I costi dell’avere figli non includono solo le
spese per fornire le necessità della vita, ma anche i guadagni perduti quando uno dei due genitori si ritira
dalla forza lavoro o riduce le sue ore lavorative. Un aumento del salario avrà un impatto notevole sulla
scelta del numero di figli. L’aumento del reddito sposta la retta di bilancio verso l’alto e sposta il paniere
ottimo da P a R dove la famiglia sceglie di avere 3 figli. Quanti figli desideriamo dipende però anche dai
prezzi. Un aumento del costo dei figli ruota la retta di bilancio verso l’interno riducendo la domanda di figli
dal punto P al punto R dove la famiglia vuole avere un solo figlio. Questo spostamento può essere
scomposto nei corrispondenti effetto reddito e effetto sostituzione. Per l’effetto reddito il reddito reale
diminuisce portando la richiesta di figli da 3 a 2 (da P a Q). L’aumento del prezzo dei figli, però, spinge la
famiglia a sostituire il bene più costoso con i beni più convenienti. L’effetto sostituzione riduce la domanda
di figli da 2 a 1. Molti studi hanno dimostrato che esiste una correlazione molto negativa tra il salario di una
donna e il numero di figli che avrà. Infatti, mantenendo costanti gli altri fattori, un aumento del salario della
donna riduce la domanda di figli. I governi sanno che le decisioni di natalità delle famiglie rispondono ai
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prezzi e ad altri incentivi economici e in vari casi hanno messo in atto politiche per modificare le decisioni di
natalità come sussidi fiscali e servizi alla famiglia. In Italia il declino della natalità è continuato più a lungo
che altrove per la mancanza di politiche di conciliazione tra la famiglia e il lavoro, e di supporto economico
alle famiglie numerose.
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DOMANDA DI LAVORO
I risultati che si ottengono sul mercato del lavoro non dipendono solo dalla volontà dei lavoratori di offrire il
loro tempo per il lavoro, ma anche dalla disponibilità delle imprese ad assumerli. Le imprese assumono
lavoratori perché i consumatori vogliono acquistare beni e servizi, e usano i lavoratori per produrli. La
domanda di lavoro è una domanda derivata dalle necessità e dai desideri dei consumatori. I lavoratori sono
diversi dagli altri fattori produttivi per molti aspetti. Hanno a cuore le condizioni di lavoro e sono influenzati
da varie determinanti come, ad esempio, i salari minimi, i sussidi e le limitazioni sui licenziamenti.
La funzione di produzione
La funzione di produzione descrive la tecnologia che l’impresa usa per produrre beni e servizi. Il prodotto
finale dell’impresa, q, è dato da:
q=f(E,K)
dove E è il numero di ore/uomo impiegato dall’impresa e K il capitale investito. La funzione di produzione
individua quanto è prodotto da ciascuna combinazione di lavoro e capitale. Il numero di ore/uomo è dato
dal prodotto del numero dei lavoratori assunti per il numero medio delle ore lavorate per ogni individuo.
Nella funzione di produzione i lavoratori possono essere aggregati in un unico fattore chiamato “lavoro”,
anche se sono molto eterogenei tra loro. Il prodotto marginale del lavoro (MPe) è definito come la
variazione del prodotto finale che deriva dall’assunzione di un lavoratore in più, mantenendo costanti le
quantità degli altri fattori. Il prodotto marginale del capitale (MPk) è definito come la variazione del
prodotto finale che deriva dall’aumento di un’unità dello stock di capitale, mantenendo costanti le quantità
degli altri fattori. La curva del prodotto totale descrive cosa accade al prodotto finale quando l’impresa
assume più lavoratori ed è inclinata verso l’alto. L’inclinazione della curva è data dal valore del prodotto
marginale del lavoro. Secondo la legge dei rendimenti decrescenti, quando il livello di capitale è fisso, il
prodotto marginale del lavoro diminuisce: i primi lavoratori assunti possono aumentare di molto il prodotto
finale perché possono specializzarsi in compiti definiti con precisione. Quanti più lavoratori vengono
aggiunti allo stock fisso di capitale tanto più i guadagni della specializzazione si riducono e si riduce il
prodotto marginale dei lavoratori. Il prodotto medio del lavoro (APe) è la quantità di output prodotta dal
lavoratore tipo. La curva marginale sta sopra la curva media quando la curva media è crescente, e sotto
quando è decrescente. Questo implica che la curva marginale interseca la curva media nel suo punto di
massimo. L’obiettivo dell’impresa è di massimizzare i suoi profitti che sono dati da:
profitti = pq – wE – rK
dove p è il prezzo al quale l’impresa vende il prodotto finale, w è il salario e r è il prezzo del capitale.
Un’impresa che non può influenzare i prezzi è definita impresa perfettamente concorrenziale. Dato che
non può influenzare i prezzi, tale impresa massimizza i profitti impiegando la giusta quantità di lavoro e
capitale.
La decisione di occupazione nel breve periodo
Nel breve periodo lo stock di capitale dell’impresa non ha il tempo di cambiare, ed è fisso ad un certo
livello, K0. Per ottenere il valore in euro di ciò che ogni lavoratore produce, possiamo moltiplicare il
prodotto marginale del lavoro per il prezzo dell’output:
VMPe = p * MPe
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Questa quantità è chiamata valore marginale del prodotto del lavoro e rappresenta l’aumento in euro dei
ricavi generati dal lavoratore addizionale, mantenendo il capitale costante. Il valore del prodotto medio dà
invece, il valore in euro dell’output per ogni lavoratore, ed è dato da:
VAPe = p * APe
L’impresa che massimizza il profitto assume lavoratori fino al punto in cui il salario uguaglia il valore del
prodotto marginale del lavoro. Nel punti in cui massimizza il profitto, il beneficio marginale che ricava
dall’assumere un lavoratore in più uguaglia il costo di assumerlo e all’impresa non conviene espandersi
ulteriormente perché il valore dell’assunzione di altri lavoratori diminuisce. La legge dei rendimenti
decrescenti pone dei limiti alla dimensione dell’impresa. l’impresa competitiva non ha alcuna influenza sul
salario e, di conseguenza, può solo decidere il suo livello di occupazione così che il valore del prodotto
marginale del lavoro sia uguale al salario predeterminato. La curva di domanda di lavoro nel breve periodo
ci dice che cosa accade all’occupazione dell’impresa quando il salario varia, mantenendo costante il
capitale. Essa è data dalla curva del valore del prodotto marginale; poiché il valore del prodotto marginale
diminuisce quando vengono assunti più lavoratori, ne deriva che una riduzione del salario aumenta il
numero di lavoratori assunti. La posizione della curva di domanda di lavoro dipende dal prezzo del prodotto
finale. Poiché il valore del prodotto marginale è dato dal prodotto del prezzo dell’output per il prodotto
marginale del lavoro, la curva di domanda di breve periodo si sposta in alto se l’output diventa più costoso.
Si potrebbe pensare che la curva di domanda di lavoro di un’industria possa essere ottenuta sommando
orizzontalmente le curve di domanda delle imprese individuali. Tuttavia questo metodo non è corretto
perché ignora il fatto che la curva di domanda di lavoro di un’impresa utilizza il prezzo del prodotto come
dato. Ma se tutte le imprese traessero vantaggio dai salari inferiori incrementando il numero dei loro
occupati, ci sarebbe molto più output nell’industria e questo porterebbe ad una riduzione del prezzo del
prodotto finale. Ne consegue che se tutte le imprese aumentano la loro occupazione, il valore del prodotto
marginale diminuisce e la curva di domanda di ogni singola impresa si sposta leggermente a sinistra.
L’occupazione di questa industria aumenta meno di quanto sarebbe aumentata nel caso in cui avessimo
solamente sommato le curve di domanda delle singole imprese. La vera curva di domanda del lavoro di
un’industria tiene in considerazione il fatto che il prezzo del prodotto si aggiusta se tutte le imprese
crescono ed è, quindi, più ripida di quella che si potrebbe ottenere sommando orizzontalmente le curve di
domanda delle singole imprese. L’elasticità della domanda di lavoro nel breve periodo è definita come la
variazione percentuale dell’occupazione di breve periodo (Esr) derivante dalla variazione dell’1% del
salario:
σsr = variazione % dell’occupazione/variazione % del salario
poiché la curva di domanda del lavoro di breve periodo è inclinata verso il basso, allora l’elasticità è
negativa. Le imprese assumono lavoratori fino al punto in cui il valore del prodotto marginale uguaglia il
salario. Questa è la stopping rule dell’assunzione, cioè la regola che dice all’impresa quando smettere di
assumere. Questa regola di assunzione è conosciuta anche come la condizione della produttività
marginale. Un’impresa che massimizza il profitto dovrebbe produrre fino al punto in cui il costo di produrre
un’unità in più di output (o costo marginale) uguaglia il ricavo ottenuto dal vendere quel prodotto (o ricavo
marginale). La curva del costo marginale (MC) è inclinata verso l’alto; quando l’impresa cresce, i costi
aumentano ad un tasso crescente. Per un’impresa competitiva, invece, il ricavo derivante dalla vendita di
un’unità in più di prodotto è dato dal prezzo costante p del prodotto. La condizione di massimizzazione del
profitto che eguaglia il prezzo al costo marginale è identica alla condizione di massimizzazione del profitto
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che uguaglia il salario al valore del prodotto marginale del lavoro. Il costo di produrre un’unità in più di
prodotto è uguale a :
MC = w * ( 1 / MPe )
La condizione che l’impresa produce fino al punto in cui il costo marginale è uguale al prezzo può essere
scritta come:
w * ( 1 / MPe ) = p
In breve, la condizione che dice all’impresa che massimizza il profitto quando smettere di produrre l’output
è esattamente uguale alla condizione che dice all’impresa quando smettere di assumere i lavoratori.
La decisione di occupazione nel lungo periodo
Nel lungo periodo, lo stock di capitale dell’impresa non è fisso. L’impresa può aumentare o ridurre la
dimensione dei suoi impianti e delle attrezzature. Quindi, nel lungo periodo, l’impresa massimizza i profitti
scegliendo sia quanti lavoratori assumere sia quanto investire in impianti e attrezzature. Un isoquanto
descrive le combinazioni possibili di lavoro e capitale che producono lo stesso livello di prodotto finale. Gli
isoquanti hanno le stesse proprietà delle curve di indifferenza: devono essere inclinati verso il basso; non si
intersecano; a isoquanti più elevati sono associati maggiori livelli di prodotto; sono convessi rispetto
all’origine. Inoltre, proprio perché l’inclinazione di una curva di indifferenza è data dal negativo del
rapporto delle utilità marginali, l’inclinazione di un isoquanto è data dal negativo del rapporto dei prodotti
marginali. In particolare:
ΔK / ΔE = - MPe / MPk
Il valore assoluto di questa inclinazione è chiamato tasso marginale di sostituzione tecnica. I costi di
produzione dell’impresa, che chiamiamo C, sono dati da:
C=wE+rK
Se l’impresa avesse una quantità di denaro pari a C₀ potrebbe decidere di acquistare solo capitale, C₀/r,
oppure solo lavoro, C₀/w. La linea che collega tutte le varie combinazioni di lavoro e capitale che l’impresa
potrebbe acquistare con un costo di C₀ euro è chiamata retta di isocosto. A rette di isocosto più elevate
corrispondono costi maggiori. L’inclinazione della retta è il negativo del rapporto tra i prezzi dei fattori, w/r. Un’impresa che massimizza il profitto producendo Q₀ unità di output vuole ovviamente produrre
queste unità al costo più basso possibile. Per farlo sceglie la combinazione di lavoro e capitale data dal
punto nel quale l’isocosto è tangente all’isoquanto, ovvero:
MPe / MPk = w / r ; o MPe / w = MPk / r
La minimizzazione dei costi richiede che il tasso marginale di sostituzione tecnica sia uguale al rapporto tra i
prezzi, oppure che l’ultimo euro speso per il lavoro produca tanto output quanto l’ultimo euro speso per il
capitale. Per un dato livello di capitale, l’occupazione dell’impresa è determinata uguagliando il salario con
il valore del prodotto marginale del lavoro. Per analogia, la condizione di massimizzazione del profitto, che
dice all’impresa quanto capitale acquistare, è ottenuta uguagliando il prezzo del capitale, r, al valore del
prodotto marginale del capitale VMPk. La massimizzazione del profitto nel lungo periodo richiede, inoltre,
che il lavoro e il capitale siano acquistati fino al punto in cui w = p * MPe, e r = p * MPk . Queste condizioni
di massimizzazione del profitto implicano la minimizzazione dei costi.
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La curva di domanda del lavoro nel lungo periodo
Un’impresa che massimizza il profitto produrrà al più basso costo possibile, utilizzando un mix di lavoro e
capitale il cui rapporto dei prodotti marginali uguaglia il rapporto dei prezzi dei fattori. Se il salario si riduce,
si riduce anche l’inclinazione della retta di isocosto che apparirà più appiattita. In un primo momento
sembrerebbe ovvio ruotare l’isocosto intorno al punto di intercetta d’origine C₀/r ma sarebbe la scelta
sbagliata. Questo, infatti, implicherebbe che il costo dell’impresa venga mantenuto costante, ma sappiamo
che, nel lungo periodo, l’impresa è libera di variarlo. La riduzione del salario taglierà il costo marginale di
produzione dell’output dell’impresa, che potrà aumentare la produzione. L’aumento della produzione
sposterà l’impresa su un isoquanto più alto. La nuova retta isocosto non avrà necessariamente la stessa
intercetta della vecchia retta sull’asse verticale. Il nuovo mix ottimo di fattori produttivi è dato dal punto
sull’isoquanto più alto nel quale l’isoquanto è tangente ad una nuova retta di isocosto, che ha l’inclinazione
uguale a w₁/r . L’impresa assumerà sempre più lavoratori quando il salario si riduce, mentre la quantità di
capitale domandato può diminuire o aumentare. La riduzione del salario riduce il prezzo del lavoro rispetto
a quello del capitale spingendo l’impresa ad aggiustare il suo mix di fattori produttivi in modo da diventare
a maggiore intensità di lavoro. In più, la riduzione del salario riduce il costo marginale di produzione e
spinge l’impresa a espandersi. Quando l’impresa cresce vuole assumere più lavoratori. Lo spostamento
avviene in due fasi. Nella prima fase, l’impresa trae vantaggio dal prezzo più basso del lavoro, aumentando
la produzione. Nella seconda fase, l’impresa trae beneficio dalla variazione di salario ridefinendo il mix dei
fattori produttivi, sostituendo il capitale con il lavoro, mantenendo costante la quantità di output. il primo
spostamento è definito effetto scala e indica cosa accade alla domanda dei fattori produttivi quando
l’impresa aumenta la produzione. La riduzione del salario spinge l’impresa ad adottare un metodo di
produzione diverso a maggiore intensità di lavoro per trarre vantaggio dal fattore lavoro ora più
conveniente. L’effetto sostituzione indica cosa accade all’occupazione quando il salario varia, mantenendo
costante l’output. l’impresa utilizzerà più capitale se domina l’effetto scala e meno se domina l’effetto
sostituzione. L’elasticità di lungo periodo della domanda di lavoro è data da:
σlr = variaz % dell’occupazione / variaz % del salario
Consumatori e imprese possono rispondere più facilmente alle variazioni dell’ambiente economico quando
affrontano pochi vincoli. La curva di domanda di lavoro nel lungo periodo è perciò più elastica poiché le
imprese possono adeguare non solo il lavoro ma anche il capitale, e beneficiare al massimo delle variazioni
del prezzo del lavoro.
L’elasticità di sostituzione
La dimensione dell’effetto sostituzione di un’impresa dipende dalla curvatura dell’isoquanto. Il tasso
marginale di sostituzione tecnica è costante quando l’isoquanto è una retta. Ogni volta che i due fattori
produttivi possono essere sostituiti a un tasso costante, essi sono chiamati perfetti sostituti. Quando
l’isoquanto tra qualsiasi due fattori è ad angolo, i due fattori di produzione sono perfetti complementi.
L’effetto sostituzione è molto ampio quando lavoro e capitale sono perfetti sostituti. All’opposto non c’è
effetto sostituzione quando i due fattori produttivi sono perfetti complementi. Più l’isoquanto è curvato,
minore è la dimensione dell’effetto sostituzione. Per misurare la curvatura, di solito usiamo un numero
chiamato elasticità di sostituzione. L’elasticità di sostituzione tra capitale e lavoro è definita da:
elasticità di sostituzione = variaz % di (K/E) / variaz % di (w/r)
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Misura la variazione percentuale del rapporto capitale/lavoro derivata da una variazione dell’1% nel prezzo
relativo del lavoro. È pari a 0 se l’isoquanto è un angolo retto ed è infinita quando è lineare. La dimensione
dell’effetto sostituzione dipende direttamente dalle grandezze dell’elasticità di sostituzione.
Le regole di Marshall della domanda derivata descrivono i fattori che in una particolare industria possono
generare curve di domanda di lavoro elastiche. In particolare: quanto maggiore è l’elasticità di sostituzione,
tanto più la domanda di lavoro è elastica; quanto maggiore è l’elasticità della domanda di output tanto più
la domanda di lavoro è elastica; quanto maggiore è la quota del lavoro nei costi totali tanto più la domanda
di lavoro è elastica; quanto maggiore è l’elasticità dell’offerta degli altri fattori di produzione, come il
capitale, tanto maggiore è l’elasticità della domanda di lavoro.
La domanda di fattori con molti fattori produttivi
Ci sono molti tipi differenti di lavoratori e molti tipi differenti di capitale. La tecnologia di produzione è
quindi descritta dalla funzione di produzione:
q = f (x₁, x₂, …, xn)
La domanda di lavoro per i lavoratori non specializzati è più elastica di quella degli specializzati. In altre
parole, per ogni dato aumento percentuale nel salario, la riduzione dell’occupazione sarà maggiore per i
lavoratori non specializzati. Per misurare la sensibilità della domanda per un particolare fattore rispetto al
prezzo degli altri fattori, definiamo l’elasticità incrociata della domanda di un fattore come:
elast incrociata = variaz % di xi / variaz % di wj
che dà la variazione percentuale della domanda per un fattore i che deriva dalla variazione dell’1% del
salario del fattore j. Il segno dell’elasticità incrociata fornisce una definizione del fatto che uno qualsiasi dei
due fattori sia sostituto o complemento nella produzione. Il lavoro non specializzato ed il capitale sono
sostituti mentre il lavoro specializzato ed il capitale sono complementi. In altre parole se il prezzo dei
macchinari aumenta i datori di lavoro li sostituiscono con lavoratori non specializzati. All’opposto se il
prezzo dei macchinari diminuisce e i datori di lavoro aumentano il loro uso di attrezzature di capitale, la
domanda per i lavoratori specializzati aumenta perché i lavoratori specializzati e le attrezzature vanno
insieme. Questo risultato è noto come l’ipotesi di complementarietà di capitale-specializzazione.
La visione d’insieme dell’equilibrio del mercato del lavoro
Il mercato del lavoro è il luogo nel quale i lavoratori e le imprese si incontrano e confrontano salari con
offerte di occupazione. L’interazione tra lavoratori e imprese che avviene nel mercato del lavoro determina
i livelli di equilibrio del salario e dell’occupazione. A questo salario il numero di lavoratori che sta cercando
lavoro eguaglia il numero di lavoratori che i datori di lavoro vogliono assumere. In assenza di ogni altro
shock economico, il livello di equilibrio del salario e dell’occupazione può durare all’infinito.
I costi di aggiustamento e la domanda di lavoro
Un’impresa che vuole adeguare la sua dimensione della forza lavoro troverà che è costoso fare
cambiamenti rapidi. I costi che l’impresa sostiene quando adegua la dimensione della forza lavoro sono
chiamati costi di aggiustamento. Ci sono due tipi di costi di aggiustamento: variabili e fissi. I primi
dipendono dal numero di lavoratori che l’impresa intende assumere o licenziare. Se i costi di aggiustamento
variabili sono notevoli, le variazioni di occupazione si verificano lentamente quando le imprese sono incerte
della loro strategia di assunzione e licenziamento, per evitare gli elevati costi da sostenere quando faranno
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grandi variazioni nella forza lavoro. Se dominano i costi di aggiustamento fissi, all’impresa non conviene
adeguare la sua occupazione lentamente perché i costi saranno sostenuti interamente, indipendentemente
da quanti lavoratori assume o licenzia. Per rendere più stabile l’occupazione, molti paesi avanzati hanno
adottato una legislazione che impone costi notevoli alle imprese che vogliono licenziare. Bisogna però
notare che queste politiche scoraggiano anche le nuove assunzioni quando l’economia riprende, perché le
imprese sanno che sarà poi difficile licenziare quando l’economia rallenterà.
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L’EQUILIBRIO NEL MERCATO DEL LAVORO
L’equilibrio del mercato del lavoro fa da mediatore tra i desideri dei lavoratori e delle imprese e determina
il salario e l’occupazione che osserviamo sul mercato. Se i mercati sono competitivi, i lavoratori e le imprese
possono entrare e uscire liberamente da questi mercati e l’allocazione dei lavoratori nelle imprese è
efficiente. Questo è un esempio del famoso teorema della mano invisibile di Adam Smith, nel quale i
partecipanti al mercato del lavoro nel perseguire il proprio egoistico obiettivo raggiungono un risultato
ottimo che nessuno avrebbe cercato di raggiungere in maniera consapevole.
L’equilibrio in un mercato del lavoro concorrenziale
La curva di offerta definisce il numero totale di occupati-ora sul mercato per ogni dato livello di salario; la
curva di domanda dà il numero di occupati-ora che le imprese domandano a quel dato salario. L’equilibrio
si verifica quando l’offerta eguaglia la domanda, generando il salario w* e l’occupazione E*. Non esiste
disoccupazione in un mercato del lavoro concorrenziale. Al salario di mercato w* il numero di coloro che
vogliono lavorare è uguale al numero di lavoratori che le imprese vogliono assumere. Poiché la curva di
domanda di lavoro rappresenta il valore del prodotto marginale, l’area sotto la curva individua il valore del
prodotto totale. Ogni lavoratore riceve un salario w*. Quindi, i profitti delle imprese, che chiamiamo
surplus del produttore, sono dati dall’area del triangolo P.
La differenza tra quello che il lavoratore riceve, w* e il valore del suo tempo fuori dal mercato del lavoro
individua i suoi guadagni. Questa quantità è chiamata surplus del lavoratore ed è data dall’area del
triangolo Q. I guadagni dello scambio totali per l’intera economia nazionale sono dati dalla somma del
surplus del produttore e del surplus del lavoratore, ovvero dall’area P+Q. Il mercato competitivo
massimizza i guadagni totali dello scambio per il sistema economico. Quando l’allocazione degli individui
nelle imprese massimizza i guadagni totali dello scambio parliamo di allocazione efficiente. Un equilibrio
concorrenziale genera un’allocazione efficiente delle risorse di lavoro.
Applicazioni di politica economica: trattenute in busta paga e sussidi
Alcuni programmi governativi sono parzialmente sovvenzionati attraverso le trattenute in busta paga a
carico del datore di lavoro. La trattenuta in busta paga a carico del datore di lavoro porta ad uno
spostamento parallelo verso il basso della curva di domanda di lavoro a D1.
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La nuova curva di domanda riflette la differenza che esiste tra la somma totale che i datori di lavoro devono
pagare per assumere un lavoratore e quanto in realtà il lavoratore riceve. La trattenuta in busta paga
sposta il mercato del lavoro verso un nuovo equilibrio. Il numero dei lavoratori assunti scende a E1. Il
salario di equilibrio scende a w1, ma il costo totale di un lavoratore sale a w1 + 1. Le imprese e i lavoratori
condividono il costo della trattenuta in busta paga. La trattenuta in busta paga a carico dei lavoratori porta
agli stessi risultati sul mercato del lavoro. Entrambe le tasse riducono la paga che i lavoratori guadagnano,
aumentando il costo di un’ora di lavoro all’impresa e riducono l’occupazione. La vera incidenza della
trattenuta in busta paga non dipende dal modo in cui la legge è scritta o da come viene raccolta la tassa, ma
dal modo in cui opera il mercato concorrenziale. Anche se la trattenuta in busta paga a carico dell’impresa
sposta la curva di domanda verso il basso , ha lo stesso impatto sul mercato del lavoro di una trattenuta in
busta paga a carico dei lavoratori, che sposta la curva di offerta verso l’alto. Esiste un caso estremo in cui la
trattenuta è trasferita interamente a carico dei lavoratori. Si tratta del caso in cui la curva di offerta di
lavoro è perfettamente inelastica.
Perdita netta. Poiché la trattenuta in busta paga aumenta il costo di assunzione di un lavoratore, queste
tasse riducono l’occupazione totale. L’equilibrio post-tassa è inefficiente perché non è il valore che
massimizza i guadagni totali dello scambio sul mercato del lavoro.
Il costo di assumere un lavoratore aumenta a wtotale e la paga del lavoratore scende a wnetto. Il surplus
del produttore è dato ora dal triangolo più piccolo P*, il surplus del lavoratore dal triangolo Q* e le entrate
fiscali che vanno al governo sono date dal rettangolo T. I guadagni totali dello scambio sono dati dalla
somma del nuovo surplus del produttore con quello del lavoratore, più le entrate fiscali. L’imposizione di
una trattenuta in busta paga riduce i guadagni totali dello scambio. Il triangolo DL rappresenta la perdita
netta della tassa e misura il valore dei guadagni perduti che costringe le imprese a tagliare l’occupazione
sotto il livello di efficienza. Si ha una perdita netta perché la tassa impedisce ad alcuni lavoratori che erano
disposti a lavorare di essere assunti da datori di lavoro che erano disponibili ad assumerli. Questi scambi
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perduti erano vantaggiosi per la società perché il valore del prodotto marginale del lavoratore superava il
valore del suo tempo fuori dal mercato del lavoro.
Sussidi all’occupazione. Un sussidio all’occupazione riduce il costo di assunzione per le imprese. Il tipico
programma dei sussidi è la fiscalizzazione degli oneri sociali in cui il governo garantisce all’impresa un
credito d’imposta di un certo ammontare per ogni individuo-ora che assume. Dato che il sussidio riduce il
costo per assumere un individuo-ora, questo sposta la curva di domanda di quell’ammontare verso l’alto.
Il sussidio sposta la curva di domanda verso l’alto, aumentando l’occupazione. Il salario che ricevono i
lavoratori aumenta da w₀ a w₁, mentre il salario che l’impresa in realtà paga scende da w₀ a w₁ - 1.
L’impatto sul mercato di questi sussidi può essere grande e dipenderà dall’elasticità delle curve di domanda
e di offerta del lavoro.
Applicazioni di politica economica: trattenute in busta paga contro benefici obbligatori
Il governo può imporre alle imprese di dare ai lavoratori benefici obbligatori. Per esempio i governi
possono obbligare le imprese a mantenere il luogo di lavoro sicuro o ad offrire un servizio di asilo nido ai
loro addetti.
Analizziamo il caso in cui C è maggiore di B e cioè il costo dell’obbligo è maggiore della valutazione del
lavoratore. Alle imprese costa C euro fornire un beneficio obbligatorio, spostando la curva di domanda da
D₀ a D₁. I lavoratori valutano il beneficio B euro, così la curva di offerta si sposta verso il basso.
L’occupazione nel nuovo punto di equilibrio, R, è più alta di quella che sarebbe stata se l’impresa avesse
avuto a suo carico una trattenuta in busta paga di C euro (punto Q), ma più bassa di un equilibrio senza
tassa (punto P). All’impresa costa w* + C euro assumere un lavoratore e il lavoratore valuta il pacchetto
compensativo di w* + B euro. In confronto all’equilibrio competitivo iniziale, i lavoratori ricevono meno
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retribuzione e le imprese sostengono costi più elevati. Tuttavia, rispetto all’equilibrio con trattenuta in
busta paga, stanno meglio sia le imprese che sostengono costi più bassi che i lavoratori che guadagnano
salari reali più elevati. Se, invece, il costo di fornire un beneficio obbligatorio coincide con la valutazione del
lavoratore, l’equilibrio che ne deriva replica l’equilibrio concorrenziale dell’occupazione senza tassa, del
costo totale per assumere i lavoratori e della compensazione totale ricevuta dalle imprese.
Il modello della ragnatela
Esistono dati che indicano che i mercati del lavoro altamente specializzati, come ad esempio gli
ingegneri , registrano periodi di eccesso di domanda o di offerta che contraddicono l’idea che i mercati
del lavoro raggiungono l’equilibrio competitivo in modo veloce e poco costoso. Richard Freeman ha
proposto un modello che illustra questi andamenti ciclici del salario di entrata. Due ipotesi chiave sono
alla base del modello: occorre tempo per formare un ingegnere; gli individui decidono se diventare
ingegneri osservando le condizioni del mercato del lavoro degli ingegneri nel momento in cui iniziano
l’iter scolastico.
All’inizio il mercato del lavoro è in equilibrio nel punto in cui la curva di offerta S si interseca con la
curva di domanda D. A causa di una forte richiesta, la curva di domanda di ingegneri si sposta a D₁ e
potrebbero essere assunti E* nuovi ingegneri ad un salario w*. Le imprese non riescono ad assumere il
numero ottimale di neo-ingegneri perché occorre tempo per formarli. I corsi di laurea stanno
producendo solo E₀ ingegneri all’anno; la curva di offerta di breve periodo è perfettamente inelastica a
E₀ lavoratori. La combinazione fra questa curva di offerta inelastica e lo spostamento della domanda
aumenta il salario di entrata degli ingegneri a w₁. Gli studenti notano il salario elevato e sono
incentivati a diventare ingegneri. Dopo pochi anni E₁ ingegneri entrano nel mercato. Nel momento in
cui questa coorte di ingegneri entra sul mercato, l’offerta di lavoro di breve periodo di neo-ingegneri è
ancora perfettamente inelastica a E₁ lavoratori. L’equilibrio si verifica con un salario pari a w₂, che è
notevolmente al di sotto del salario che i neo-ingegneri pensavano di guadagnare. Un’altra generazione
di studenti delle superiori sta decidendo se diventare ingegnere: all’attuale salario w₂ la professione
non sembra molto attraente e quindi pochi decideranno di seguire la laurea in ingegneria. Quando
questi ultimi si laureeranno ed entreranno nel mercato del lavoro, il salario d’entrata aumenterà a w₃
per l’offerta limitata di ingegneri, e così via. L’analisi della ragnatela che si crea intorno al punto di
equilibrio illustra come il mercato del lavoro degli ingegneri si aggiusta allo shock iniziale della
domanda.
Mercati del lavoro non concorrenziali: monopsonio
Un monopsonio è un’impresa che ha una curva di offerta di lavoro inclinata positivamente. Rispetto ad una
impresa competitiva che può assumere quanto lavoro vuole ma al prezzo corrente, un monopsonista deve
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pagare salari più alti per attirare molti lavoratori. Esistono due tipi di imprese monopsoniste: un
monopsonista perfettamente discriminante e uno non discriminante. Un monopsonista perfettamente
discriminante può assumere lavoratori differenti a salari differenti. La curva di offerta di lavoro è identica
alla curva del costo marginale che si sostiene per assumere i lavoratori. La curva di domanda di lavoro è
data dalla curva del valore del prodotto marginale. Il monopsonista perfettamente discriminante assumerà
esattamente lo stesso numero di lavoratori come se fosse un mercato concorrenziale, ma ogni lavoratore
viene pagato il suo salario di riserva. Un monopsonista non discriminante deve pagare lo stesso salario a
tutti i lavoratori, indipendentemente dal salario di riserva del lavoratore. Poiché il monopsonista deve
aumentare il salario a tutti i lavoratori quando desidera assumere lavoratori in più, la curva di offerta di
lavoro non individua più il costo marginale di assunzione. Poiché i salari aumentano quando il monopolista
assume più lavoratori, la curva del costo marginale del lavoro, MCe, è inclinata verso l’alto, aumenta più
ripidamente del salario e si trova sopra la curva di offerta. Il monopsonista che massimizza assume fino al
punto in cui il costo marginale del lavoro eguaglia il valore del prodotto marginale.
MCe = VMPe
Il monopsonista non discriminante occupa meno lavoratori di quelli che verrebbero occupati se il mercato
fosse competitivo. In un monopsonio non discriminante esiste sottoccupazione e l’allocazione delle risorse
non è efficiente. Il salario monopsonistico wm è inferiore al salario concorrenziale w* e al valore del
prodotto marginale del lavoro VMPe. I lavoratori sono pagati meno del loro valore marginale del lavoro e
sono quindi sfruttati.
Il monopolio
Il monopolio è una struttura di mercato nella quale è attiva una sola impresa che può quindi influenzare i
prezzi dell’output che vende. A differenza dell’impresa concorrenziale il monopolio presenta una curva di
domanda inclinata negativamente. Il ricavo marginale è inferiore al prezzo imposto all’ultima unità e
diminuisce quando il monopolista cerca di vendere più output. La curva del ricavo marginale, MR, per il
monopolista è inclinata verso il basso e si trova sotto la curva di domanda, D. Il monopolista che massimizza
produce fino al punto in cui il ricavo marginale uguaglia il costo marginale della produzione. Egli produce
qm unità di output inferiori a quelle che avrebbe prodotto in competizione, e impone un prezzo pm che
indica quanto i consumatori sono disposti a pagare per acquistare qm unità. Un monopolista, come ogni
altra impresa che massimizza il profitto, assume fino al punto in cui il contributo dell’ultimo lavoratore
assunto uguaglia il costo di assumerlo. Per un monopolista, il ricavo addizionale dell’assumere un individuo
in più uguaglia il prodotto marginale del lavoratore per il ricavo marginale ricevuto dall’ultima unità di
output venduta. Questa variabile è chiamata ricavo marginale del prodotto del lavoro (MRPl) ed è uguale
a:
MRPl = MR * MPe
Osservate che il ricavo marginale del prodotto del lavoro è inferiore al valore del prodotto marginale di un
monopolista perché il ricavo marginale della vendita dell’unità di output MR è inferiore al prezzo
dell’output. il monopolista assumerà Em lavoratori nel punto in cui il ricavo marginale del prodotto del
lavoro, MRPl, uguaglia il salario:
MRPl = w
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Equilibrio concorrenziale tra mercati del lavoro
L’economia si compone di molti mercati del lavoro, anche per i lavoratori che hanno competenze simili.
Questi mercati potrebbero essere diversi per regioni o per industria. Facciamo l’ipotesi che nell’economia ci
siano due mercati regionali del lavoro, il Nord e il Sud, che occupano lavoratori con competenze simili così
che gli individui che lavorano al Nord sono perfetti sostituti di quelli che lavorano al Sud. Per ipotesi, inoltre,
le curve di offerta sono perfettamente inelastiche all’interno della regione.
Il salario di equilibrio del Nord è superiore a quello del Sud. Questo differenziale salariale incoraggia i
lavoratori del Sud a trasferirsi al Nord dove possono guadagnare di più e raggiungere un livello di utilità
maggiore. Anche le imprese del Nord vedono il differenziale salariale e realizzano che starebbero meglio se
si trasferissero al Sud. Se i lavoratori si possono trasferire liberamente tra le regioni, il flusso migratorio
sposterà le curve di offerta in entrambe le regioni. Nel Sud verso sinistra perché lasciano la regione
aumentando il salario; e nel Nord verso destra quando arrivano i lavoratori riducendo il salario. Se esistesse
libertà di entrata e di uscita dei lavoratori nei due mercati del lavoro, l’economia nazionale sarebbe
caratterizzata da un unico salario, w*. Gli incentivi alle imprese per trasferirsi da un mercato all’altro
svaniscono una volta che scompare il differenziale salariale regionale e quando non esiste più libertà di
entrata ed uscita per i lavoratori e le imprese. Quindi, l’economia competitiva sarà caratterizzata da un
unico salario. La proprietà del salario unico di un equilibrio competitivo ha implicazioni importanti per
l’efficienza economica. La migrazione porta ad un’allocazione efficiente delle risorse calcolando anche i
guadagni dello scambio sul mercato del lavoro. Poiché le curve di offerta sono perfettamente inelastiche, i
guadagni totali dello scambio sono dati dall’area sotto la curva di domanda fino al livello di equilibrio
dell’occupazione. La migrazione dei lavoratori del Sud riduce i guadagni totali dello scambio nel Sud
dell’area colorata del trapezio nel mercato del lavoro del Sud. La migrazione dei lavoratori nel Nord
aumenta i guadagni totali dello scambio nel Nord dell’area del trapezio nel mercato del lavoro del Nord.
L’area del trapezio del Nord supera quella del Sud della dimensione del triangolo ABC, e ciò implica che i
guadagni totali dello scambio nell’economia nazionale aumentano per effetto della migrazione dei
lavoratori. Attraverso una “mano invisibile” i lavoratori e le imprese che inseguono egoisticamente le
opportunità migliori raggiungono un obiettivo che nessuno nell’economia aveva in mente: un’allocazione
efficiente delle risorse. Gli studi empirici di solito concludono che quando si confrontano due paesi con
dotazioni di capitale umano simile, il divario di salario tra questi paesi si dimezza da una generazione alla
successiva. Questo risultato, chiamato convergenza condizionale, non implica necessariamente che ci sarà
convergenza nei livelli di reddito tra paesi ricchi e poveri. Il divario salariale tra paesi ricchi e poveri può
persistere per periodi più lunghi perché livelli molto bassi di capitale umano nei paesi poveri non
permettono loro di stare sullo stesso sentiero di crescita dei paesi più ricchi.
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Implicazioni di politica economica: l’impatto dell’immigrazione sul mercato del lavoro
Le politiche del governo che cercano di controllare quanti lavoratori stranieri entrano nel paese hanno
effetti importanti sul mercato del lavoro, perché spostano la curva di offerta e modificano le retribuzioni
dei lavoratori. Nei paesi di destinazione uno dei temi più importanti del dibattito è costituito dall’impatto
dell’immigrazione sul mercato del lavoro dei lavoratori nazionali. Consideriamo il caso in cui gli immigrati e i
nazionali sono perfetti sostituti nella produzione. Poiché immigrati e nazionali sono perfetti sostituti, i due
gruppi competono sullo stesso mercato del lavoro. L’immigrazione sposta la curva di offerta: il salario
diminuisce e l’occupazione aumenta. Alcuni lavoratori nazionali non sono disposti a lavorare al nuovo
salario più basso, così l’occupazione dei nazionali si riduce. In un certo senso, gli immigrati “rubano” il
lavoro ai nazionali riducendone il salario e spingendo alcuni di loro a non lavorare più. Naturalmente
l’ipotesi che i nativi e gli immigrati siano perfetti sostituti è discutibile. Immigrati e nazionali potrebbero
non competere per gli stessi tipi di lavoro. La presenza di immigrati aumenterà la produttività dei nazionali
perché possono specializzarsi in compiti che sono più adatti alle loro qualifiche. Immigrati e nazionali sono
quindi complementari sul mercato del lavoro. Se i due gruppi sono complementi nella produzione, un
aumento del numero degli immigrati aumenta il prodotto marginale dei nazionali, spostando verso l’alto la
curva di domanda dei lavoratori nazionali. L’incremento della produttività dei nazionali aumenta il salario
dei nazionali. Inoltre, alcuni nazionali che prima non trovavano vantaggioso lavorare ora vedono il salario
più alto come un incentivo per entrare nel mercato del lavoro e l’occupazione dei nativi aumenta. Se gli
immigrati e i nativi sono perfetti sostituti, nel breve periodo, gli immigrati riducono i salari ma aumentano i
rendimenti del capitale. Col tempo l’aumentata profittabilità delle imprese attirerà inevitabilmente flussi di
capitale sul mercato, così le imprese esistenti cresceranno e nasceranno nuove imprese per sfruttare i bassi
salari. L’aumento dello stock di capitale sposterà la curva di domanda di lavoro a destra e tenderà ad
attenuare gli effetti negativi dello shock iniziale dell’offerta di lavoro. Se la domanda di lavoro si spostasse
poco, i lavoratori nazionali che competono riceverebbero salari inferiori. Se la curva di domanda si
spostasse molto a destra, potrebbero sparire gli effetti negativi sul salario. Il limite dello spostamento verso
destra della curva di domanda di lavoro dipende dalla tecnologia contenuta nella funzione di produzione.
Se la funzione di produzione aggregata ha rendimenti di scala costanti, l’immigrazione non avrà effetti sul
mercato del lavoro nel lungo periodo nel paese di destinazione. L’entrata di immigrati nel mercato del
lavoro locale può ridurre all’inizio il salario dei lavoratori competitivi e aumentare il salario dei lavoratori
complementari. Col tempo tuttavia, i nazionali probabilmente reagiranno all’immigrazione. I nazionali
hanno incentivi a modificare il loro comportamento per avvantaggiarsi del mutato panorama economico.
Analizziamo due mercati del lavoro in due città diverse dove una sola subisce l’immigrazione. Inizialmente i
due mercati del lavoro sono in equilibrio al salario w₀. L’entrata degli immigrati a Los Angeles sposta la
curva di offerta e riduce il salario a wla. Il salario inferiore spinge alcuni nazionali di Los Angeles a trasferirsi
a Pittsburgh spostando la curva di offerta indietro e quella di Pittsburgh a destra. I mercati del lavoro
ristabiliscono l’equilibrio al salario w*. Tutti i nazionali guadagnano meno come risultato dell’immigrazione,
indipendentemente da dove vivono. Usare le correlazioni spaziali per misurare l’impatto dell’immigrazione
non sarà molto rivelatore perché i flussi di lavoratori nazionali diffondono effettivamente l’impatto
dell’immigrazione attraverso l’economia nazionale.
I benefici economici dell’immigrazione
Gli immigrati possono avere un impatto negativo sulle opportunità di lavoro dei nazionali le cui competenze
assomigliano a quelle degli immigrati, ma possono anche dare un contributo importante al paese che li
accoglie. Esiste uno stretto legame tra l’elasticità, che misura l’impatto salariale dell’immigrazione sulla
forza lavoro nazionale, e l’entità dei guadagni che vanno ad accrescere i guadagni nel paese di destinazione.
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Prima dell’immigrazione, ci sono N lavoratori nazionali nell’economia. La curva di offerta di lavoro, S, è
inelastica. Il reddito nazionale è dato dal trapezio ABN0. L’immigrazione aumenta l’offerta di lavoro a M
lavoratori e il reddito nazionale è dato dal trapezio ACM0. Gli immigrati sono pagati però solo un totale pari
a FCMN euro come salario. Il surplus dell’immigrazione è l’incremento del reddito nazionale che va ai
lavoratori nazionali ed è dato dall’area del triangolo BCF. Tutti gli immigrati, eccetto l’ultimo,
contribuiscono di più all’economia di quanto vengono pagati. Abbiamo un surplus dell’immigrazione
solamente se i tassi del salario dei nazionali si riducono quando gli immigrati arrivano nel paese.
L’immigrazione quindi redistribuisce il reddito del lavoro al capitale. I nazionali perdono l’area del
rettangolo w₀BFw₁ e questa quantità più il surplus dell’immigrazione va ai datori di lavoro. Il valore in euro
del surplus dell’immigrazione è dato da:
surplus = ½ (w₀ - w₁) (M – N)
Il surplus dell’immigrazione come quota del reddito nazionale è invece:
surplus/reddito = ½ (% salario nativi) (% occupazione) (% lavoro sul reddito)
La quota del lavoro sul reddito nazionale è la quota del reddito nazionale che va ai lavoratori. Questa è una
stima di breve periodo. Nel lungo periodo, né il tassi di rendimento del capitale, né il salario sono
influenzati dall’immigrazione e il surplus dell’immigrazione di lungo periodo è 0. Ironicamente, in
un’economia con rendimenti di scala costanti, ci sono benefici economici dall’immigrazione solo quando i
lavoratori nazionali sono danneggiati. Maggiori sono gli effetti negativi sul salario e maggiori sono i benefici
economici.
22
IL CAPITALE UMANO
I salario possono variare tra lavoratori sia perché i lavori sono diversi, sia perché i lavoratori sono diversi.
Ognuno di noi può portare nel mercato del lavoro un insieme unico di abilità innate e competenze
acquisite: il capitale umano. Acquisiamo gran parte del nostro capitale umano a scuola e in programmi di
addestramento sul lavoro. I lavoratori che investono in istruzione scolastica sono disposti a rinunciare ai
guadagni di oggi per avere guadagni maggiori in futuro. In generale, non si smette di accumulare
conoscenze e competenze il giorno in cui si lascia la scuola, ma si continua ad aumentare lo stock di capitale
umano durante la maggior parte della vita lavorativa.
Il valore presente
Qualsiasi studio sulle decisioni di investimento, sia esso un investimento in capitale fisico o umano, deve
confrontare le uscite e le entrate che si verificano in periodi differenti. In altre parole, un investitore deve
essere in grado di calcolare i rendimenti dell’investimento confrontando il suo costo di oggi con i
rendimenti futuri. La nozione di valore presente ci consente di confrontare gli euro spesi e ricevuti in
diversi periodi. In generale il valore presente di un pagamento di y euro l’anno prossimo è:
PV = y / (1 + r)
Dove r è il tasso di interesse, che è chiamato anche tasso di sconto. La quantità PV ci dice quanto investire
oggi per avere y euro il prossimo anno. Inoltre il valore presente di y euro ricevuti tra t anni è:
PV = y / (1 + r)ᵗ
Il modello dell’istruzione
Facciamo l’ipotesi che i lavoratori acquisiscano il livello di istruzione che massimizza il valore presente dei
loro guadagni di tutta la vita. Analizziamo la situazione di un neo-diplomato, incerto se entrare nel mercato
del lavoro oppure frequentare l’università, ritardando l’entrate nel mercato del lavoro di 4 anni.
La figura mostra il profilo età guadagni. Un ragazzo che abbandona la scuola dopo essersi diplomato può
guadagnare wdip euro dall’età di 18 anni fino alla pensione. Se decide di frequentare l’università, rinuncia a
questi guadagni e sostiene un costo di H euro per quattro anni per poi guadagnare wuni fino all’età della
pensione. Andare all’università implica due tipi di costi. Un anno trascorso all’università è un anno passato
fuori dalla forza lavoro. Questo è il costo opportunità di andare a scuola, il costo di non seguire l’alternativa
migliore. Il costo opportunità è wdip euro per ogni anno che lo studente frequenta l’università al quale si
23
aggiungono le spese per retta, libri e una serie di altre tasse pari a H euro. Il valore presente del flusso di
guadagni se il lavoratore acquisisce solamente l’istruzione della scuola superiore è:
PVdip = wdip + wdip/(1+r) + … + wdip/(1+r)⁴⁶
Dove r è il tasso di sconto del lavoratore. Il valore presente del flusso dei guadagni se il lavoratore ottiene
un titolo universitario è:
PVuni = - H – H / (1+r) – H / (1+r)² - H / (1+r)³ + wuni / (1+r)⁴ + … + wuni / (1+r)⁴⁶
I primi 4 termini di questa somma danno il valore presente dei costi diretti dell’istruzione universitaria,
mentre i rimanenti 43 sono il valore presente dei guadagni della vita del periodo post-universitario. Il
lavoratore frequenta l’università se il valore presente dei guadagni della sua vita quando va all’università è
maggiore di quello dei guadagni se ha solamente un diploma di scuola superiore, ovvero:
PVuni > PVdip
Il tasso di sconto r gioca un ruolo cruciale nella scelta: quanto più alto è il tasso di sconto, tanto meno un
lavoratore investirà in istruzione. Il tasso di sconto dipende anche da come ci sentiamo nel rinunciare a un
po’ del consumo di oggi per avere rendimenti futuri, o la nostre “preferenza temporale”. Alcuni di noi sono
present-oriented e altri non lo sono. Chi è orientato al presente ha un elevato tasso di sconto ed è
probabile che non investa in istruzione. La regola secondo la quale un individuo dovrebbe scegliere il livello
di istruzione che massimizza il valore presente dei guadagni si può generalizzare a situazioni in cui esistono
più di due opzioni di istruzione. L’individuo calcolerebbe quindi il valore presente di ogni opzione di
istruzione e sceglierebbe la quantità di istruzione che massimizza il valore presente del flusso dei guadagni.
Esiste tuttavia, un modo diverso di formulare questo problema che fornisce un’intuitiva stopping rule che
dice all’individuo quando è il momento giusto per lasciare la scuola ed entrare nel mercato del lavoro.
Questo sistema è utile anche perché suggerisce un modo per stimare il tasso di rendimento dell’istruzione.
La curva salario-istruzione descrive il salario che le imprese sono disposte a pagare per ogni livello di
istruzione: è inclinata positivamente: i lavoratori che hanno più istruzione devono guadagnare di più se le
decisioni di istruzione sono motivate da guadagni finanziari; l’inclinazione indica di quanto aumenterebbero
i guadagni di un lavoratore se ottenesse un anno in più di istruzione; è concava: i guadagni monetari di ogni
anno in più di istruzione diminuiscono quando viene acquisita più istruzione, ovvero la legge dei rendimenti
decrescenti si applica anche all’accumulazione del capitale umano. La variazione percentuale dei guadagni
che deriva da un anno in più di scuola è chiamata tasso marginale di rendimento dell’istruzione; questo dà
l’incremento percentuale dei guadagni per euro spesi per gli investimenti in istruzione. Dato che la curva
salario-istruzione è concava, il tasso marginale di rendimento dell’istruzione deve diminuire quando un
individuo ottiene più istruzione. La curva MRR dà il tasso marginale di rendimento dell’istruzione. Un
lavoratore massimizza il valore presente dei guadagni di tutta la vita andando a scuola finché il tasso
marginale di rendimento dell’istruzione è uguale al tasso di sconto; questa è la stopping rule che dice al
lavoratore quando abbandonare gli studi. Un lavoratore con tasso di sconto r va a scuola per S* anni.
Istruzione e guadagni
Il modello isola due fattori chiave che portano lavoratori diversi ad ottenere livelli diversi di istruzione e,
quindi, ad avere guadagni differenti: o hanno tassi di sconto diversi oppure affrontano diversi andamenti
del tasso marginale di rendimento. Considerate un mercato del lavoro con due lavoratori che differiscono
solamente per i loro tassi di sconto. A ha un tasso di sconto, rA, più alto di B, rB, cosicché B si diploma e A
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abbandona, scegliendo il punto Pa sulla curva salario-istruzione e B sceglie il punto Pb. I dati osservati su
salario e istruzione sul mercato del lavoro descrivono la curva salario-istruzione comune ai due lavoratori. Il
divario salariale tra A e B ci consente di stimare il tasso di rendimento del dodicesimo anno, la variazione
percentuale dei guadagni che un lavoratore otterrebbe andando a scuola dall’undicesimo al dodicesimo
anno. Se i lavoratori si differenziano solo per i loro tassi di sconto, possiamo calcolare il tasso marginale di
rendimento dell’istruzione dal differenziale salariale tra due lavoratori con diverso grado di istruzione.
Possiamo prevedere correttamente di quanto aumenterebbero i guadagni se perseguissimo politiche
economiche mirate ad aumentare l’istruzione di determinati lavoratori. È molto più difficile stimare il tasso
di rendimento dell’istruzione quando tutti i lavoratori hanno lo stesso tasso di sconto ma ogni lavoratore ha
una curva salario-istruzione differente, cioè ha una diversa curva del tasso marginale di rendimento. Spesso
si fa l’ipotesi che i livelli più elevati di abilità spostino a destra la curva del tasso marginale di rendimento,
cosicché gli aumenti dei guadagni derivanti da un anno in più di istruzione superino l’aumento dei guadagni
perduti. In altre parole, gli individui più capaci ottengono di più da un anno in più di istruzione.
A e B hanno lo stesso tasso di sconto, r, ma ogni lavoratore ha una diversa curva salario-istruzione. A
abbandona la scuola superiore e B ottiene il diploma. Il differenziale salariale tra B e A si verifica sia perché
B va a scuola un anno in più, sia perché è più capace. Di conseguenza, questo differenziale salariale non ci
dice di quanto aumenterebbero i guadagni di A se completasse la scuola superiore. Fate l’ipotesi che il
governo proponga una legge che obblighi tutti a completare la scuola superiore. Per determinare l’impatto
economico della proposta, vogliamo sapere di quanto aumenterebbero i guadagni di A se avesse un anno in
più di istruzione. I dati disponibili ci dicono che un diplomato guadagna wdip e chi abbandona la scuola
superiore wdrop. Tuttavia il differenziale salariale tra B e A non dà il guadagno salariale che A otterrebbe se
la legislazione diventasse operativa. Se la legge avesse effetto, i guadagni di A aumenterebbero solamente
da wdrop a wA, che è molto meno di quanto un diplomato come B guadagna ora. Il differenziale salariale
tra questi due lavoratori incorpora l’impatto sia dell’istruzione che della capacità di guadagnare. Se esistono
differenze sistematiche non osservabili nelle capacità della popolazione, i differenziali dei guadagni tra
lavoratori non stimano i rendimenti dell’istruzione.
La stima del tasso di rendimento dell’istruzione
Il metodo tipico per stimare il tasso di rendimento dell’istruzione dati sui guadagni e sull’istruzione di
lavoratori differenti e stima il differenziale salariale percentuale di un anno in più di istruzione, dopo aver
aggiustato i dati per le diverse altre caratteristiche del lavoratore, come l’abilità, il sesso e la razza. La stima
tipica è una regressione nella forma:
log w = bs + altre variabili
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nella quale w è il salario del lavoratore e S è il numero di anni di istruzione acquisiti dal lavoratore. Il
coefficiente b rappresenta una stima del differenziale salariale percentuale tra due lavoratori che
differiscono per un anno di istruzione ed è di solito interpretato come il tasso di rendimento dell’istruzione.
I lavoratori massimizzano i guadagni di tutta la loro vita?
Secondo il modello dell’istruzione gli individui scelgono il livello di istruzione che massimizza il valore
presente dei guadagni dell’intera vita. Se potessimo osservare il profilo età-guadagni di un particolare
lavoratore sia nel caso che fosse andato all’università, sia se si fosse fermato dopo il diploma, sarebbe facile
verificare l’ipotesi chiave del modello. Questa semplice verifica purtroppo non potrà mai essere fatta. Una
volta che un lavoratore fa una scelta particolare possiamo solamente osservare il flusso di guadagni che
deriva da quella scelta. Potremmo prevedere i guadagni dei diplomati che hanno frequentato l’università
utilizzando i dati osservati su quello che fanno in realtà i laureati. Questo esercizio è valido solo se i laureati
e i diplomai si trovano sulla stessa curva salario-istruzione ma non è valido se esistono differenze di
capacità. Quindi utilizzare il differenziale salariale osservato per capire se i lavoratori scelgono la giusta
opzione d’istruzione produce risultati che non hanno senso. Il problema è nel confronto dei guadagni dei
due tipi di lavoratori che è contaminato dalla distorsione della selezione (selection bias). I lavoratori si auto
selezionano nei lavori per cui sono più adatti.
Teoria dei segnali
Un differente modello si basa su un ragionamento alternativo che l’istruzione non aumenta la produttività
del lavoro, ma che livelli di istruzione scolastica come un diploma o una laurea segnalano livelli di
qualificazione ai potenziali datori di lavoro. In quest’ottica, l’istruzione aumenta i guadagni non perché
aumenta la produttività, ma perché certifica che il lavoratore è adatto per un lavoro migliore. Dato che i
lavoratori a bassa produttività mentiranno sempre sul loro livello di produttività, l’impresa non terrà conto
di quello che ognuno dice sulla propria qualifica. In assenza di altra informazione, il datore di lavoro mette
semplicemente insieme tutti i lavoratori e li tratta in maniera identica. I lavoratori a bassa produttività
preferiscono un equilibrio composito perché vengono messi insieme con lavoratori più produttivi che fanno
aumentare il loro salario. Né i datori di lavoro, né i lavoratori ad alta produttività amano l’equilibrio
composito. Alcuni lavoratori ad alta produttività vengono assegnati a lavori semplici e lavoratori a bassa
produttività ricoprono ruoli per i quali non sono qualificati. Questo mismatching riduce l’efficienza
dell’impresa. Analogamente, i guadagni dei lavoratori ad alta produttività sono spinti verso il basso dai
lavoratori a bassa produttività. I lavoratori ad alta produttività hanno quindi un incentivo a fornire
un’informazione credibile e le imprese hanno un incentivo a tenere conto della credibilità delle
informazioni. Questo tipo di informazione è chiamato segnale. Dato che i datori di lavoro vorrebbero
pagare di più i lavoratori con almeno y anni di università, tutti i lavoratori vorrebbero acquisire i crediti
offerti dall’università. Acquisire questi crediti è costoso, e sarà più costoso per un lavoratore con minore
abilità. Data l’offerta salariale dell’impresa, i lavoratori devono decidere quanti anni di università
frequentare. Si ha un equilibrio di separazione quando i lavoratori a bassa produttività decidono di non
acquisire anni di università e segnalano volontariamente la loro bassa produttività, mentre i lavoratori ad
alta produttività decidono di acquisire almeno y anni di istruzione e si separano dal gruppo. Un equilibrio di
separazione richiede che i lavoratori a bassa produttività non vadano per niente all’università. Questo
capita ogni volta che il rendimento netto derivante dal non frequentare l’università supera il rendimento
netto di frequentare y anni. Scegliendo di non andare all’università, i lavoratori a bassa produttività
segnalano volontariamente la loro bassa produttività e si separano dagli altri. Se le imprese non richiedono
troppi anni di istruzione superiore i lavoratori ad alta produttività andranno all’università e segnaleranno
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che hanno una produttività maggiore. Le diverse raccomandazione di politica economica dei due modelli
suggeriscono che il tasso di rendimento privato dell’istruzione, misurato dall’aumento dei guadagni di un
anno in più di istruzione, può essere molto diverso dal tasso di rendimento sociale dell’istruzione,
misurato dall’aumento del reddito nazionale che deriva dallo stesso anno di istruzione. Fate l’ipotesi che il
modello dei segnali sia corretto e che l’istruzione non aumenti la produttività. Dal punto di vista del
lavoratore, l’istruzione ha ancora un tasso di rendimento positivo. Da un punto di vista sociale, le spese per
l’istruzione sono perdute: il reddito nazionale non aumenta perché la produttività del lavoratore è la stessa
sia prima che dopo l’investimento in istruzione. Il tasso di rendimento sociale è 0. Queste conclusioni
ignorano il fatto che anche nel contesto del modello dei segnali, l’istruzione ha il ruolo molto utile di
indirizzare i lavoratori verso i posti giusti. L’istruzione potrebbe avere un tasso di rendimento sociale
positivo anche se non aumentasse il capitale umano di un particolare lavoratore.
Gli investimenti in capitale umano post-scuola
Il profilo età guadagni ha tre importanti proprietà: i lavoratori altamente istruiti guadagnano di più di quelli
meno istruiti; i guadagni aumentano nel tempo ma ad un tasso decrescente. La produttività del lavoratore
aumenta anche dopo avere lasciato la scuola, forse come risultato dei programmi di addestramento sul
lavoro e non. Il tasso di crescita del salario, tuttavia, rallenta quando i lavoratori invecchiano; i profili età
guadagni in differenti gruppi di istruzione divergono nel tempo: i guadagni aumentano più rapidamente per
i lavoratori più istruiti. L’inclinazione più ripida dei profili età guadagni dei lavoratori più istruiti suggerisce
una complementarietà tra investimenti in istruzione e addestramento sul lavoro.
Addestramento sul lavoro
Gran parte dei lavoratori aumentano il proprio stock di capitale umano dopo aver completato la propria
istruzione, in particolare attraverso programmi di addestramento sul lavoro ( OJT, on the job training).
Esistono due tipi di OJT: l’addestramento generale e l’addestramento specifico. L’addestramento generale,
una volta acquisito, aumenta la produttività in maniera uguale in tutte le imprese; quello specifico aumenta
la produttività solamente nell’impresa nella quale è acquisito, e i guadagni di produttività sono perduti una
volta che il lavoratore lascia l’impresa. la condizione di massimizzazione del profitto che dà il livello ottimo
di occupazione per l’impresa in due periodi è:
TC₁ + TC₂ / (1 + r) = VMP₁ + VMP₂ / (1 + r)
Dove TC₁ e TC₂ sono i costi del lavoro totali nei due periodi; VMP₁ e VMP₂ rappresentano i valori del
prodotto marginale e r è il tasso di sconto. La parte sinistra dell’equazione dà il valore presente dei costi di
assumere un lavoratore su un ciclo vitale di due periodi. La parte destra dà il valore presente del contributo
di un lavoratore all’impresa. Fate l’ipotesi che l’OJT avvenga solo nel primo periodo. All’impresa costa H
euro addestrare il lavoratore. Il costo totale dell’assunzione di un lavoratore nel primo periodo può essere
scritto come la somma dei costi di addestramento H e il salario pagato al lavoratore durante il periodo di
addestramento, ovvero w₁: TC₁ = w₁ + H. Il costo totale del secondo periodo è uguale al salario. Quindi:
w₁ + H + w₂ / (1 + r) = VMP₁ + VMP₂ / (1 + r)
poiché il salario del secondo periodo sarà uguale a VMP₂, quello del primo periodo sarà uguale a:
w₁ = VMP₁ - H
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In altre parole, i lavoratori pagano i costi di addestramento generale accettando un salario più basso
durante il periodo di addestramento. Nel secondo periodo, i lavoratori ottengono i rendimenti
dell’addestramento ricevendo un salario che eguaglia il valore del prodotto marginale dopo
l’addestramento. Le imprese danno addestramento generale solamente se non pagano alcun costo.
Analizziamo ora i costi dell’addestramento specifico. L’impresa potrebbe pagare il costo e raccogliere i
rendimenti non aumentando il salario nel secondo periodo. Ma se il lavoratore se ne andasse, l’impresa
soffrirebbe una perdita in conto capitale. L’impresa esiterà quindi a pagare l’addestramento specifico
finché non possiede qualche assicurazione che il lavoratore addestrato non se ne andrà. Se invece fosse il
lavoratore a pagare l’addestramento specifico, prenderebbe un salario basso durante il periodo di
addestramento e salari più elevati nei periodi successivi. Il lavoratore tuttavia non ha la certezza assoluta
che l’impresa lo occuperà nel secondo periodo. La via di uscita da questo dilemma è definire con molta
precisione il salario dopo l’addestramento: questo può ridurre le probabilità sia di dimissioni che di
licenziamento. Il salario ideale deve essere maggiore della sua produttività da qualsiasi altra parte, ma
inferiore alla sua produttività nell’attuale impresa.
w₁ < w₂ < VMP₂
il lavoratore, dato che sta meglio in questa impresa rispetto alle altre, non ha alcun incentivo ad andarsene.
Analogamente, dato che l’impresa sta meglio occupando il lavoratore che non licenziandolo, l’impresa non
vuole lasciarlo andare. Se sia l’impresa che il lavoratore condividono i rendimenti dell’addestramento
specifico, viene eliminata la possibilità di separazione dal lavoro dopo l’addestramento. L’addestramento
specifico spezza il legame tra il salario del lavoratore e il valore del prodotto marginale nel corso del ciclo
vitale del lavoratore. Inoltre ha anche altre implicazioni: dà una spiegazione semplice alla regola “ultimo
assunto, primo licenziato” in caso di recessione economica; spiega il fenomeno diffuso dei licenziamenti
temporanei; e sposa le imprese con i lavoratori, diminuendo le probabilità di separazione in caso di
anzianità sul lavoro. I lavoratori neo-assunti hanno elevati tassi di turn-over, mentre gli anziani ne hanno di
più bassi.
L’addestramento sul lavoro e il profilo età-guadagni
Misuriamo lo stock di capitale umano in unità di efficienza, ovvero unità standard di capitale umano.
Un’unità di efficienza del capitale umano può essere affittata sul mercato del lavoro e l’affitto per unità di
efficienza è R euro. Un’unità di efficienza genera R euro all’anno dal momento in cui viene acquisita fino alla
pensione, che si verifica a 65 anni. Il ricavo marginale dell’acquisto di un’unità di efficienza di capitale
umano a 20 anni è:
MR₂₀ = R + R / (1 + r) + … + R / (1 + r)⁴⁵
Dove r è il tasso di sconto. La curva MR₂₀ illustra la relazione tra il ricavo marginale di un’unità di efficienza
acquisita a 20 anni e il numero di unità di efficienza che il lavoratore acquista. Dato che abbiamo fatto
l’ipotesi che il tasso di affitto R sia lo stesso indipendentemente da quanto capitale umano il lavoratore
acquista, la curva del ricavo marginale MR₂₀ è orizzontale. Fate l’ipotesi che il lavoratore guardi al futuro e
voglia sapere quante unità di efficienza acquisterebbe se avesse trent’anni. Il ricavo marginale dell’unità di
efficienza acquistata a 30 anni è data da:
MR₃₀ = R + R / (1 + r) + … + R / (1 + r)³⁵
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Confrontando i due ricavi marginali, possiamo osservare che il ricavo marginale dell’investimento a
vent’anni è superiore a quello dei trent’anni. Gli investimenti in capitale umano danno più profitti quanto
prima vengono fatti. Il numero reale di unità di efficienza acquisite ad ogni età è determinato
dall’uguaglianza del ricavo marginale con il costo marginale degli investimenti in capitale umano. La curva
del costo marginale ha la solita forma: i costi marginali aumentano quando vengono acquistate più unità di
efficienza. Jacob Mincer ha dimostrato che il modello del capitale umano genera un profilo età-guadagni
della forma:
logw = as + bs - ct² + altre variabili
dove w è il salario, s il numero di anni di istruzione, t il numero di anni di esperienza sul mercato del lavoro
e t² è il quadrato dell’esperienza che cattura la concavità del profilo età-guadagni. Nella funzione dei
guadagni di Mincer, il coefficiente dell’istruzione, a, stima l’incremento percentuale dei guadagni che
deriva da un anno in più di istruzione, ed è interpretato di solito come il tasso di rendimento dell’istruzione.
I coefficienti dell’esperienza e del quadrato dell’esperienza stimano il tasso di crescita dei guadagni di un
anno in più di esperienza sul mercato del lavoro e vengono interpretati come misure dell’impatto dell’OJT
sui guadagni.
29
LA DISCRIMINAZIONE DEL MERCATO DEL LAVORO
Lavoratori ugualmente qualificati possono avere guadagni e opportunità di lavoro diverse per lo stesso
posto di lavoro semplicemente per la loro razza, genere, origine nazionale, orientamento sessuale, o altre
analoghe caratteristiche. Queste differenze sono spesso attribuite alla discriminazione del mercato del
lavoro, ed emergono quando i partecipanti al mercato tengono conto di questi fattori nell’effettuare
scambi economici. Le differenze di razza e di genere influenzano il mercato del lavoro anche se i
partecipanti al mercato non sono influenzati dai pregiudizi. Spesso il background socioeconomico di un
individuo ci serve per conoscere di più la sua produttività e le sue qualifiche.
Il coefficiente di discriminazione
La teoria di Becker sulla discriminazione del mercato del lavoro è basata sul concetto di discriminazione da
pregiudizio, che traduce la nozione di pregiudizio nel linguaggio dell’economia. Facciamo l’ipotesi che ci
siano due tipi di lavoratori nel mercato: i maschi e le femmine. Un datore di lavoro competitivo ha prezzi
costanti per questi due tipi di input: ww è il salario delle donne e wm è il salario degli uomini. Assumere
lavoratrici invece di lavoratori procura disutilità al datore di lavoro che ha dei pregiudizi nei confronti delle
donne. In altre parole, anche se costa solamente ww euro assumere una donna per un’ora, il datore di
lavoro si comporterà come se costasse ww (1 + d) dove d è un numero positivo ed è chiamato coefficiente
di discriminazione. Il coefficiente di discriminazione d, quindi, dà il “markup” percentuale del costo di
assumere un lavoratore che provoca disutilità al datore di lavoro. Se un lavoratore ha dei pregiudizi di
genere o di razza nei confronti dei colleghi si comporterà come se il suo salario fosse uguale non a wm ma a
wm (1 – d). E’ come se il lavoratore si sentisse pagato meno di quanto lo sia in realtà. Analogamente, un
consumatore con pregiudizi verso chi vende beni o servizi si comporta come se il prezzo del bene non fosse
uguale a p euro, ma invece uguagliasse p (1 + d). Il coefficiente di discriminazione, quindi, monetizza il
pregiudizio, indipendentemente dal fatto che la fonte del pregiudizio sia il datore di lavoro (discriminazione
del datore di lavoro), l’occupato (discriminazione dell’occupato), o il cliente (discriminazione del
consumatore).
La discriminazione del datore di lavoro
Consideriamo un mercato con due tipi di lavoratori, uomini e donne, perfetti sostituti nella produzione. La
funzione di produzione sarà:
q = f (Ew + Em)
L’output dell’impresa dipende dal numero totale degli assunti, indipendentemente dal genere. Ne deriva
che il prodotto marginale del lavoro è lo stesso se l’impresa assume donne o uomini. Dato che entrambi i
gruppi hanno lo stesso valore del prodotto marginale, un’ impresa che non discrimina assumerà il gruppo
più conveniente. Descriviamo ora la decisione di assumere di un’impresa che discrimina. Il datore di lavoro
si comporta come se il salario femminile sia ww (1 + d). La decisione del datore di lavoro è basata quindi su
un confronto tra wm e ww (1 + d). Se ww (1 + d) è maggiore di wm allora l’impresa assumerà solo uomini,
altrimenti assumerà solo donne: fintanto che uomini e donne sono perfetti sostituti, le imprese avranno
una forza lavoro per genere. L’impresa maschile assumerà lavoratori fino al punto in cui il salario dei
lavoratori uguaglia il valore del prodotto marginale, ovvero wm = VMPe. L’impresa maschilista sta pagando
un prezzo eccessivamente alto per i suoi lavoratori dato che il salario reale maschile è più elevato, e ne
assume relativamente pochi. Anche le imprese femminili tenderanno ad assumere pochi lavoratori.
Un’impresa con un coefficiente di discriminazione d si comporterà come se il prezzo del lavoro fosse ww (1
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+ d). L’impresa assumerà donne fino al punto in cui il prezzo aggiustato della disutilità uguaglia il valore del
prodotto marginale, ovvero ww (1 + d) = VMPe. La discriminazione non paga. La decisione di assunzione
delle imprese maschili, ad esempio, non è redditizia per due ragioni. Primo, il datore di lavoro con
pregiudizi potrebbe aver assunto lo stesso numero di lavoratrici a un salario inferiore. In più, le imprese
maschili assumono il numero sbagliato di lavoratori riducendo i propri profitti.
La discriminazione da parte dei colleghi di lavoro
Fate l’ipotesi che gli uomini preferiscano lavorare con uomini mentre le donne sono indifferenti al genere
dei colleghi. In tal caso i lavoratori che ricevono un salario di wm euro si comporteranno come se il loro
salario fosse solamente wm (1 – d), dove d è il coefficiente di discriminazione. Facciamo l’ipotesi che un
lavoratore abbia due offerte di lavoro che offrono lo stesso salario ma da un’impresa integrata che non ha
pregiudizi verso le donne e una che ha una forza lavoro completamente maschile. Dal punto di vista del
lavoratore l’impresa integrata offre un salario inferiore. Tuttavia un datore di lavoro che non discrimina e
che massimizza il suo profitto non sceglierebbe mai di avere un’impresa integrata, perché dovrebbe pagare
agli uomini un differenziale salariale compensativo, anche se hanno lo stesso prodotto marginale delle
donne. Dato che mescolare non conviene, donne e uomini finiranno per essere occupati in imprese
differenti. La discriminazione da parte dei colleghi comporta una forza lavoro completamente per genere. A
differenza della discriminazione del datore di lavoro, la discriminazione da parte del collega non genera un
differenziale salariale tra donne e uomini di pari qualifica, e non influenza la redditività delle imprese. Dato
che tutte le imprese pagano lo stesso prezzo per un’ora di lavoro e donne e uomini sono perfetti sostituti,
non c’è nessun vantaggio a essere un’impresa femminile o maschile.
La discriminazione del consumatore
Analizziamo il caso in cui siano i consumatori ad avere pregiudizi. Le loro decisioni di acquisto non sono
basate sul prezzo reale del bene, p, ma sul prezzo aggiustato per la disutilità, ovvero p (1 + d). La
discriminazione del consumatore riduce la domanda di beni e servizi venduti dal gruppo che provoca
disutilità. Finché l’impresa può collocare un particolare lavoratore in una delle tante diverse posizioni
all’interno dell’impresa, la discriminazione del consumatore potrebbe non essere molto importante.
La discriminazione statistica
Differenze di razza e di genere si possono verificare anche in assenza di pregiudizio quando l’appartenenza
ad un gruppo particolare fornisce informazioni sulle qualifiche e sulla produttività di un individuo. Un
datore di lavoro ha un posto di lavoro disponibile e vuole aggiungere un lavoratore a un gruppo che
funziona molto bene: cerca un lavoratore che oltre ai requisiti di intelligenza e ambizione, possa inserirsi
così bene da essere considerato un membro del gruppo nel lungo periodo. Due individui si candidano per il
posto. I curricula dei due candidati sono identici; l’unica differenza sta nel fatto che uno dei candidati è un
uomo e l’altro è una donna. Per prendere una decisione ponderata, il datore di lavoro valuterà le
esperienze occupazionali di uomini e donne in posizioni analoghe nella sua impresa, o in altre, di lavoratori
assunti nel passato. Fate l’ipotesi che questa statistica riveli che molte donne lasciano l’impresa alla nascita
di un figlio. Il datore di lavoro non ha modo di sapere se la candidata in questione intenda in tal caso
lasciare il lavoro, ma deduce dalle statistiche che le donne hanno una probabilità più elevata di lasciare il
posto di lavoro prima di avere completato il training. La discriminazione statistica si verifica perché le
informazioni raccolte dal curriculum e dal colloquio non predicono in modo perfetto la reale produttività
del candidato. L’incertezza induce il datore di lavoro a basarsi su statistiche della performance media del
gruppo (da qui il nome di discriminazione statistica) per prevedere la produttività di un particolare
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candidato. I candidati di gruppi ad alta produttività beneficiano del loro appartenere a quei gruppi, mentre
non ne beneficia chi appartiene a gruppi a bassa produttività. Raccogliamo le informazioni contenute nel
curriculum del candidato, il colloquio e qualsiasi altro test di selezione e diamo un punteggio T. L’ipotesi che
il punteggio del test sia in grado di prevedere perfettamente la produttività è irrealistica. Quindi, i datori di
lavoro possono voler legare la retribuzione del candidato non solo al punteggio T, ma anche al punteggio
medio del test del gruppo di candidati. Sotto certe condizioni ne deriva che la produttività attesa del
candidato sarà una media ponderata del punteggio del test del candidato e di quello del gruppo.
W = α T + (1 – α) Ṫ
Il parametro α misura la correlazione tra il punteggio del test e la reale produttività. Quanto maggiore è il
potere di predizione del test, tanto maggiore è il valore di α. Se le lavoratrici, in media, hanno un punteggio
più basso dei maschi e il valore di α è uguale per i due gruppi, un uomo che ottiene T* punti guadagna di
più di una donna con lo stesso punteggio. Se il test, invece, è un migliore predittore di produttività per gli
uomini, gli uomini con un punteggio elevato guadagneranno di più delle donne con punteggio elevato e le
donne con basso punteggio più degli uomini con basso punteggio. In questo caso il salario delle lavoratrici è
per la maggior parte definito sulla base della media del gruppo, mentre il salario del lavoratore è definito
prevalentemente dalle sue qualifiche.
Misurare la discriminazione
Abbiamo due gruppi di lavoratori: uomini e donne. Il salario medio degli uomini è dato da Wm e quello
delle donne da Ww. Una possibile definizione della discriminazione è data dalla differenza dei salari medi,
ovvero:
ΔW = Wm – Ww
Una definizione più precisa della discriminazione sul mercato del lavoro confronta i salari dei lavoratori di
pari qualifica. Quindi, vorremmo aggiustare il divario salariale grezzo per le differenze nelle qualifiche tra
uomini e donne. Per semplificare, fate l’ipotesi che una sola variabile, l’istruzione, che chiamiamo s,
influenzi i guadagni. Le funzioni dei guadagni per ogni gruppo possono essere scritte come:
funzione guadagni uomini: Wm = αm + βm Sm
funzione guadagni donne: Ww = αw + βw Sw
Il coefficiente βm ci dice quanto il salario di un uomo aumenta se ha un anno in più di istruzione. Le
intercette αm e αw danno l’intercetta del profilo età-guadagni per ogni gruppo. Se i datori di lavoro
valutassero nello stesso modo le qualifiche degli uomini e delle donne che hanno zero anni di istruzione, le
due intercette sarebbero le stesse. Il modello di regressione implica che il differenziale salariale grezzo
possa essere scritto come:
ΔW = Wm – Ww = αm + βm Ṡm – αw – βw Ṡw
Dove Ṡm dà l’istruzione media degli uomini e Ṡw quella delle donne. Possiamo ora scomporre il
differenziale salariale grezzo in una parte dovuta alle differenti qualifiche degli uomini e delle donne e una
parte che può essere attribuita alla discriminazione del mercato del lavoro. Per effettuare questa
scomposizione, conosciuta come scomposizione di Oaxaca, aggiungiamo e sottraiamo il termine (αm * Ṡw)
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alla parte destra dell’equazione. I vari termini possono essere riarrangiati così che possiamo riscrivere il
differenziale salariale grezzo come:
ΔW = (αm – αw) + (βm – βw) Ṡw + βm (Ṡm - Ṡw)
L’equazione mostra che il differenziale salariale grezzo si compone di due parti: il secondo termine è uguale
a zero se gli uomini e le donne hanno la stessa istruzione media, ovvero parte del differenziale salariale
nasce perché i due gruppi sono diversi nelle qualifiche. Il primo termine dell’equazione sarà positivo se il
datore di lavoro valuta l’istruzione dell’uomo più di quella della donna, oppure se paga solo di più gli uomini
delle donne per ogni dato livello di istruzione, così che l’intercetta della funzione dei guadagni è più alta per
gli uomini che per le donne. Il divario salariale che si verifica a causa di questo trattamento differenziale
degli uomini e delle donne è di solito definito discriminazione. La donna media ha Ṡw anni di istruzione e
guadagna Ww euro, mentre l’uomo medio ha Ṡm anni di scuola e guadagna Wm. Parte del differenziale si
verifica perché gli uomini hanno più istruzione delle donne: se le donne venissero pagate come gli uomini,
guadagnerebbero W*w. Una misura della discriminazione è data da (W*w – Ww).
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I SINDACATI
I sostenitori del movimento sindacale spesso affermano che i sindacati, ovvero le istituzioni che
rappresentano gli interessi dei lavoratori nel rapporto con le imprese, sono i principali responsabili del
miglioramento delle condizioni lavorative che è avvenuto in molti paesi sviluppati. L’analisi economica del
sindacato si fonda sull’ipotesi che le sue scelte massimizzino il benessere degli iscritti: i cosiddetti union
members. Gli incrementi salariali negoziati con le imprese sono la via principale attraverso cui i sindacati
aumentano il benessere degli iscritti. Il sindacato può spuntare salari più elevati del livello di concorrenza
perfetta solo in presenza di rendite dell’impresa, ovvero di profitti superiori alla normale remunerazione
dell’attività imprenditoriale.
Le determinanti dell’iscrizione al sindacato
I lavoratori scelgono se aderire a un sindacato se il sindacato offre un pacchetto salario-occupazione che dà
più utilità di quello offerto da un posto di lavoro non sindacalizzato.
Fate l’ipotesi che l’individuo non sia inizialmente iscritto al sindacato e lavori in un posto che offre il salario
competitivo w*. A questo salario la retta di bilancio del lavoratore è data da AT. Egli massimizza l’utilità
scegliendo il paniere consumo-tempo libero nel quale la curva di indifferenza U è tangente alla retta di
bilancio, ovvero il punto P. Il lavoratore non sindacalizzato consuma L* ore di tempo libero e lavora h* ore.
Iscrivendosi al sindacato, il lavoratore beneficia della copertura sindacale e degli incrementi salariali. Il
salario diventa wu e la retta di bilancio si sposta a BT. L’aumento del salario comporta un costo in termini di
occupazione. Se la curva di domanda di lavoro inclinata negativamente è elastica, l’aumento del salario
imposto dal sindacato riduce la settimana lavorativa a h₀ ore, cosicché il pacchetto ore-salario diviene P₀
sulla retta di bilancio BT. Iscrivendosi al sindacato il lavoratore starebbe peggio, poiché si sposta su una
curva di indifferenza più bassa, U₀. Se la curva di domanda è inelastica, i tagli occupazionali saranno
contenuti e la sindacalizzazione offrirà una combinazione salario-occupazione nel punto P₁. In questo caso
l’iscrizione al sindacato sposterà il lavoratore su una curva di indifferenza più alta, U₁, e il lavoratore
deciderà di iscriversi.
I sindacati monopolisti
L’analisi economica del sindacato si fonda sull’ipotesi che questo sia rappresentabile tramite una funzione
di utilità, come un qualunque individuo. Di solito si pensa che l’utilità di un sindacato dipenda
positivamente dal salario w e dall’occupazione E e che i sindacati traggano benessere da entrambi. Le curve
di indifferenza del sindacato hanno quindi la solita forma. Facciamo l’ipotesi che la contrattazione abbia
luogo a livello della singola impresa. Obiettivo del sindacato è massimizzare la propria utilità. L’impresa è
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caratterizzata da una curva di lavoro inclinata negativamente, che determina la quantità ottimale del
lavoro, da utilizzare per ciascun livello del salario. La curva di domanda del lavoro può essere vista come un
vincolo con cui il sindacato deve fare i conti quando avanza le proprie richieste salariali. Faremo l’ipotesi
che il sindacato abbia un forte potere contrattuale e sia in grado di imporre all’impresa il livello salariale
che preferisce. La chiameremo ipotesi del sindacato monopolista: il sindacato sceglie il livello salariale
compatibile con il perseguimento dei propri obiettivi, al pari del monopolista che è in grado di determinare
il prezzo di vendita dei propri prodotti.
Un sindacato monopolista massimizza l’utilità scegliendo il punto sulla curva di domanda D che è tangente
alla propria curva di indifferenza. Il sindacato domanda un salario pari a wm euro e il datore di lavoro fissa
l’occupazione a Em, inferiore al livello competitivo E*. Se la curva di domanda fosse più rigida e quindi
meno elastica, il sindacato potrebbe domandare un salario più elevato e ottenere maggiore utilità. Di
conseguenza le strategie sindacali hanno più successo quanto più la domanda di lavoro è rigida.
Applicazioni di politica economica: i sindacati e l’allocazione delle risorse
È importante notare che l’equilibrio salario-occupazione che deriva dal modello di sindacato monopolista è
inefficiente perché la presenza del sindacato riduce il valore totale del contributo del lavoro al reddito
nazionale. Se i lavoratori in eccesso nel settore sindacalizzato trovano lavoro nel settore non-sindacalizzato,
dove salari e occupazione sono determinati dal mercato, l’eccesso di offerta in tale settore viene assorbito
mediante tagli salariali. Poiché il salario, e quindi il valore del prodotto marginale del lavoro, differisce tra
settori dell’economia, siamo in presenza di un’inefficienza allocativa.
Esistono due settori nell’economia: il settore 1, la cui curva di domanda è D₁, e il settore 2 con la curva di
domanda D₂. La curva di domanda del settore 1 è disegnata nel modo usuale, mentre quella del settore 2
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va da destra verso sinistra. Infine, facciamo l’ipotesi che esiste una curva di offerta inelastica per
l’economia, così che un totale di H lavoratori sarà occupato in uno dei due settori. In assenza di sindacato, il
salario competitivo è w* e il reddito nazionale è dato dalla somma delle aree ABCD e A’BCD’. Il sindacato
aumenta il salario nel settore 1 a wu. I lavoratori licenziati si spostano dal settore 1 al settore 2, riducendo il
salario non contrattato dal sindacato a wn. Il reddito nazionale è dato dalla somma delle aree AEGD e
A’FGD’. La non corretta allocazione del lavoro riduce il reddito nazionale dell’area del triangolo EBF. Questo
triangolo è la perdita netta di produzione che si verifica perché il settore sindacalizzato sta assumendo
troppi pochi lavoratori e il settore non sindacalizzato ne sta assumendo troppi. L’area del triangolo
ombreggiato EBF nella figura è data da:
perdita di efficienza = ½ (wu – wn) (E₁ - E’₁)
La contrattazione efficiente
Forse l’impresa e il sindacato potrebbero trovare, accordandosi, un contratto di lavoro che non è sulla
curva di domanda e che aumenterebbe il benessere di almeno una delle parti, senza peggiorare quello
dell’altra. Una curva di isoprofitto dà le varie combinazioni salario-occupazione che producono lo stesso
livello di profitti. Un’impresa che massimizza il profitto è indifferente tra le varie combinazioni salariooccupazione che si trovano su una singola curva di isoprofitto. Se il salario è w₀, l’impresa massimizza i
profitti assumendo 100 lavoratori. Se il datore di lavoro volesse assumere 50 lavoratori e mantenere profitti
costanti, dovrebbe ridurre il salario. Analogamente se il datore di lavoro volesse assumere 150 lavoratori e
mantenere i profitti costanti, dovrebbe ridurre il salario. La curva di isoprofitto, quindi, ha la forma di U
rovesciata. Inoltre curve di isoprofitto più basse corrispondono a livelli di profitto più elevati.
Al salario competitivo w*, il datore di lavoro assume E* lavoratori. Un sindacato monopolista sposta
l’equilibrio nel punto M, richiedendo un salario wM. Sia il sindacato che l’impresa stanno meglio rispetto M
spostandosi dalla curva di domanda. Nel punto R il sindacato sta meglio (curva di indifferenza Ur più alta di
Um), e l’impresa non sta peggio che in M (stesso isoprofitto). Nel punto Q, il datore di lavoro sta meglio
(curva di isoprofitto più bassa), e il sindacato non sta peggio (stessa curva di indifferenza). I benefici dello
scambio si esauriscono solo in presenza di allocazioni per le quali isoprofitti e curve di indifferenza sono
tangenti. Definiamo curva dei contratti il luogo dei punti di tangenza isoprofitti-curva di indifferenza: le
allocazioni salari-occupazione situate sulla curva dei contratti esauriscono i benefici dello scambio. In altri
termini, tali allocazioni sono pareto-ottimali, non si possono modificare senza ridurre il benessere di
almeno una delle parti contrattuali. Ciascun punto del tratto RQ della curva dei contratti PZ rappresenta un
miglioramento paretiano rispetto all’equilibrio con sindacato monopolista. Questo tipo di contrattazione
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viene detto contrattazione efficiente, nel senso che il suo esito esaurisce tutti i benefici dello scambio. Se il
sindacato e l’impresa si mettono d’accordo per una combinazione di salario-occupazione sulla curva dei
contratti, il contratto derivante è chiamato contratto efficiente. Osservate che i due punti estremi sulla
curva dei contratti limitano il range dei possibili risultati del processo di contrattazione collettiva. Nel punto
P, i lavoratori iscritti al sindacato sono pagati il salario competitivo e tutte le rendite vanno all’impresa. Nel
punto Z, tutte le rendite sono trasferite ai lavoratori e l’impresa fa zero profitti. È importante osservare che
la curva dei contratti si trova a destra della curva di domanda. Per ogni dato salario un contratto efficiente
porta a una maggiore occupazione di quella che si sarebbe osservata in presenza di contrattazione con
sindacato monopolista. L’effettiva inclinazione della curva dei contratti dipende dalla forma di isoprofitti e
curva di indifferenza. In presenza di una curva dei contratti verticale l’impresa assumerà esattamente E*
lavoratori, ovvero l’occupazione sarà al livello di concorrenza perfetta. In questo caso il sindacato influenza
solo il salario. Se la curva dei contratti è verticale, l’accordo tra impresa e sindacato è detto contratto
fortemente efficiente, perché l’impresa sta utilizzando il fattore lavoro al livello che si realizzerebbe in
concorrenza perfetta. Questo tipo di contrattazione decide solo il modo in cui sindacato e imprese si
spartiscono la torta dei ricavi. Le combinazioni salario-occupazione su una curva dei contratti inclinata
positivamente sono efficienti solamente nel senso che esauriscono tutte le opportunità di contrattazione
tra datore di lavoro e sindacato, ma non sono efficienti in senso allocativo. Le combinazioni sulla curva dei
contratti verticale, invece, hanno il vantaggio di non distorcere l’allocazione di lavoro e non creano alcuna
perdita netta nell’economia nazionale.
Gli scioperi
Gli economisti hanno molta difficoltà a spiegare gli scioperi. Fate l’ipotesi che esistano 100€ di rendita da
dividere tra sindacato e impresa.
la retta inclinata negativamente illustra i modi in cui queste rendite possono essere suddivise. L’impresa
offre la divisione delle rendite nel punto Rf, nel quale l’impresa ottiene 75€ e il sindacato 25€. Il sindacato
fa una controfferta a Ru, dove riceve 75€ e l’impresa 25€. Nessuna delle due parti vuole arrendersi e si
proclama uno sciopero. Gli scioperi sono costosi per entrambe le parti. I profitti dell’impresa si riducono: lo
sciopero può diminuire il valore di lungo periodo di una marca e in più può far perdere consumatori in
modo permanente. I lavoratori perdono il reddito e, in casi estremi, i loro posti di lavoro. Come
conseguenza di ciò i ricavi da dividere diminuiscono. Giungeranno ad un accordo nel punto S dove ciascuno
ottiene 40€. Se sindacato ed impresa avessero potuto prevedere il risultato finale, si sarebbero potuti
accordare immediatamente per un’equa spartizione dei profitti, nel punto R* dove entrambi avrebbero
ottenuto 50€. Tale soluzione avrebbe aumentato la soddisfazione di entrambe le parti rispetto al risultato
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realizzatosi dopo lo sciopero. In altre parole, gli scioperi non sono pareto-ottimali. L’irrazionalità degli
scioperi è conosciuta come il paradosso di HIcks. Gli scioperi si verificano perché i lavoratori non sono bene
informati sulle condizioni finanziarie delle imprese e possono avere aspettative irragionevolmente
ottimistiche sulla dimensione dei profitti da spartire. Esiste cioè informazione asimmetrica sul tavolo della
contrattazione, in quanto l’impresa conosce meglio la dimensione della torta rispetto al sindacato. Dato che
i lavoratori non conoscono la reale condizione finanziaria dell’impresa, lo sciopero insegna una lezione ai
lavoratori. La curva di resistenza del sindacato riassume la lezione imparata. Basandosi sulle informazioni
incomplete della dimensione della torta prima dello sciopero, i sindacati avanzano una richiesta salariale
iniziale pari a w₀. La realizzazione e la durata dello sciopero segnalano al sindacato che forse l’impresa non
è così redditizia come pensava e lo incoraggiano a moderare le sue richieste. I sindacati modereranno le
loro richieste salariali quanto più a lungo durano gli scioperi, generando una curva di resistenza del
sindacato inclinata negativamente. L’impresa sa che il sindacato modererà le sue richieste con il passare del
tempo. Anche se l’impresa sa che avrebbe un costo del lavoro inferiore se aspettasse la fine dello sciopero,
gli scioperi sono costosi. Quindi, l’impresa vorrà confrontare il valore presente dei profitti in caso di resa
immediata con quello che risulterebbe dopo un mese di sciopero, dopo due mesi e così via. L’impresa
sceglie dunque la durata dello sciopero che massimizza il valore presente dei profitti. Ciò avviene nel punto
in cui la curva di resistenza del sindacato è tangente con la sua curva di isoprofitto più bassa.
L’ipotesi exit voice
I sindacati influenzano molti altri aspetti del rapporto di occupazione, tra cui la produttività del lavoratore,
il turnover e la soddisfazione sul lavoro. Un canale importante attraverso il quale i sindacati esercitano la
loro influenza è conosciuto come l’ipotesi exit voice. Senza sindacati, i lavoratori non avrebbero un
meccanismo per lamentarsi con i datori di lavoro delle condizioni lavorative, dei salari o degli altri aspetti
del rapporto di lavoro. Il modello exit voice ha effetti importanti sul rapporto di lavoro nelle imprese nelle
quali è presente un sindacato. Per esempio, dato che i lavoratori non hanno bisogno di dimettersi, il
turnover dovrebbe essere più basso nelle imprese sindacalizzate. La maggiore stabilità dell’occupazione
nelle imprese sindacalizzate è il canale attraverso il quale i sindacati influenzano positivamente la
produttività dell’impresa. Il turnover è costoso: interrompe il processo produttivo, richiede spese notevoli
in ricerca del personale e aumenta il costo di addestramento della forza lavoro. L’ipotesi exit voice induce
quindi il sindacato ad aumentare la produttività dell’impresa sindacalizzata. L’impatto positivo dei sindacati
sulla produttività, tuttavia, non è abbastanza grande da compensare l’impresa per i maggiori costi del
personale: le imprese sindacalizzate hanno minori profitti.
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LA DISOCCUPAZIONE
Un equilibrio concorrenziale rende l’offerta di lavoro uguale alla domanda: il salario di equilibrio fa si che
tutti gli individui che cercano un lavoro possano trovarlo. Nonostante ciò, in alcuni mercati del lavoro la
disoccupazione può essere un fenomeno diffuso. È difficile comprendere l’esistenza e la persistenza della
disoccupazione in relazione al tipico modello di offerta e domanda a meno che: le imprese paghino salari
sopra il livello di equilibrio ed esiste un eccesso di offerta di lavoro; o i salari siano rigidi e non possano
essere ricondotti al livello di equilibrio. Molte persone si trovano tra un lavoro e l’altro: o hanno appena
lasciato un lavoro, o sono state licenziate o stanno entrando o rientrando nel mercato del lavoro. Occorre
tempo per individuare le opportunità di lavoro disponibili. Perciò, anche in un’economia di mercato che
funzioni bene esiste un certo grado di disoccupazione, poiché i lavoratori sono spesso alla ricerca di
impiego. In sostanza, il livello di equilibrio della disoccupazione non sarà mai uguale a zero. Tuttavia, molti
lavoratori sono disoccupati non perché sono tra un lavoro e l’altro, ma a causa di un fondamentale
squilibrio tra la domanda e l’offerta.
La disoccupazione in Italia
I dati italiani sono messi a confronto con quelli americani per evidenziare come i due mercati rappresentino
due casi opposti di organizzazione e regolazione del mercato del lavoro: una forte regolazione istituzionale
nel caso italiano e una forte predominanza del mercato nel caso americano. Il tasso di disoccupazione è la
percentuale della forza lavoro in cerca di occupazione. Molte persone che vorrebbero lavorare potrebbero
essersi ritirate dalla forza lavoro, perché non riuscivano a trovare un impiego. Il numero totale dei
disoccupati non include questi lavoratori scoraggiati, quindi il tasso ufficiale di disoccupazione potrebbe
sottostimare la vera portata numerica del problema. Questo è il caso italiano: all’aumento lieve della
disoccupazione marginale registrata corrisponde un aumento dell’inattività soprattutto al Sud, dove, al
contrario, i tassi di disoccupazione sono in diminuzione. La disoccupazione non colpisce in maniera uguale
tutti i lavoratori, ma si concentra su particolari gruppi demografici e tra lavoratori in settori particolari
dell’economia. Le variabili che caratterizzano maggiormente la disoccupazione italiana sono la collocazione
geografica, il sesso, l’età e la segmentazione delle tutele. I disoccupati italiani si concentrano soprattutto al
Sud, tra i giovani, le donne, i non istruiti, coloro che lavorano in imprese piccole, senza sindacato e con vari
contratti temporanei. I lavoratori più giovani e le donne hanno più probabilità di essere disoccupati dei
lavoratori più anziani. Anche negli USA il tasso di disoccupazione è più elevato per i giovani e la
disoccupazione colpisce più le donne che gli uomini, ma recentemente il divario di genere va scomparendo
sia per l’aumento della forza lavoro femminile che per il declino delle fortune della manifattura, che occupa
storicamente più uomini, e per la crescita dei servizi, che occupano più donne. L’istruzione è la variabile
principale che spiega la disoccupazione negli Stati Uniti: il tasso di disoccupazione è molto più alto per iu
lavoratori meno istruiti. L’istruzione riduce ovunque il tasso di disoccupazione per due motivi. I lavoratori
istruiti investono più in addestramento sul lavoro: poiché l’addestramento specifico crea un legame fra
imprese e lavoratori, è probabile che le imprese tendano a non licenziare i lavoratori istruiti quando si
trovano ad affrontare condizioni economiche negative. Inoltre, quando i lavoratori istruiti cambiano lavoro,
lo fanno senza passare attraverso la disoccupazione: sono meglio informati o hanno migliori canali per
conoscere le opportunità di lavoro alternative. Un lavoratori può trovarsi disoccupato per 4 motivi: alcuni
perdono il lavoro perché vengono licenziati; altri lasciano il lavoro; alcuni, alla ricerca di lavoro, rientrano
nel mercato dopo essere stati nel settore non di mercato; e altri che cercano lavoro sono nuovi sul
mercato, come quelli appena diplomati o laureati. La disoccupazione italiana ha una componente di lunga
durata molto elevata. A influenzare il calcolo della disoccupazione ci sono anche i lavoratori scoraggiati che
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hanno smesso di cercare lavoro perché da tempo non riescono a trovare occupazione: se si includono i
lavoratori marginali, il tasso di disoccupazione aumenta dell’1%. Un gruppo più grande sono i sottoccupati,
quelli che vogliono o sono disponibili a lavorare a tempo pieno ma si sono dovuti accontentare di
un’occupazione part-time. L’inclusione dei sottoccupati nel numeratore del tasso di disoccupazione
aumenta il tasso di altri 3-4 punti percentuali. Nel mercato del lavoro italiano, l’impossibilità di usare la
flessibilità in uscita ha spostato tutta la flessibilità sull’entrata nel mercato. I contratti temporanei sono
serviti non solo a contrastare l’incertezza ciclica e le procedure di licenziamento, ma anche a verificare le
capacità del lavoratore: la durata del periodo di prova è brevissima e non è mai stata cambiata dal ’93,
nonostante le trasformazioni del processo produttivo. Nei paesi dove la flessibilità del mercato del lavoro
esiste da molto tempo, è considerato normale che i giovani cambino spesso lavoro e si muovano tra
occupazioni più o meno stabili nel percorso formativo della loro professionalità. Un altro fenomeno tipico
del mercato del lavoro italiano è l lavoro sommerso. Una quota elevata del lavoro italiano continua ad
essere sommersa: nel 2006 il sommerso rappresentava il 12% del totale, di cui l’11,9% riconducibile a
stranieri irregolari presenti sul territorio nazionale.
Tipi di disoccupazione
La disoccupazione frizionale esiste perché sia i lavoratori che le imprese hanno bisogno di tempo per
trovarsi ed elaborare le informazioni sul valore del job match. L’esistenza di una disoccupazione frizionale
non implica che esiste un notevole problema strutturale nell’economia, come uno squilibrio tra il numero di
individui in cerca di lavoro e i posti disponibili. Esistono anche delle facili soluzioni di politica economica per
ridurre la disoccupazione frizionale, come dare ai lavoratori informazioni sui posti di lavoro liberi e alle
imprese informazioni sui lavoratori disoccupati. Molti lavoratori sperimentano la disoccupazione
stagionale. Sia nell’agricoltura che nell’industria dell’abbigliamento o dell’auto, i lavoratori vengono sospesi
perché periodicamente vengono introdotti nuovi modelli, e le imprese chiudono per potersi riorganizzare. I
momenti di disoccupazione stagionale sono di solito molto prevedibili. Pertanto, la disoccupazione
stagionale, così come quella frizionale, non è il vero problema della disoccupazione. Ciò che causa maggiore
preoccupazione è la disoccupazione strutturale. Fate l’ipotesi che il numero di lavoratori che sta cercando
lavoro sia uguale al numero di posti disponibili e non esista squilibrio tra il numero totale di posti offerti e
domandati. La disoccupazione strutturale può ancora verificarsi se le tipologie di individui che cercano
lavoro non hanno caratteristiche conformi ai lavori disponibili. I tempi della disoccupazione dei lavoratori
collocati fuori dall’impresa potrebbero essere lunghi, poiché essi devono adeguare le loro competenze. La
disoccupazione strutturale si verifica quindi a causa del mancato incontro tra le competenze che i lavoratori
offrono e quelle che le imprese domandano. Il problema sono le qualifiche: i disoccupati sono prigionieri di
un capitale umano che non serve più a nessuno. Per ridurre questo tipo di disoccupazione il governo
potrebbe offrire programmi di formazione per dotare i lavoratori collocati fuori dall’impresa delle
competenze che sono ora richieste. Lo squilibrio strutturale tra il numero di coloro che cercano lavoro e il
numero di posti disponibili potrebbe esserci anche se le competenze fossero perfettamente trasferibili tra i
diversi settori. Questo squilibrio può derivare dal fatto che l’economia è entrata in recessione. Le imprese
richiedono meno forza lavoro per adattarsi alla riduzione di domanda dei consumatori e i datori di lavoro
licenziano molti lavoratori, generando una disoccupazione ciclica. C’è un eccesso di offerta di lavoro, ma il
mercato non torna in equilibrio perché i salari sono rigidi e non si possono aggiustare verso il basso.
Il tasso di disoccupazione stazionario (steady-state)
Il flusso di lavoratori tra diversi lavori e l’entrata e uscita dal mercato generano una certa quantità di
disoccupazione. È facile calcolare il tasso di disoccupazione stazionario, cioè il tasso di dioccupazione di
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lungo periodo che deriva da questi flussi di lavoro. Esiste un totale di E occupati e U disoccupati. In ogni
dato periodo, sia l la frazione di occupati che perde il lavoro e diventa disoccupata e sia h la frazione dei
disoccupati che trova lavoro e viene assunta. In uno stato stazionario, nel quale l’economia ha raggiunto un
equilibrio di lungo periodo, il tasso di disoccupazione sarebbe costante nel tempo e, quindi, il numero di
lavoratori che perde il lavoro eguaglierebbe il numero di disoccupati che trova lavoro. Questo implica che:
lE=hU
la forza lavoro è definita come la somma delle persone che sono occupate o disoccupate, così LF = E + U.
Sostituendo si avrà:
l (LF – U) = h U
Riorganizzando i termini possiamo risolvere per il tasso di disoccupazione stazionario
Tasso di disoccupazione stazionario = U / LF = l / (l + h)
L’equazione evidenzia che il tasso di disoccupazione stazionario è determinato dalla probabilità di
transizione da occupazione a disoccupazione (l e h). Le politiche economiche mirate a ridurre la
disoccupazione stazionaria devono alterare entrambe queste probabilità. Il tasso di disoccupazione è
minore quando i lavori sono più stabili e maggiori quando la durata della disoccupazione è più lunga. In
altre parole, due fattori chiave determinano il tasso di disoccupazione: l’incidenza della disoccupazione,
cioè la probabilità che un lavoratore perda il suo lavoro, l, e la durata dei tempi della disoccupazione, che è
uguale a l/h. Il tasso di disoccupazione stazionario è chiamato talvolta tasso naturale di disoccupazione
La ricerca di lavoro
Poiché imprese differenti offrono differenti opportunità di impiego e poiché i lavoratori non sono
completamente informati su dove si trovano i posti migliori, occorre tempo per trovare le opportunità
disponibili. Ogni lavoratori può scegliere fra diverse offerte di lavoro. Differenziali salariali per gli stessi
lavori incoraggiano un disoccupato a proseguire la ricerca finché trova un’offerta di lavoro migliore. Dato
che serve tempo per conoscere le opportunità che ci sono in giro, le attività di ricerca allungano la durata
del periodo di disoccupazione. In realtà, la disoccupazione da ricerca è una forma di investimento in
capitale umano: il lavoratore sta investendo in informazioni sul mercato del lavoro. La distribuzione
dell’offerta di salario dà la distribuzione di frequenza che descrive le varie offerte disponibili per un
particolare disoccupato sul mercato del lavoro.
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La figura illustra una tipica distribuzione di offerte salariali. Il lavoratore può finire per avere un posto di
lavoro che viene pagato tra i 5€ e i 25€ all’ora. Se questa attività di ricerca non costasse niente, il lavoratore
continuerebbe a bussare a tutte le porte finché non incontra l’impresa che paga il salario di 25€. In realtà
questa ricerca è costosa: ogni volta che il lavoratore si mette alla ricerca di un posto di lavoro, paga dei costi
di trasporto ed altre spese, come un’agenzia di collocamento privato. Ma paga anche un costo opportunità
perché potrebbe aver lavorato ad un salario più basso. Il trade-off economico del lavoratore è chiaro: più a
lungo cerca lavoro, maggiore è la probabilità di trovare un’offerta con un salario elevato, maggiori sono i
costi sostenuti per trovare quel lavoro. Il lavoratore potrebbe scegliere una strategia di ricerca non
sequenziale, ovvero prima di iniziare decide che visiterà a caso 20 imprese e accetterà il lavoro che verrà
pagato il salario più elevato. La strategia di ricerca non è ottima. Una strategia migliore è la ricerca
sequenziale. Prima che il lavoratore inizi il processo di ricerca, decide quali offerte di lavoro è disposto ad
accettare. Per esempio, potrebbe decidere che non è disposto a lavorare per meno di 12€ all’ora. Il
lavoratore visiterà quindi un’impresa e confronterà questa offerta di lavoro con il salario desiderato di 12€.
Se l’offerta di lavoro supera i 12€, accetterà il lavoro, interromperà la ricerca e il periodo di disoccupazione
finirà. Se l’offerta di lavoro è inferiore a 12€, rifiuterà l’offerta e inizierà un nuovo processo di ricerca. Il
salario richiesto è il salario-soglia che determina se il disoccupato accetta o rifiuta l’offerta di lavoro che ha
ricevuto. Esiste un chiaro legame tra il salario richiesto dal lavoratore e la durata del suo periodo di
disoccupazione. Coloro che chiedono salari bassi troveranno velocemente posti di lavoro accettabili e il
periodo di disoccupazione sarà breve, mentre quelli che chiederanno un salario alto impiegheranno tanto
tempo per trovare il giusto lavoro e il periodo di disoccupazione durerà tanto più a lungo quanto maggiore
è il salario richiesto. La curva del ricavo marginale esprime il ricavo di una ricerca in più, ed è inclinato
negativamente perché quanto migliore è l’offerta di lavoro disponibile, tanto meno si guadagna da
un’ulteriore ricerca. La curva del costo marginale dà il costo di una ricerca ulteriore ed è inclinata
positivamente perché quanto migliore è l’offerta che abbiamo davanti tanto maggiore è il costo
opportunità di un’ulteriore ricerca. Il salario richiesto rende uguali il ricavo marginale e il costo marginale
della ricerca e quindi rende il lavoratore indifferente tra continuare e interrompere la sua attività di ricerca.
Il salario richiesto dal lavoratore dipenderà da variazioni dei sussidi e dei costi della ricerca. Come con gli
investimenti in capitale umano, i benefici della ricerca vengono raccolti in futuro, per cui dipendono dal
tasso di sconto del lavoratore. I lavoratori con alto tasso di sconto sono present-oriented e quindi hanno
una percezione di bassi rendimenti futuri della ricerca; le curve dei ricavi marginali sono più basse e di
conseguenza avranno salari richiesti inferiori. Dato che questi lavoratori non hanno la pazienza di aspettare
finché arriva un’offerta migliore, accettano le offerte di salario più basse e hanno periodi di disoccupazione
più brevi. Una componente importante dei costi di ricerca è il costo opportunità che deriva dal rifiutare
un’offerta di lavoro e dal continuare la ricerca. I sussidi riducono il costo marginale della ricerca e
aumentano il salario richiesto. Il sistema di assicurazione contro la disoccupazione quindi ha tre effetti
importanti: allunga i periodi di disoccupazione, aumenta il tasso di disoccupazione e aumenta i salari postdisoccupazione. Per concludere, dal modello di ricerca del lavoro si ricavano due fondamentali previsioni. Il
periodo di disoccupazione dura più a lungo quando il costo della ricerca diminuisce e quando aumentano i
benefici della ricerca. Se il ricavo marginale e il costo marginale della ricerca sono costanti nel tempo, anche
il salario richiesto dovrebbe essere costante nel tempo. Un disoccupato avrebbe la stessa probabilità di
trovare un posto di lavoro nella prima settimana di disoccupazione come nella trentesima. Non è tuttavia
pensabile che la probabilità di uscire dalla disoccupazione sia indipendente dalla durata stessa. La ricerca è
costosa. Il disoccupato ha mezzi limitati e incontrerà ad un certo punto un vincolo di liquidità: non avrà più i
soldi per continuare la ricerca. Il vincolo di liquidità fa comprendere al lavoratore che non può passare il
resto della vita a cercare il miglior lavoro possibile e dovrà accontentarsi di meno.
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L’ipotesi di sostituzione intertemporale
L’ipotesi di sostituzione intertemporale ha implicazioni importanti per il modo in cui i lavoratori
distribuiscono il loro tempo nel ciclo economico. Dato che costa poco consumare tempo libero quando il
salario reale è basso, i lavoratori sono disposti a ridurre l’offerta di lavoro durante le recessioni. L’ipotesi di
sostituzione intertemporale si basa su due ipotesi: il salario reale è pro-ciclico e l’offerta di lavoro risponde
agli spostamenti del salario reale. L’oscillazione del salario reale nel ciclo economico è difficile da calcolare
perché la composizione della forza lavoro cambia durante il ciclo. Di solito la disoccupazione ha un effetto
negativo proprio sui lavoratori a bassa qualifica.
I salari d’efficienza
Quando le imprese trovano costoso monitorare il risultato del lavoratore potrebbero utilizzare i salari
d’efficienza per comprare la collaborazione del lavoratore. Dato che l’impresa paga salari superiori a quelli
di mercato, i modelli del salario di efficienza generano disoccupazione involontaria. Non esistono pressioni
sull’impresa per ridurre il salario perché il salario di efficienza è il salario che massimizza il profitto: se
l’impresa riduce il salario, i risparmi sul costo del lavoro sarebbero più che compensati dalle perdite di
produttività causate dalla tendenza a fare il meno possibile. Possiamo interpretare la disoccupazione
causata dal salario di efficienza come il bastone che fa stare in riga lavoratori fortunati che hanno un lavoro
ben retribuito. Se fare lo scansafatiche non è un problema, il mercato è in equilibrio al salario w*, dove
l’offerta eguaglia la domanda. Se il monitoraggio è costoso, la minaccia di disoccupazione può far stare in
riga i lavoratori. Se la disoccupazione è elevata le imprese possono attirare lavoratori che non vogliono fare
scansafatiche a un salario molto basso; se la disoccupazione è bassa le imprese devono pagare un salario
elevato per assicurarsi che i lavoratori non facciano gli scansafatiche. Questo modello genera la curva di
offerta senza scansafatiche, NF, inclinata positivamente. Osservate che la curva NS non toccherà mai la
curva di offerta inelastica in E lavoratori e che la differenza tra le due curve dà il numero di lavoratori che
sono disoccupati. Se il mercato occupa tutti i lavoratori a un particolare salario, allora uno scansafatiche
che viene licenziato può uscire in strada e trovare un altro lavoro, quindi non c’è più punizione. L’intuizione
del modello del salario di efficienza è chiara. Un po’ di disoccupazione è necessaria per far stare in riga i
lavoratori. Il salario di equilibrio è dato dall’intersezione della curva di offerta senza scansafatiche e la curva
di domanda di lavoro. Il salario wns è il salario di efficienza e le imprese occuperanno Ens lavoratori, così
che E – Ens lavoratori saranno disoccupati. Vale la pena di osservare molte proprietà di questo equilibrio:
non esistono pressioni del mercato che spingono il salario di efficienza in basso verso il salario competitivo;
i lavoratori non fanno gli scansafatiche in questo mercato del lavoro; esiste una disoccupazione
involontaria. La disoccupazione strutturale generata dai salari di efficienza è molto diversa da quella
generata dalla ricerca di lavoro. La disoccupazione da ricerca è produttiva: è un investimento in
informazioni che porta ad un lavoro pagato di più. La disoccupazione da salari di efficienza è involontaria e
improduttiva. È produttiva dal punto di vista dell’impresa: rende gli occupati onesti, aumentando la
produzione.
I contratti impliciti
La natura di lungo periodo dei contratti di lavoro offre occasione ai lavoratori e alle imprese di contrattare
sia i salari, sia il numero di ore di lavoro, sia la probabilità di essere licenziati. Poiché questi contratti
esistono anche se i lavoratori non sono rappresentati da istituzioni ufficiali come i sindacati, sono chiamati
contratti impliciti. Esistono molti tipi di contratti impliciti possibili tra lavoratori e imprese. Considerate, in
particolare, due tipi estremi di contratto. Il primo è un contratto a occupazione fissa con il quale l’individuo
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lavora lo stesso numero di ore all’anno, indipendentemente dalle condizioni economiche che l’impresa si
trova di fronte. Il secondo è un contratto a salario fisso nel quale il lavoratore riceve lo stesso salario orario,
ancora indipendentemente dalle condizioni economiche che l’impresa deve affrontare. Molti studi hanno
sostenuto che i lavoratori, in generale, preferiscono contratti a salario fisso e sono disposti ad accettare i
licenziamenti come una parte del rapporto di occupazione di lungo periodo. In altre parole, i lavoratori
sono disponibili ai contratti impliciti, con redditi relativamente stabili nel ciclo economico e ore lavorative
variabili. La disoccupazione generata da questo tipo di contratto implicito è volontaria. I lavoratori stanno
meglio con il contratto a salario fisso e accettano i licenziamenti in cambio di un sentiero di consumo più
stabile.
Applicazioni di politica economica: la curva di Phillips in un confronto internazionale
Nel 1958, Andrew Phillips ha pubblicato un famoso studio che documenta una relazione negativa tra il
tasso di inflazione e il tasso di disoccupazione nel Regno Unito dal 1861 al 1957. La relazione negativa tra
queste due variabili è ora conosciuta come la curva di Phillips. Secondo la curva di Phillips potrebbe esserci
un trade-off tra inflazione e disoccupazione. In base a ciò che il governo percepisce come l’interesse
nazionale, vengono perseguite politiche economiche monetarie e fiscali che riducano la disoccupazione a
costo di una maggiore inflazione. Dove il mercato è il meccanismo di regolazione, come negli Stati Uniti,
troviamo una curva di Phillips da libro di testo e l’inflazione viene sconfitta più rapidamente. Al contrario,
dove le istituzioni sono più deboli e divise, come in Italia, non emerge una regola di policy coerente e
domina la legislazione contrattata. L’esperienza britannica è probabilmente a metà strada: istituzioni forti
hanno collaborato con un governo impegnato e credibile nella lotta all’inflazione. L’analisi italiana è in parte
riconducibile a rigidi accordi di negoziazione e all’indicizzazione del salario, su cui si basa la protezione del
salario reale. Certamente vi sono altre spiegazioni, la più importante delle quali suggerisce che in Italia la
politica fiscale ha prevalso sugli obiettivi di politica monetaria e delle relazioni industriali. Nel momento in
cui l’esperienza dell’inflazione-disoccupazione degli anni settanta stava demolendo la nozione di una curva
di Phillips stabile, alcuni economisti hanno cominciato a sostenere che un trade-off di lungo periodo tra
inflazione e disoccupazione non aveva senso teorico. Sostenevano che la teoria economica dà origine a una
curva di Phillips di lungo periodo verticale: esiste un tasso di disoccupazione d’equilibrio, chiamato tasso
naturale di disoccupazione, che persiste indipendentemente dall’inflazione. L’economia è inizialmente in
un punto dove non esiste inflazione e la disoccupazione è al 5%. Se una politica monetaria aumenta il tasso
di inflazione al 7%, chi cerca lavoro troverà improvvisamente molti posti di lavoro che incontreranno il suo
salario di riserva e il tasso di disoccupazione diminuirà nel breve periodo. Con il passare del tempo, i
lavoratori realizzano che il tasso di inflazione è più alto e aggiustano il loro salario di riserva verso l’alto. Nel
lungo periodo, quindi, non esiste trade-off tra inflazione e disoccupazione. L’esperienza di molti paesi
sviluppati ha insegnato la difficile lezione che non esiste trade-off di lungo periodo: aumenti del tasso di
inflazione non riducono il tasso naturale di disoccupazione, ma portano solamente a prezzi maggiori. Come
abbiamo visto prima, il tasso naturale di disoccupazione è in parte determinato dalle probabilità di
transizione che misurano il tasso a cui perdono il lavoro gli occupati, il tasso a cui lo trovano i disoccupati e
la grandezza dei flussi tra i settori di mercato e non di mercato. È inevitabile che gli spostamenti
demografici influenzino il tasso naturale di disoccupazione. Per esempio, le coorti del baby boom che sono
entrate sul mercato del lavoro negli anni Settanta e Ottanta hanno probabilmente aumentato il tasso
naturale. È più probabile che i lavoratori giovani si trovino in transito tra un posto di lavoro e un altro e
provino diverse opportunità di lavoro alternative. Abbiamo anche assistito a una continua crescita del tasso
di partecipazione delle donne alla forza lavoro. Quando le donne entrano, escono e poi rientrano nel
mercato del lavoro, è inevitabile che ci sia un po’ di disoccupazione. Questi spostamenti demografici
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potrebbero aver aumentato il tasso naturale di disoccupazione di più di un punto percentuale tra gli anni 50
e gli anni 80.
Perché l’Europa ha un tasso di disoccupazione alto?
Le tendenze dell’occupazione sono diverse. Gli Stati Uniti hanno generato la più forte job creation che
ha superato la crescita della popolazione, mentre l’Europa ha avuto una crescita debole dei posti di
lavoro che non hanno tenuto il passo con la crescita della popolazione. Il problema europeo è la
disoccupazione di lungo periodo; una notevole quota dei disoccupati di molti paesi lo è da più di un
anno. Il fattore più importante è l’assicurazione contro la disoccupazione più generosa nei paesi
dell’Europa occidentale che negli Stati Uniti sia in termini di livello che di durata dei benefici. Molti
paesi europei hanno legislazioni severe di protezione contro la disoccupazione che limitano il diritto
dei datori di lavoro a licenziare i lavoratori quando vogliono o che richiedono ai datori di lavoro di
pagare sanzioni molto pesanti al momento del licenziamento. Poiché le imprese europee sanno che è
costoso licenziare, non vogliono assumere nuovi lavoratori o richiamare i lavoratori temporaneamente
sospesi finché le condizioni favorevoli non siano stabili. L’incertezza sulla crescita dell’impresa crea
inevitabilmente lunghi periodi di disoccupazione. Un altro elemento che contraddistingue molti paesi
europei sono le trattenute in busta paga: il cuneo fiscale, cioè la differenza tra i costi del lavoro e la
busta paga dei lavoratori. Il peso fiscale relativamente alto sui mercati del lavoro europei riduce
ulteriormente l’occupazione. I salari negli Stati Uniti sono più flessibili di quelli europei. In risposta ai
vari shock degli anni 80 e 90 l’economia statunitense ha visto aumentare molto la disuguaglianza tra
lavoratori a basso e alto salario. Le restrizioni all’aggiustamento del mercato del lavoro in alcuni paesi
europei hanno reso il salario relativamente stabile e hanno favorito tassi di disoccupazione elevati. La
rigidità dei salari in alcuni mercati del lavoro europei può essere dovuta in parte all’alto tasso di
sindacalizzazione. I lavoratori iscritti al sindacato sono avvantaggiati perché mantengono il posto di
lavoro, mentre gli outsider, i lavoratori che hanno perso il lavoro, possono fare poco per aumentare la
concorrenza sul mercato.
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