Le mura Aureliane
Si devono ad Aureliano, che regna dopo decenni di grave crisi e di instabilità politica a causa della
divisione dell’impero e delle prime invasioni dei popoli germanici. Sono una risposta ad un’esigenza
di difesa e di protezione della città. Sono lunghe 19 km, costituiscono una vera e propria megalopoli
e il loro percorso racchiude non solo il centro storico ma anche quartieri (Campo Marzio) ed edifici
imponenti (Terme di Caracalla e Castra: edifici che servivano alla difesa della città). Sono mura
particolari: sono imponenti, ma vennero costruite in pochi anni con costi enormi di costruzione. Si
sviluppano su 20 km di percorso. Impiego di calcestruzzo e rivestimento in mattoni.
Fin dall’inizio il progetto prevede 6 metri d’altezza e un totale di 390 torri. Il punto più interessante
è quello di Porta Prenestina. È un monumento del 52 d.C. che ha molteplici funzioni: è intanto una
porta d’ingresso di una strada importante, ma è soprattutto il punto di interconnessione tra diversi
acquedotti (Anio nuovo e Acqua Claudia). Ha due fornici, è dotata infatti di un secondo ingresso,
ovvero quello della via Levicana. Questa porta era una monumentalizzazione di un crocevia di strade
e acquedotti. Si riconosce, inoltre, il monumento funerario del panettiere, indizio del fatto che in
età claudia questa zona, che in età augustea era una necropoli, diventa urbanizzata. Il monumento
funerario esisteva prima, mentre la porta viene costruita in età claudia. Il monumento non viene
inglobato nella porta ma rimane nel paesaggio extra-urbano. C’è una stratificazione orizzontale di
edifici, di presenze, di contesti, di monumenti, lungo i secoli: età augustea, età claudia, fine terzo
secolo d.C.
C’è poi la piramide di Cestio, situata all’interno del percorso delle mura aureliane. Essa viene
inglobata nel percorso delle mura che sfruttano questa preesistenza per vari motivi: sia per risparmiare
qualche metro di mura sia per evitare che questo edificio potesse essere un punto di avvistamento. Le
mura aureliane si addossano ad un fianco della piramide.
Le mura sopravvivono a lungo, sono ancora per lunghi tratti conservate. Una testimonianza della
Roma antica che è rimasta a vista più di altri monumenti. Hanno mantenuto la loro funzione di cortina
di difesa per secoli e secoli. Un altro edificio inglobato all’interno delle mura aureliane si chiama
Anfiteatro Castrense, piccolo anfiteatro di proprietà imperiale risalente alla dinastia dei Severi
(Inizio del terzo secolo d.C.), ubicato nel complesso del palazzo Sessoriano, posto ai margini della
città. Quest’ultimo, fatto erigere dalla dinastia dei Severi, lungo la via Appia, lontano dal centro, è
una sorta di residenza in cui la famiglia poteva trovare momenti di intrattenimento e di riposo. È un
palazzo che denota già la tendenza degli imperatori ad allontanarsi dal centro di Roma che, ormai,
non era più sicura come un tempo e doveva essere costantemente controllata dalla guardia pretoriana
(guardie private dell’imperatore che risiedono in una caserma posta ai margini della città, i cosiddetti
“castra”). Questo anfiteatro viene inglobato nelle mura aureliane e trasformato in bastione. Gli archi
dell’anfiteatro decorativi e aperti verso l’esterno (posti su tre livelli o piani) vengono ovviamente
murati, perché potevano costituire un punto debole, un punto d’ingresso per il nemico. In epoca
repubblicana gli edifici da spettacolo venivano osteggiati dal senato per motivi moraleggianti, di
costumi ma anche per questioni di sicurezza pubblica. Ciò si verifica anche nel tardo antico, con le
invasioni barbariche. Gli edifici da spettacolo hanno un po' questa dicotomia: essere luoghi di
intrattenimento e potenzialmente dei luoghi strategici dal punto di vista bellico. Gli anfiteatri, ad
esempio, potevano essere tramutati molto facilmente in piccoli castelli. Nei secoli questo luogo
diventa l’orto del convento di Santa Croce in Gerusalemme, chiesa molto importante per questo
quartiere di Roma.
Le mura aureliane, un po' come quelle serviane, hanno due fasi cronologicamente molto ravvicinate:
a distanza di 20 anni, sotto Massenzio ci si rende conto che 6 metri d’altezza non sono più sufficienti
per difendere la città. Le torri, inoltre, lasciavano molti spazi ciechi, luoghi da cui i difensori potevano
scagliare frecce e armi incendiarie ma che creavano appunto degli angoli ciechi che il nemico poteva
sfruttare. Pertanto, l’imperatore Massenzio così come gli imperatori successivi (i lavori di
miglioramento per la difesa della città proseguiranno fino all’imperatore Teodorico) si resero conto
che l’altezza doveva essere raddoppiata. Si giunse pertanto ad un’altezza di 12 m e i bastioni vennero
dotati di doppio camminamento e torrioni circolari che permettevano una visione più completa. I
camminamenti vennero inoltre coperti: a differenza di quanto accadeva nella fase iniziale di
Aureliano quando i difensori non erano protetti (infatti i camminamenti superiori non erano coperti)
si decise di creare dei camminamenti coperti in cui i difensori potessero colpire le armate nemiche
rimanendo protetti, senza essere più oggetto di lancio di proiettili e altro.
Ovviamente rimaneva sempre il problema delle porte delle mura che costituivano dei punti deboli. A
ciò si aggiungevano anche esigenze di ingresso secondarie: ciò condusse all’apertura di posterle,
ovvero porte d’accesso, non per veicoli ma per persone, pedonali che tuttavia erano molto funzionali
per chi ci abitava e doveva raggiungere il suburbio, ma che costituivano ancora una volta punti deboli.
Tuttavia, le posterle costituivano anche uscite d’emergenza in caso d’attacco. Le porte dunque sono
indispensabili, ma sono anche i punti che hanno portato alla conquista della città. Le mura aureliane
sono mura inespugnabili: tutti gli ingressi in città da parte del nemico sono avvenuti da porte. Le porte
costituiscono i punti di passaggio e pertanto sono i punti in cui il nemico più facilmente entra. Nel
410 ad esempio Alarico entra dalla porta Salaria ; nel 455 i Vandali entrano dalle porte Ostiense e
Portuense, ancora una volta lasciate aperte; nel 537 gli Ostrogoti attaccano la città dalle porte e
Belisario respinge i nemici grazie al funzionamento delle mura. Le mura crolleranno solo quando
nella storia entreranno in gioco le armi da fuoco, cannoni ed esplosivi (Presa di Porta Pia). Le porte
hanno all’interno un sistema di corti per i controlli.
Le porte, pur concepite secondo gli stessi criteri, si discostano l’una dall’altra per diversi dettagli.
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Porta Appia: situata sulla via che da l’accesso alla via Appia. È la porta meglio conservata (qui
ha sede il museo delle mura di Roma). Ha al suo interno, così come le altre mura, un sistema di
corti per i controlli. La porta non dava direttamente sulla città, ma si affacciava su una corte
interna. Si tratta di una corte interna con un doppio sbarramento, per cui chi entrava poteva
fermarsi al suo interno ed essere ispezionato. In corrispondenza delle aperture si creano, pertanto,
questi sistemi di controllo grazie ai quali i difensori potevano tentare di bloccare il nemico in
situazioni di guerra, e in situazioni non di guerra, potevano condurre con maggiore sicurezza i
controlli fiscali.
Il rivestimento basso è in travertino, mentre le mura sono rivestite in mattoni. Qui si vede bene il
doppio camminamento; in origine c’era un doppio fornice poi ridotto ad un solo fornice più
facilmente controllabile. In origine la carreggiata era doppia, successivamente è stata ridotta.
Porta Ostiense (attuale porta San Paolo): ha una sola arcata, ma nella parte retrostante ne ha due.
Una di esse, tuttavia, è stata murata: durante i secoli drammatici e movimentati del tardo antico,
infatti, l’esigenza di tenere aperte le porte ma di diminuire, al contempo, i rischi portava a queste
soluzioni: corti interne adibite all’ispezione e al controllo, e riduzione degli ingressi.
Caso particolare e curioso è la cosiddetta Porta Clausa (Porta Chiusa). Si trova ai piedi del Castro
pretorio, grande caserma a nord-est. È sempre stata chiusa, non è stata chiusa in epoca medievale
o rinascimentale ma già in epoca tardo imperiale, poco dopo la sua costruzione. Non si sa se per
un errore di progettazione, ma forse si è deciso di chiuderla per ridurre la minaccia di un eventuale
attacco nemico in prossimità di un punto nevralgico qual era la caserma dei pretoriani che era
l’ultimo punto che poteva essere attaccato. Anche nelle raffigurazioni, la porta è sempre
rappresentata chiusa.
GLI ACQUEDOTTI
Sistema fondamentale di approvvigionamento idrico della città.
Roma non è, a differenza di altre città, dotata di fonti idriche abbondanti, naturali e di ottima qualità.
Ciò è indizio del fatto che l’Urbe è frutto di un processo di sviluppo molto lungo e la sua importanza
è legata in maniera indissolubile alla sua posizione strategica. Tuttavia, benché la sua posizione
geografica sia imprescindibile per il suo sviluppo, Roma presenta caratteristiche geofisiche non
proprio ottimali: innanzitutto non è su un terreno pianeggiante e le valli presenti nella città complicano
la progettazione di una città funzionale (non si possono avere strade dritte e quartieri ortogonali); il
secondo punto debole è l’assenza di risorse idriche in loco. Ci sono risorse idriche nel sottosuolo, ma
poche e di scarsa qualità. L’acqua del Tevere era quasi sempre torbida e non era sufficiente alle
esigenze di una popolazione in continua crescita. Tra il III e il II secolo a.C., l’incremento della
popolazione e il crescente fabbisogno idrico portano alla necessità di ingenti quantità di acqua, non
solo per far fronte alla sopravvivenza, ma anche per l’abbellimento della città (costruzione delle
fontane) e per l’allestimento dei giochi. Tuttavia, le fonti di approvvigionamento sono lontane,
distano 50/100 Km di distanza. L’area laziale è infatti ricca di bacini naturali di acqua, di fiumi, ma
sono posti a grandi distanze rispetto a Roma. La soluzione che gli ingegneri romani escogitano,
sviluppando le idee del Vicino Oriente e dell’Etruria, è quella degli acquedotti artificiali. Ne vengono
costruiti 11, costruiti tra IV-III a.C. e il III secolo d.C., diversi per dimensione e lunghezza con una
portata di un milione di metri cubi al giorno d’acqua. Le zone di approvvigionamento sono due: a
nord-ovest e ad est. Uno è il lago di Bracciano con specchi d’acqua minori di origine vulcanica.
Tuttavia, la zona più importante è il bacino dell’Aniene. Ci sono poi i laghi dei colli Albani, ma la
qualità dell’acqua è inferiore. I progetti sono quelli di andare a prendere l’acqua non alla fonte, ma a
circa 90 km di distanza lungo il percorso del fiume.
Un altro problema è costituito dai dislivelli: Roma si trova in una zona che va a digradare verso il
mare e purtroppo il punto in cui l’Aniene sbocca in pianura è abbastanza lontano da Roma. Gli 11
acquedotti di Roma sono costituiti da una grande concentrazione di ingressi. La maggior parte degli
ingressi degli acquedotti si trova ad est. L’Aniene è lungo 98 km, nasce nei monti Simbruini e ha una
caratteristica fondamentale: non è un torrente stagionale ma è perenne. L’acqua è dunque molto
abbondante e continua, con una media superiore alla norma. I romani scelgono questo fiume perché
ha delle caratteristiche morfologiche e portata idrica molto importanti. C’è da dire che gli acquedotti
si sono in gran parte conservati e hanno caratterizzato il paesaggio delle campagne romane da sempre.
Anche nel cinema italiano e internazionale, ad esempio, si ritrovano lo stereotipo e l’immaginario
della campagna romana, rappresentata con gli acquedotti e le loro arcate monumentali.
Perché c’è bisogno di una quantità così enorme di acqua? Non è per l’utilizzo privato. Nella società
romana non è prevista la fornitura privata di acqua corrente nelle case (ciò avrebbe comportato costi
eccessivi e difficoltà tecniche non insostenibili ma molto complesse, come portare tubature di piombo
sotterranee). La domus imperiale sul Palatino e altre Domus importanti hanno questo servizio, ma la
maggior parte delle case no. Si supplisce a questa mancanza con le fontane. Esse non hanno solo un
valore decorativo ed estetico, ma sono cruciali per l’approvvigionamento idrico quotidiano delle
famiglie. Roma è dotata, nel momento di maggior splendore, di circa 1300 fontane pubbliche gratuite.
Ci sono poi 15 fontane monumentali, celebrative. L’acqua è anche fondamentale per circa 900
piscine, ma soprattutto una grande quantità d’acqua viene consumata dalle 11 terme pubbliche che
campeggiano durante l’età imperiale. Ci sono poi laghi artificiali dentro ville, giardini pubblici e
portici.
La comprensione del funzionamento degli acquedotti la dobbiamo a due fattori: ai resti archeologici
e ad un testo di Sesto Giulio Frontino. Quest’ultimo scrive un resoconto, un documento ufficiale
consegnato al senato e che riporta lo stato degli acquedotti a Roma; “De aquis urbis Romae” che
descrive lo stato di tali acquedotti. L’acquedotto è per un lungo tratto sepolto: le arcate sono soltanto
lo sbocco dell’acquedotto in pianura. Per la maggior parte l’acquedotto è scavato nelle gallerie
sotterranee (la galleria si chiama “speco” e può essere scavata sottoterra o supportata dalle arcate). È
un canale che conduce l’acqua dalla fonte idrica alla vasca di distribuzione che si trova alle porte
della città o all’interno della città stessa). I romani scelsero di non utilizzare forza motrice e utilizzare
l’espediente dell’inclinazione naturale del territorio (sono necessarie competenze matematiche e
calcoli algebrici di alto livello). All’interno dello speco si poneva il problema dello sporco: bisognava
evitare che l’acqua si inquinasse e che il calcare si depositasse e ostruisse il percorso e lo scorrimento
dell’acqua. I Romani risolsero il problema con l’impermeabilizzazione: resero le superfici interne
dello speco impermeabili attraverso l’uso di coccio-pesto: miscela di malta e polvere di mattoni che
poteva essere resa molto liscia. Addirittura, dal momento che lo speco, ovvero la galleria sotterranea,
aveva forma rettangolare, si potevano annullare gli spigoli dello stesso riempiendoli di coccio-pesto;
in questo modo si formavano delle curve e si evitavano gli angoli e gli spigoli vivi (i punti in cui si
depositava maggiormente il calcare). Bisognava poi programmare il restauro e la cura
dell’acquedotto. Lo speco, a tal proposito, è alto circa 1 m e 80 cm: questo non solo per aumentare
la portata idrica ma anche per permettere al suo interno il camminamento di inservienti, di personale,
il cui scopo costantemente ispezionare e mantenere pulito lo stato dell’acquedotto. Una legge
addirittura (Lex Quintilia de aqueductibus del 9 a.C.) prescrive una serie di azioni volte a garantire il
perfetto scorrimento dell’acqua.
All’interno degli acquedotti vi erano delle vasche d’acqua di sedimentazione, in cui lo sporco
sedimentava: le vasche poi venivano svuotate e pulite. L’acqua arrivava nel cosiddetto “Castellum
aquae”: bacino di raccolta dell’acqua che proveniva dagli acquedotti. Al suo interno si trovavano
camere di decantazione in cui l’acqua veniva fatta sedimentare e ulteriormente purificata e camere
di compensazione che servivano per sopperire ad eventuali cali di pressione dell’acqua: in breve,
quando il flusso dell’acqua si interrompeva o si verificava un calo di pressione, tali camere potevano
rifornire per qualche ora o qualche giorno la città del fabbisogno quotidiano. Dal Castellum poi si
dipartivano le tubature sotterranee che rifornivano la città.
1. AQUA APPIA, è il più antico (312 a.C. ad opera di Appio Claudio Cieco: uno dei più grandi
costruttori della storia repubblicana romana). Lungo solo 16 km, prendeva l’acqua da una
sorgente nei pressi di Preneste. È quasi completamente sotterraneo, con pochissimi archi:
c’era solo un brevissimo tratto all’aperto con archi. Entrava da porta maggiore e terminava
nel foro Boario, dove c’erano almeno 20 castelli per la distribuzione dell’acqua e da cui si
diramavano le tubature.
2. ANIO VETUS: la sua costruzione si deve ai censori Manio Curio Dentato e Flavio Flacco ed
è il primo a captare acqua dall’Aniene, in prossimità di Tivoli. È lungo 64 km, è per la maggior
parte sotterraneo ed è ancora oggi attivo;
3. ANIO NOVUS: la sua costruzione si deve all’imperatore Claudio. Terminato nel 52, è lungo
87 Km di cui 73 sotterranei. Questo acquedotto arriva fino ai monti appenninici.
Perché quasi tutti gli acquedotti fanno una curva verso sud e non tagliano da Tivoli puntando
direttamente verso Roma?
1. “Anio novus” in rosso
2. “Anio vetus” in marrone
Perché gli acquedotti fanno
questa curvatura a sud e non
puntano direttamente a
Roma?
La parte verde chiara è costituita da territori pianeggianti: la sfortuna è che lo sbocco
dell’Aniene in pianura è molto lontano. Avrebbero dovuto costruire 50 km di archi e questo
non era economicamente sostenibile. Preferiscono avvicinarsi con i percorsi sotterranei fino
al punto dove la fine delle alture è più vicina a Roma. i tratti costruiti con gli archi sono
soprattutto nell’ultimo tratto.
Scelgono di fare un percorso più lungo, quindi apparentemente più costoso, per sfruttare la
pendenza naturale dell’appennino che dalle alture dell’Abruzzo scende seguendo un percorso
assecondando l’orografia del territorio e cercando di ridurre il più possibile i tratti costruiti.
4. AQUA MARCIA
Contrariamente a quanto si possa pensare, l’acqua di questo acquedotto era considerata quella
di migliore qualità (“clarissima aquarum omnium” diceva Plinio). Devo il suo nome al pretore
Quinto Marcio Re. Datato al 144 a.C., è lungo 91 km, in gran parte sotterraneo, con 11 miglia
di arcate (le prime di dimensioni monumentali). È uno di quegli acquedotti che confluisce
verso porta Maggiore, crocevia di strade e acquedotti. Tutto era rivestito di calcestruzzo e gli
ingegneri prescrivevano l’annullamento degli spigoli vivi per impedire all’acqua di stagnare
e di formare concrezioni calcaree.
5. AQUA VIRGO
Importante per Roma perché serve alle prime terme di Roma, quelle di Agrippa nel Campo
Marzio. Datato al 19 a.C., è lungo solo 20 Km, con sorgenti nei pressi della via Collatina. È
ancora oggi in funzione e serve per l’alimentazione della Fontana di Trevi.
6. AQUA CLAUDIA
A Claudio si deve questo acquedotto lungo 72 Km e inaugurato nel 52 d.C. Prende l’acqua
dalla zona di Subiaco, sempre lungo il tratto dell’Aniene. Anch’esso arriva a Porta Maggiore.
Qui arrivavano proprio tre spechi: AQUA APPIA, AQUA VETUS, AQUA CLAUDIA.
Affianco il tratto di mura aureliane ingloba questa struttura.
7. AQUA TRAIANA
Datato al 109 d.C., è assente nel trattato di Frontino (scrive qualche anno prima). Notiamo un
diverso punto di captazione, ovvero il lago di Bolsena, zona nord-ovest di Roma. è ancora
attivo: infatti la grande fontana del Gianicolo è rifornita dall’AQUA TRAIANA
8. AQUA ALESSANDRINA
Nel 226 d.C. da Settimio Severo, serve per alimentare le grandiose terme di Caracalla. Entra
a Roma da nord-est e poi serve le terme. È l’ultimo degli acquedotti romani.
Gli acquedotti sopravvivono per qualche secolo ma sono oggetto di distruzione da parte dei barbari
che assediano Roma: uno dei modi per conquistare la città consisteva nel tagliare le riserve idriche.
Prendere la città “per sete” e interrompere l’approvvigionamento di acqua. Dopo questi episodi, tra
il V e il VI secolo d.C., gli acquedotti cadranno in disuso, tranne pochi; la Roma dei papi proverà a
restaurarne qualcuno ma di fatto si dovrà aspettare la fine dell’800 per dotare Roma di un nuovo
impianto idrico. Nonostante ciò, due o tre degli antichi acquedotti sono ancora in funzione.