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L'animale sociale, Eliot Aronson - Riassunto capitoli 1-7, 9.

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L’ANIMALE SOCIALE
– Eliot Aronson –
‘L’uomo è un animale che per natura deve vivere in una città e […] chi non vive in una città, per la sua propria
natura e non per caso, o è un essere inferiore o è più che un uomo. […] La città è per natura ed è anteriore
all’individuo. […] Chi non può entrare a far parte di una comunità o chi non ha bisogno di nulla, bastendo a se
stesso, non è parte di una città, ma una belva o un dio.’ Aristotele, La politica, 328 a.C.
Che cos’è la psicologia sociale?
La ricerca scientifica di come pensieri, emozioni e comportamento degli individui siano influenzati dalla presenza
degli altri, sia questa reale, virtuale o implicita. Allport, 1954.
Il concetto su cui viene elaborata la nostra definizione di psicologia sociale è l’influenza sociale: come le persone
influenzano le opinioni e i comportamenti degli altri. Poiché tutti gli esseri umani per una buona parte del proprio
tempo interagiscono con altre persone – e vengono influenzate da queste ultime, le influenzano a loro volta, sono
felici, si divertono, si rattristano, si arrabbiano a causa loro – è naturale che si tenti di formulare ipotesi sul
comportamento sociale e spesso c’è una corrispondenza tra i risultati degli studi scientifici e quello che la gente sa
essere vero: la saggezza convenzionale si basa su alcune acute osservazioni che il tempo ha poi dimostrato valide.
Siamo tutti psicologi sociali dilettanti, basta osservare intorno a noi. Quello che la psicologia del senso comune non
tiene in considerazione, oltre alla validità di una ricerca scientifica, è l’hindsight bias (errore del giudizio
retrospettivo o del senno di poi), tendenza a credere (di solito erroneamente) che saremmo stati in grado di
prevedere un evento correttamente, una volta che l’evento è ormai noto. Inoltre, è fondamentale effettuare ricerche,
sebbene i risultati sembrino ovvi, perché molte delle cose che consideriamo vere si rivelano false dopo che sono
state studiate approfonditamente. Nessuno può prevedere con esattezza come le persone si comporteranno in una
certa situazione. Per senso comune si intende la tendenza a prendere acriticamente per vera un’opinione o un sapere
che hanno il solo merito di essere stati diffusi. La psicologia sociale non è mai senso comune. L’hindsight bias nasce
dalla necessità di dare un senso al mondo. Per capire il presente reinterpretiamo il significato e la rilevanza delle
informazioni passate: tanto la psicologia del senso comune quanto l’errore del senno di poi generano teorie
contradditorie sulle persone, abbiamo quindi bisogno di un’accurata scienza empirica per scoprire la verità.
Con il termine tetto di prevedibilità si indica la nostra capacità di prevedere in che modo la gente risponderà a una
particolare situazione. Si riflette in una correlazione statistica di 0,30 tra il tipo di personalità di un individuo e il
suo comportamento in una situazione nuova (ad esempio, tra il punteggio per l’altruismo e l’aiuto offerto quando si
ha fretta);.una correlazione di 0,30 lascia inspiegate le maggiori delle variazioni nel comportamento delle persone.
Il potere delle situazioni (influenza sociale) viene sempre sottostimato rispetto all’interpretazione del
comportamento della personalità di colui che agisce. (Esperimento del buon samaritano).
La psicologia sociale è lo studio scientifico del modo in cui le persone e i gruppi di persone percepiscono e pensano
gli altri, li influenzano e si pongono in relazione con loro.
Prendiamo in considerazione la costruzione del mondo sociale quindi la cognizione, percezione e giustificazione, il
metodo scientifico, l’influenza sociale, il conformismo e i processi di gruppo, la persuasione, gli atteggiamenti e
l’interazione sociale: altruismo, aggressività, attrazione e amore.
La psicologia sociale si differenzia dalla sociologia, la quale esamina la struttura sociale del gruppo. La psicologia
sociale, infatti, si focalizza sull’effetto che il gruppo ha sul singolo individuo. La sociologia analizza la situazione
oggettivamente e rispecchia le differenza culturali, la psicologia sociale considera i singoli effetti nei gruppi
indipendentemente dalla cultura.
Chi si comporta in modo stravagante non è necessariamente pazzo.
A volte, le situazioni creano tensioni talmente forti da indurre le persone a comportamenti facilmente classificabili
come anormali. Tuttavia, definire tali persone come degli psicotici non aiuta in alcun modo a comprendere meglio
il comportamento umano.
Ellen Berscheid ha osservato che le persone tendono a spiegare i comportamenti negativi attribuendo un’etichetta a
chi li ha realizzati, escludendo quindi quella persona dal resto delle brave persone come noi: non abbiamo alcun
motivo di preoccuparci di un comportamento negativo perché è qualcosa che non ci riguarda.
Alcune variabili situazionali possono portare molte persone, adulti normali, a comportarsi in modo discutibile, ed è
di fondamentale importanza cercare di comprendere queste variabili e i processi che provocano cambiamenti
spiacevoli e distruttivi.
Il conformismo
Siamo animali sociali, di conseguenza, viviamo in uno stato di tensione tra i valori connessi all’individualità e quelli
connessi al conformismo. Le persone si conformano al comportamento degli altri.
Il conformismo è positivo o negativo? Poiché i significati delle parole sono sempre associati a un giudizio, la
questione è complessa. Individualista o anticonformista sono termini che si associano, nel senso comune, al
coraggio, in netta opposizione con la mediocrità evocata dal termine conformismo. Eppure, anticonformista può
essere riscritto come deviante e conformista può tradursi in compagno di squadra. Gli anticonformisti vengono di
solito elogiati dagli storici, trasformati in idoli nei film o nelle opere letterarie delle generazioni successive, ma non
vengono mai tenuti in grande considerazione dalle persone a cui si rifiutano di conformarsi.
All’interno di un gruppo si indentificano in genere tre tipologie di membro: il membro modale in accordo con la
maggioranza fin dall’inizio, il membro deviante che mantiene una posizione contraria a quella della maggioranza
e il membro volubile che inizialmente mantiene una posizione in accordo con quella deviante per poi conformarsi
alla maggioranza (Esperimento di Stanley Schachter). La persona che suscita le simpatie del gruppo è quella che si
conforma alla posizione della maggioranza, mentre il deviante è considerato il meno popolare. Tuttavia, se il
membro deviante esprime la propria opinione solo alla fine, questa viene rifiutata molto più categoricamente rispetto
a quando viene espressa sin dall’inizio. Il gruppo tende a preferire chi si adegua all’opinione della maggioranza e
a rifiutare chi esprime pareri non conformi.
Ci sono situazioni in cui il conformismo è altamente consigliato, in quanto l’anticonformismo potrebbe avere
conseguenza gravissime. Né il conformismo, né l’anticonformismo possono essere considerati adattivi in ogni
occasione: il conformismo può essere dannoso quanto l’anticonformismo.
Soprattutto in gruppi molto uniti, dove regna un’atmosfera di non contraddizione, i componenti del gruppo che sono
tenuti a prendere una decisione sono spesso soggetti al fenomeno del groupthink (Pensiero di gruppo, Irvin Janis),
un modo di pensare che le persone mettono in atto quando sono altamente coinvolte in un gruppo coeso, in cui la
tendenza alla ricerca dell’unanimità è più forte delle motivazioni che ognuno di loro possiede a intraprendere
un’altra azione. Le persone che attuano questo tipo di strategie decisionali tendono a credersi invulnerabili
incoraggiati dall’impossibilità di esprimere il disaccordo. Di fronte alla pressione del gruppo, i singoli arrivano a
mettere in dubbio la validità delle proprie opinioni discordanti e si trattengono dall’esprimerle apertamente. La
ricerca del consenso è talmente importante che alcuni membri del gruppo diventano delle vere e proprie guardie
della mente, persone che hanno il compito di censurare informazioni che potrebbero essere pericolose.
Il conformismo si definisce come un cambiamento nel comportamento o nel modo di pensare di una persona che
avviene in seguito a pressioni reali o immaginate da parte di un’altra persona o di un gruppo. (Esperimento di
Solomon Asch). La maggior parte delle persone ritiene di essere spinta dal desiderio di dare la risposta giusta o di
comportarsi in modo corretto e pensa, invece, che gli altri siano principalmente mossi dal desiderio di venire
accettati da chi sta loro intorno: siamo consapevoli che le altre persone si conformano ma tendiamo a sopravvalutare
la nostra capacità di resistere all’influenza del gruppo. Inoltre, con l’aumentare della privacy la tendenza al
conformismo diminuisce.
Tra i fattori che favoriscono i conformismo abbiamo:
1. Unanimità della maggioranza – La presenza di un dissenziente riduce gli effetti dell’influenza della
maggioranza anche nel caso in cui il parere dissenziente sia errato. Se c’è l’unanimità non è necessario che
il gruppo sia estremamente ampio affinchè qualcuno vi si conformi: le tendenza a conformarsi rimane
sostanzialmente invariata.
2. Impegno – Spingendo il partecipante a creare una sorta di impegno nei confronti del suo giudizi iniziale è
possibile ridurre l’influenza della pressione del gruppo.
3. Dovere di rendere conto – Il dovere di rendere conto tende ad aumentare il conformismo. La maggior
parte delle persone si mostra d’accordo con gli altri per mantenere buoni rapporti, eccetto nei casi in cui sa
di dover rendere conto di una decisione assunta tacitamente in maniera conformistica.
4. Fattori personali e culturali – Le persone che hanno poca autostima sono più predisposte a cedere alla
pressione del gruppo rispetto a quelle che ne hanno molta. Far credere a qualcuno di avere poca
predisposizione per un determinato compito ne farà aumentare la tendenza al conformismo, così come
presentare un compito per la prima volta piuttosto che fornire un tempo di preparazione adeguato. Anche
le influenze culturali, o la differenza di sesso, possono portare ad aumentare o diminuire la tendenza al
conformismo.
5. La pressione esercitata del gruppo – L’efficacia dell’influenza del gruppo varia a seconda della
composizione del gruppo che esercita un’influenza: un’influenza maggiore viene esercitata se il gruppo è
costituito da esperti, se i suoi membri sono importanti per il partecipante o se condividono con lui dei tratti
in comune. Per un individuo che sa di aver guadagnato una posizione sicura all’interno del gruppo è più
facile esprimere opinioni discordanti. I fattori legati al conformismo si presentano anche quando la fonte
di influenza è un solo individuo. Le principali tendenze sociali possono subire inversioni improvvise e
clamorose in seguito al meccanismo del conformismo, quando le persone che godono di una certa stima si
trovano al porto giusto al momento giusto. Tali cambiamenti avvengono quando si raggiunge un punto
critico e le persone che li causano sono definite connettori. Non è necessario che i connettori siano esperti,
è sufficiente che siano persone che se ne intendono, che parlano degli argomenti giusti nei posti giusti.
Le ragioni che possono spingerci a conformarci sono due: il comportamento degli altri può convincerci
dell’erroneità del nostro giudizio iniziale oppure ci adeguiamo per evitare una punizione (per esempio, rifiuto o
derisione) o per guadagnare una ricompensa (per esempio, affetto o accettazione) da parte del gruppo. Ci sono poi
situazioni in cui ci conformiamo al comportamento altrui perché lo consideriamo l’unico elemento che può aiutarci
a scegliere le azioni appropriate: utilizziamo gli altri come fonte di conoscenze per definire una situazione. Quando
la realtà fisica diventa incerta, le persone tendono a fare maggior affidamento sulla realtà sociale perché il
comportamento del gruppo fornisce informazioni sul comportamento che ci si aspetta da loro. gli individui tendono,
inoltre, a conformarsi al comportamento di una persona che sembra appartenere a uno status sociale superiore
piuttosto che a quello di una persona all’apparenza meno rispettabile e meno abbiente.
Il conformismo può essere indotto dalle informazioni fornite dagli altri o dal timore della punizione: il conformismo
indotto dall’osservazione del comportamento altrui in quanto fonte potenzialmente valida di informazioni dà luogo
a conseguenze più rilevanti rispetto al conformismo indotto dal desiderio di essere accettati o di evitare una
punizione.
L’influenza sociale e le emozioni – Le persone tendono a conformarsi agli altri anche nella valutazione di questioni
molto personali quali la natura delle proprie emozioni. L’emozione ha un contenuto di sensazione e un contenuto
cognitivo (metafore del jukebox) e richiede l’interazione di uno stato di attivazione fisiologica con fattori cognitivi.
(Esperimento di Schachter e Singer). Se la realtà fisica è chiara e spiegabile, le emozioni dei soggetti non vengono
influenzate dal comportamento degli altri; se i soggetti si trovano in uno stato di eccitazione fisiologica di cui non
conoscono la causa, tendono a interpretare le proprie emozioni utilizzando come riferimento il comportamento di
altre persone che si trovano presumibilmente nella loro stessa situazione. L’esperimento di Haney si basa sulla
procedura americana death qualification procedure secondo la quale, nella scelta dei membri della giuria in un
processo per omicidio, i potenziali giurati che sono contrari alla pena di morte vengono sistematicamente scartati.
Da ciò emerge che i fattori che influenzano le nostre opinioni e i nostri comportamenti possono agire in modo molto
sottile, e in certi casi può anche esserci in gioco la vita di una persona.
Esistono tre livelli di reazione all’influenza sociale: acquiescenza, identificazione e interiorizzazione.
1. Acquiescenza – Comportamento di una persona che è spinta dal desiderio di ottenere una ricompensa o di
evitare una punizione. Una determinata condotta è mantenuta solo fino al raggiungimento dell’obiettivo.
Poche differenze tra il comportamento umano e quello animale. L’acquiescenza è la meno duratura e ha gli
effetti meno rilevanti in quanto gli individui si conformano solo per ottenere una ricompensa o per evitare
una punizione. L’elemento fondamentale è il potere, il potere della fonte di conferire una ricompensa in
caso di obbedienza o una punizione in caso contrario.
2. Identificazione – Risposta all’influenza sociale determinata dal desiderio di un individuo di assomigliare
alla fonte di influenza. Ci si conforma a un determinato comportamento non perché soddisfacente ma
perché permette di stabilire una buona relazione con la persona con cui ci si vuole identificare. Porta a
credere alle opinioni e ai valori che si adottano. L’unica necessità è che vi sia il desiderio di identificarsi
con l’altra persona. Le credenze possono cambiare se la persona subisce un mutamento d’opinione o un
qualsiasi cambiamento: l’identificazione iniziale può essere sostituita da una successiva e più importante.
Gli effetti dell’influenza sociale possono essere annullati dal desiderio dell’individuo di essere nel giusto.
L’elemento fondamentale è l’attrazione, l’attrazione che esercita la persona con cui ci si vuole identificare.
3. Interiorizzazione – È la risposta all’influenza sociale che produce gli effetti più profondamente radicati e
duraturi. Il motore di spinta dell’interiorizzazione di un valore o di una credenza è il desiderio di essere nel
giusto: la ricompensa è intrinseca. Una volta che le credenze sono integrate al proprio sistema di valori, tali
credenze diventeranno indipendenti dalla fonte e saranno in grado di resistere a cambiamenti e ad
argomentazioni. Il desiderio di essere nel giusto è un elemento che dà forza e autonomia al sistema di
credenze o al comportamento adottato. L’elemento fondamentale è la credibilità, la credibilità della fonte
che fornisce le informazioni.
La tricotomia acquiescenza, identificazione e interiorizzazione è molto utile ma allo stesso tempo non è perfetta: in
alcune circostanze le categorie si possono sovrapporre. La persistenza nel tempo si può riscontrare anche nel caso
in cui si verifica il fenomeno del vantaggio secondario, mentre stiamo tenendo un comportamento conformista
scopriamo qualcosa riguardo al nostro modo di agire e alle sue conseguenze che ci fa capire l’importanza di
continuare a tenere tale comportamento. Sebbene l’acquiescenza non abbia di per sé effetti persistenti, può
comunque preparare il terreno per cambiamenti dalle conseguenze più durature.
L’obbedienza come forma di acquiescenza – Esperimento di Milgram, l’obbedienza all’autorità. Molte persone
accettano di infliggere sofferenze ad altre per obbedire all’autorità. Tali risultati sono riflesso di situazioni che si
verificano effettivamente nella vita reale (La banalità del male, Hannah Arendt). Bisogna però tenere a mente che
nella situazione proposta da Milgram, operano alcuni fattori che tendono a favorire l’obbedienza: in primo luogo la
partecipazione volontaria di entrambe le parti all’esperimento; l’obbligo morale a tener fede all’impegno preso e il
trovarsi soli davanti a uno sperimentatore (una figura autorevole) che impartiva gli ordini. Le pressioni situazionali
possono prevalere sui nostri valori e sulla concezione di noi stessi. Non solo ci risulta difficile opporci all’ordine
di fare del male a una persona, spesso ci rifiutiamo perfino di agire quando ci capita la possibilità di aiutare qualcuno.
Il testimone come conformista – Kitty Genovese, New York 1964. Il numero di testimoni che assiste a
un’emergenza può incidere sulla probabilità di ricevere aiuto per la vittima. Il rifiuto di intervenire può essere visto
come una forma di conformismo: ogni individuo utilizza il comportamento degli altri come parametro per decidere
se è il caso o meno di prestare aiuto. La presenza di un gran numero di persone fa aumentare le probabilità che
nessuno intervenga e fa diminuire le probabilità che qualcuno presti aiuto. Parliamo di effetto testimone, la presenza
di altre persone tende a frenare il nostro desiderio di intervenire. Nel caso Genovese erano inoltre implicate delle
responsabilità: la consapevolezza di non essere gli unici testimoni, porta una minor responsabilità ad agire.
Quando le persone condividono gli stessi interessi, le stesse gioie, le stesse fatiche e le stesse condizioni in un
ambiente chiuso, il senso di reciprocità tende ad essere più forte rispetto a quello esistente tra le altre perone; inoltre,
in un ambiente chiuso non si ha la possibilità di fuggire di fronte alla situazione: in circostanze simili le persone
sembrano più propense ad assumersi responsabilità nei confronti degli altri.
Uno dei requisiti essenziali dell’offerta di aiuto è la capacità dell’individuo di interpretare l’evento come
un’emergenza, il passo successivo è assumersi la responsabilità della decisione di aiutare: le persone che non
possono scaricare la propria responsabilità reagiscono tanto prontamente quanto quelle che credevano di essere le
uniche testimoni dell’emergenza. Tuttavia, anche quando un evento viene interpretato come una chiara situazione
di emergenza, le persone sono meno disposte a prestare aiuto quando questo può comportare dei costi. (Esperimento
del buon samaritano, Princeton).
Quando la vittima si trova in un evidente stato di difficoltà, e il testimone è convinto della propria efficacia, le
offerte di aiuto arrivano più rapidamente. Nel caso in cui il testimone non è convinto della propria efficacia si
produce un rapporto di proporzionalità inversa tra la gravità della situazione e la velocità di reazione: quanto
maggiore è la gravità della situazione, tanto più lenta sarà la capacità di reazione da parte del testimone (Esperimento
di Rober Baron). In questo caso si fa riferimento al concetto di empatia intesa come la tendenza a provare sensazioni
spiacevoli in seguito alla vista di una persona che sta provando dolore, quanto maggiore è la sofferenza della vittima,
tanto più forte sarà il nostro disagio: aiutare la vittima o allontanarci psicologicamente dalla situazione. Il disagio
che si prova di fronte alla sofferenza della vittima può essere alleviato reinterpretando l’evento come una situazione
di non pericolo o scaricando la responsabilità ad intervenire.
Si dimostra, inoltre, l’esistenza di un legame tra somiglianze negli atteggiamenti e disponibilità ad aiutare. La
volontà di prestare aiuto è maggiore quando le persone sentono di condividere un destino comune. (Esperimento di
Peter Suedfeld).
Comunicazione di massa, propaganda e persuasione.
La grande diffusione dei mezzi di comunicazione di massa ha trasformato il mondo in un villaggio globale. È una
verità lapalissiana dire che viviamo nell’era delle comunicazioni di massa, anzi si potrebbe addirittura dire che
viviamo in un’era caratterizzata da tentativi di persuasione di massa. Ogni volta che accendiamo la radio o la
televisione, che apriamo un libro o un giornale, troviamo qualcuno che cerca di educarci, di convincerci ad
acquistare un determinato prodotto, di persuaderci a votare per un certo candidato o a condividere le sue idee su ciò
che è giusto, vero o bello. Anche quando i comunicatori non stanno facendo un tentativo diretto di venderci qualcosa,
riescono comunque a influenzare la nostra visione del mondo e le nostre reazioni di fronte a determinati eventi.
Quali sono i fattori che determinano la scelta delle notizie da trasmettere? Uno dei fattori è sicuramente la necessità
di attirare l’attenzione, la scelta è compiuta sulla base del grado di intrattenimento che offre il materiale: si dà più
enfasi ai comportamenti violenti delle persone perché l’azione è molto più interessante della visione di immagini di
persone che si comportano in modo pacifico e corretto. La rappresentazione della realtà che ci viene offerta non
mostra in maniera equilibrata ciò che avviene veramente nel mondo e questo ci influenza involontariamente.
Naturalmente, ci sono anche fatti tanto importanti da richiedere un’ampia copertura da parte dei media. È molto
importante tenersi informati e i mass media svolgono un ruolo fondamentale nel diffondere l’informazione, ma
questo tipo di esposizione può anche avere delle conseguenze negative. Che sia intenzionale o meno, la trasmissione
di certe immagini può influenzare atteggiamenti e opinioni.
In una democrazia, decisioni importanti come quella di andare in guerra dovrebbero essere aperte a un dibattito
pubblico, libero e razionale, e che spesso emozioni particolarmente intense ostacolano il dibattito e il dissenso.
Il potere dei media è ben rappresentato dal fenomeno del contagio emozionale. Lo spazio mediatico che viene
destinato a determinati avvenimenti è un campo fertile per l’emulazione e quanto è maggiore lo spazio che i media
dedicano ala notizia, tanto è frequente il fenomeno emulativo: la pubblicizzazione della notizia di un suicidio
incoraggia altre persone a prendere la decisione di togliersi la vita. I mezzi di comunicazione, decidendo che tipo di
enfasi dare a una notizia, non si limitano unicamente a renderla pubblica, ma possono essere la causa scatenante di
avvenimenti successivi. Forma di influenza involontaria: il ruolo dei media nel riportare un fatto fa più notizia del
fatto in sé. Il mezzo di comunicazione diviene il messaggio.
Quanto sono efficaci i tentativi di presentare bene e vendere i prodotti attraverso i media? All’apparenza
sembrerebbero molto efficaci. La stragrande maggioranza delle persone crede che gli spot pubblicitari non siano
per niente veritieri. Inoltre, maggiore è il livello di istruzione, maggiore è il grado di scetticismo e maggiore è anche
la tendenza a credere che tale atteggiamento le renda immuni da qualsiasi forma di persuasione. Credere di essere
immuni dalla persuasione non implica necessariamente che siamo capaci di non lasciarci influenzare. Molto
spesso, infatti, i consumatori scelgono di comprare determinati prodotti soltanto perché vengono pubblicizzati molto
più di altri: siam portati a credere che nessun prodotto si più efficace di quello pubblicizzato e non ci rendiamo
conto che questo non implica che gli altri siano meno efficaci. Un gran numero di consumatori sembra quindi
mettere da parte il proprio scetticismo anche quando si rende conto che l’annuncio altro non è che un chiaro tentativo
di vendere un prodotto: a parità di caratteristiche, in linea di massima, più un prodotto è pubblicizzato maggiormente
risulterà invitante agli occhi dei consumatori. (Esperimento di Robert Zajonic).
Anche nelle campagne elettorali gli spot pubblicitari sono incentrati, perché particolarmente efficaci, su questioni
che suscitano forti emozioni negli elettori. Campagna di Bush e Dukakis: il caso di Willie Horton – Quando le
persone sono spaventate e arrabbiate, limitarsi a presentare liste di cifre e di dati non è sufficiente a rassicurarle.
Questa tecnica può funzionare se i dati sono accompagnati da proposte di soluzione ai problemi per i quali i cittadini
sono preoccupati.
Educazione o propaganda? – Tentativi di vendere un prodotto ad alto prezzo ingannando intenzionalmente il
pubblico si definiscono propaganda. Gli espedienti utilizzati dagli esperti di comunicazione e dagli autori di discorsi
possono essere considerati educazione, tentativi di istruire le persone. Secondo il The American Heritage
Dictionary of the English Languages, la propaganda è la diffusione sistematica di una determinata dottrina,
mentre l’educazione è intesa come l’azione di impartire conoscenze o abilità. In realtà, la distinzione fra educazione
e propaganda è ancora più sottile: nell’ambito educativo, ad esempio, vengono utilizzate situazioni tipo che
costituiscono una forma di propaganda proprio grazie agli esempi che portano all’attenzione degli studenti. Si tratta
di forme di propaganda e potrebbe rivelarsi utile essere in grado di riconoscerle in quanto tali. Il fatto che una
persona riconosca un certo tipo di insegnamento come propagandistico o educativo dipende il larga misura dal suo
sistema di valori: non tutti i tipi di comunicazione sono necessariamente di parte, ma è importante rendersi conto
del fatto che, quando affrontiamo questioni di un certo rilievo e sulle quali le persone hanno opinioni molto diverse,
è quasi impossibile creare una comunicazione che appaia giusta e imparziale a entrambe le parti. Indipendentemente
dal fatto che la chiamiamo educazione o propaganda, la persuasione è una realtà e ignorala non è la soluzione per
farla scomparire. Dovremmo, invece, cercare di capirne i meccanismi analizzando i risultati degli esperimenti.
Le due vie principali della persuasione – come ci comportiamo quando siamo esposti a un messaggio persuasivo:
lo analizziamo o lo accettiamo? Secondo Richard Petty e John Cacioppo, tendiamo ad analizzare il messaggio e a
prestargli particolare attenzione quando l’oggetto della comunicazione ci interessa o lo riteniamo importante. A
volte, però, siamo occupati, distratti o perché si tratta di una comunicazione abilmente costruita.
1. Via centrale della persuasione – Ragionamento. Opera quando i riceventi considerano attentamente gli
argomenti e i dati presentati bel corso di una comunicazione e giungono a una conclusione riflettendo in
odo sistematico.
2. Via periferica della persuasione – Superficialità. Opera quando i riceventi reagiscono di fronte a indizi
più superficiali in qualche modo collegati con la correttezza o l’erroneità del ragionamento, ma non prevede
una riflessione attenta da parte dei soggetti.
Un messaggio persuasivo non utilizza mai solo una delle due vie, ma contiene elementi che fanno appello a
entrambe. Nel momento in cui le persone valutano la qualità degli argomenti di un messaggio, possono essere
fortemente influenzate anche dal modo in cui le cose vengono dette.
Nei fattori che rendono una comunicazione più o meno efficace, le variabili da considerare sono essenzialmente tre:
la fonte della comunicazione (chi emette il messaggio), la natura della comunicazione (come viene presentato il
messaggio e le caratteristiche del pubblico (chi è il ricevente). In poche parole, chi dice cosa a chi.
La fonte della comunicazione – ‘Infatti noi crediamo di più e più facilmente alle persone oneste intorno alle
questioni generali e crediamo loro del tutto nelle questioni che non comportano certezza, ma opinabilità […].
Quindi non bisogna pensare come alcuni dei trattatisti che ritengono che in quest’arte la stessa onestà dell’oratore
non conferisca per nulla alla persuasione; ma anzi, per così dire, il carattere porta quasi la prova più forte.
Aristotele, La Retorica, IV secolo a.C.
Aristotele diceva che crediamo alle persone a modo, intendendo gli uomini di alto valore morale, Hovland e Weiss,
invece, usano il termine credibile, che è privo di qualsiasi connotazione morale. Cioè, non sono necessarie persone
buone, ma che sono esperte e attendibili. Il livello di credibilità attribuito può tuttavia variare. Inoltre, ci sono alcune
caratteristiche della fonte che per una parte del pubblico saltano agli occhi più di altre e possono essere proprio
quelle che influiscono maggiormente sull’efficacia dell’oratore. Se la qualità della vita di una persona dipende dalla
misura in cui si lascia influenzare da un discorso, il fattore determinante è le competenza dell’oratore e si parla di
un comportamento adattivo; se ci sono altri fattori, che non hanno niente a che vedere con il discorso che si sta
ascoltando, ma che contribuiscono ad aumentare o diminuire la propria vulnerabilità di fronte a tentativi di
persuasione, si sta mettendo in atto un comportamento disadattivo. I pubblicitari puntano su dettagli del tutto
irrilevanti per aumentare la credibilità dei personaggi degli spot. Spesso, inoltre, le caratteristiche periferiche
dell’oratore sono anche gli unici aspetti che gli spettatori sono in grado di cogliere.
Tra i fattori che aumentano l’attendibilità:
1. La fiducia è uno dei fattori che svolgono un ruolo molto importante nel determinare l’efficacia dell’oratore.
2. Se le persone dimostrano che non è nel loro interesse riuscire a convincerci, allora ci fideremo di loro e la
loro efficacia persuasiva sarà maggiore: una persona può anche essere poco attraente e non avere sani
principi morali, ma può comunque essere un oratore efficace, se dimostra che riuscire a persuaderci non
comporta per lui alcun guadagno.
3. Quando gli ascoltatori percepiscono che le loro aspettative vengono deluse, e quindi un conflitto tra
messaggio ed aspettative, per dare un senso alla contraddizione che avvertono, possono giungere alla
conclusione che si tratta di un argomento tanto convincente che l’operatore stesso crede sinceramente nella
sua validità, sebbene sia apparentemente in contrasto con gli interessi e il carattere di quest’ultimo. Si fanno
più facilmente influenzare dalle sue affermazioni.
4. L’affidabilità di un oratore aumenta anche quando il pubblico è assolutamente convinto che non abbia
intenzioni persuasive. Quando un oratore non cerca di influenzare, le sue possibilità di riuscirci aumentano
considerevolmente.
5. L’attrazione esercitata dalla fonte. Oratori attraenti persuadono in misura maggiore le persone rispetto a
oratori poco attraenti, indipendentemente dalla loro competenza e dalla loro affidabilità. Il potere di
influenza di questo genere, inoltre, è ancora maggiore se esprime apertamente il desiderio di influenzare il
pubblico. Ci si aspetta che le posizioni sostenute da questa tipologia di oratori siano altrettanto attraenti:
tendiamo ad associare l’attrattiva dell’oratore alla positività del messaggio. Le persone che ci piacciono ci
influenzano e quando questo avviene ci comportiamo come se stessimo tentando di compiacere la fonte.
Più un oratore tenta di cambiare le nostre opinioni, più noi tenderemo a cambiarle, ma solo se riguardano
questioni non rilevanti.
La natura della comunicazione – il modo in cui una comunicazione viene formulata ha un ruolo molto importante
nel determinare la sua efficacia.
1. Appelli razionali o emotivi? – Ci sono prove che favoriscono un approccio che sia principalmente
emotivo. In termini di definizioni non esiste una differenza chiara tra razionale ed emotivo poiché è difficile
stabilire una linea di confine tra i due. Significativo è il modo in cui i diversi gradi di un’emozione
influiscono sul cambiamento di opinione: ci sono studiosi che sostengono che se una comunicazione suscita
un livello eccessivo di paura, tendiamo a non prestare attenzione a ciò che ci viene detto. (Esempio sulla
guida in stato di ebrezza). Tuttavia, a parità di condizioni sperimentali, più il messaggio spaventa il
destinatario maggiora saranno le probabilità che decida di intraprendere un’azione preventiva.
C’è una buona ragione per la quale il buon senso ci suggerisce che una dose eccessiva di paura non provoca
alcun tipo di reazione da parte delle persone: le persone che hanno una buona opinione del sé vengono più
facilmente stimolate a rispondere ad appelli forti, le persone con una scarsa opinione del sé, invece,
reagiscono meno rapidamente ma dopo un certo tempo manifestano lo stesso comportamento della
personalità opposta. Se la situazione non richiede un intervento immediato, le persone con scarsa autostima
tendono a posticipar l’azione perché hanno notevoli difficoltà a gestire le minacce nei loro confronti.
Sembra che quando la situazione richiede una reazione immediata, le persone con bassa autostima si
sentano talmente sopraffatti dalla paura da non poter agire di conseguenza. Tuttavia, se i messaggi che
suscitano un alto livello di paura contengono anche indicazioni specifiche sul tipo di azione da
intraprendere, il luogo e il tempo, la loro efficacia aumenta.
I messaggi che suscitano un alto livello di paura sono più efficaci nel creare atteggiamenti favorevoli,
l’introduzione di indicazioni specifiche non influenza le opinioni e le intenzioni ma influenza notevolmente
l’effettivo comportamento. Le indicazioni di per sé non sono sufficienti, serve anche il ricorso alla paura:
la combinazione di appelli alla paura e di indicazioni specifiche per intraprendere appropriate azioni spinge
le persone a tenere il comportamento consigliato. (Esperimento sul fumo di Leventhal). Gli effetti di appelli
che incitano alla paura sono, però, da riferirsi al contesto situazionale, e la situazione può diventare
controproducente se le associazioni cognitive che si creano tra due cognizioni sono troppo forti (ad
esempio, l’associazione cognitiva che si crea tra preservativi e idea di morte nella campagna di prevenzione
contro l’AIDS): quando il messaggio fa riferimento a comportamenti che hanno un alto livello di
coinvolgimento per il pubblico, il numero di persone che si convince che i pericoli di cui si parla nel
messaggio sono stati ingigantiti aumenta.
Nel caso della minaccia di terrorismo o di catastrofe naturale si vede come un qualsiasi avvertimento
diventa inefficace se non si specifica chiaramente il tipo di pericolo, la provenienza della minaccia e le
azioni da intraprendere per evitarle. Inoltre, spaventare le persone senza suggerire una possibile linea
d’azione aumenta il livello d’ansia senza indurre all’azione ma la situazione può anche degenerare: vivere
in un continuo stato d’ansia è insopportabile quindi, dopo un periodo di quiete, la gente inizierà a provare
un senso di rifiuto nei confronti degli avvertimenti, di noia, di indifferenza e alla fine smetterà di ascoltare.
2. Dati statistici o esperienze personali? – I racconti personali, proprio per il loro realismo, tendono ad
assumere maggiore importanza rispetto a quella che effettivamente hanno a livello statistico, anzi spesso
influenzano la decisione dell’ascoltatore in modo decisivo. Inoltre, più gli esempi di esperienza personale
sono vividi, maggiore è la loro forza persuasiva. (Richard Nisbett, esempio della nuova macchina).
La maggior parte delle persone è influenzata in modo maggiore da una chiara e realistica testimonianza
diretta piuttosto che da una grande quantità di dati statistici.
3. Comunicazioni unilaterali o basate su un unico punto di vista? – Non esiste un rapporto univoco tra
comunicazioni unilaterali ed efficacia nel messaggio: un oratore che accenna anche alle argomentazioni
contrarie si presenta come una persona obiettiva ed equa e ciò potrebbe contribuire ad aumentare la sua
credibilità; tuttavia, il fatto di presentare anche le argomentazioni contrapposte può far pensare al pubblico
che la questione è controversa, riducendo così l’efficacia persuasiva del messaggio.
Il punto di svolta nella questione è come si caratterizza il pubblico: se è ben informato si lascerà
maggiormente convincere da una comunicazione basata su entrambi i pov perché è molto probabile che sia
il primo a conoscerli entrambi. Se non ben informato, è probabile che non conoscano le argomentazioni
contrarie e quindi si lascino maggiormente convincere da una comunicazione unilaterale, entrambi i pov
potrebbero confonderle. Un altro fattore importante è la posizione iniziale dei riceventi: se ben disposti nei
confronti delle argomentazioni dell’oratore, risulterà di maggior efficacia una comunicazione unilaterale
mentre, se in iniziale posizione di disaccordo, sarà più efficace una comunicazione che presenta entrambi i
pov e confuta le argomentazioni contrarie.
4. Ordine di presentazione – La questione riguarda sia il processo di apprendimento sia il processo di
ritenzione. Parlando per primi considera la questione dal pov del processo di apprendimento e si fa forza
sull’effetto primacy ma parlando per ultimi andiamo a considerare la questione del pov del processo di
ritenzione e si può puntare sull’effetto recency. Conoscendo il funzionamento di entrambi i processi
possiamo prevedere in quali circostanza predomina l’effetto primacy e in quali, invece, predomina l’effetto
recency. Una variabile fondamentale è l’intervallo di tempo tra le diverse fasi: l’intervallo di tempo che
intercorre tra le due comunicazioni e l’intervallo di tempo che intercorre tra la fine della seconda
comunicazione e il momento il cui il pubblico dovrà prendere una decisione. L’inibizione (interferenza) è
maggiore quando i due discorsi vengono pronunciati uno di seguito all’altro: la prima comunicazione
disturba l’apprendimento della seconda e si verifica l’effetto primacy. Se invece il pubblico deve prendere
una decisione immediatamente dopo la seconda comunicazione, predomina il meccanismo della ritenzione
e si verifica l’effetto recency.
5. Ampiezza della discrepanza – Il discorso sarà più efficace se si presenterà il proprio punto di vista nella
sua forma più estrema o se si presenterà nella sua forma più moderata, in modo che non si allontani troppo
dalla posizione sostenuta dal pubblico? La maggior parte di noi ha un forte desiderio di essere nel giusto.
Quando ci troviamo davanti a qualcuno che è in disaccordo con noi ci sentiamo a disagio perché ci fa
pensare che le nostre opinioni o i nostri comportamenti possono essere sbagliati o basati su informazioni
scorrette. Maggiore è il disaccordo, maggiore sarà anche il nostro cambiamento di opinione.
James Whittaker scoprì però l’esistenza di una relazione curvilinea tra il livello di discrepanza e il
cambiamento di opinione: un lieve aumento del livello di discrepanza corrisponde a un lieve cambiamento
di opinione, ma man mano che il livello di discrepanza sale, il cambiamento di opinione si riduce al punto
che, quando il livello di discrepanza è molto elevato, non si produce alcun cambiamento di opinione. Se un
messaggio si allontana molto dalla posizione sostenuta da un individuo, va oltre la sua latitudine di
accettazione e perciò egli non ne verrà influenzato: i maggiori cambiamenti di opinione si verificano
quando esiste un livello di discrepanza moderato tra le opinioni dei singoli membri del gruppo e il
messaggio presentato.
Quanto maggiore è il livello di discrepanza, tanto è maggiore il disagio del ricevente ma ciò non comporta
necessariamente un cambiamento di opinione. Ci sono infatti quattro modi possibili per ridurre il disagio:
cambiare la propria opinione, cercare di far cambiare opinione all’oratore, dare sostegno alla propria
opinione cercando persone che condividono il proprio pov o sminuire l’oratore. Nella maggior parte delle
situazioni la scelta si riduce a due opzioni: cambiare opinione o sminuire l’oratore. In linea generale se
l’oratore ha un alto livello di credibilità, quanto maggiore è la discrepanza tra le sue opinioni e quelle del
pubblico, tanto maggiore sarà l’influenza che riuscirà ad esercitare; se invece l’oratore ha un basso livello
di credibilità, riuscirà ad ottenere maggiori cambiamenti di opinioni quando si produce un livello medio di
discrepanza
Le caratteristiche del pubblico – Lettori, spettatori e ascoltatori non sono tutti uguali: alcune persone sono ,infatti,
più difficili da persuadere e i diversi tipi di comunicazione non hanno lo stesso livello di efficacia per tutti.
Nella personalità di un pubblico il fattore fondamentale da tenere in considerazione è l’autostima: le persone che
si sentono inadeguate si lasciano influenzare più facilmente rispetto a chi dimostra di avere un’alta opinione di sé.
Le persone desiderano essere nel giusto: se una persona che ha un’alta autostima si trova a confrontarsi con opinioni
discordanti dalla sua, vive un conflitto e dovrà decidere se ha maggiori probabilità di rimanere nel giusto cambiando
opinione o rimanendo fermo sulla sua posizione. Una persona con bassa autostima, invece, non vive alcun tipo di
conflitto, vista la bassa opinione che ha di sé troverà automatico conformarsi all’opinione esterna convincendosi
delle maggiori possibilità di essere nel giusto.
Un altro fattore molto importante è lo stato d’animo in cui il pubblico si trova poco prima della comunicazione: il
pubblico diventa automaticamente più ricettivo se gli viene offerto del cibo, se i componenti sono rilassati e felici,
o in generale in uno stato d’animo positivo, o se hanno appena ricevuto una conferma della propria autostima.
Esistono però, anche dei modi per rendere il pubblico più resistente ai messaggi persuasivi che puntano sul rendere
consapevole il pubblico del tentativo di influenza. Le persone tendono a difendere la propria sensazione di libertà
e, infatti, secondo la teoria della reattanza di Brehm, quando sentiamo che la nostra libertà viene minacciata,
cerchiamo un modo per tentare di ristabilirla: le persone possono essere influenzate e possono cedere alle pressioni
sociali ma quando tali pressioni sono troppo forti, non solo vi resistono, ma tendono anche a reagire assumendo un
atteggiamento completamente opposto. Inoltre, quando ci si trova di fronte a informazioni che vanno contro
credenze importanti, si tende se possibile, a inventare sul momento degli argomenti per replicare. In questo modo
si riescono a proteggere le proprie opinioni e il proprio senso di autonomia da un’influenza eccessiva. Se però il
soggetto viene distratto durante il suo tentativo di costruirsi argomentazioni che confutino il tentativo di persuasione
allora si verifica una maggiore tendenza a cambiare opinione.
Come aiutare le persone a resistere ai tentativi di influenzarle? Grazie alla teoria dell’immunizzazione (William
McGuire) – se le persone vengono preventivamente esposte a piccole dosi di messaggi che sono in grado di
confutare, verranno immunizzate contro comunicazioni successive in cui verranno presentate le stesse
argomentazioni (come un vaccino). Il ricorso a comunicazioni basate su entrambi i pov non è solo un’efficace
tecnica di propaganda: se utilizzata con abilità, una comunicazione di questo tipo contribuisce a migliorare la
capacità di resistenza del pubblico a messaggi contro-persuasivi.
Gli effetti dell’immunizzazione sono maggiori quando le comunicazioni persuasive contraddicono i cosiddetti
truismi culturali, opinioni largamente condivise e considerate ovvie in una determinata cultura. I truismi culturali
vengono messi in discussione raramente ed è facile perdere di vista il motivo per cui li consideriamo veri, perciò,
quando vengono attaccati in modo sostenuto, crollano con molta facilità. Affinchè le persone abbiano delle ragioni
per sostenere le proprie credenze, devono diventare consapevoli della loro fragilità, e il modo migliore per farlo è
esporle a un attacco moderato contro tali credenze. L’esposizione preventiva attraverso attacchi lievi rende gli
individui più resistenti a tentativi successivi di persuasione perché si sentono più motivati a difendere le proprie
credenze e perché acquisiscono una maggior dimestichezza nel difenderle in quanto sono obbligati ad analizzare le
motivazioni per le quali le ritengono valide. Sono quindi preparati a resistere anche ad attacchi più sostenuti.
Se si vogliono ridurre gli effetti di una propaganda semplicistica, non c’è niente di meglio che esaminare liberamente
idee di ogni tipo; le persone a cui è più facile fare il lavaggio del cervello sono quelle che parlano per slogan e le
cui convinzioni non sono mai state messe in discussione.
Questi principi sono efficaci in pratica? – Nel momento in cui una persona perde fiducia, sarà anche meno disposta
ad ascoltare argomenti che contraddicono le sue opinioni; le persone che si voleva convincere, e che dovrebbero
essere più vulnerabili al cambiamento di opinione, sono anche quelle che hanno meno probabilità di continuare a
esporsi a comunicazioni persuasive. Non presentando alcun tentativo esplicito di persuasione, invece, non si
dovrebbe provocare alcuna forma di resistenza, prevenendo ogni forma di immunizzazione e, inoltre, distraendo il
pubblico e riducendo le possibilità che inventi delle argomentazioni per controbattere.
È impossibile determinare con esattezza la misura con cui l’esposizione ai media condiziona l’opinione e il
comportamento delle persone perché nel processo entrano in gioco anche altri fattori: è difficile distinguere
l’impatto effettivo della comunicazione di massa dall’influenza delle esperienze personali e dei contatti con la
famiglia e gli amici. La maggior parte delle nostre credenze si crea gradualmente in seguito a ripetuti contatti con
persone e informazioni nel corso di un lungo periodo di tempo; solitamente, è molto difficile riuscire a cambiare le
convinzioni di una persona su questioni importanti attraverso una comunicazione diretta.
L’opinione è ciò che le persone, sulla base dei fatti, credono vero. L’opinione può essere a base principalmente
cognitiva (basata su dati oggettivi) e dal carattere spesso transitorio, perché può cambiare se ci vengono fornite
prove valide a dimostrazione del contrario; oppure, a base emotiva e valutativa che ha, cioè, a che fare con reazioni
positive o negative dell’individuo nei confronti dell’oggetto. Un’opinione nella quale sono presenti una componente
emotiva e una valutativa si definisce atteggiamento, ed è molto difficile da cambiare.
Il pensiero umano non è sempre logico: pur essendo in grado di fare ragionamenti estremamente precisi e sottili,
siamo anche capaci di pensieri distorti ed errori grossolani. Per capire come cambiare un atteggiamento, si deve
innanzitutto cercare di capire le complessità del pensiero umano e le ragioni per le quali le persone sono capaci di
resistere al cambiamento.
Gli atteggiamenti – Uno stato mentale e neuronale di prontezza, organizzata attraverso l'esperienza, che esercita
un'influenza diretta o indiretta sulle risposte dell'individuo a tutti gli oggetti e le situazioni nelle quali si relaziona.
Allport, 1954. Gli atteggiamenti sono una componente del comportamento: sono una credenza o sentimento relativo
a persona e o evento, in cui pensi e in seguito agisci e attribuisci valenza positiva e/o negativa. Di conseguenza
agisci. La persuasione è attuata nel momento in cui instauri o cambi un atteggiamento.
L’opinione invece è ciò che le persone credono sia vero sulla base dei fatti, è un pensiero momentaneo, una moda.
Non ha componente emotiva, perché cambia, finisce. Nonostante questo, un’opinione può diventare atteggiamento.
L’atteggiamento persiste nel tempo, determina un valore e determina un comportamento. Si compone di affetti,
comportamento e cognizione (Affection, Behaviour and Cognition).
Per atteggiamento esplicito si intende il dire o fare quello che sosteniamo coscientemente e che riportiamo
facilmente. La scala Likert ci perette di sapere cosa pensiamo poiché esiste un grosso divario tra il dire e il fare:
l’atteggiamento dichiarato prescinde ciò che si fa/farà?
’The attitude behaviour gap’ – why we say one thing, but we do the opposite?
Wicker (1969) ha esaminato 42 articoli per esaminare il legame tra atteggiamenti e comportamenti Correlazioni di
0,15 solo il 2,25% della varianza nel comportamento è spiegato da atteggiamenti.
La teoria dell'azione ragionata descrive i fattori
che portano al comportamento volontario di un
individuo. Secondo la teoria, ci sono due fattori che
portano all'intenzione di compiere un'azione:
1. L'atteggiamento nei confronti dell'effetto
dell'azione e la credenza che l'azione
porterà a un determinato effetto
2. La "norma soggettiva", la percezione morale dell'individuo, ossia la percezione che quel dato
comportamento sia o non sia atteso dalle persone significative per lui/lei (famiglia, amici, partner, etc.).
Sebbene vi sia una forte correlazione tra questi due fattori, atteggiamenti e norme soggettive, con l'effettivo
comportamento intrapreso dalle persone, questi non sono sufficienti a predire efficacemente il comportamento degli
esseri umani in tutte le situazioni.
Per atteggiamenti specifici si intendono quegli atteggiamenti pertinenti che predicono un comportamento
intenzionale e reale. Per cambiare le abitudini attraverso la persuasione si devono modificare gli atteggiamenti degli
individui verso pratiche specifiche.
Quando gli atteggiamenti sono prevedibili? Quando sono consapevoli. Quando si basano su esperienza diretta e o
sul proprio interesse.
1. Se dobbiamo pensare prima di agire siamo più sinceri con noi stessi.
2. Consistenza tra atteggiamenti e comportamenti.
3. Indurre alla consapevolezza promuove la coerenza tra le parole e i comportamenti.
4. Legame con tecnica della psicoterapia analitica e cognitiva?
Cosa influenza l’atteggiamento di una persona? (Sivacek e Crano (1982) esperimento del referendum universitario)
Il “parlarne” effetto del dire diventa credere, quando si modella quello che diciamo in funzione di chi ci ascolta e
quando gli atteggiamenti su quell’argomento subiscono un cambiamento, ovvero, vengono modellati in linea con
quello che si è raccontato.
Per atteggiamenti impliciti si indicano valutazioni involontarie e incontrollabili.
le persone possono avere atteggiamenti espliciti e impliciti praticamente verso tutto, non solo verso le persone. Per
esempio, gli studenti possono credere esplicitamente di odiare la matematica, ma avere un atteggiamento più
positivo a livello implicito. L’ambiente e la cultura influenzano a livello implicito malgrado una credenza opposta
esplicita. Gli atteggiamenti impliciti sono radicati nelle esperienze infantili e quelli espliciti in quelle recenti.
La cognizione sociale
Siamo costantemente impegnati nel tentativo di dare un senso al mondo socia e il modo in cui lo facciamo può avere
conseguenze notevoli. Il modo in cui prendiamo le nostre decisioni, siano esse importanti o banali, dipende dal
modo in cui diamo senso al nostro mondo sociale.
Come siamo senso al mondo sociale? – Gli esseri umani sono dotati di menti potenti ed efficienti ma, la mente
umana è ben lungi dall’essere perfetta. Una delle conseguenze è che la maggior parte di noi finisce per sapere cose
che non sono vere. I motivi per cui crediamo a credenze senza ragionarci su sono due: è un’idea piacevole e
confortante e quindi vogliamo credere che sia vera; inoltre, non teniamo conto di tutte le varianti di un evento, ma
ci basiamo solo su ciò che riteniamo stimolante e facile da prendere come vero. Tale fenomeno è dovuto agli effetti
dell’attenzione e della memoria selettiva che fanno apparire le eccezioni come la regola.
Siamo esseri razionali oppure no? Sicuramente proviamo ad esserlo. La cognizione umana si serve di processi
razionali perché ogni individuo cerca i fare del proprio meglio per essere nel giusto e per dimostrare di avere opinioni
e credenze corrette. Jeremy Bentham, filosofo utilitarista, nel XVIII secolo parlò della possibilità di effettuare una
sorta di calcolo della felicità attraverso cui gli esseri umani potevano stabilire cosa fosse giusto e cosa non lo fosse:
compito del governo è assicurare la maggior felicità per il maggior numero possibile i persone.
Harold Kelley ha avanzato un’ipotesi più complessa sulla razionalità del pensiero umano sostenendo che le persone
tentano si agire come se fossero degli scienziati ingenui. Tentando di spiegare il comportamento degli alti, le
persone utilizzano un processo simile andando alla ricerca si tre elementi informativi: la coerenza, il consenso e la
specificità. Ma siamo davvero gli esseri razionali descritti da Bentham e Kelley? C’è un certo disaccordo nello
stabilire se siamo o meno in grado di agire in modo tanto razionale. Affinchè si possa parlare di pensiero razionale
sono necessarie almeno due condizioni che, nella vita di tutti i giorni, non vengono quasi mai soddisfatte: il soggetto
deve avere accesso a informazioni precise e valide, il soggetto deve avere accesso a informazioni precise e valide e
il soggetto deve disporre delle risorse mentali necessarie a elaborare i dati. Purtroppo, non abbiamo la possibilità di
guardare il mondo attraverso una prospettiva onnisciente e libera da qualsiasi distorsione. Bisogna inoltre
considerare che, nella maggior parte dei casi, anche se si hanno a disposizione tutte le informazioni, non sempre si
ha il tempo o la voglia i effettuare un’analisi accurata si ogni problema che si deve affrontare. Secondo Susan Fiske
e Shelley Taylor, gli esseri umani sono economizzatori di risorse cognitive – siamo sempre impegnati nel tentativo
di risparmiare il più possibile le nostre risorse cognitive. Vista la nostra capacità limitata di elaborare le
informazioni, cerchiamo di adottare delle strategie che ci aiutino a semplificare i problemi più complessi: riduciamo
il carico cognitivo riciclando le informazioni in modo da non doverne cercare altre, oppure scegliendo un’alternativa
non molto soddisfacente perché è comunque entro i limiti dell’accettabile. Le strategie che utilizziamo in veste di
economizzatori possono essere molto efficaci perché permettono di sfruttare piuttosto bene le nostre limitate
capacità di elaborare una quantità di informazioni praticamente infinita, ma possono anche causare gravi errori e
distorsioni, soprattutto quando scegliamo una scorciatoia inadeguata o, per la fretta, ignoriamo informazioni di
importanza fondamentale. Le scorciatoie che utilizziamo possono provocare distorsioni e pregiudizi che confondono
la verità perché, se non riconosciamo i nostri limiti cognitivi, rischiamo di rimanere schiavi: se non siamo in grado
di riconoscere che spesso sbagliamo a giudicare gli altri perché ci affidiamo agli stereotipi o che il modo in cui viene
presentata un’informazione può condizionare i nostri giudizi, non riusciremo mai a prendere i provvedimenti
necessari per correggere tali errori. Inoltre, se non capiamo quali possono essere le conseguenze dell’essere
economizzatori di risorse cognitive, saremo più inclini a confondere le nostre interpretazioni personali della realtà
con la verità assoluta e a credere che chi non condivide i nostri pov sia in errore, sia stupido, pazzo o malvagio.
Per alcune persone è facile arrivare a commettere atti di violenza e crudeltà fintanto che rimangono convinte di
essere nel giusto.
L’essere economizzatori di risorse non implica una condanna a falsare la realtà: una volta che si è a conoscenza dei
limiti e degli errori più comuni della mente umana, si può imparare a pensare in modo migliore e a prendere decisioni
più sagge.
L’influenza del contesto sul giudizio sociale – Il contesto sociale il modo in cui le cose vengono presentate e
descritte. Questo influenza i nostri giudizi sulle persone e su noi stessi. In particolare, ci sono quattro aspetti
significativi del contesto sociale:
1. Il confronto delle alternative – Effetto di contrasto: un oggetto può sembrare migliore o peggiore di
come è in realtà a seconda di ciò che viene utilizzato come metro di paragone. (Esperimento di Anthony
Pratkanis, nutri-burger e tasti-burger). Un oggetto viene messo a confronto con qualcosa di simile ma non
altrettanto buono (bello, alto etc.), cosicché quel determinato oggetto venga giudicato più buono (più bello,
più alto etc.) di come sarebbe apparso in condizioni normali. L’effetto di contrasto può operare in molti
modi molto sottili e può avere effetti notevoli. Anche i giudizi che emettiamo su noi stessi possono essere
fortemente influenzati dall’effetto di contrasto.
2. I pensieri attivati da una situazione – Priming e accessibilità dei concetti. Un importante principio della
cognizione sociale è quello che afferma che la nostra interpretazione degli eventi dipende da quello che
stiamo pensando in un determinato momento, oltre che dalle credenze e dalle categorie (variabili da
individuo a individuo) che utilizziamo solitamente per dare senso a ciò che ci circonda. La nostra
interpretazione può anche dipendere da elementi che assumono una certa rilevanza per la situazione,
rilevanza che è determinata dal priming. (Esperimento di Higgins, Rholes e Jones). Anche indizi troppo
sottili per essere percepiti a livello conscio, possono influenzare il nostro giudizio sul comportamento degli
altri e possono influenzare il nostro comportamento (Esperimento di Bargh): per brevi periodi possiamo
trasformarci in qualsiasi cosa o in chiunque ci viene in mente.
Il priming ha effetti notevoli sugli atteggiamenti e sui comportamenti di molte persone, anche su quelli
esperti che, ogni giorno, si trovano ad affrontare situazioni reali di vita e di morte. Per questo,
probabilmente, gli effetti priming sono ampiamente sfruttati dai media.
3. Il modo in cui la presentazione di un problema influenza i processi decisionali – Il framig delle
decisioni: considera se i modo in cui viene presentato un problema sembra implicare la possibilità di una
perdita o di un guadagno. Una semplice riformulazione del modo in cui vengono presentate due opzioni
può provocare un enorme cambiamento. I fattori che incidono sull’elaborazione delle decisioni possono
svolgere un ruolo fondamentale in situazioni che riguardano la vita o la morte.
4. Il modo in cui vengono presentate le informazioni – Fondamentali da considerarsi sono l’ordine in cui
vengono presentate le informazioni e la quantità di informazioni fornite.
Per la formazione delle prime impressioni sembra essere fondamentale l’effetto primacy: la prima
impressione è quella che conta. (Esperimento di Solomon Asch). Ma perché l’influenza dell’effetto
primacy sembra essere preponderante? In primo luogo, si considera il fenomeno del calo dell’attenzione
a causa del quale le persone tendono a prestare meno attenzione agli ultimi elementi di un elenco perché si
stancano, le loro menti iniziano a divagare e tali elementi avranno quindi un impatto minore sulla
formazione di un giudizio. In secondo luogo, i primi elementi di un elenco servono per creare
un’impressione iniziale che verrà utilizzate dall’individuo per interpretare le informazioni successive, sia
sminuendo informazioni contraddittorie, sia modificando inconsapevolmente gli ultimi elementi. L’effetto
primacy ha conseguenze notevoli sul giudizio sociale.
La quantità di informazioni è un altro fattore fondamentale: il fatto so avere a disposizione un gran
numero di informazioni a volte può essere utile, ma altre volte può cambiare il modo in cui un oggetto
viene percepito e valutato a causa del fenomeno definito effetto diluizione, la tendenza delle informazioni
neutre e superflue ad attenuare i giudizi e le impressioni. Inserire informazioni superflue che non hanno
niente a che vedere con la questione di cui ci si sta occupando, può attenuare gli effetti delle informazioni
pertinenti, ovvero ne può sminuire l’importanza (Zukier). Fornire informazioni superflue può far apparire
una persona più simile agli altri e, quindi, farla sembrare più vicina alla media.
Le euristiche del giudizio – Un modo per riuscire a dare senso alla quantità di informazioni che riceviamo è
ricorrere alle euristiche del giudizio, scorciatoie mentali, regole o strategie semplici e spesso approssimative che
utilizziamo per risolvere un problema. L’uso dell’euristica non richiede alcuna riflessione, è sufficiente selezionare
la regola (non sempre adeguata) e applicarla alla situazione che si deve affrontare. I tipi di euristica del giudizio più
comuni sono: l’euristica della rappresentatività, l’euristica della disponibilità e l’euristica dell’atteggiamento.
1. Euristica della rappresentatività – Ci concentriamo sulla somiglianza di un oggetto con un altro per
giungere alla conclusione che il primo si comporta come il secondo. Scegliamo una delle possibili
caratteristiche e ce ne serviamo per prendere un decisione. (Esempio Lucky Charms vs 100%Natural).
L’euristica della rappresentatività viene anche utilizzata per formare impressioni e giudizi sulle altre
persone: le prime informazioni che raccogliamo su una persona sono solitamente associate a semplici regole
che guidano e condizionano il nostro comportamento (stereotipi).
2. Euristica della disponibilità – Si riferisce a giudizi che si basano sulla facilità con cui riusciamo a ricordare
esempi specifici. Il problema principale di questa euristica è che, a volte, quello che viene in mente con
maggiore facilità non è coerente con il quadro generale e può portarci a commettere errori.
3. Euristica dell’atteggiamento – Un atteggiamento è un tipo di credenza che presenta componenti emotive
e valutative, si può quindi definire come una valutazione (positiva o negativa) di un oggetto immagazzinato
nella memoria. Le persone tendono ad utilizzare l’euristica dell’atteggiamento come un modo per prendere
decisioni e risolvere problemi. (Anthony Pratkanis e Anthony Greenwald). Gli atteggiamenti possono esser
usati per inserire un oggetto in una categoria positiva o negativa. Gli atteggiamenti delle persone svolgono
un ruolo fondamentale nel determinare cosa queste ritendono vero. (Esperimento di Anthony Pratkanis.).
il ricorso all’euristica dell’atteggiamento può influenzare la nostra logica e la nostra capacità di ragionare.
(Esperimento di Thistlewaite).
Un altro aspetto di questa euristica è l’effetto alone, distorsione per cui un’impressione generale, positiva
o negativa, su una persona può influenzare le nostre conclusioni e le nostre aspettative future su di lei.
(Esperimento di Richard Stein e Carol Nemeroff). Infine, possiamo considerare in fenomeno del falso
consenso, la tendenza molto diffusa a sovrastimare il numero di persone che crediamo possano condividere
le nostre idee: se siamo convinti di una cosa, giungiamo automaticamente alla conclusione che la maggior
parte delle persone condivida in nostro stesso punto di vista, partiamo dal presupposto che agli altri piaccia
ciò che a noi piace e ciò che noi facciamo.
Quando si ricorre alle euristiche piuttosto che a metodi decisionali più tradizionali? Sono state individuate quattro
condizioni in particolare: quando non abbiamo tempo di riflettere attentamente su una questione, quando siamo
talmente carichi di informazioni che ci risulta impossibile elaborarle in modo accurato, quando ci stiamo occupando
di questioni non molto importanti e quindi non ci importa rifletterci troppo e, infine, quando abbiamo a disposizione
poche conoscenze e informazioni concrete per prendere una decisione.
La categorizzazione e gli stereotipi sociali – Dopo aver stabilito in che modo categorizzare un evento o una
persona, risulta anche chiaro quale tipo di azione intraprendere. Tutti noi ci troviamo ad affrontare dibattiti su come
categorizzare una persona o un evento centinaia di volte la settimana e le conseguenze del modo in cui interpretiamo
e definiamo gli eventi possono essere molto rilevanti. Una delle conseguenze principali della categorizzazione è che
può attivare informazioni specifiche e stereotipi che influenzano le nostre aspettative. Le aspettative influenzano
notevolmente il nostro pensiero e i nostri giudizi sulle altre persone (John Darley e Paget Gross).
La maggior parte delle persone sembra essere in qualche modo consapevole dell’esistenza di stereotipi e sembra
rifiutarsi di applicarli in assenza di informazioni certe. Inoltre, nonostante questa consapevolezza, gli stereotipi
continuano a influenzare le nostre percezioni e i nostri giudizi quando abbiamo a disposizione informazioni ambigue
che conferiscono un falso senso di razionalità al giudizio.
Il meccanismo attraverso cui gli stereotipi e le aspettative inducono le persone a trattare gli altri in modo da metterli
in condizione di soddisfare le proprie aspettative, prende il nome di profezia che si autoavvera, un fenomeno che
avviene quando agiamo sulla base delle impressioni che abbiamo sugli altri: abbiamo un’aspettativa su un’altra
persona che influenza il nostro modo di agire nei suoi confronti che, a sua volta, spinge la persona a comportarsi in
modo coerente alle nostre aspettative iniziali.
Un ulteriore effetto della categorizzazione è il fenomeno della correlazione illusoria, spesso, percepiamo
l’esistenza di una relazione tra due entità che, in realtà, non sono correlate. La correlazione illusoria è un fenomeno
che si riscontra spesso nella formulazione di giudizi sociali, contribuendo considerevolmente nella conferma dei
nostri stereotipi iniziali. Questi, a loro volta, ci portano a individuare l’esistenza di una relazione che sembra fornire
prove che confermano che lo stereotipo iniziale è valido.
Uno dei metodi più comuni di categorizzare le persone è quello di dividerle in due gruppi: quelle che appartengono
al mio gruppo (ingroup) e quelle che sono fuori dal gruppo (outgroup), noi e loro. questo tipo di categorizzazione
comporta due importanti conseguenze: l’omogeneità dell’outgroup, fenomeno per cui le persone appartenenti a un
determinato gruppo sembrano più simili tra loro di quanto realmente siano, e il favoritismo per l’ingroup, tendenza
a ritenere il proprio gruppo migliore rispetto agli altri e a sentire un senso di amicizia e intimità con i partecipanti
del proprio gruppo, anche se totalmente estranei. Tale fenomeno è stato dettagliatamente studiato applicando il
cosiddetto paradigma del gruppo minimo, procedura ideata dallo psicologo britannico Henri Tajfel. Si inducevano
degli individui perfettamente estranei tra loro a formare gruppo utilizzando criteri banali, insignificanti e casuali. Si
ottenevano risultati significativi sulla base dell’identificazione dei soggetto con un gruppo di scarsa rilevanza. I
partecipanti non si erano mai incontrati prima, non avevano interagito gli uni con gli altri e vennero divisi nei due
gruppi in maniera casuale. Ciò nonostante si comportarono come se fossero amici o parenti stretti.
La memoria ricostruttiva – La memoria svolge un ruolo rilevante nelle interazioni sociali quindi è di fondamentale
importanza comprendere che il ricordare è un processo ricostruttivo: dobbiamo ricostruire i ricordi utilizzando
frammenti di informazioni relative agli eventi reali, filtrate e modificate dalla nostra idea di ciò che sarebbe dovuto
accadere e di ciò che avremmo voluto accadesse. Il modo in cui le domande cosiddette tendenziose vengono poste
può, ed esempio, influenzare i ricordi e il modo in cui essi sono riportati successivamente: le domande che mirano
a suggerire una determinata risposta possono influenzare il nostro giudizio relativo ai fatti ma possono anche avere
effetti sulla memoria. (Processo di Hennis, Elizabeth Loftus).
La memoria autobiografica – Quando si vuole ricordare la propria storia personale è importante essere consapevoli
del fatto che è impossibile ricordare nei minimi dettagli ogni avvenimento della nostra esistenza. Il passare del
tempo provoca distorsioni e correzioni. Tendiamo, infatti, a organizzare la nostra storia personale utilizzando quelli
che Hazel Markus ha definito schemi di sé, un insieme coerente di ricordi, sentimenti e credenze su noi stessi che,
nel complesso, formano una struttura omogenea, e a distorcere i nostri ricordi in modo che si adattino all’immagine
generale che abbiamo di noi stessi. Riscriviamo la nostra storia personale, non attraverso bugie ma attraverso
distorsioni che tendiamo a compiere per far rientrare i ricordi nei nostri schemi.
Per insinuare falsi ricordi relativi all’infanzia è sufficiente chiedere a un parente stretto di parlare dei falsi ricordi
come di un dato di fatto. Questo fenomeno è stato definito sindrome del falso ricordo. (Elizabeth Loftus).
Un altro fenomeno particolarmente rilevante è il fenomeno dei ricordi recuperati, falsi ricordi possono essere
involontariamente portati alla mente di una persona a seguito di una determinata, e inconsapevole, suggestione.
(Esempio delle testimonianze di abusi sessuali, riti satanici etc.)
Quanto è conservatrice la cognizione umana? – Esiste un fenomeno noto come bias di conferma che indica la
tendenza a cercare una conferma delle nostre impressioni iniziali o delle nostre credenze. Le persone tendono a fare
ipotesi e, poiché abbiamo la tendenza ad ancorarci alle nostre impressioni iniziali, queste interferiranno con la nostra
capacità di interpretare la situazione in modo chiaro. Inoltre, non solo tendiamo a confermare le nostre ipotesi
iniziali, ma siamo anche convinti che esse siano esatte. Questa tendenza è denotata dal fenomeno dell’hindsight
bias. Questi due fenomeni confermano l’ipotesi secondo cui la cognizione umana tende al conservatorismo:
cerchiamo sempre di preservare tutto ciò che è già costituito, come le nostre conoscenze precedenti, le nostre
credenze, i nostri atteggiamenti e i nostri stereotipi. Il conservatorismo cognitivo comporta almeno un vantaggio
perché ci permette di percepire il mondo sociale come qualcosa di logico e stabile. Tuttavia, ha anche degli
svantaggi: l’uso inadeguato delle categorie può provocare una distorsione degli eventi o la perdita di informazioni
importanti, una scorretta applicazione delle euristiche può portare a decisioni semplicistiche, un errore
nell’aggiornamento della nostra concezione del mondo può portare a un’errata immagine della realtà. Le
conseguenze non si manifestano solo a livello mentale ma possono dare luogo a problemi sociali.
Cosa si può fare per ridurre le conseguenze negative del conservatorismo cognitivo?
1. Diffidare dalle persona che tentano di creare le nostre categorie e le definizioni relative alla situazione.
2. Provare a usare più di un modo per categorizzare o descrivere una persona o un evento.
3. Provare a pensare che le persone e gli eventi sono unici: sebbene le persone rientrano in una determinata
categoria principale rientrano anche in molte altre categorie aventi caratteristiche proprie.
4. Considerare la possibilità di commettere degli errori derivanti dal fatto di essere soggetti a uno o più bias
cognitivi.
L’influenza degli atteggiamenti e delle credenze sul comportamento – ‘Nel complesso, questi studi rivelano che
ci sono maggiori probabilità che i rapporti tra atteggiamenti e comportamenti dichiarati siano inesistenti o
insignificanti rispetto a quelle che esista uno stretto rapporto tra atteggiamenti e azioni.’ Alan Wicker.
1. Il rapporto atteggiamento-comportamento esiste solo nella nostra mente? – Si ipotizza che non esista
alcun tipo di relazione tra atteggiamenti e comportamenti. A sostegno di questa ipotesi possiamo
considerare la tendenza diffusa ad attribuire le cause del comportamento di un individuo alle caratteristiche
di quest’ultimo (tratti di personalità e atteggiamenti) piuttosto che a fattori situazionali. Siamo quindi
portati a credere che le persone abbiamo ciò che si meritano e che si meritino ciò che hanno. Edward Jones
ha definito questa tendenza ad attribuire le cause di un comportamento a disposizioni interne inferenza
corrispondente, fenomeno secondo cui il comportamento di una persona viene spiegato in termini di un
attributo o un tratto tipicamente collegato al comportamento. Le inferenze corrispondenti possono
riguardare qualsiasi ambito.
2. In quali casi gli atteggiamenti predicono i comportamenti? – Il fatto che gli atteggiamenti non predicano
sempre le credenze non significa necessariamente che gli atteggiamenti non predicano mai i
comportamenti. Russell Fazio identifica uno dei fattori principali che contribuiscono a aumentare le
probabilità che ci si comporti sulla base dei propri atteggiamenti: l’accessibilità all’atteggiamento, riferita
alla forza dell’associazione tra un oggetto e il nostro giudizio su di esso. Tuttavia, non tutti gli atteggiamenti
e non tutte le credenze hanno un alto grado di accessibilità.
Gli atteggiamenti vengono utilizzati per interpretare, percepire un oggetto in modo selettivo e dare un senso
a una situazione complessa. Possono, inoltre, influenzare i nostri processi cognitivi venendo utilizzati come
euristiche e influenzando le nostre interpretazioni, spiegazioni, il nostro modo di ragionare e i nostri giudizi
riguardo a una situazione. L’atteggiamento è solo uno dei tanti fattori utilizzabile per dare senso a una
situazione. Tuttavia, quando altamente accessibile, è molto probabile che diventi l’elemento principale da
utilizzare per definire una situazione e, in tal caso, ci comporteremo in base a tale atteggiamento.
Esiste un altro modo attraverso il quale gli atteggiamenti e le credenze possono influenzare il comportamento: le
credenze, infatti, possono contribuire a creare il mondo sociale in cui viviamo. Carol Dweck, ad esempio, con uno
studio volto a dimostrare le conseguenze, a livello comportamentale, delle credenze con maggiore stabilità
temporale, ha ipotizzato che i bambini sviluppino teorie implicite sulla permanenza dei tratti che definiscono una
persona, come l’intelligenza o la bontà, e che tali teorie esercitino una notevole influenza sui loro giudizi e sul loro
comportamento: alcune persone considerano l’intelligenza come una caratteristica immutabile, altri la credono più
flessibile. Le prime si caratterizzano come persone che temono maggiormente il fallimento e tendono a evitare
situazioni che potrebbero rivelare i loro limiti; le seconde sono persone più elastiche, che si mettono alla prova
cercando di migliorarsi e non tirandosi indietro in caso di fallimento.
Tre possibili distorsioni nei processi di attribuzione – Ogni giorno cerchiamo di fornire delle spiegazioni di ciò
che accade intorno a noi, ma a volte sono soggette a distorsioni e imprecisioni. Si identificano tre tipi di distorsioni
che spesso condizionano le nostre spiegazioni:
1. L’errore fondamentale di attribuzione – Si riferisce alla tendenza generale degli esseri umani a
sopravvalutare l’importanza della personalità e dei fattori disposizionali rispetto a quelli situazionali o
ambientali quando si descrivono e si spiegano le cause del comportamento sociale. In quanto osservatori,
spesso dimentichiamo che ogni individuo ha molti ruoli sociali, ma he noi possiamo osservarne soltanto
uno alla volta e quindi la loro importanza ci può facilmente sfuggire quando ci troviamo a spiegare il
comportamento di una persona. Alcuni ruoli sociali portano a tenere un determinato comportamento, altri
ruoli sociali inducano a tenere un determinato comportamento completamente opposto. Non si deve
sottolineare il ruolo dei fattori disposizionali, perché questi esistono e hanno un ruolo. Tuttavia, la maggior
parte delle volte, siamo troppo inclini a ricorrere ad attribuzioni disposizionali quando in realtà le cause di
un comportamento possono essere ricondotte a fattori situazionali. Essere consapevoli dell’esistenza
dell’errore fondamentale di attribuzione dovrebbe perlomeno farci sorgere dubbi riguardo alla correttezza
delle nostre attribuzioni e farci pensare a quanto siamo fortunati a non trovarci in determinate situazioni.
2. La differenza attore-osservatore – Tendenza degli attori ad attribuire le proprie azioni a fattori
situazionali e la tendenza degli osservatori ad attribuire tali azioni a disposizioni stabili della personalità
degli attori. In pratica, a noi concediamo i beneficio del dubbio e ricorriamo a fattori situazionali per
spiegare noi stessi, mentre agli altri non concediamo lo stesso beneficio e, quando tentiamo di spiegare il
loro comportamento, commettiamo un errore fondamentale di attribuzione. Tale fenomeno è dovuto al fatto
che l’attenzione dell’attore è concentrata sull’ambiente e sulla storia passata, ha una conoscenza speciale
dei fattori che l’hanno indotto a mettere in atto un determinato comportamento e del modo in cui valutava
il comportamento che ha adottato. L’attenzione dell’osservatore, invece, è quasi sempre concentrata
sull’attore e quindi è probabile che non conosca le ragioni collegate all’ambiente e alla storia passata che
l’hanno indotto a comportarsi in un determinato modo. Il fenomeno della differenza attore-osservatore si
verifica anche nel caso in cui un soggetto veda se stesso dall’esterno e può spesso portare a fraintendimenti
e contrasti. Questa differenza in termini di percezioni e attribuzioni può, a sua volta, porre le basi per azioni
successive che potrebbero contribuire a intensificare i contrasti e i sentimenti di ostilità. Per stroncare sul
nascere i contrasti è efficace cambiare i pov di osservatore e attore, favorendo l’empatia.
3. Le tendenze sistematiche riguardanti il sé – Uno dei nostri obiettivi principali a livello psicologico è
quello di mantenere e migliorare l’immagine che noi abbiamo di noi stessi.
Il sé sociale […] è più importante del sé materiale […]. Dobbiamo prenderci più cura del nostro onore,
dei nostri amici, dei nostri rapporti umani che non della nostra salute o della nostra ricchezza. Il sé
spirituale è tanto prezioso che, piuttosto di perderlo, gli individui sarebbero disposti a rinunciare agli
amici, alla fama, ai propri beni e alla vita stessa. William James.
In quanto fonte primaria di motivazione, il modo in cui concepiamo il sé influenza considerevolmente tutti
i tipi di cognizione sociale. Due metodi attraverso cui il sé influenza la cognizione sociale: il pensiero
egocentrico e le attribuzioni a proprio favore.
Il pensiero egocentrico indica come la maggior parte delle persone tenda a percepire se stessa più al centro
degli eventi di quanto sia realmente. Queste persone ricordano gli avvenimenti passati pensando a se stessi
come l’elemento fondamentale che ha influenzato il corso degli eventi e il comportamento degli altri. Le
nostre credenze e le nostre aspettative possono creare la realtà sociale. Le attribuzioni a proprio favore
si riferiscono alla tendenza degli individui a compiere attribuzioni disposizionali per spiegare i propri
successi e a compiere attribuzioni situazionali per spiegare i propri insuccessi.
La presentazione del sé è (di solito) troppo positiva per rispecchiare la realtà, ma spesso si crede
sinceramente nella validità di questa presentazione (eccessivamente) positiva. Una spiegazione possibile
che giustifica il ricorso alle attribuzioni a proprio favore è che siamo motivati a utilizzarle per difendere e
mantenere il nostro concetto di sé e la nostra autostima. Secondo questa prospettiva, se una persona ha una
visione di sé positiva, le risulterà più facile vedere e accettare se stessa come una persona che compie azioni
positive e ogni minaccia a questa visione positiva di sé dovrà essere contrastata, per esempio attraverso un
rifiuto o un pretesto valido. Quest’ultimo fenomeno viene definito comportamento ego-difensivo.
Le probabilità di fornire spiegazioni che si basano su attribuzioni a proprio favore aumentando quando
l’individuo è molto coinvolto nel comportamento, l’individuo si sente responsabile dei risultati delle proprie
azioni, o quando il comportamento viene osservato da altri. Le probabilità di ricorrere alle attribuzioni a
proprio favore invece diminuiscono quando gli individui sono consapevoli di non potersela cavare. Si
ricorre alle attribuzioni a proprio favore quando è in gioco il sé, cioè quando il sé viene chiaramente
minacciato o quando la persona vede una possibilità di conquistarsi un’immagine positiva.
Gli uomini sono esseri patetici, irrazionali e stupidi che si rifiutano di vedere le cose come effettivamente
sono; si dovrebbero evitare a tutti i costi le tendenze sistematiche a vantaggio del sé.
La giustificazione del sé
Le persone sono motivate a giustificare le proprie azioni, le proprie credenze e i propri sentimenti; quando compiono
un’azione, cercano, se possibile, di convincere se stesse e gli altri che era la cosa più logica e sensata da fare. Questo
concetto è alla base della giustificazione del sé e può essere applicato a livello generale.
Leon Festinger elabora la teoria della dissonanza cognitiva, uno stato di tensione che si verifica ogni volta che un
individuo possiede contemporaneamente due cognizioni (idee, atteggiamenti, credenze, opinioni) che sono
psicologicamente incoerenti tra loro. due cognizioni sono dissonanti se, quando vengono considerate singolarmente,
il contrario di una è la diretta conseguenza dell’altra. Poiché spiacevole, le persona sono motivate a ridurre la
dissonanza. Gli esseri umani sono creature che passano la vita a convincersi che la loro esistenza non è assurda.
Come riduciamo la dissonanza? Modificando almeno una delle due cognizioni per renderle compatibili tra loro o
aggiungendo nuove cognizioni che colmino il divario esistente.
La teoria della dissonanza cognitiva non descrive le persone come esseri razionali, bensì come esseri che
razionalizzano. Infatti, gli esseri umani sono motivati non tanto ad essere nel giusto quanto a credere di esserlo. In
alcune occasioni, il bisogno di ridurre la dissonanza porta a mettere in atto comportamenti disadattivi e quindi
irrazionali: se una persona si impegna seriamente a tenere un determinato comportamento, e poi non riesce a tener
fede al proposito, il proprio concetto di sé in quanto persona forte/capace di controllarsi verrà minacciato. A questo
punto il soggetto sperimenterà lo stato di dissonanza; uno dei modi per ridurlo e recuperare una buona immagine di
sé è quello di banalizzare l’importanza dell’impegno preso iniziando a considerare per es. il fumo meno pericoloso.
Oppure a considerare già l’atto di aver provato a smettere come positivo, quindi abbassare le aspettative relative
alle capacità di successo, credendo di poter riuscirci poi, in futuro.
Quanto più è radicato l’atteggiamento tanto maggiore sarà la tendenza dell’individuo a respingere le informazioni
dissonanti. (Suicidio di massa a Heaven’s Gate, 1997). Gli individui tendono a distorcere la realtà oggettiva per
ridurre lo stato di dissonanza in cui si trovano e tanto il modo in cui operano tali distorsioni quanto le loro intensità
sono altamente prevedibili. Infine, alle persone non piace vedere o sentire cose che sono in contrasto con le loro
credenze o i loro desideri più radicati.
Riduzione della dissonanza e comportamento razionale – I comportamenti di riduzione della dissonanza, per
quanto irrazionali e disadattivi, svolgono una funzione ego-difensiva perché, riducendo la dissonanza, permettono
di mantenere un’immagine positiva del sé. A volte, però, le conseguenze possono essere disastrose. Jones e Kohler
studiarono i comportamenti di riduzione della dissonanza, considerando che, se fossimo effettivamente razionali, ci
ricorderemo tutte le argomentazioni plausibili rispetto a quelle assurde di fronte a un problema: invece la logica che
mettiamo in atto, è sempre quella che ci permetterà di preservare la nostra immagine. Ricorderemo teorie che
appoggeranno la nostra posizione e quelle assurde che gli altri non appoggiano. Non elaboriamo le informazioni in
modo obiettivo ma le distorciamo per farle concordare con le nostre idee preconcette.
Non si nega che gli esseri umani possano comportarsi in modo razionale, la teoria suggerisce semplicemente che
buona parte sei nostri comportamenti sono irrazionali anche se, dal punto di vista della persona che li mette in atto,
possono sembrare del tutto sensati. Il mondo non è diviso in persone razionali da una parte e persone che mettono
in atto comportamenti di riduzione della dissonanza dall’altra; alcune sono più tolleranti di altre nei confronti degli
stati di dissonanza ma sono tutte capaci sia di comportarsi in modo razionale sia di ricorrere a comportamenti di
riduzione della dissonanza, a seconda delle circostanze in cui si trovano.
La dissonanza come conseguenza della presa di decisione – Nel momento in cui dobbiamo prendere una
decisione tentiamo di acquisire il maggior numero di informazioni in merito. Quando la decisione è presa, il nostro
comportamento cambia: non andiamo più alla ricerca di informazioni obiettive.
Dopo una decisione, specie se difficile o dispendiosa dal pov dei soldi, del tempo e dello sforzo, le persone vivono
sempre uno stato di dissonanza. Questo accade perché l’alternativa che si va a preferire raramente è del tutto positiva
e è altrettanto raro che le alternative che si scartano siano del tutto negative. Dopo una decisione, quindi, le persone
cercano di rassicurarsi di aver preso una decisione saggia andando alla ricerca di informazioni che sono sicuramente
confortanti. (Esperimento di Jack Brehm). La tendenza a giustificare le proprie scelte non si limiti soltanto alle
decisioni che si prendono in veste di consumatori. Anzi, processi di questo tipo possono influenzare anche i nostri
rapporti sentimentali e la nostra propensione a considerare la possibilità a impegnarci con altri partner. Quindi, le
persone tendono a concentrarsi sugli aspetti positivi delle proprie scelte e a minimizzare le caratteristiche attraenti
delle alternative scartate. Sulla base degli esempi storici delle conseguenza di decisioni si è teorizzata la tecnica del
piede nella porta, consiste nel ricorre a piccole richieste per incoraggiare le persone ad acconsentire a richieste più
impegnative. Quando le persone acconsentono a prendere piccoli impegni, aumentano le probabilità che in futuro
accettino di assumersi impegni maggiori e coerenti con quelli presi in precedenza. Si tratta di una strategia molto
efficace perché il fatto di aver compiuto il favore più piccolo crea uno stato di pressione che spinge ad acconsentire
alla richiesta più impegnativa in quanto il primo comportamento fornisce in anticipo una giustificazione per
soddisfare la richiesta successiva. (Ad esempio, esperimento di Milgram).
L’importanza dell’irrevocabilità – Quando una decisione è ormai irrevocabile si sente una dissonanza maggiore
e, per ridurre questa spiacevole sensazione, le persone tendono ad acquisire una maggiore consapevolezza di essere
nel giusto, dato che ormai non possono fare nulla per modificare la propria decisione. Sebbene l’irrevocabilità di
una decisione aumenti la dissonanza e la motivazione delle persone a ridurla, ci sono anche casi in cui questo aspetto
è del tutto insignificante: con la tecnica del colpo basso vediamo come la possibilità di vedere sfumare una buona
possibilità crea dissonanza e delusione. (Esperimento del concessionario, Robert Cialdini).
Considerando l’importanza della dissonanza cognitiva, l’irrazionalità di certi comportamenti, la giustificazione di
essi: non diventa semplice riconoscere cosa è giusto e cosa no. Di fronte a una scelta che propone come possibilità,
ad esempio, onestà e disonestà, la presa di decisione porta a una drastica differenziazione degli atteggiamenti delle
persone verso le due possibilità: chi scegli la disonestà diventa improvvisamente più comprensivo nei confronti
della stessa, chi invece ha resistito alla tentazione adotta un atteggiamento molto più intransigente. (Esperimento di
Judson Mills). Tali risultati suggeriscono la possibilità che le persone che si oppongono più duramente a una
determinata condotta non siano quelle che se ne sono sempre tenute lontane: le persone che sentono un forte bisogno
di prendere pesanti provvedimenti contro una determinata condotta siano quelle che sono state fortemente tentate,
sono state quasi sul punto di cedere, ma sono poi riuscite a resistere. Le persone che hanno quasi deciso di vivere
in una casa di vetro, sono spesso quelle più inclini a scagliare pietre. (Studio di Henry Adams).
Persone con atteggiamenti molto radicati tendono a resistere al tentativo diretto di cambiare quegli atteggiamenti,
sono insensibili ai tentativi di propaganda o di educazione al riguardo.
È possibile riuscire a predisporre le condizioni adatte a provocare cambiamenti di atteggiamento nelle persone,
rendendole vulnerabili a certi tipi di credenze:
1. Se volete che le persone sviluppino atteggiamenti positivi verso un oggetto, fate in modo che si impegnino
a farlo proprio.
2. Se volete che le persone attenuino i propri atteggiamenti morali verso un’azione grave, tentatele in modo
da spingerle a compiere la stessa azione; se invece volete che le persone irrigidiscano i propri atteggiamenti
morali verso un’azione grave, tentatele, ma non abbastanza da indurle a compierla.
La psicologia della giustificazione insufficiente – Poiché viviamo in una società complessa, a volte ci troviamo a
dire o a fare cose a cui non crediamo fino in fondo, ma ciò non porta sempre a dei cambiamenti di atteggiamento.
Un modo molto efficace di ridurre la dissonanza che agisce giustificando completamente un’azione è la
giustificazione esterna, un tipo di giustificazione determinato dalla situazione. Se, però, nel tentativo di trovare
una giustificazione esterna al proprio comportamento la persona fallisce, dovrà cercare di spiegare il proprio
comportamento ricorrendo a una giustificazione interna, cambiando il proprio atteggiamento in modo da
avvicinarlo alle affermazioni fatte.
Quindi, se un individuo esprime una credenza per la quale è difficile trovare una giustificazione esterna, tenterà di
trovare una giustificazione interna cercando di rendere i propri atteggiamenti più coerenti con l’affermazione fatta.
Due efficaci giustificazioni esterne sono: il tentativo di non ferire nessuno e la ricompensa., con una ricompensa
vediamo come tanto maggiore è la ricompensa volta a un cambiamento, tanto minori sono le probabilità che il
cambiamento si verifichi Questo fenomeno è stato denominato paradigma del dire è credere, secondo la teoria
della dissonanza, le persone possono iniziare a credere alle proprie bugie, ma soltanto se non ci sono giustificazioni
esterne sufficienti per le affermazioni che hanno fatto e che vanno contro i loro atteggiamenti iniziali. Non potendo
contare né sull’acquiescenza né sull’identificazione, il nuovo atteggiamento tende ad essere interiorizzato.
Mike Lippe e Donna Eisenstadt dimostrarono il fenomeno della counterattitudinal advocacy, difesa di posizioni
contrarie ai propri atteggiamenti.
La dissonanza è molto più forte in situazioni in cui il concetto di sé viene minacciato. Gli effetti della dissonanza
sono maggiori quando le persone si sentono direttamente responsabili delle proprie azioni e quando queste hanno
gravi conseguenze. Quanto maggiori sono le conseguenze delle nostre responsabilità, tanto maggiore sarà la
dissonanza; quanto maggiore è la dissonanza, tanto maggiore sarà il nostro cambiamento di atteggiamento.
Le punizioni severe sono sufficienti a insegare cosa fare e cosa non fare? No. Quanto più lieve è la punizione, tanto
minori saranno le giustificazioni esterne e quanto minori saranno le giustificazioni esterne, tanto maggiore sarà il
bisogno di ricorrere a giustificazioni interne. Dare alle persone la possibilità di costruirsi le proprie giustificazioni
interne può offrire loro un grande aiuto a sviluppare un sistema di valori permanente. In situazioni con una punizione
forte, la persona smette di comportarsi in quel modo quando è controllata, perché la giustificazione è esterna, cioè
avrà una punizione, e la dissonanza sarà ridotta grazie alla giustificazione esterna sufficiente. Con una punizione
lieve, invece, si avvertirà dissonanza, e la giustificazione esterna sarà insufficiente. Si rende quindi necessaria la
ricerca di un’altra giustificazione, interna. (Esperimenti di Freedman, Aronson e Carlsmith).
La giustificazione degli sforzi – Se una persona si impegna a fondo per raggiungere un obiettivo, considererà più
attraente rispetto a una persona che ottiene gli stessi risultati con minore impegno. Il processo si definisce come
giustificazione degli sforzi e suggerisce che se una persona vive un’esperienza difficile o dolorosa per raggiungere
un determinato obiettivo o per ottenere un determinato oggetto, quell’obiettivo o quell’oggetto diventerà più
attraente.
La giustificazione della crudeltà – Nel compiere un’azione che porta un danno considerevole a qualcuno si crea
uno stato di dissonanza. In assenza di sufficienti giustificazioni esterne, il modo più efficace di ridurre la dissonanza,
in questa situazione, sarà quello di portare all’estremo la colpa della vittima della propria azione, convincersi che si
meritava quello che ha avuto o perché se lo è procurato da sola o perché era una persona cattiva e riprovevole.
Questo tipo di meccanismo funziona anche quando il danno non è stato causato da noi, ma proviamo una semplice
avversione nei confronti della vittima e speravamo già che le accadesse qualcosa (Kent State University).
Tali meccanismi sono ottimali tra le persone con un alto livello di autostima: infatti, se una persona pensa di essere
un farabutto, infliggere sofferenze agli altri non creerà molta dissonanza, pertanto sentirà un bisogno minore di
convincersi che la vittima si meritava il proprio destino. (Processo di disumanizzazione). È proprio perché si pensa
di essere brave persona che, se si fa qualcosa che provoca sofferenza agli altri, ci si deve convincere che la vittima
è un miserabile. Un altro fattore che diminuisce la dissonanza è la capacità della vittima di vendicarsi: in questo
modo chi cagiona il danno penserà che la giustizia sia stata ristabilita e non sentirà più il bisogno di giustificare le
proprie azioni gettando discredito sulla vittima.
Determinati fattori situazionali possono esercitare un’influenza notevole sulle azioni che compiono le persone.
Come sottolineano Edward Jones e Richard Nisbett, quando una disgrazia capita a noi tendiamo ad attribuire le
cause a fattori esterni, ma quando la stessa disgrazia capita a un’altra persona, tendiamo ad attribuire le cause a
debolezze insite nel carattere della persona in questione.
La psicologia dell’inevitabilità – Se non riuscite a liberarvi del vostro scheletro nell’armadio, tanto vale che lo
facciate ballare. George Bernard Shaw. Soprattutto quando si presentano condizioni che sono sia negative sia
inevitabili, le persone tentano di fare buon viso a cattiva gioco minimizzando, a livello cognitivo, gli aspetti negativi
della situazione. L’inevitabilità fa apprezzare maggiormente le cose o le persone.
Bisogna precisare, però, che in caso di eventi pericolosi e inevitabili, i comportamenti autogiustificanti possono, a
breve termine avere una funzione confortante; tuttavia, se ci impediscono di prendere le precauzioni necessarie per
migliorare le nostre condizioni di sicurezza, possono, sul lungo termine, rivelarsi fatali.
L’evento inevitabile viene accettato e i soggetti adottano atteggiamenti che ne evidenziano gli aspetti positivi.
Tuttavia, essendo difficile trovare un risvolto positivo a una catastrofe naturale, tendiamo a giustificare il non
prendere alcuna precauzione negando la possibilità che il disastro si verifichi effettivamente o sottovalutandone
l’entità.
L’importanza dell’autostima – Le persone con i livelli più alti autostima sono anche quelle che avvertono la
dissonanza maggiore quando si comportano in modo stupido o crudele per questo sono quelle che hanno maggiori
probabilità di resistere alla tentazione di compiere azioni immorali. Le persone che hanno una bassa opinione di sé
si aspettano di compiere azioni altrettanto basse e non hanno nemmeno troppe difficoltà a compierle perché non
sono dissonanti con il proprio concetto di sé.
È positivo avere un alto livello di autostima ma non si deve pensare che questa possa essere l soluzione a tutti i
problemi. Se l’autostima non si basa sulla realtà o se si tratta di puro narcisismo, parvenza di autostima ma priva
di consistenza che mira all’autoesaltazione e si fonda su un sentimento di insicurezza, può avere moltissimi effetti
negativi.
Disagio o autopercezione? – La teoria della dissonanza cognitiva è una teoria motivazionale perché prevede che
sia il disagio causato da una minaccia al concetto di sé a motivare gli individui a modificare le proprie credenze o i
propri comportamenti.
Daryl Bem elabora il concetto di autopercezione ipotizzando che le persone che subiscono cambiamenti di
atteggiamento e di comportamento in determinate situazioni potrebbero anche non aver avvertito disagio e non
essere motivate a auto-giustificarsi, ma potrebbero semplicemente aver osservato il proprio comportamento in modo
freddo, calmo e spassionato, e aver elaborato una conclusione basata sulle loro osservazioni. In realtà,
l’autopercezione ha un suo ruolo ma opera soltanto in situazioni in cui gli individui non hanno credenze di partenza
chiare e inequivocabili. Quando le hanno definite allora entrano in gioco il disagio e le minacce al concetto di sé.
Effetti fisiologici o motivazionali della dissonanza - Gli effetti possono andare oltre il cambiamento di
atteggiamento, arrivando a modificare il modo in cui percepiamo i bisogni fisiologici di base. Le persone in un alta
condizione di dissonanze provano un minor disagio fisico (dolore, fame, sete) rispetto alle persone nella condizione
di bassa dissonanza, e questo è dimostrato dalle effettive risposte fisiologiche allo stimolo. La base è fisiologica ma
influisce nettamente anche una componente psicologica. (Esperimenti di Philip Zimbardo e Jack Brehm).
Applicazioni pratiche della teoria della dissonanza – La teoria della dissonanza offre la possibilità di spiegare e
prevedere fenomeni che altrimenti non si potrebbero spiegare semplicemente ricorrendo al buon senso:
1. Comprensione delle reazioni ai disastri
2. Calare di peso – I cambiamenti di atteggiamento che derivano dalla necessità di giustificare il proprio
comportamento, non solo possono avere effetti considerevoli, ma possono anche dare avvio a processi
straordinariamente durevoli.
3. Prevenzione dell’AIDS – Un modo per restare immuni dalla dissonanza è rifiutarsi categoricamente di
prestare attenzione a quello che si sta facendo: quando le persone si difendono dalla dissonanza ricorrendo
al meccanismo del rifiuto, si può cercare di eliminare il rifiuto mettendole davanti alla propria ipocrisia.
Lo stato di dissonanza inizia quindi a trarre origine dalla consapevolezza della propria ipocrisia
4. Risparmio dell’acqua
5. Far luce sul potere dei leader di culto – Migliorare la nostra comprensione su eventi che vanno oltre i
limiti della nostra immaginazione: Jim Jones e il massacro di Jonestown, David Koresh e la battaglia di
Waco, Marshall Herff Applewhite e il sicidio collettivo di Heaven’s Gate.
Sebbene sia quasi impossibile riuscire a comprendere a pieno gli eventi finali, questi diventano più
comprensibili se li si considera come parte di una concatenazione di eventi, perché, quando si prende parte
a un piccolo impegno, si prepara il terreno per l’assunzione di impegni sempre più seri.
6. Osama Bin Laden – La fede islamica è la più completa e avanzata fra le tre religioni monoteistiche ma il
mondo islamico si trova in condizioni di arretratezza dal pov dell’istruzione, della scienza, della democrazia
e dello sviluppo sia nei confronti dell’occidente cristiano che dello stato ebraico.
Il rapporto fra riduzione della dissonanza e cultura – Gli effetti della dissonanza sono stati riscontrati in tutte le
parti del mondo in cui gli esperimenti sono stati condotti. Tuttavia, nelle altre culture non si verificano sotto la stessa
forma con cui si verificano nel Nord America: nelle società meno individualistiche, ad esempio, i comportamenti
di riduzione della dissonanza assumono una forma più comunitaria; in una cultura collettivista come quella
giapponese, infatti, gli osservatori tendono ad adattare i propri giudizi alle bugie che dicono i loro amici.
L’uomo non può vivere di sola consonanza – Le persone sono capaci di mettere in atto sia comportamenti razionali
e adattivi, sia comportamenti di riduzione della dissonanza. Se concentriamo il nostro tempo e i nostri sforzi per
difendere il nostro ego, non cresceremo mai perché, se siamo troppo impegnati a ridurre la dissonanza, non
impareremo mai niente dagli errore che commettiamo, anzi tenderemo a nasconderli o, quel che è peggio,
trasformarli in virtù. Quando si commette un errore, sarebbe utile guardarvi in un’ottica non difensiva . una reazione
simile è maggiormente possibile nei seguenti modi:
1. Comprendendo maggiormente le proprie tendenze a attuare comportamenti difensivi e riduzione della
dissonanza.
2. Rendendosi conto che compiere azioni stupide o immorali non fa di noi persone stupide o immorali.
3. Aumentando la tolleranza verso i propri errori.
4. Riconoscendo i vantaggi di ammettere i propri errori al fine di crescere e imparare qualcosa da essi e
migliorando le proprie capacità di costruire rapporti stretti e importanti con altre persone.
L’aggressività umana
Si definisce azione aggressiva qualsiasi comportamento intenzionale che mira a provocare dolore a livello fisico o
psicologico. È un’azione intenzionale diretta a provocare un danno o una sofferenza: l’elemento fondamentale è
l’intenzionalità dell’atto. È utile effettuare una distinzione tra aggressività ostile, riferita a un sentimento di rabbia
e mirante a infliggere dolore o un danno e aggressività strumentale, c’è l’intenzione di fare del male all’altra
persona ma l’azione aggressiva è soltanto un mezzo per raggiungere un obiettivo diverso dal provocare dolore.
L’aggressività è istintiva? – Thomas Hobbes (Leviatano, 1651), gli uomini allo stato naturale, sono esseri bruti
e solo facendo rispettare le leggi e mantenendo l’ordine sociale sarebbe stato possibile frenare quello che definiva
un naturale istinto di aggressività.
Jean Jacques Rousseau (1762), il buon selvaggio. Gli uomini sono creature buone allo stato naturale, la società li
spinge all’aggressività.
Freud (1900), Eros e Thanatos. Abbiamo un’energia aggressiva che deve trovare una valvola di sfogo perché,
altrimenti, potrebbe accumularsi e provocare danni all’organismo. Teoria idraulica: (analogia della pressione
dell’acqua) l’aggressività a cui non viene concessa alcuna valvola di sfogo potrebbe arrivare a provocare una sorta
di esplosione. La società ha il ruolo di sublimare questa energia, con comportamenti utili e accettabili.
Non si dovrebbe giungere alla conclusione che l’aggressività sia istintiva. John Paul Scott disse che per poter fare
affermazioni simili ci dovrebbero essere prove psicologiche di una stimolazione spontanea alla lotta che provenga
dall’interno del corpo. Giunse alla conclusione, che non esiste alcun istinto innato di attaccare: se un organismo è
in grado di organizzare la sua vita in modo da evitare qualsiasi stimolazione all’attacco, non subirà alcun danno
psicologico o mentale per il fatto di non aver potuto esprimere la propria aggressività.
Konrad Lorenz va contro la teoria di Scott. Egli studiò il comportamento dei ciclidi (pesci tropicali) che attaccano
i maschi della loro specie e basta. Osservò il loro comportamento in situazione in cui vi era un solo pesce maschio:
attaccò i maschi di altre specie e infine le femmine.
Richard Lore e Lori Schultz, l’aggressività si è evoluta e mantenuta ai fini della sopravvivenza; tutti gli esseri
viventi hanno sviluppato un potente meccanismo inibitore in grado di tenere a freno l’aggressività. È solo una
strategia opzionale, è determinata dalle esperienze sociali precedenti dell’animale e dal contesto sociale specifico
in cui esso si trova. Nel caso degli esser umani, a causa della complessità delle interazioni sociali, la situazione
sociale assume un’importanza ancora maggiore.
Secondo Leonard Berkowitz, negli umani esiste una tendenza innata a rispondere a determinati stimoli provocatori:
il fatto che tale tendenza si traduca o meno in azioni concrete dipende da una complessa rete di interazioni tra le
propensioni innate, una varietà di risposte inibitorie apprese attraverso l’esperienza e la natura della situazione
sociale. Per Berkowitz, gli umani hanno pattern di comportamento flessibili, soggetti a numero illimitato di
modificazioni.
L’infinita varietà dei modi attraverso cui gli esseri umani possono modificare la loro tendenza all’aggressività si
può riscontrare anche nel fatto che, all’interno di una determinata cultura, il cambiamento delle condizioni sociali
può provocare importanti mutamenti dal punto di vista del comportamento aggressivo. la causa può non essere un
incontrollabile istinto aggressivo bensì un cambiamento sociale.
Sebbene l’aggressività umana abbia in parte un carattere istintivo, esistono anche fattori situazionali e sociali che
possono scatenare comportamenti aggressivi. Ma i fattori situazionali e sociali svolgono un ruolo anche nelle
modificazioni di questo tipo di comportamenti. L’aggressività può quindi essere ridotta.
L’aggressività è utile? – L’aggressività potrebbe essere utile e addirittura indispensabile: Lorentz sostenne che
l’aggressività è una parte essenziale dell’organizzazione degli istinti ai fini della sopravvivenza. L’aggressività è di
primaria importanza dal punto di vista evolutivo. Molti studiosi sottolineano l’importanza di essere cauti nei tentativi
di controllare l’aggressività umana, suggerendo che potrebbe essere necessaria ai fini della sopravvivenza: l’ipotesi
si basa sul presupposto che l’aggressività si possa trovare alla base del progresso. Tutto ciò si fonda su una
definizione troppo ampia di aggressività.
Agli inizi del 900, Kropotkin osserva che il comportamento cooperativo e l’aiuto reciproco svolgono un’importante
funzione in termini di sopravvivenza per diverse forme di vita: altruismo.
Probabilmente è vero che agli inizi della storia dell’evoluzione della razza umana la rivalità e l’aggressività potevano
essere comportamenti adattivi: l’aggressività potrebbe far risalire le proprie origini ai tempi in cui gli uomini
lottavano per la propria sopravvivenza o essersi sviluppata molto tempo dopo.
La catarsi è efficace? – La catarsi è il rilascio dell’energia. Per alcuni studiosi il comportamento aggressivo
sembrerebbe poter svolgere una funzione utile e forse indispensabile. Sembra che la credenza secondo cui
l’aggressività debba essere sfogata attraverso comportamenti aggressivi o competitivi sia diventata uno dei miti
della cultura occidentale. In realtà, lo sfogo di aggressività non porta alla diminuzione. Coloro che hanno la
possibilità di dare libero sfogo ai propri sentimenti sono più cattivi: sfogare la propria rabbia contro un bersaglio
non fa altro che aumentare la nostra cattiveria nei suoi confronti. L’ipotesi della catarsi sembrerebbe essere smentita.
Gli esseri umani sono animali cognitivi: l’aggressività non dipende soltanto dalla tensione, ma anche da ciò che una
persona pensa. La prima azione ostile fa provare il bisogno di giustificarla perché si attivano i processi volti a
giustificare l’atto di crudeltà: per diminuire la dissonanza, denigriamo il bersaglio dell’azione ostile di modo da
convincerci di non avere compiuto un’azione scorretta, assurda e malvagia. Se il bersaglio merita di essere denigrato
si attiva un meccanismo che serva a ridurre la dissonanza, ma prepara anche il terreno per successivi atti di
aggressività: una volta che abbiamo gettato discredito su una persona, in futuro ci risulterà più facile farle del mare.
Quando gli atti di ritorsione sono eccessivi – La vendetta è cieca. Quando ci vendichiamo tendiamo sempre ad
arrecare alla persona che ci ha fatto del male un danno maggiore di quello subito. (Esperimento di Micheal Kahn).
Questo tipo di comportamento fa aumentare al massimo i livelli di dissonanza perché, quanto maggiore è la
discrepanza tra la persona che ci ha arrecato il danno e la nostra vendetta, tanto maggiore sarà la dissonanza e,
quanto maggiore sarà la dissonanza, tanto maggiore sarà anche il nostro bisogno di gettare discredito sulla persona.
Inoltre, la discrepanza sarà maggiore se si compiono atti di ritorsione e si scopre che la vittima è completamente
innocente. In questo caso, quindi, il nostro bisogno di screditare la vittima sarà ancor maggiore. Se la vendetta è
controllata, si avverte una dissonanza minima o nulla, perché siamo portati a credere che dopo aver subito un’offesa
abbiamo ripagato la persona della stessa moneta quindi il conto è stato pareggiato. La vendetta può ridurre il bisogno
di manifestare ulteriormente la propria aggressività ma solo nl caso in cui si riesca a stabilire una sorta di equità.
Nella maggior parte dei casi, commettere o giustificare atti di violenza non aiuta a ridurre la tendenza alla violenza;
commettere tali atti aumenta i sentimenti negativi che si provano nei confronti delle vittime es è questo il motivo
che la violenza genera nuova violenza (escalation).
Le cause dell’aggressività – Una delle cause della violenza è la violenza stessa. Con un atto aggressivo si innescano
una serie di meccanismi cognitivi e motivazionali volti a giustificare tale atto, che, a loro volta, creano le condizioni
per un’aggressività maggiore.
1. Cause neurologiche e chimiche – L’amigdala è associata al controllo dei comportamenti aggressivi. Se
stimolata aumenta l’aggressività, se inibita questa diminuisce. Esiste tuttavia una certa flessibilità: gli effetti
dei meccanismi neurali possono essere modificati da fattori sociali.
L’aggressività può essere influenzata da certe sostanze chimiche:
a. Testosterone – Ormone sessuale maschile, influenza l’aggressività e sembra che sia valida anche
la relazione inversa, il comportamento aggressivo provoca un maggior rilascio di testosterone.
Sembra che, per quante riguarda l’aggressività fisica, gli uomini siano più aggressivi rispetto alle
donne. Prescindendo dall’aggressività fisica la situazione si complica: le donne tendono
all’aggressività relazionale, tendenza a ferire le persone cercando di rovinare le loro relazioni con
gli altri. Le differenze derivano da fattori biologici. C’è, inoltre, anche la partecipazione anche di
fattori esterni (cultura).
b. Alcol – Sostanza chimica che abbassa le inibizioni contro comportamenti che la società
tendenzialmente disapprova, tra cui l’aggressività: l’alcol, riducendo le inibizioni sociali, ci rende
meno attenti di quello che normalmente siamo e tende a turbare il modo in cui di solito elaboriamo
le informazioni. Ciò significa che spesso si ha una reazione ai primi e più ovvi elementi che si
riconoscono nella situazione sociale e non si colgono gli elementi più sottili.
c. Dolore e disagio – Se un animale prova dolore e non può fuggire, quasi sicuramente attaccherà.
La maggior parte di noi diventa irascibile quando prova un dolore acuto e inaspettato. Anche altre
forme di disagio fisico possono contribuire ad abbassare la soglia del comportamento aggressivo.
2. Frustrazione e aggressività – La principale istigatrice dell’aggressività è la frustrazione: quando una
persona vede sfumare i propri piani nel momento in cui sta per raggiungere un obiettivo, il senso di
frustrazione che avverte farà aumentare le probabilità che reagisca in modo aggressivo. rapporto
frustrazione-aggressività. Diversi fattori possono aumentare il senso di frustrazione: essa è molto
maggiore quando l’obiettivo è vicino e il nostro percorso verso il suo raggiungimento viene interrotto,
specie se l’interruzione è imprevedibile e ingiustificata; inoltre, si alza di pari passo con le aspettative.
C’è una differenza tra il concetto di frustrazione e il concetto di deprivazione: la frustrazione non è il
risultato di una semplice deprivazione ma è il risultato di una deprivazione relativa.
Finché si nutre una speranza irrisolta, si prova frustrazione e di conseguenza la nostra aggressività aumenta.
Questa può essere risolta realizzando la propria speranza o eliminandola diventando persone apatiche.
Togliere la speranza è un modo spiacevole di ridurre l’aggressività. Tuttavia, se la speranza non ha
probabilità di venire realizzata, i disordini sociali diventano inevitabili.
3. Rifiuto, esclusione e derisione – Il rifiuto può avere moltissime conseguenza negative tra cui un aumento
dei livelli di aggressività: rifiuto e umiliazione sono i problemi principali alla base di ogni strage.
4. Apprendimento sociale e aggressività – L’apprendimento sociale svolge un ruolo molto importante nel
determinare se una persona manifesterà o meno la propria aggressività in una data situazione. Un altro
fattore basato sull’apprendimento sociale è l’intenzione attribuita alla fonte del dolore o della frustrazione:
abbiamo la capacità di tenere in considerazione l’intenzionalità. L’aggressività diminuisce se si viene
esposti a una giustificazione prima che si verifichi l’evento scatenante e aumenta quando la frustrazione è
accompagnata da determinati stimoli provocatori: anche solo la presenza di un oggetto associato
all’aggressività può funzionare come stimolo per aumentarla; lo stimolo aggressivo funzione come
esempio di priming.
Un aspetto che contribuisce all’inibizione è la tendenza ad assumersi l responsabilità delle proprie azioni.
Zimbardo ha dimostrato che le persone anonime e non identificabili tendono ad agire in modo più
aggressivo rispetto a quelle non anonime: l’anonimità crea de-individuazione, uno stato di ridotta
autocoscienza, di minore preoccupazione del giudizio sociale e di indebolimento delle restrizioni contro
forme di comportamento vietate. A tale riguardo, si verifica anche un forte relazione di proporzionalità
diretta tra le dimensioni della folla e la violenza perché la folla tende a rendere gli individui senza volto.
Apprendimento sociale, violenza e mass media – Robert Bandura: imitazione e ampliamento del
modello, apprendimento sociale. La televisione svolge un ruolo fondamentale nel processo si
socializzazione dei bambini e concede un enorme spazio alla violenza: quanto maggiore è la quantità di
violenza che le persone vedono in tv da bambini, tanto maggiore sarà la violenza che manifesteranno da
adolescenti e da adulti. Inoltre, gli effetti si accumulano nel tempo. È del tutto possibile che questi bambini
abbiano una tendenza innata a gradire la violenza e che questo si esprima attraverso comportamenti
aggressivi e gusti televisivi; i programmi violenti hanno un impatto maggiore su ragazzi con una
predisposizione innata alla violenza perché sembrano in qualche modo autorizzarli a manifestare la
violenza. Sembra quindi che una delle principali cause dell’aggressività sia il priming. La violenza degli
adulti sembra un vero e proprio esempio della vita che imita l’arte.
La violenza televisiva può ridurre la nostra sensibilità? – Un’esposizione ripetuta a eventi dolorosi o spiacevoli
tende a ridurre la nostra sensibilità. Vedere episodi di violenza in televisione può rendere le persone insensibili
anche di fronte a situazioni reali. (Margaret Hanratty Thomas). Una reazione di questo tipo può proteggerci a livello
psicologico, ma può anche produrre un aumento della nostra indifferenza nei confronti delle vittime e l’accettazione
della violenza come un aspetto essenziale della vita.
Ci sono quattro ragioni per le quali l’esposizione alla violenza può contribuire ad aumentare l’aggressività:
1. Riduzione delle inibizioni: se lo fanno loro, posso farlo anche io.
2. Emulazione.
3. I sentimenti di rabbia sono resi più facilmente accessibili per via del priming.
4. Si riduca la nostra sensibilità e la nostra compassione nei confronti delle vittime. Così facendo conviviamo
più facilmente con la violenza e il ricorso ad essa diventa più semplice.
I media, la pornografia e la violenza – Esistono dei copioni sessuali, dove i copioni sono dei modi di comportarsi
a livello sociale che apprendiamo implicitamente dalla cultura in cui viviamo. Molti stupri si verificano ad opera di
persone conosciute, durante un appuntamento, perché l’uomo si rifiuta di prendere alla lettera la parola no e per la
confusione relativa ai copioni sessuali che suggeriscono che la donna abbia il tradizionale compito di resistere alle
avance mentre l’uomo ha il compito di essere insistente.
L’aumento del numero di stupri coincide con un aumento della disponibilità di immagini di comportamenti sessuali
chiari ed espliciti. Tuttavia, la visione di materiale che mostra scene sessuali esplicite non contribuisce di per sé
all’aumento di crimini sessuali e di violenza sulle donne o ad altri comportamenti antisociali. La pornografia è nel
complesso innocua ma quella violenta tende a incoraggiare una maggiore accettazione della violenza sessuale nei
confronti delle donne. Non sono soltanto gli uomini a credere nei miti legati agli stupri. Inoltre, tali miti non sono
necessariamente parte di un sistema di credenze radicate. (Esperimento di Malamuth). Una continua esposizione
alla pornografia violenta può provocare desensibilizzazione emotiva e indurire gli atteggiamenti verso la violenza.
La combinazione di sesso e violenza ha effetti molto simili a quelli provocati da altri tipi di violenza. La visione di
scene di violenza non svolge assolutamente una funzione catartica, ma stimola i comportamenti aggressivi.
Tanto il sesso quanto la violenza, inoltre, distraggono il pubblico al punto tale da distogliere la sua attenzione del
prodotto pubblicizzato quindi sono tecnicamente controproducenti nell’aumentare le vendite.
La riduzione della violenza – La violenza non porta mai a un riassestamento delle condizioni che l’hanno provocata
poiché essa non genera altro che ulteriore violenza. Non ci sarà mai una guerra in grado di porre fine a tutte le guerre
o un’ingiustizia in grado di placare le ingiustizie. La soluzione sarebbe quella di cercare modi per ridurre la violenza
e al tempo stesso cercare di eliminare le ingiustizie che provocano il senso di frustrazione che spesso sfocia in atti
di aggressività violenti. Ma come ridurre la violenza?
1. Ricorso alla ragione – Anche se si convincono le persone che l’aggressività è qualcosa di sgradevole,
continueranno a comportarsi in modo aggressivo a meno che non arrivino a credere fermamente che per
loro l’aggressività è negativa. Inoltre, essendo un problema che si manifesta sin dall’infanzia, il ricorso ad
argomentazioni logiche serve ben poco.
2. Punizioni – Le punizioni severe hanno effetti temporanei, a lungo termine possono anche produrre l’effetto
opposto. Le punizioni possono essere utili se utilizzate con giudizio e nel contesto di una relazione
affettuosa. Una punizione severa e restrittiva è frustrante e la frustrazione è causa di aggressività. Inoltre,
se una punizione violenta può portare all’acquiescenza, raramente porta all’interiorizzazione. Le minacce
di ricevere una punizione lieve possono essere maggiormente efficaci nel caso della riduzione
dell’aggressività.
3. Punizione dei modelli aggressivi – Vedere una persona che viene ricompensata per il proprio
comportamento aggressivo contribuisce ad aumentare l’aggressività nei bambini e vedere una persona che
viene punita non vi contribuisce, ma non è chiaro se questo porti a una diminuzione. Sembra avere, anzi,
gli stessi effetti della non esposizione a modelli aggressivi.
4. Ricompensa di modelli di comportamento alternativi – Ignorare il bambino quando si comporta in
modo aggressivo e premiarlo quando si comporta in modo non aggressivo. la frustrazione non provoca
sempre aggressività, anzi, può sfociare in un comportamento costruttivo, se questo viene reso attraente
5. Presenza di modelli non aggressivi – Indicare chiaramente che i comportamenti aggressivi sono
inappropriati attraverso la presenza di altre persone che si comportano in modo controllato e non
aggressivo. i comportamenti aggressivi possono essere considerati un atto di conformismo.
6. Costruzione dell’empatia verso l’altro – L’empatia è un fenomeno molto importante. La maggior parte
delle persone ha difficoltà a infliggere dolora agli altri a meno che non riesca trovare un modo per
disumanizzarli. La disumanizzazione è un fenomeno che possiamo benissimo disapprovare, ma cercare di
capirne il meccanismo può sicuramente aiutarci a eliminarlo: se è vero che la maggior parte degli individui
hanno bisogno di disumanizzare le proprie vittime per poter commettere un atto estremo di aggressività
nei loro confronti, allora costruendo l’empatia tra le persone si riuscirà anche a rendere più difficile il
compimento di tali atti. Esiste una correlazione negativa tra empatia e aggressività.
L’empatia è un importante freno contro gli atti di aggressività estrema.
Il pregiudizio
Il senso i impotenza che si avverte come conseguenza dell’essere oppressi porta quasi inevitabilmente a un calo
dell’autostima già a partire dai primi anni dell’infanzia. Sebbene finora siano stati fatti progressi notevoli e
incoraggianti, sarebbe un errore giungere alla conclusione che il pregiudizio e la discriminazione non sono più un
problema: il pregiudizio continua ad esistere e a far pagare un alto prezzo alle proprie vittime.
Gli stereotipi e il pregiudizio – Tecnicamente esistono sia pregiudizio positivi sia pregiudizi negativi. Limitandoci
agli atteggiamenti negativi, il pregiudizio si delinea come un atteggiamento ostile o negativo nei confronti di un
gruppo riconoscibile che si basa su generalizzazioni che derivano da informazioni scorrette o incomplete. Una
persona con pregiudizi radicati è praticamente immune dalle informazioni che si discostano dai suoi amati stereotipi.
Bombardare le persona di informazioni che vanno contro i pregiudizi non serve a farli modificare. Una reazione
tipica, è la sotto-classificazione, un strategia attraverso cui le persone si convincono del fatto che ciò che hanno
appreso, pur essendo vero, altro non è che una rara eccezione alla regola: di fronte ai controstereotipi, le persone
tendono a reagire creando una nuova categoria e possono addirittura arrivare a pensare che il caso specifico sia la
cosiddetta eccezione che conferma la regola. Si rende improbabile, o impossibile, l’eliminazione degli stereotipi.
Il tipo di generalizzazione delle caratteristiche o delle motivazioni di un determinato gruppo di persona prende il
nome di stereotipizzazione. Lo stereotipo consiste nell’attribuire caratteristiche identiche a qualsiasi persona di un
gruppo, senza tenere in considerazione le effettive differenze individuali.
Ricorrere agli stereotipi non è sempre offensivo, anzi spesso è soltanto un modo attraverso cui gli esseri umani
semplificano la loro visione del mondo: fintanto che lo stereotipo si basa sull’esperienza ed è preciso, può essere
una scorciatoia adattiva a cui si ricorre per affrontare un evento complesso. Tuttavia, se lo stereotipo arriva a renderci
ciechi di fronte alle differenze individuali che esistono all’interno di una categoria, allora non sarà più una strategia
adattiva e potrebbe addirittura diventare pericoloso. La maggior parte degli stereotipi non si basa su esperienze
valide, ma su dicerie o immagini improvvisate dei mezzi di comunicazione o prodotte dalla nostra mente per
giustificare i nostri pregiudizi e la nostra crudeltà.
La famigliarità che deriva da un contatto prolungato tra i membri di razze diverse può ridurre l’attivazione di
stereotipi ingiusti e aprire la strada per il riconoscimento di caratteristiche individuali. Purtroppo, il contatto tra le
razze di per sé è insufficiente ad abbattere gli stereotipi più radicati e l’intolleranza.
Quando una persona si comporta in modo conforme con i nostri stereotipi, tendiamo a non vedere le informazioni
che ci indicano i veri motivi che hanno spinto quella persona ad agire in un determinato modo e siamo spinti a
pensare che sia stata una caratteristica personale e non situazionale ad indurla ad operare in un certo modo.
(Esistenza di un bias cognitivo). Le generalizzazioni sono offensive per il fatto che derubano la persona del diritto
di venire trattata come un individuo dotato di caratteristiche proprie, siano esse positive o negative.
Nella maggior parte dei casi, gli stereotipi non sono positivi, ma sono altamente offensivi e possono avere gravi
effetti sui membri del gruppo cui si riferiscono. Si parla di minaccia da stereotipo per indicare uno stato d’ansia
sperimentato dai membri di una minoranza e provocato dal timore di comportarsi in un modo che possa confermare
uno stereotipo culturale esistente. Solitamente, tale fenomeno provoca un calo del rendimento dei soggetti nello
svolgimento di un’attività. (Esperimento di Aronson e Steele). Qualsiasi gruppo che abbia la reputazione di essere
inferiore a un altro può subire gli effetti della minaccia da stereotipo.
Una società in cui regnano i pregiudizi può tendere trappole molto insidiose. Quando si cresce in una società
dominata dai pregiudizi, spesso tendiamo ad accettarli in modo acritico: tendiamo a non guardare in modo critico
ai dati sperimentali in nostro possesso e, senza rendercene conto, utilizziamo questi dati per fornire un fondamento
scientifico ai nostri pregiudizi.
Stereotipi e attribuzioni – La stereotipizzazione è una forma particolare di attribuzione. Il nostro bisogno di trovare
una causa per il comportamento di un’altra persona fa parte della tendenza umana ad andare oltre le informazioni
date ed è spesso funzionale. Facciamo delle supposizioni e, quindi, le interpretazioni che diamo a livello superficiale
possono essere precise o errate, funzionali o disfunzionali. Quando le persone si trovano in una situazione ambigua,
tendono a fare attribuzioni coerenti con i loro pregiudizi, provocando un fenomeno denominato errore ultimo di
attribuzione (Thomas Pettigrew), tendenza a compiere attribuzioni disposizionali relative ad un intero gruppo di
persone in linea con i pregiudizi che si nutrono contro quel determinato gruppo. Le conclusioni errate contribuiranno
a intensificare e a giustificare i nostri sentimenti negativi.
L’intero processo della attribuzione è come una spirale: il pregiudizio provoca determinati tipi di attribuzioni o
stereotipi negativi che, a loro volta, possono intensificare il pregiudizio.
Gli stereotipi di genere sono una forma particolarmente interessante di stereotipizzazione può essere riscontrata
nelle percezioni delle differenze legate al sesso. Gli psicologi sociali evoluzionisti indicano che il comportamento
degli uomini e quello delle donne si differenziano in quelle aree in cui i due sessi hanno dovuto affrontare problemi
di adattamento diversi. Sia che lo stereotipo si basi su caratteristiche biologiche o sociali, la sua applicazione
indiscriminata a tutte le donne o a tutti gli uomini priva le persone del loro diritto di essere trattate come individui
con qualità e abilità specifiche. Anche gli stereotipi di genere si allontanano dalla realtà e possono essere molto
dannosi. In linea di principio queste credenze controproducenti sono influenzate dagli atteggiamenti predominanti
nella nostra società, ma sono anche e soprattutto condizionate dagli atteggiamenti delle figure più importanti nella
vita dei ragazzi: i genitori. I risultati di alcuni studi indicano che le figlie di donne che presentavano gli stereotipi
legati al sesso più marcati credevano di non avere buone abilità matematiche e le figlie di donne che non
presentavano stereotipi ben radicati mostrarono di non avere le stesse credenze controproducenti. In base a questi
stereotipi si generano fenomeni di autoattribuzione solitamente negativi: Marlene Turner e Anthony Pratkanis
dimostrarono che le autoattribuzioni determinate dal modo in cui le donne vengono scelte a lavoro può ostacolare
le loro prestazioni a livello lavorativo.
Biasimare la vittima – Non è sempre facile per le persone che non hanno mai vissuto l’esperienza di essere
bersaglio di pregiudizi comprendere a pieno come si possano sentire le persone che ne sono vittima. Infatti, l’empatia
non si crea con facilità: una punta di moralismo si insinua negli atteggiamenti e induce a colpevolizzare la vittima;
questa tendenza può assumere la forma della reputazione meritata.
La tendenza a biasimare le vittime, attribuendo la responsabilità della situazione difficile in cui si trovano alla loro
personalità e ai loro handicap, nasce spesso dal desiderio di concepire il mondo come un luogo giusto. Gli esseri
umani tendono ad assegnare responsabilità personali per qualsiasi situazione ingiusta che, altrimenti, sarebbe
difficile da spiegare. Ulteriori informazioni che aiutano a comprendere il fenomeno del biasimare la vittima ci
vengono fornite dal concetto dell’hindsight bias. Una serie di esperimenti ha dimostrato quanto l’hindsight bias
influisca nel far aumentare la tendenza a ritenere le vittime degli stupri responsabili di ciò che è loro accaduto. Per
comprendere e provare empatia verso la vittima di una situazione negativa, dobbiamo riuscire a ricostruire la serie
di eventi che ha provocato la situazione assumendo il punto di vista della vittima, ma sembra che sia fin troppo
facile dimenticare che, a differenza di noi, le vittime non godono mai del beneficio dell’hindsight bias per regolare
il proprio comportamento.
Gli effetti impercettibili del pregiudizio – Viviamo in una società in cui vi sono ancora tendenze, seppure latenti,
al razzismo e al sessismo che possono avere conseguenze appena percettibili, ma gravi, sia sul comportamento della
maggioranza dominante, sia su quello delle donne e dei membri delle minoranze.
Il problema è che molti di questi comportamenti si mettono in atto in modo inconscio. Ad esempio, quando le donne
o i membri di una minoranza fanno un colloquio di lavoro con un uomo di razza bianca, la loro resa durante il
colloquio possa essere compromessa non tanto perché c’è qualcosa di sbagliato in loro, quanto perché la persona
che gestisce il colloquio può essersi comportata, anche inconsapevolmente, in mood tale da farli sentire a disagio.
Ogni giorno ci capita di interagire con altre persone, diverse da noi e i nostri preconcetti su di esse influenzano
spesso i nostri comportamenti nei loro confronti in modo da indurci a individuare le caratteristiche e i comportamenti
che, originariamente, ci aspettavamo di trovare in loro, sulla base del fenomeno della profezia che si autoavvera.
Una come questa è una situazione in cui una credenza crea la realtà, quando abbiamo credenze o stereotipo
sbagliati sulle altre persone, il nostro comportamento nei loro confronti le induce spesso a reagire in modi che
confermano le nostre credenze errate.
Ovviamente, non tutti abbiamo in mente rigidi stereotipi sugli appartenenti a gruppi diversi dal nostro, spesso
accettiamo credenze sociali solo provvisoriamente e le elaboriamo per stabilire se sono o meno precise, e spesso
ricorriamo a determinati tipi di interazioni sociali per verificare la validità delle nostre supposizioni sulle altre
persone. Purtroppo, però, le strategie che usiamo per verificare le nostre ipotesi nascondono delle trappole, perché
possono fornirci prove che le confermano, pur essendo di per sé errate. Quando abbiamo determinate credenze nei
confronti degli altri, la profezia che si autoavvera fa sì che creiamo una realtà sociale conforme alle nostre aspettative
e, anche se abbiamo una mentalità sufficientemente aperta da voler verificare la validità delle nostre credenze,
spesso usiamo inconsapevolmente strategie di verifica che confermano le nostre credenze, anche quando sono errate.
(Esperimento di Michelle Hebl sull’assunzione di dipendenti omosessuali). Nonostante gli sforzi di comportarsi
come persone dalla mentalità aperte, molti individuo onesti e corretti sono comunque capaci di compiere
impercettibili atti di pregiudizio.
Forme di sessismo e socializzazione legata ai ruoli sessuali sono quelle che si manifestano nei confronti delle donne.
Proprio perché viviamo in una società patriarcale, molti uomini provano sentimenti ambivalenti verso le donne.
Tale ambivalenza può assumere la forma del sessismo ostile, visione stereotipata delle donne che le dipinge come
inferiori rispetto agli uomini, o di sessismo benevolo, visione stereotipata positiva, di natura quasi cavalleresca.
Anche gli stereotipi positivi possono essere dannosi perché sono limitativi, ma il sessismo benevolo va oltre perché
anche in questo caso, chi ha questo tipo di visione crede che le donne appartengano al sesso più debole: c’è una
tendenza a idealizzare le donne e desiderano proteggerle anche quando non hanno bisogno di protezione. Entrambe
le forme di sessismo, quindi, fungono da giustificazione per relegare le donne a ruoli stereotipati tradizionali.
Comprendere il concetto di ruolo sessuale, o ruolo adatto all’identità biologica dell’individuo, è utile per
comprendere le pressioni sociali che vengono esercitate sugli uomini e sulle donne.
Rispetto al passato, oggi le donne sono più facilmente accettate in posizioni di comando. Sebbene si tratti di un
risultato positivo, non significa che, per una donna, la strada verso il raggiungimento di una posizione di comando
sia tutta rose e fiori, perché quando una donna riesce ad arrivare a tali livelli, si trova in una situazione molto
difficile: alcune ricerche scoprirono che, quando le donne in posizioni di comando si comportano in conformità con
le norme abituali della società (premurose, sensibili, attente ai bisogni degli altri), le persone tendono a considerarle
meno dotate di capacità di comando per il semplice fatto che ci si aspetta che un leader di successo sia una persona
forte, determinata e autorevole. Quando, invece, le donne che assumono posizioni di comando dimostrano di avere
un carattere forte, le persone con cui lavorano tendono ad esprimere giudizi più negativi di quelli che riserverebbero
a un uomo perché, in questo caso, il loro comportamento è contrario a quello che ci si aspetta da una donna.
Tutti noi, indipendentemente da sesso, razza, orientamento sessuale o religione, siamo vittima della regolazione
restrittiva di ruoli stereotipati.
Il pregiudizio e i media – I media hanno un ruolo fondamentale nel trasmettere pregiudizi, far passare un’idea sul
genere o razza. Specialmente prima di figure come Michael Jordan, le persone di colore assumevano ruoli minori o
venivano rappresentati con stereotipi che li facevano passare per stupidi. Così per le donne, come casalinghe o in
cerca di protezione o seduttrici. Tendiamo a credere o accettare quello che vediamo con frequenza, a meno che non
ci vengano fornite valide motivazioni per non farlo, e ci risulta molto difficile fornire giustificazioni valide per ciò
che non viene rappresentato. Quindi anche qui veniamo influenzati molto dai media, in modo implicito, e spesso
aspiriamo a ciò che ci viene trasmesso.
Le cause del pregiudizio - Gli psicologi evoluzionisti indicano che gli animali manifestano una forte tendenza a
comportarsi in modo favorevole verso altri esemplari geneticamente simili e a esprimere paura e avversione verso
organismi geneticamente diversi, anche se questi ultimi possono non aver mai manifestato alcune ostilità nei loro
confronti. Potrebbe quindi essere un istinto naturale che ci spinge a prediligere i membri della nostra famiglia, della
nostra tribù o della nostra razza. È però anche vero che noi esseri umani siamo diversi dalle specie animali e per
natura siamo propensi a comportarci in modo amichevole, aperto e cooperativo. In tal caso, il pregiudizio non
sarebbe naturale e potrebbe essere la cultura a insegnarci, in modo più o meno intenzionale, ad attribuire qualità
negative alle persone diverse da noi. In base alle ricerche effettuate, le principali cause del pregiudizio sono:
1. La competizione economica e politica - Il pregiudizio può essere considerato il risultato dell’interazione
di forze politiche ed economiche. Partendo da questo presupposto, si può concludere che, dato che le risorse
sono limitate, i membri del gruppo dominante potrebbero cercare di sfruttare o gettare discredito sui membri
di una minoranza per trarre vantaggi dal punto di vista materiale. Gli atteggiamenti di pregiudizio tendono
a aumentare quando vi sono tensioni e conflitti su obiettivi che si escludono reciprocamente. Sebbene nel
corso degli ultimi trent’anni la legislazione e l’azione sociale hanno cambiato notevolmente questa realtà,
per i membri delle minoranze la situazione non si può ancora definire equilibrata. La discriminazione, il
pregiudizio e gli stereotipi negativi accentuano la competizione tra i membri dei diversi gruppi in situazioni
di scarsa disponibilità di posti di lavoro. (Esperimento di John Dollard sui pregiudizi verso i tedeschi ed
esperimento di Muzafer Sherif nel campo scout).
2. La dislocazione dell’aggressività – Come abbiamo già visto, l’aggressività è in parte causa della
frustrazione. Spesso la causa della frustrazione è troppo grande o troppo indeterminata per potersi vendicare
direttamente contro di essa. Per descrivere il processo attraverso cui si colpevolizza una persona innocente
o più debole per qualcosa di cui non ha colpa, si usa il termine di capro espiatorio. L’immagine generale
del fenomeno del capro espiatorio che emerge dai risultati degli studi è che gli individui tendono a trasferire
l’aggressività su gruppi che non sono benvoluti e che sono relativamente deboli. Inoltre, le forme che
l’aggressività assume dipendono da ciò che l’ingroup in questione accetta e permette.
3. Il mantenimento dell’immagine di sé e della posizione sociale – Una delle cause principali del
pregiudizio è radicata nel bisogno delle persone di giustificare il proprio comportamento e il senso del sé.
Anche in questo caso, si tratta di una forma di autogiustificazione che contribuisce all’intensificarsi degli
atti di brutalità che verranno commessi in seguito. Sebbene possa servire a mantenere l’immagine di sé,
porta a un aumento delle ostilità nei confronti della persona o del gruppo oggetto di apprensione e
pregiudizio.
4. La predisposizione personale al pregiudizio – Esistono prove sulla base delle quali si può affermare che
ci sono delle differenze individuali per quanto riguarda la tendenza a odiare. Ci sono dei soggetti che
presentano una maggiore predisposizione al pregiudizio anche a causa del tipo di persona che sono. Tali
individui vengono definiti personalità autoritarie, e presentano le seguenti caratteristiche: credenze rigide,
condivisione dei valori tradizionali, intolleranza delle debolezze, tendenza a infliggere punizioni severe,
diffidenze e rispetto verso l’autorità. Per rilevare i livelli di autoritarismo è stato creato uno strumento, la
scala F, che propone delle questioni e misura il grado di consenso delle persone riguardo i temi proposti.
Un alto grado di consenso è indicatore di una personalità autoritaria. Adorno ha fatto risalire lo sviluppo
degli atteggiamenti e dei valori delle personalità autoritarie a esperienze vissute durante la prima infanzia
in famiglie caratterizzate da una dura e minacciosa disciplina imposta dai genitori e hanno anche scoperto
che si trattava di genitori che utilizzavano l’amore e la sua negazione come lo strumento principale per
ottenere l’obbedienza. Questa combinazione prepara il terreno per lo sviluppo di una persona che, da adulta,
proverà una forte rabbia che, per via della paura e dell’insicurezza, sfogherà verso i gruppi più deboli,
continuando comunque a manifestare un rispetto apparente verso l’autorità. Il bambino potrebbe assorbire
le credenze dei genitori sulle minoranze perché si identifica con loro, il che suggerisce l’esistenza di una
spiegazione molto diversa che si basa su un sentimento di ostilità inconscia e di paura repressa da parte del
bambino nei confronti dei genitori. Inoltre, alcune persone possono conformarsi a pregiudizi limitati ed
estremamente specifici a seconda delle norme della sottocultura di appartenenza.
La maggior parte dei dati è, però, di natura correlazionale: sappiamo solo che due variabili sono collegate,
non possiamo determinare con certezza quale delle due sia la causa.
5. Il pregiudizio come atto di conformismo – Una possibile spiegazione al pregiudizio è il conformismo. Se
i conformisti hanno maggiori pregiudizi, probabilmente vedono il pregiudizio semplicemente come un’altra
norma a cui conformarsi. Il conformismo a una norma sociale riguardante il pregiudizio può semplicemente
essere dovuto alla mancanza di informazioni precise e a una sovrabbondanza di informazioni fuorvianti, il
che può indurre le persone ad adottare atteggiamenti negativi facendo affidamento su una diceria. Anche
l’esposizione occasionale a un episodio di intolleranza può influenzare i nostri atteggiamenti e i nostri
comportamenti verso un gruppo che è vittima di pregiudizi. È emerso che il semplice fatto di sentire
qualcuno utilizzare un appellativo denigrante può aumentare le nostre probabilità di vedere dotto una luce
negativa un membro di quel determinato gruppo o una persona collegata al gruppo. Gli atteggiamenti
intolleranti possono anche essere alimentati volontariamente da una società intollerante che appoggia tali
atteggiamenti a livello istituzionale. Una società può creare pregiudizi attraverso le sue stesse istituzioni.
Le leggi possono cambiare le consuetudini – Lo stato non può cambiare i costumi di gruppo, William Graham
Sumner. È impossibile inculcare la moralità o la tolleranza attraverso la legge. Gli psicologi sociali credevano il
metodo più efficace per cambiare il comportamento fosse quello di cambiare gli atteggiamenti. Molti scienziati
sociali credevano di poter cambiare gli atteggiamenti di intolleranza semplicemente promuovendo delle campagne
di informazione. Se le persone che nutrono pregiudizi sono convinte che i neri siano incapaci e pigri, allora la cosa
migliore da fare è mostrare loro un film in cui i neri vengono rappresentati come persone laboriose e oneste.
Purtroppo, sia che il pregiudizio abbia origine da un conflitto di tipo economico, sia che dipenda dal conformismo
alle norme sociali o che sia radicato nei bisogni della personalità, non può essere facilmente modificato attraverso
una campagna d’informazione. Con il tempo, le persone in genere diventano sempre più dedite al proprio
comportamento basato sui pregiudizi ed è tutt’altro che facile sviluppare un atteggiamento aperto e di accettazione
verso le minoranze quando tutti intorno a noi mantengono intatti i propri pregiudizi.
Anche se i cambiamenti di atteggiamento possono provocare cambiamenti di comportamento è spesso difficile
cambiare gli atteggiamenti attraverso l’istruzione. Gli psicologi sociali hanno compreso che i cambiamenti di
comportamento possono condizionare i cambiamenti di atteggiamento. Alcuni studiosi hanno affermato che, se i
bianchi e i neri potessero essere messi in contatto diretti, gli individui con pregiudizi entrerebbero in contatto con
un’esperienza reale e non soltanto con uno stereotipo, e questo potrebbe portare a una maggiore comprensione.
Naturalmente, il contatto deve avvenire tra persone di status uguale: fino a poco tempo fa, il contatto tra persone
di status uguale è stato raro, sia a causa delle disparità a livello occupazionale che a causa della segregazione
residenziale. La sentenza della Corte Suprema del 1954 è stata l’inizio di un cambiamento dal punto di vista delle
frequenza dei contatti tra persone di razza diversa ma di status uguale.
Le persone che vivono in un quartiere integrato riportano cambiamenti di atteggiamento più positivi nei confronti
dei neri rispetto alle persone che vivono in un complesso non integrato. (Studio di Deutsch e Collins
sull’integrazione razziale nei quartieri di case popolari). Se gli appartenenti a diversi gruppi razziali potessero essere
messi in contatto fra loro in condizioni di parità di status, avrebbero la possibilità di conoscersi meglio e in questo
modo si potrebbe far aumentare la comprensione e far diminuire la tensione.
Gli psicologi sociali iniziarono a prendere in considerazione l’idea secondo cui la desegregazione può influenzare
i valori delle persone che non hanno mai avuto la possibilità di avere contatti diretti con le minoranze.
In condizioni ideali, l’inevitabilità di un evento può iniziare a sbloccare gli atteggiamenti di pregiudizio e a far
diminuire i sentimenti ostili nella maggior parte delle persone, attraverso il processo di riduzione della dissonanza.
La promozione di una linea di condotta pubblica, che è il contrario di quella che è stata generalmente consigliata,
potrebbe arrecare un grande beneficio alla società. Inizialmente si credeva che l’integrazione si dovesse mettere in
atto in seguito a un cambiamento a livello cognitivo quanto prima le persone si rendono conto che l’integrazione è
un evento inevitabile, tanto prima gli atteggiamenti di pregiudizio inizieranno a cambiare. Invece, l’applicazione
immediata della desegregazione è molto più efficace rispetto a quella graduale e che gli episodi di violenza si
verificano nei luoghi in cui vengono adottate politiche ambigue e incoerenti e in cui le autorità locali tendono a
mostrarsi indecise: in altre parole, se alle persone non viene data la possibilità di ridurre la dissonanza, si verificano
episodi di violenza.
È possibile riassumere i processi analizzati nei seguenti punti:
1. Il contatto tra persone di status uguale in condizioni ideali di assenza di conflitti di natura economica può
favorire una maggiore comprensione e una diminuzione dei livelli di pregiudizio.
2. In condizioni ideali, la psicologia dell’inevitabilità può creare pressioni che provocano una riduzione degli
atteggiamenti di pregiudizio e può preparare il terreno per un processo di desegregazione facile e non
violento.
3. In situazione di conflitto economico (come nel caso di complessi residenziali di case private) si verifica
spesso un aumento di atteggiamenti di pregiudizio perché regna la convinzione secondo cui quando i neri
vanno ad abitare in un determinato quartiere, il valore delle case circostanti diminuisce.
4. Quando la desegregazione crea una situazione di competitività si verifica spesso un aumento di ostilità dei
neri e dei latino-americani nei confronti dei bianchi, in parte dovuto a un tentativo di riacquistare
l’autostima persa. Ad esempio, in una scuola in cui è appena stata abolita la segregazione, gli studenti che
appartengono a una minoranza cercheranno di risollevare la propria autostima unendosi fra loro,
scagliandosi contro i bianchi, rivendicando la propria individualità, e così via.
L’interdipendenza come possibile soluzione - In una atmosfera competitiva, tutte le tensioni che esistevano
precedentemente si intensificheranno nel momento in cui avverrà il contatto.
Il fattore che ha determina un cambiamento da ostilità e diffidenza a amicizia e collaborazione, sembra essere
l’interdipendenza reciproca, una situazione nella quale gli individui hanno bisogno gli uni degli altri per
raggiungere i propri obiettivi.
La collaborazione e l’interdipendenza sono caratteristiche che non sono tipiche dei processi che hanno luogo nelle
aule scolastiche. Il clima che domina nella maggior parte delle classi è un clima di forte rivalità.
Per creare un’atmosfera di interdipendenza tra gli alunni di una classe è stata elaborata una tecnica ideata in modo
che, al fine di imparare il materiale proposto a lezione e di ottenere un buon voto nel compito di classe, i ragazzi
fossero obbligati a lavorare insieme e collaborare. In una situazione simile, cercare di primeggiare avrebbe prodotto
l’effetto contrario. Questo progetto è stato denominato metodo jigsaw. Nel giro di pochi giorni, i bambini capirono
che nessuno di loro avrebbe potuto fare meglio degli altri senza l’aiuto di tutti i membri del gruppo, impararono a
rispettare il fatto che ognuno avesse un contributo unico e indispensabile da apportare ai fini della comprensione e
dei risultati del test che avrebbero svolto. I bambini iniziarono a incoraggiarsi a vicenda perché era nell’interesse di
tutti assicurarsi che ogni membro potesse esporre la propria parte nel miglior modo possibile. Tutto questo è stato
possibile dopo alcuni giorni, perché nei primi momenti la maggior parte dei bambini continuò a tenere un
comportamento competitivo, nonostante fosse del tutto disfunzionale. Il miglioramento dei rapporti tra gli alunni
delle classi in cui era stato applicato il metodo jigsaw andava oltre le barriere etniche e razziali e portò a una
diminuzione del pregiudizio e della stereotipizzazione.
Una delle ragioni dell’efficacia di questo metodo è che si tratta di una strategia che mette le persone in una situazione
di scambio di favori perché, condividendo le proprie conoscenze con i membri del gruppo, ogni individuo fa agli
altri un favore. La cooperazione cambia la nostra tendenza a categorizzare i membri dell’outgroup (loro) come
diversi dai membri dell’ingroup (noi) e ci permette di percepirli come appartenenti al nostro gruppo. Il processo alla
base di questo cambiamento è l’empatia, ovvero la capacità di percepire quello che gli altri membri del gruppo
provano. Ogni alunno inizia a imparare che si possono ottenere notevoli vantaggi se ci si rivolge ai compagni in un
modo che si adatta ai loro bisogni. Nel momento in cui sviluppiamo la capacità di comprendere ciò che un’altra
persona sta vivendo, avremo anche maggiori probabilità di aprire il nostro cuore a quella persona. Una volta che ciò
sarà avvenuto, ci risulterà praticamente impossibile nutrire pregiudizi nei suoi confronti.
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