La tutela della professionalità del dirigente pubblico

Facoltà di Giurisprudenza
Cattedra di Diritto del Lavoro
La tutela della professionalità del
dirigente pubblico
Relatore:
Chiar.mo Prof. Roberto Pessi
Candidato:
Francesca Mastroberardino
Correlatore:
Matricola 080753
Chiar.mo Prof. Antonio Pileggi
Anno Accademico 2010/2011
INDICE
INTRODUZIONE………………………………………………..………………………….6
CAPITOLO I - LAVORO PUBBLICO E PRIVATO: LE RAGIONI STORICHE DELLA DIVERSITA’……………………………………………………..………10
1.
L’Amministrazione dell’Italia Unita e il “piemonti-
smo”…………………………………………………………………………………………….11
2. Il primo testo unico sul pubblico impiego e la locatio operarum……………………………………………………………………………………………..16
3. Il periodo fascista: la fedeltà al partito e non allo Stato………………………………………………………………………………………………...24
3.1.
Le
riforme
De
Stefani
del
biennio
1923
-
1924…………………………………………………………………………….…….32
4. Dal 1923 al 1948: la lunga stasi dell’Amministrazioni Italiana………………………………………………………………………………………………..37
5. L’art. 97 della Costituzione: i lavori preparatori e la “costituzionalizzazione” della diversità tra lavoro pubblico e privato………………………..41
6. Il testo unico del 1957………………………………………………………………..51
7. Le leggi del 1968 e del 1970: l’ingresso dei diritti sindacali nella Pubblica Amministrazione……………………………………………………………..……56
1
8. Il “rapporto Giannini”, ovvero il manifesto della privatizzazione………………………………………………………………………………………………..61
9. La privatizzazione del pubblico impiego: dalla legge n. 421/1992 al
testo unico n. 165/2001…………………………………………………………………69
9.1.
La prima fase della privatizzazione: il
D.L.gs. n.
29/1993……...................................................................................70
9.2. La seconda fase della privatizzazione: il D.Lgs. n.
80/1998…………………………………………………………………………..…74
10. Dal testo unico n. 165/2001 alla “controriforma” Brunetta………………………………………………………………..………………………………80
CAPITOLO II - SIMBOLOGIA E IRREALTA’ DI UN GEMELLAGGIO: DIRIGENTE PRIVATO E DIRIGENTE PUBBLICO PRIVATIZZATO……………………………………………………………………………………………….88
1. Una (non) definizione di “dirigente”……………………………………………88
2. Dirigenza pubblica privatizzata e dirigenza privata: un iniquo confronto tra legislazioni…………………………………….………………………………92
3. Verso una ri - publicizzazione della dirigenza (ancora) “privatizzata”?..........................................................................................................107
CAPITOLO III - IL DIRIGENTE PUBBLICO TRA TUTELA REALE E
TUTELA OBBLIGATORIA……………………………………………………………113
2
1. Dirigente pubblico privatizzato e dirigente privato: la fine del rapporto di lavoro………………………………………………………………………………….114
2. La responsabilità dirigenziale: le novità sostanziali e procedurali introdotte dal D.Lgs. 150/2009………………………….…………………………….117
2.1. Il ciclo di gestione della performance: cenni……………..…..123
2.2. Il comitato dei Garanti………………………………………………..126
3. L’inapplicabilità dell’art. 2103, C.C. agli incarichi dirigenziali: un demansionamento legalizzato.…………………………………………………………129
4. L’impossibilità di rinnovo e la revoca dell’incarico: le sanzioni “espulsive” del rapporto di servizio e “conservative” del rapporto di lavoro……………………………………………………………………………………………….138
4.1. La tutela giurisdizionale tra diritto alla rassegnazione
dell’incarico e risarcimento del danno…………………………………140
4.2. Riorganizzazione degli uffici e revoca dell’incarico dirigenziale. Quale tutela?......................................................................148
4.3. La tutela reale e la sua effettività………………………………….154
4.4.
Gli incarichi dirigenziali e il fantasma “spoil system”…………………………………………………………………………….160
5. Licenziamento del dirigente pubblico privatizzato e privato: tutele e
problemi a confronto……………………………………………………………………167
5.1. Il dirigente privato: la libera recedibilità e la nozione di giustificatezza……………………………………………………………………..…172
5.2. Il dirigente pubblico privatizzato e l’applicazione della tutela
reale………………………………………………………………………………….177
3
6. Un caso particolare: se l’ambasciatore porta pena………………………181
CONCLUSIONI…………………………………………………………………………..190
BIBLIOGRAFIA………………………………………………………………………….194
RINGRAZIAMENTI…………………………………………………………………….257
4
5
INTRODUZIONE
L’inizio di questa tesi è anche la sua fine. L’ispirazione per il suo contenuto, infatti, è arrivata conoscendo il caso che da vita all’ultimo capitolo di questo lavoro. E le domande che ne costituiscono la base sono: esiste una professionalità del dirigente pubblico? Se si, chi la garantisce? Il legislatore? O la giurisprudenza? Ed, infine, si è sviluppato in Italia quello che, nelle tradizioni anglossasoni, è definito New Public Management? In altre parole, si è finalmente
riusciti a compiere il salto da burocrate a manager dell’apparato pubblico?
La storia dell’Amministrazione Italiana, il contesto in cui si è sviluppata e il modo in cui la classe politica si è sempre rapportata ad essa ne hanno determinato il suo modo di essere fin dall’Unità d’Italia.
A differenza di quanto accaduto nei paesi europei a noi geograficamente più
vicini, l’apparato amministrativo italiano è sempre stato visto solo come uno strumento per realizzare i fini della classe politica di volta in volta al potere,
senza coinvolgimento alcuno nella definizione degli obiettivi dello Stato.
D’altronde, l’amministrazione pubblica è cresciuta, numericamente, non per far fronte alle nuove esigenze dell’Italia nascente, ma per permettere ai Governi
post-unitari di concentrare le loro risorse sul nord – Italia, senza che gli abitanti
6
delle regioni meridionali, i quali in 20 anni colonizzarono letteralmente gli apparati burocratici, se ne lamentassero. Così, per metterli a tacere, si sviluppò un
modello di impiegato pubblico (che diede vita alla rappresentazione teatrale,
ma non troppo, di Monsù Travet), legato inesorabilmente al posto fisso a basso
stipendio, non partecipe delle sorti dello Stato, estraneo alla realizzazione
dell’efficienza e del buon andamento della Pubblica Amministrazione. Questo
approccio, che ancora oggi immobilizza l’apparato statale, fa diventare il burocrate un singolo tra molti, occupato e preoccupato di difendere esclusivamente
il posto di lavoro alle dipendenze dello Stato, e non una parte del tutto. Ne consegue che la sinfonia dell’ “orchestra amministrativa” risulta aritmica e stonata,
incapace di realizzare una melodia armoniosa, fuori tempo con le esigenze della collettività.
In circa vent’anni si sono susseguite 4 macro-riforme del pubblico impiego.
L’ultima, in ordine di tempo ha, ancora, tra i suoi obiettivi quello di realizzare
il buon andamento e l’efficienza della Pubblica Amministrazione.
Qualcosa, evidentemente, non ha funzionato.
La dirigenza, che è stata individuata dal legislatore come la leva delle riforme,
come la categoria in grado di determinare l’ingresso nella Pubblica Amministrazione delle “capacità e dei poteri del privato datore di lavoro”, si sente e-
7
stranea alle funzioni che le sono attribuite, finendo per subire un cambiamento
che non vuole, sottoposta a controlli e a sua volta controllore, imbrigliata nella
rigida gabbia di compiti e competenze predisposta dal legislatore, che poco ha
a che fare con la discrezionalità di cui gode il dirigente privato.
E allora ci si chiede: basta una mera formula legislativa a trasformare un burocrate in manager?1
1
Una risposta prova a darla F. CARINCI, Politica e tecnica della giurisprudenza costituzionale
in tema di privatizzazione del pubblico impiego, Napoli, Esi, p. 1, 2006: “Come sempre una
riformulazione delle regole del gioco non è in grado di camminare su gambe proprie, perché
occorre che i giocatori vi si adeguino; il che richiede un difficile cambio di mentalità e di cultura; tanto più qui, nell’impiego alle dipendenze delle pubbliche amministrazioni, caratterizzato da un elevato conformismo burocratico, da un forte invecchiamento del personale, da un
elevato condizionamento sindacale ed elettorale”.
8
9
CAPITOLO PRIMO
LAVORO PUBBLICO E PRIVATO: LE RAGIONI STORICHE DELLA
DIVERSITA’
SOMMARIO: 1. L’Amministrazione dell’Italia Unita e il “piemontismo”.
– 2. Il primo testo unico sul pubblico impiego e la locatio operarum. –
3. Il periodo fascista: la fedeltà al partito e non allo Stato. – 3.1. Le riforme De Stefani del biennio 1923 -1924. – 4. Dal 1923 al 1948: la lunga
stasi dell’Amministrazioni Italiana. – 5. L’art. 97 della Costituzione: i lavori preparatori e la “costituzionalizzazione” della diversità tra lavoro pubblico e privato. – 6. Il testo unico del 1957. – 7. Le leggi del 1968 e
del 1970: l’ingresso dei diritti sindacali nella Pubblica Amministrazione. – 8. Il “rapporto Giannini”, ovvero il manifesto della privatizzazione. –
9. La privatizzazione del pubblico impiego: dalla legge n. 421/1992 al
testo unico n. 165/2001. – 9.1. La prima fase della privatizzazione: il
10
D.L.gs. n. 29/1993. – 9.2. La seconda fase della privatizzazione: il
D.Lgs. n. 80/1998. – 10. Dal testo unico n. 165/2001 alla “controriforma” Brunetta.
1. – L’Amministrazione dell’Italia Unita e il “piemontismo”. All’origine, nel 1861, l’unità d’Italia esisteva solo sulla carta. Nella neonata
penisola italiana non vi era traccia di istituzioni che avessero, quantomeno, sapore nazionale: non una magistratura unitaria e coesa, convivendo ancora ben
quattro Corti di Cassazione disseminate lungo la penisola2; non un' unica ossatura del credito, restando in vita sei istituti parapubblici, ereditati dagli antichi
Stati, dotati del privilegio dell’emissione della carta moneta;; non una legislazione unitaria, rimanendo in vigore i codici preunitari e una serie di leggi a ba2
Corte di Cassazione di Napoli, Corte di Cassazione di Firenze, Corte di Cassazione di Torino,
Corte di Cassazione di Roma. Sulle Corte di Cassazione, definitivamente riunificate nel 1923 a
M. MECARELLI, Le Corti di Cassazione nell’Italia unita. Profili sistematici e costituzionali della giurisdizione in una prospettiva comparata (1865-1923), Milano, Giuffrè, 2005; G. FERRARI, L’evocazione di un fantasma del passato: la pluralità delle Corti di Cassazione, in Scritti in
memoria di Ugo Pioletti, Milano, Giuffrè, 1982, pp. 253-258.
11
se ed applicazione locale; non un catasto nazionale; non un unico sistema metrico; non un sistema moderno e centralizzato di prelievo del credito.
L’apparato amministrativo e burocratico, che, negli altri paesi europei, aveva
svolto un ruolo fondamentale nella costruzione di uno Stato unito improntato a
logiche unitarie, in Italia “parlava”, almeno fino all’inizio del nuovo secolo, la
lingua piemontese. E non si tratta (solo) di metafora.
Negli anni sessanta dell’Ottocento, a unificazione avvenuta, un colto funzionario di estrazione napoletana, Giuseppe Giannelli, pubblicò uno dei primi pamphlet3 contro il “piemontismo4”, denunciando il rigido formalismo dei regolamenti, l’attitudine all’obbedienza cieca e assoluta degli impiegati di Torino, la
pretesa di esprimersi in francese, l’impoverimento della lingua italiana in formulari e frasi fatte e l’abitudine ad attendere istruzioni dall’altro e dal centro. Piemontese era tutta la burocrazia centrale. Come dimostrò uno studio5 di
Francesco Saverio Nitti pubblicato nel 1900, gli alti livelli della burocrazia rimasero piemontesi in tutti i settori chiave, almeno sino al primo decennio del
Novecento (quando, come si dirà, ci fu un drastico cambio di rotta). Piemontesi
3
G. GIANNELLI, Storia di un periodo dell’amministrazione italiana, Salerno, 1981.
G. MELIS, La nascita dell’amministrazione nell’Italia unita, in Rivista trimestrale di diritto
pubblico, 2010, 02, p 415.
5
F. S. NITTI, La burocrazia di Stato in Italia. Quali regioni danno un maggior numero
d’impiegati?, in La riforma sociale, 1990, pp. 458 ss.
4
12
erano i generali dell’esercito, piemontesi gran parte dei direttori generali dei ministeri, gli ambasciatori, i capi divisione, la maggior parte dei prefetti. Nitti,
numeri alla mano, faceva notare come, fatto eguale a 100 l’intero “comparto” degli alti funzionari (magistrati inclusi) il Piemonte fornisse ancora ben il 25,3
% dell’elite, e il Nord il 52,8 % (contro il 15,2 % del Sud e il 6,7 % delle due
isole maggiori)6.
Piemontese era il modello amministrativo di riferimento. Nel quadro di
un’unità solo territoriale, in una moderna Babele, non solo (ma anche) linguistica, l’Italia appena unificata scelse – ma, nel contesto storico di riferimento,
si trattò davvero di “scelta”? – di ispirarsi ai principi, mutuati dalla tradizione
napoleonica, di uniformità e di centralizzazione, che avevano caratterizzato la
riforma cavouriana dell’amministrazione del Regno di Sardegna (legge 23 marzo 1853, n. 1483)7.
6
“Una vera grande burocrazia (almeno per quanto riguarda il numero) esisteva sopra tutto
nel Piemonte. Nell’Italia meridionale era grandissimo il numero d’impiegati, ma così poveramente retribuiti, in condizioni così precarie, che non vi era da formare da essi una vera amministrazione. Inoltre se l’amministrazione finanziaria, e fino ad un certo punto la magistratura, erano buone, il resto valeva poco. Il grandissimo numero di impiegati del Piemonte dovea
formare il nucleo: doveano seguire per necessità di cose la Toscana, la Lombardia, la Liguria,
il Veneto e le regioni dell’Italia centrale”, così F. S. NITTI, Quali regioni danno un maggior
numero d’impiegati?, in La riforma sociale, 1990, pp. 458 ss.
7
La legge, ispirata al modello belga, si occupava dell’ “amministrazione dello Stato” nel Titolo I, composto di solo due articoli: “1. I Ministri provvederanno all’Amministrazione centrale
dello Stato per mezzo di Uffizi posti sotto l’immediata loro direzione. Gli Uffizi relativi ad un medesimo ramo d’Amministrazione, e dipendenti da un solo Ministero, potranno venire riuniti in Direzioni generali, che faranno tuttavia parte integrante del Ministero. 2. L’ordinamento 13
Piemontesi erano la maggior parte dei prefetti, degli ambasciatori, dei generali
dell’esercito, dei direttori generali dei ministeri, dei capi divisione.
L’inversione di tendenza, in termini quantitativi8 e geografici, si colloca
all’inizio del nuovo secolo, a quarant’anni dall’unità d’Italia: gli storici del diritto amministrativo9 collocano il big spurt dell’amministrazione italiana nei
primi anni del 1900, in “coincidenza” con il decollo industriale. Ma non si trattò di semplice coincidenza. L’amministrazione italiana, infatti, crebbe e si sviluppò per far fronte ad una crescente richiesta di servizi pubblici connessa alle
nuove esigenze dettate dall’ industrializzazione e non, come accadde ad altri
paesi europei, con finalità di legittimazione delle istituzioni post-unitarie o di
politica di potenza dello Stato.
Oltre all’esplosione numerica, che, nell’arco di 15 anni portò il numero degli
impiegati pubblici ad essere tre volte superiore il dato di inizio secolo, il big
dei Ministeri e degli Uffizi, di cui all’articolo precedente, avrà luogo in modo uniforme quanto ai titoli, gradi e stipendi del personale. Tali titoli e gradi, come pure le altre basi di organizzazione delle Direzioni generali e degli altri Uffizi interni dei Ministeri, saranno determinati da
Regolamento deliberato in Consiglio dei Ministri ed approvato con Decreto Reale da pubblicarsi ed inserirsi negli Atti del Governo. Non potranno esservi recate variazioni se non nello
stesso modo. Gli stipendi annessi ai diversi gradi saranno stabiliti con legge.”.
8
Secondo un censimento i dipendenti dello Stato erano circa 11 mila nel 1876, nel 1882, solo
sei anni dopo, il dato superava quota 98 mila. Nel 1914 erano 186.670, con una spesa pubblica
pari a 567 milioni di lire.
9
S. CASSESE – G. MELIS, Lo sviluppo dell’amministrazione italiana (1880 – 1920), in Rivista
trimestrale di diritto pubblico, 1990, 2; G. MELIS, Storia dell’amministrazione italiana. 1861 –
1993, Bologna, Il Mulino, 1996. Ma, prima di tutti, S. CASSESE, Questione amministrativa e
questione meridionale: dimensioni e reclutamento della burocrazia dall’unità ad oggi, Milano,
Giuffrè, 1977.
14
spurt dell’amministrazione italiana determinò anche un mutamento drastico
della provenienza del corpo burocratico, che passò dall’ essere di origine geografica prevalentemente settentrionale a prevalentemente meridionale.
Questa “meridionalizzazione” può essere interpretata in un solo modo: fornire occupazione ai ceti colti e medio-colti del sud-Italia lasciati fuori dal decollo
industriale. Stato e meridione strinsero un patto tacito e mai confessato garantito dallo Stato attraverso quello che i travet, i piccoli impiegati a basso reddito
degli inizi del Novecento, chiamavano “il materasso di crine del 27 del mese10” (ossia lo stipendio fisso: magari basso, ma in compenso sicuro). All’ “esercito” dei piccoli impiegati, in gran parte meridionali, lo Stato assicurò la sopravvivenza, accontentandosi per lo più di prestazioni di lavoro modeste. Ne ebbe in
cambio la pacificazione sociale del Sud, l’astensione implicita di quelle regioni ad una strategia dello sviluppo che puntava tutte le sue carte sul polo Torino Milano – Genova.
Questa scelta, nel breve periodo, si rivelò fruttuosa. Ma oggi l’amministrazione italiana ne porta ancora i segni: “il sud, escluso dalla industrializzazione, indirizzò sempre più i suoi giovani laureati e diplomati, verso gli impieghi di Stato,
10
Il 23 aprile 1864 una circolare dell’allora ministro delle Finanze, l’onorevole Marco Minghetti, stabilisce: “nel dì 27 maggio può cominciarsi il pagamento degli stipendi agli impiegati in attività di servizio per la mesata di maggio, e così nei mesi successivi”. Per gli impiegati italiani è il primo 27.
15
“colonizzando” gli uffici dello Stato, e trasferendovi, insieme al culto delle regole, non solo un’ inflessione dialettale ma una intera concezione del mondo.
La burocrazia italiana ne ha tratto quelli che saranno i suoi tratti caratteristici
lungo tutto il XX secolo ed oltre: un certo fatalismo di fondo, lo scetticismo
verso il nuovo, un accentuato conservatorismo, soprattutto il familismo come
atteggiamento base nei confronti della vita stessa. Di qui una tipologia del burocrate italiano che si radicherà nel corso dei decenni e che resta tutt’oggi largamente valida.”11
2. – Il primo testo unico sul pubblico impiego e la locatio operarum.
L’origine del pubblico impiego, inteso come fenomeno giuridico, è piuttosto recente. Gli interventi legislativi successivi12 all’unità d’Italia avevano avuto 11
G. MELIS, La nascita dell’amministrazione nell’Italia unita, in Rivista trimestrale di diritto
pubblico, 2010, 02, pp. 451 ss.
12
R.d. del 4 agosto 1861, n. 167: “Ordinamento degli uffici e del personale del Ministero della
marina”;; 20 ottobre 1861: “Nuovo ordinamento interno del Ministero di grazia, giustizia e dei
16
culti”;; R.d. del 3 novembre 1861, n. 313: “Riorganizzazione del Ministero delle finanze”;; R.d. del 20 febbraio 1962, n. 477: “Nuovo ordinamento del Ministero della guerra”;; R.d. del 18 gennaio 1863, n. 1125: “Riorganizzazione del personale del Ministero di grazia, giustizia e dei
culti”, cui seguirà l’ordinamento degli uffici (d. m. 20 gennaio);; R.d. del 26 luglio 1863, n. 1396: “Organizzazione del Ministero della marina”;; R.d. del 21 novembre 1865, n. 2608: “Riordinamento del personale delle amministrazione centrali e periferiche del debito pubblico e
della Cassa dei depositi e dei prestiti”;; R.d. del 29 agosto 1866, n. 3234: “Ordinamento del
Ministero della marina”;; R.d. del 24 ottobre 1866, n. 3306: “Riordinamento degli uffici
dell’amministrazione centrale”;; R.d. del 9 dicembre 1866, n. 3382: “Nuovo ordinamento del
Ministero della pubblica istruzione”;; R. d. del 14 dicembre 1866, n. 3475: “Riorganizzazione
del Ministero dell’interno”;; R.d. del 23 dicembre 1866, n. 3456: “Ordinamento del Ministero
per gli affari esteri”;; R.d. del 30 dicembre 1866, n. 3479: “Riorganizzazione del Ministero della marina”;; R.d. del 23 gennaio 1867, n. 3505: “Riorganizzazione del Ministero di agricoltura,
industria e commercio”;; R.d. del 17 febbraio 1867, n. 3537: “Riorganizzazione del Ministero
della guerra”;; R. d. del 28 agosto 1867, n. 3909: “Riorganizzazione del Ministero delle finanze”;; R.d. del 22 settembre 1867, n. 3956: “Nuovo ordinamento dell’amministrazione centrale e periferica della Pubblica istruzione”;; R.d. del 30 dicembre 1867, n. 4160: “Nuova organizzazione del Ministero per gli affari esteri”;; R.d. del 7 marzo 1870, n. 5530: “Modifiche alla organizzazione del ministero della guerra”;; R.d. del 14 gennaio 1872, n. 656: “Riorganizzazione
del Ministero della marina”;; R.d. del 3 novembre 1872, n. 1124: “Nuovo ordinamento e organico del Ministero di grazia, giustizia e dei culti”;; R.d. del 26 marzo 1873, n. 1332: “Nuovo
ordinamento del Ministero della pubblica istruzione”;; R.d. del 9 settembre 1873, n. 1556, n.
1556: “Riorganizzazione del Ministero dei lavori pubblici”;; R.d. del 14 dicembre 1873, n. 1725: “Riorganizzazione del Ministero della guerra”;; R.d. del 23 dicembre 1873, n. 1746: “Riordinamento del personale dell’amministrazione periferica del Ministero dell’interno”;; R.d. del 26 marzo 1874, n. 1866: “Nuovo ordinamento del personale del Ministero delle finanze”;; R.d. del 26 ottobre 1875, n. 2791: “Riordinamento del personale dell’Amministrazione centrale della guerra”;; R.d. del 9 gennaio 1876, n. 2906: “Modifiche all’ordinamento del Ministero di grazia e giustizia”;; R.d. del 19 novembre 1876, n. 3512: “Riordinamento del personale
dell’Amministrazione delle carceri”;; R.d. del 26 dicembre 1877, n. 4219: “Riorganizzazione
del Ministero delle finanze”;; R.d. del 25 marzo 1880, n. 5373: “Riorganizzazione del personale
dell’Amministrazione di pubblica sicurezza”;; R.d. del 20 novembre 1881, n. 581 ter: “Riordinamento dell’Amministrazione centrale degli affari esteri”;; R.d. del 3 maggio 1883, n. 1314:
“Approvazione del ruolo organico del Ministero della marina”;; D.m. del 9 luglio 1883: “Riorganizzazione del Ministero della guerra”;; R.d. del 25 dicembre 1887, n. 5148: “Ordinamento
del Ministero degli affari esteri”;; R.d. del 22 aprile 1888, n. 5385: “Riordinamento
dell’amministrazione centrale e nuovo ordinamento del personale del Ministero della guerra”;; R.d. del 18 agosto 1888, n. 5699: “Determinazione dell’organico del personale del Ministero dell’interno”;; D.m. del 5 giugno 1890: “Organizzazione del Ministero delle poste”;; R.d. del 6 luglio 1890, n. 7010: “Approvazione dell’ordinamento degli impiegati della amministrazione degli stabilimenti carcerari e dei riformatori governativi e del personale ad essi aggregato”;; R.d. del 20 luglio 1890, n. 7002: “Nuovo ordinamento del Ministero dell’istruzione pubblica”;; R.d. del 19 febbraio 1891, n. 80: “Riordinamento dell’amministrazione del Ministero degli affari esteri”;; R.d. del 2 febbraio 1893, n. 29: “Modifiche al regolamento del 1853
sull’ordinamento dell’ amministrazione centrale”;; R.d. del 16 maggio 1895, n. 328: “Riordinamento del Ministero della pubblica istruzione su quattro direzioni generali”;; R.d. del 15 marzo 1896, n. 73: “Riordinamento dell’amministrazione del Ministero degli affari esteri”;; 17
carattere esclusivamente organizzativo, erano stati emanati nell’ambito di singole amministrazioni e nulla disponevano, quasi a voler evitare uno spinoso
problema, circa la natura giuridica del rapporto tra l’impiegato e lo Stato. Il
nodo problematico della qualificazione del rapporto di lavoro del dipendente
pubblico non venne affrontato (rectius: risolto) neanche con il primo testo unico delle leggi sullo stato degli impiegati civili dello Stato (r.d. 22 novembre
1908, n. 693)13. Luigi Amoroso, difatti, commentandone l’art. 1, notò come il
legislatore non si fosse voluto complicare la vita, decidendo di omettere la de-
R.d. del 16 marzo 1899, n. 102: “Ordinamento degli uffici del Ministero dei lavori pubblici”;; R.d. del 17 dicembre 1899, n. 491: “Riordinamento del Ministero della marina con effetto
dall’1 gennaio 1900”;; R.d. del 1 aprile 1900, n. 171: “Regolamento per il personale
dell’amministrazione centrale dei Lavori pubblici”;; R.d. dell’8 novembre 1901, n. 467: “Riordinamento del Ministero della pubblica istruzione”;; R.d. del 2 gennaio 1902, n. 2: “Riordinamento dell’amministrazione centrale del Ministero degli affari esteri”;; R.d. del 6 marzo 1904, n. 127: “Modifiche all’ordinamento dell’amministrazione centrale del Ministero della guerra”;; R.d. del 23 aprile 1904: “Riordinamento del Ministero di grazia e giustizia”;; L. dell11 luglio 1904, n. 372: “Disposizioni sui ruoli organici delle amministrazioni dello Stato” (d’ora in poi gli organici potranno essere modificati solo per legge);; R.d. del 15 giugno 1905, n. 259: “Istituzione e organizzazione dell’Amministrazione delle ferrovie dello Stato”;; L. dell’8 luglio 1906,
n. 317: “Approvazione del ruolo organico dell’amministrazione provinciale dell’Interno”;; L. dell’8 luglio 1906, n. 304: “Approvazione del ruolo organico del Genio civile”;; L. del 12 luglio 1906, n. 323: “Fissazione del ruolo organico dell’amministrazione centrale della Guerra”;; R.d. del 29 luglio 1906, n. 492: “Regolamento per il personale dell’amministrazione centrale dei Lavori pubblici”;; R.d. del 9 giugno 1907, n. 298: “Riordinamento del personale delle diverse carriere del Ministero degli affari esteri”;; R.d. del 5 agosto 1907, n. 648: “Nuovo regolamento per la carriera degli impiegati dell’amministrazione centrale e provinciale dell’interno”;; R.d. del 9 aprile 1908, n. 241: “Riordinamento dell’amministrazione centrale del Ministero degli affari esteri”;; R.d. del 2 luglio 1908, n. 451: “Riordinamento del Ministero delle finanze”.
13
Il 24 novembre sarà approvato il relativo regolamento di esecuzione (r.d. n. 808).
18
finizione del rapporto d’impiego14. In una situazione di volontario vuoto normativo, con il numero dei funzionari pubblici in crescente aumento e la nascita
del primo associazionismo sindacale degli impiegati15, stante la necessità di
abbandonare il riferimento monarchico fondato sul vincolo “procuratorio”16, il
primo modello utilizzato fu quello del “diritto privato speciale”17: la locatio
operarum (art. 1627, codice civile 1865)18.
14
L. AMOROSO, Lo stato degli impiegati civili, Napoli, 1910, p. 44: “quest’articolo […] attribuisce al dato di fatto della nomina la qualità d’ impiegato dello Stato, omettendo qualsiasi definizione”.
15
Al fenomeno dell’associazionismo sindacale degli impiegati pubblici si guardò subito con terrore: “[…] il sindacalismo non si è impadronito solo delle associazioni operaie; esso ha esercitato un fascino potente anche su altre categorie, diversissime, quali gli impiegati pubblici,
a cui, in verità, non era facile pensare. E abbiam veduto, anche da noi, gli impiegati dei gradi
inferiori associarsi nel titolo del proletariato amministrativo e organizzarsi in sindacati contro
quelli, che essi chiamano i loro padroni, contro l’alta burocrazia, contro il Governo, contro lo Stato medesimo, lo Stato padrone, come essi dicono […]. Così gli impiegati pubblici dei gradi
inferiori, in specie delle categorie più umili […] hanno imitato i metodi di lotta del proletariato operaio organizzato e in specie del sindacalismo […]: riunioni pubbliche con votazioni di ordini del giorno infiammati; dimostrazioni rumorose e violente contro l’autorità amministrativa e politica;; ostruzionismo nel disimpegno degli affari d’ufficio;; sabotaggio e lo stesso sciopero […]. Dalla mancanza del dovuto ossequio ai capi gerarchici, al Governo ed al Parlamento, alla opposizione e resistenza sistematica a quanto emana da un superiore, è tutto uno spirito di insofferenza, di insubordinazione, che agita buona parte della nostra Amministrazione
[…], che distrugge ogni disciplina, mina l’autorità, demolisce la gerarchia, disorganizza i servizi pubblici.”: O. Ranelletti, Il sindacalismo nella pubblica amministrazione, in Riv. pubblic.,
1920, I, p. 451.
16
G.W.F. HEGEL: “Il rapporto d’ impiego […] non è un rapporto contrattuale, sebbene vi sia un duplice consenso ed una prestazione da entrambi i lati. L’impiegato non è chiamato per una singola prestazione di servizio, come il mandatario, bensì pone l’interesse principale della sua esistenza spirituale e particolare in questo rapporto”, in Lineamenti della filosofia del diritto, Roma – Bari, Laterza, 1979.
17
M.S. GIANNINI, Impiego pubblico (profili storici e teorici), Enciclopedia del diritto, 1970.
18
Art. 1627, Codice Civile del 1865: “Vi sono tre principali specie di locazioni di opere e d’industria: I) quella per cui le persone obbligano la propria opera all’altrui servizio;; II) quella de’ vetturini sì per terra come per acqua, che si incaricano del trasporto delle persone o delle
cose;; III) quella degli imprenditori di opere ad appalto o cottimo.”
19
La stessa locatio operarum che venne utilizzata come base di partenza per il
contratto di lavoro privato. Gli operai, infatti, vivevano una situazione simile: il
decollo industriale incideva, infatti, anche sul rapporto di lavoro “privato”,
rendendo sempre più necessario l’abbandono delle regole del diritto comune dei contratti in favore di una disciplina specifica del contratto di lavoro. In assenza di una specifica disciplina legislativa, tanto da far scrivere a successiva
dottrina che “nei primi due decenni del novecento l’impiego privato è il lavoro privato che guarda al settore pubblico, è il lavoro privato che cerca di ridisegnare la propria subordinazione recependo tutto ciò che è recepibile
dall’ambito dell’impiego pubblico, onde fuggire dall’area del lavoro subordinato […]. Rispetto a poco più di due norme codicistiche, il pubblico impiego è
regolato, infatti, da una copiosa, benché frammentaria, legislazione”19, la giurisprudenza applicò, per analogia, al fenomeno del rapporto subordinato le disposizioni dettate per la locatio operarum.
Il solo dato dell’utilizzo della locatio operarum ai fini della qualificazione e
dell’inquadramento tanto del rapporto di lavoro alle dipendenze della pubblica
amministrazione quanto di quello alle dipendenze delle imprese private farebbe
19
PAOLO PASSANITI, Le vicende dell’impiego pubblico e privato, in Storia del diritto del lavoro - La questione del contratto di lavoro nell’Italia liberale (1865 – 1920), Milano, Giuffrè,
volume I, 2006, p. 233.
20
intravedere, ad un occhio poco attento, un unico diritto del lavoro, senza alcuna
distinzione tra pubblico e privato, quasi che ai nastri di partenza nessuna differenza esistesse.
Ma la realtà fu diversa. E non si trattò di diversità di poco conto: la “linea Maginot” che separa, ancora oggi, il diritto del lavoro pubblico da quello privato
ha origine profonde e viene in evidenza fin da subito.
La locatio operarum, che, in poco tempo, si rivelò del tutto inadeguata a rispondere alle esigenze tanto degli impiegati che degli operai, venne corredata,
ad opera del legislatore, all’interno del rapporto di impiego pubblico, da una
serie di cautele e tratti distintivi che riguardarono nel tempo il diritto alla pensione, la disciplina degli avanzamenti di carriera, la normativa dei congedi e
delle aspettative, la durata del rapporto, la disciplina dei concorsi.
Ne derivava una situazione particolare dell’impiegato dello Stato, di fatto molto diversa dal dipendente privato, il cui rapporto venne regolato dalla legge solo molti anni dopo20: da un lato si cominciavano ad affermare i primi diritti,
dall’altro si precisavano garanzie più generali, volte a limitare la assoluta libertà dell’esecutivo di manipolare l’amministrazione a suo piacimento. 20
La disciplina sul contratto di impiego privato vide la luce per la prima volta solo nel 1919.
21
La teoria contrattualistica del rapporto di lavoro pubblico che, nei primi anni
del 1900, aveva trovato un accoglimento, seppur parziale, in dottrina21 e in giurisprudenza22 e che aveva portato all’ indicazione della locatio operarum come
modello di riferimento fu abbandonata in gran fretta ad opera tanto del diritto
positivo, mediante l’approvazione della legge 25 giugno 1908, n. 290 23, quanto
della giurisprudenza amministrativa24, attraverso l’istituzione della V sezione
del Consiglio di Stato che in breve tempo avocò a se tutte le controversie in
21
Per Adeodato Bonasi la posizione giuridica dei funzionari rispetto allo Stato configura sicuramente un contratto. Un contratto che non è locazione, o una compravendita, che non è un
mandato anche se vi sono elementi di contatto. Sposando la sentenza della Corte di Appello di
Bologna del 4 dicembre 1869, il Bonasi risolve il problema ritenendo che l’impiego configuri
un contratto “sui generis”, e quindi innominato regolato dall’art. 1103 del codice civile, cfr. A.
BONASI, Della responsabilità penale e civile dei ministri e degli altri ufficiali pubblico secondo
le leggi del Regno e la giurisprudenza, Bologna, 1874, pp. 602 – 608.
22
Cass. Roma, 26-7-1892, Pisilani c. Comune di Porto San Giorgio, in La legge, XXXII, pt. II,
p.757, 1982: “La parola impiegato, sostanzialmente usata, sta a designare qualunque persona
che, locando l’opera propria, assume un ufficio speciale e prende ad esercitare speciali funzioni con una retribuzione da corrispondersi a periodi determinati. La distinzione degli’impiegati tra pubblici e privati è fondata sulla intrinseca natura delle funzioni assegnate, secondo che pubbliche e private sono le funzioni ad essi commesse, e pubblico o privato è
l’ufficio da essi assunto. Rientrano pertanto nella categoria dei pubblici impiegati tutti coloro, che assumendo l’esercizio di funzioni istituite nello interesse del pubblico per una veduta di
pubblica utilità, locano l’opera loro ad uno di quegli Enti o Corpi Morali, come lo Stato, la Provincia ed il Comune, i quali oltre ad avere la qualità di persone giuridiche sono pure investiti di autorità ed impero e possono compiere perciò atti di semplice gestione, atti di puro imperio, e atti d’indole mista, perché partecipante dell’una qualità e dell’altra.”
23
La legge fu polemicamente definita dalle associazioni, che si sforzarono, invano, di osteggiarla, “legge capestro”. Tuttavia il Parlamento la votò a larghissima maggioranza e l’opinione pubblica la recepì come una legge liberale, che finalmente interveniva a dettare regole certe sui
diritti e sui doveri dei dipendenti pubblici.
24
Cfr. Cons. St. V, 10 giugno 1910, in Foro It., Rep. 1910, imp. pub., 20, secondo cui “il rapporto di impiego è essenzialmente di diritto pubblico, anche quando precise norme siano dettate a tutela degli interessi dell’impiegato;; in ordine alle controversie concernenti tale rapporto e tali norme (stabilità, promozione) è quindi sempre competente la giurisdizione amministrativa;
ciò per la natura della controversia, per il carattere giurisdizionale di questi collegi, per la delimitazione della loro competenza fatta in ragione della materia ed infine per la regola che il giudice dell’azione è il giudice dell’eccezione”.
22
materia di pubblico impiego sul presupposto della natura pubblicista del rapporto di lavoro, che quindi venne epurato da qualsiasi “infezione” contrattualistica e ricondotto, di contro, ad un atto d’imperio della Pubblica Amministrazione.
Sulla scia della concezione tedesca del diritto pubblico, il rapporto tra
l’Amministrazione e il dipendente venne ricostruito in termini di sottomissione, in una logica non paritaria; un rapporto non conflittuale, ma di immedesimazione, costituito sulla base di un atto di nomina della Pubblica Amministrazione espressione di una forma speciale di supremazia dello Stato nei confronti dei
suoi funzionari.
L’impiegato pubblico diventa così un cittadino posto al servizio della comunità, che, al contrario del dipendente privato, non opera per la realizzazione di un
interesse della controparte, ma per la realizzazione di interessi generali, di cui
egli è, pro quota, titolare. L’amministrazione tende a creare, quindi, un corpo di
burocrati che sentano come proprio l’interesse dell’amministrazione stessa, così da eliminare in radice una conflittualità di esigenze che, sin dall’origine, ha
caratterizzato il rapporto di lavoro privato.
Il legislatore non riesce a dimenticare che nel caso del lavoro pubblico il datore
di lavoro è l’Ammistrazione dello Stato, mentre nel lavoro privato è un sogget-
23
to privato. Così, confrontando il testo unico del 1908 con la legge sull’impiego privato del 1919, non è difficile cogliere le differenze. Le due leggi, seppur analoghe nella loro ratio generatrice e negli istituti che le compongono (anzianità, stabilità, carriera), disciplinano diversamente il modo di funzionare degli
stessi.
Nel cogliere la ragione dell’intervento legislativo del 1908, la quale non può certamente essere quella di definire il rapporto di lavoro pubblico nel senso
privatistico o pubblicistico, deve necessariamente essere vista come un tentativo della Pubblica Amministrazione di recuperare il vincolo autoritativo sul dipendente a fronte di piccole concessioni, che, da una parte, tacitassero il nascente associazionismo sindacale e che, dall’altra, instillassero l’idea che le garanzie nei confronti dello Stato non fossero frutto di un sano conflitto sindacale, ma “gentile” concessione dello Stato mediante la legge.
3. – Il periodo fascista: la fedeltà al partito e non allo Stato.
24
Negli anni di Mussolini e prima della riforma De Stefani del 1923 si susseguirono una serie di interventi legislativi con ambizioni organizzative che, in realtà, non erano affatto riconducibili a una logica unitaria e coerente, ma che rispondevano solo alle esigenze momentanee della Pubblica Amministrazione,
cercando di riparare agli errori in maniera estemporanea solo dove, come e
quando si fossero presentati. Questo spiega perché non venne mai in luce il
problema della qualificazione del rapporto di pubblico impiego (a differenza,
invece, della nascita del diritto del lavoro dei dipendenti dell’impresa con
l’emanazione, nel 1919, della legge sull’impiego privato) e non venne mai
messa in discussione la ideologia che ne è alla base. La conseguenza fu che i
provvedimenti del legislatore fascista, intervenendo ora su un aspetto del rapporto e ora su un altro senza alcuna logica interna ed esterna, ne finirono per
rompere definitivamente la già instabile e frammentaria struttura.
Venne quindi mantenuto inalterato il modello di riferimento pre-bellico, il quale risentì esclusivamente delle idee nazionaliste di chi era al Governo vedendo
accentuato il vincolo autoritativo con la Pubblica Amministrazione. Nel ventennio fascista l’elemento della speciale sottomissione dell’impiegato pubblico, legato allo Stato da un rapporto di natura “etica”, nell’ambito del quale il caratteristico vincolo di fedeltà allo Stato, anziché al partito politico al Governo, si
25
trasformò invece in un vincolo di fedeltà politica al partito-Stato, cioè al regime25; tale vincolo investiva ogni aspetto del comportamento del dipendente,
compresa la vita privata, determinando una significativa compressione dei suoi
diritti di libertà. La relazione di accompagnamento del regio decreto n.
2960/1923, relativo allo stato giuridico degli impiegati civili dello Stato, espressamente qualificava l’impiego pubblico come “rapporto di fedeltà che solo può contrarre colui che, per la sua mentalità e per la sua inclinazione, viva
ed agisca conformemente alle tendenze ideali e pratiche che sono proprie
dell’amministrazione nel ciclo storico in cui l’impiegato deve esplicare l’opera sua”.
25
Pur senza riuscire a dar luogo ad una effettiva “fascistizzazione” della burocrazia, la legislazione successiva, da una parte, introdurrà l’istituto della dispensa dal servizio dell’impiegato che “per manifestazioni compiute in ufficio o fuori di ufficio […] si ponga in condizioni di incompatibilità con le generali direttive politiche di governo”, dall’altra, attribuì all’iscrizione al partito fascista il valore di requisito per l’accesso ai pubblici impieghi, ovvero di titolo di preferenza a fini di reclutamento e di carriera. Su questa linea si muovono numerose leggi successive: con il decreto del Capo dello Stato del 17 dicembre 1932, dopo aver rimosso il divieto
delle assunzioni nelle pubbliche amministrazioni, è stabilito che per partecipare ai nuovi concorsi è richiesto, in aggiunta ai tradizionali requisiti, quello dell’iscrizione al partito nazionale fascista o ai fasci giovanili di combattimento (art. 2);; ed inoltre “per coloro che risultino regolarmente iscritti al PNF prima del 28 ottobre 1922, è concessa, sul limite massimo di età, una
proroga di durata pari al tempo per cui essi, anteriormente al 22 ottobre 1922, appartennero
al partito” (art. 3, 2° comma);; nella stessa scia il r.d.l. 3 giugno 1938, n. 827 che previde, anche per i salariati delle amministrazioni dello Stato, l’iscrizione al PNF o come requisito per l’assunzione o come titolo di preferenza nei passaggi di gruppo dei salariati permanenti. Benefici particolari vennero attribuiti ai dipendenti iscritti al PNF con la legge 9 maggio 1939, n.
700 secondo cui “ai dipendenti militari e civili, di ruolo e non di ruolo, delle amministrazioni
statali, comprese quelle con ordinamento autonomo, iscritti ai fasci di combattimento, ai quali
sia stata riconosciuta dal PNF la qualità di squadrista è concesso un premio straordinario di
lire duemila” e dalla legge 25 settembre 1940, n. 1457, che estende al personale avente qualifica di squadrista il beneficio del computo del periodo di iscrizione al PNF prima del 28 ottobre
1922, ai fini della liquidazione della pensione.
26
Certo è che la crisi finanziaria del dopoguerra impose politiche di contenimento della spesa pubblica, che influenzarono le riforme amministrative degli anni
a seguire. Le leggi del ventennio fascista furono ispirate alla realizzazione
dell’obiettivo di epurazione del corpo burocratico dello Stato al fine di riorganizzare la Pubblica Amministrazione in termini di semplificazione dei servizi e
di riduzione del personale.
Finita la prima guerra mondiale venne emanato il r.d. 23 ottobre 1919, n. 1971,
sullo stato giuridico ed economico del personale delle amministrazioni centrali
dello Stato, che, sulla scia delle indicazioni fornite dalla Commissione Villa26,
ridusse i gradi gerarchici e introdusse il sistema dei “ruoli aperti”27, attraverso
il quale la possibilità di progressione retributiva era parzialmente sganciata
dall’ascensione nella scala gerarchica e basata, invece, sull’anzianità28. Il regio
26
Negli ultimi anni della guerra e poi nell’immediato dopoguerra si erano succedute una serie di commissioni e gruppi di studio, sia di origine parlamentare che burocratica, che avevano accumulato una serie di analisi e proposte. Nel 1918 una Commissione di impiegati romani aveva
tenuto a un convegno concluso con le proposte dell’abolizione dei ruoli chiusi, della riduzione dei gradi gerarchici, della razionalizzazione dei servizi in grandi unità organizzative. Si era poi
insediata la Commissione per il dopoguerra (1918-19), incaricata di studiare i provvedimenti
necessari al passaggio dallo stato di guerra allo stato di pace e, contemporaneamente a
quest’ultima, aveva lavorato la Commissione Villa “per lo studio della riforma
dell’amministrazione dello Stato” (febbraio – novembre 1918), che aveva indirizzato la sua attenzione soprattutto verso la semplificazione dei controlli e lo stato giuridico del personale.
27
Il legislatore non riuscì completamente nel suo intento, giungendo al paradossale risultato
per cui, sulla base del nuovo sistema dei “ruoli aperti” alcuni impiegati arrivarono a percepire, per il solo fatto dell’anzianità, uno stipendio uguale o superiore a quello dei funzionari di grado
superiore.
28
Cfr. art. 15, r.d. 23 ottobre 1919, n. 1971: “l’impiegato consegue un aumento periodico di stipendio per anzianità nel grado” (art. 15).
27
decreto 1971/1919, si segnalò, tuttavia, soprattutto per l’istituto della “riserva di servizio” la quale prevedeva la dispensa e il collocamento a riposo degli impiegati “privi della capacità, diligenza, assiduità o condotta necessarie” (art. 55)29, di quelli che avessero raggiunto i limiti di età o di servizio (art. 59)30 e di
quelli che ne avessero fatto domanda (art. 62)31.
Si tratta dell’inizio di quella epurazione di cui si è già detto e i cui effetti più
rilevanti si avvertiranno a partire dal 1923, anno in cui il Governo, attraverso il
regio decreto 25 gennaio 1923, n. 87, intensifica pesantemente la riduzione del
personale iniziata con la riforma del 1919. La dispensa di servizio venne attuata, quindi, non solo nei confronti degli impiegati anziani per età o servizio, di
quelli inabili per motivi di salute o per incapacità e di quelli che dessero scarso
29
Art. 55, r.d. 1971/1919: “1. Entro sei mesi dalla data di pubblicazione del presente decreto saranno dispensati dal servizio gli impiegati che, a giudizio del comitato, di cui all'art. 57, non
corrispondano per capacità, diligenza, assiduità o condotta alle esigenze dell'ufficio. 2. Saranno
in ogni caso sottoposti al giudizio del comitato gli impiegati di cui all'art. 41.”
30
Art. 59, r.d. 1971/1919: “1. Fino a due anni dalla pubblicazione del presente decreto, saranno
collocati a riposo gli impiegati di grado inferiore a direttore generale, che abbiano compiuto i
65 anni di età e almeno 20 anni di servizio o abbiano compiuto 40 anni di servizio, quando, a
giudizio del consiglio di amministrazione, non siano più in grado di continuare utilmente le loro funzioni. 2. Saranno in ogni caso collocati a riposo gli impiegati che abbiano attualmente
grado non superiore a quello di direttore capo di divisione o equiparato e che abbiano compiuto
65 anni di età e 40 anni di servizio. 3. Agli impiegati, di cui ai comma precedenti, sarà corrisposta una indennità a norma del secondo comma dell'articolo 58.”
31
Art. 62, r.d. 1971/1919: “1. Gli impiegati, che ne facciano domanda nel termine di un anno
dalla pubblicazione del presente decreto, sono collocati a riposo o dispensati dal servizio,
quando concorra il consenso dell'amministrazione da cui dipendono, e l'adesione del ministero
del tesoro. 2.Ad essi, quando non abbiano gli anni di servizio richiesti per conseguire la pensione o l'indennità stabilita dalle disposizioni vigenti, sarà corrisposta una indennità pari ad un
anno di stipendio.”
28
rendimento di lavoro, ma anche nei confronti del personale che non si trovasse
nelle suindicate condizioni, al solo spasmodico fine di raggiungere l’obbiettivo della “eliminazione dell’eccedenza” (art. 4). Una epurazione alla quale si diede
corso ancora prima che venissero approvate le tabelle numeriche del personale
di ciascuna amministrazione e che non coinvolse i gradi dirigenziali delle amministrazioni, i quali, al contrario, fecero parte della grande macchina
dell’epurazione, venendo chiamati a gestire la riduzione dell’ eccedenza, o entrando a far parte di apposite commissioni o esprimendo pareri sulle capacità e
sulle attitudini degli impiegati.
Dal canto suo la giurisprudenza amministrativa del periodo si allineò con gli
obbiettivi del legislatore, dimostrando tutta la fragilità della sua funzione garantistica nei confronti degli impiegati e giungendo quasi a mettere in dubbio la
principale caratteristica del pubblico impiego: la stabilità del posto. Le pronunce del Consiglio di Stato si mossero su due linee guida: da una parte si affermò
che: “il giudizio sul rendimento di un impiegato può e deve desumersi da una
valutazione complessiva, che tenga conto insieme della maggiore o minore assiduità all’ufficio e del modo con cui il servizio è stato disimpegnato. In sede di applicazione
di
una
legge
eccezionale,
che
mira
alla
riforma
dell’amministrazione ed alla epurazione del personale, il giudizio delle specia-
29
li commissioni, alle quali è attribuita la delicata funzione di formulare le proposte di esonero, pur dovendo tener conto delle annuali qualifiche degli impiegati, non deve essere ad esso pedissequo, avendo un diverso e più ampio contenuto e potendo anche investire l’apprezzamento che i capi degli uffici hanno dato dei loro dipendenti”32;; dall’altra che “la sfera dei diritti acquisiti, che sono dalla legge dichiarati intangibili, non si estende oltre lo stato economico
dell’impiegato, cioè la determinazione del corrispettivo dovuto per la prestazione d’opera, restando escluso tutto quanto concerne l’ordinamento degli uffici, i rapporti gerarchici e disciplinari e le aspirazioni del funzionario a successivi avanzamenti di carriera”, e quindi tutta quella parte che “deve necessariamente ritenersi rimessa all’insindacabile e discrezionale criterio delle pubbliche amministrazioni, alle quali non può disconoscersi di introdurre negli
ordinamenti dei pubblici uffici tutte quelle riforme e quelle innovazioni che
siano richieste nell’interesse generale”33. Il Consiglio di Stato, aderì perfettamente agli intenti legislativi dimostrando la chiara volontà di rispondere oltremodo alla attese del Governo, interpretando le leggi sulla riduzione delle eccedenze in maniera anche più dura di quanto il dato legislativo sembrasse sugge-
32
33
Cons. St., IV, 2 febbraio 1923, in “Riv. pubbl.”, 1923, p. 110.
Cons. St., IV, 27 novembre 1922, in “Giust. amm.”, 1922, p. 402.
30
rire34 sulla base dell’assunto che “il diritto pubblico amministrativo non è solo
formato dalle leggi e dai regolamenti scritti, ma anche da norme generali,
prima fra tutte quella che l’interesse generale non deve essere subordinato o sacrificato ad interessi singoli o di classe”35.
34
Cons. St., IV, 16 gennaio 1923, in “Riv. pubbl.”, 1923, p. 98: “L’obbligo di comunicare all’impiegato i motivi specifici del suo esonero a’ termini dell’art. 1 del r.d. 20 ottobre 192, n. 1411 (contenente le norme esecutive delle legge 13 agosto 1921, n. 1080) deve ritenersi assolto
mediante indicazione di una delle tre categorie per le quali la proposta di esonero è dalla legge
autorizzata per motivi di salute, per incapacità, per scarso rendimento di lavoro. Poiché la proposta di esonero deve farsi in base ai precedenti di servizio e ai rapporti scritti dei superiori deve ritenersi legittima la proposta quando abbia luogo in seguito ad una speciale inchiesta che
accerti l’incapacità dell’impiegato. Il vizio di eccesso di potere in un provvedimento di esonero potrebbe sussistere solo se risultasse una manifesta ingiustizia o una aperta e palese contraddizione tra il provvedimento stesso e le risultante degli atti”;; Cons. St. IV, 15 dicembre 1922, in “Giust. amm.”, 1922, p. 477: “Il procedimento per l’esonero dal servizio di un impiegato per scarso rendimento è qualche cosa di essenzialmente diverso dal procedimento disciplinare e
non richiede, quindi, l’applicazione delle garanzie procedurali stabilite per questo ultimo a favore degli interessati;; non è possibile, però, l’indicazione dei fatti concreti da cui risulti lo scarso rendimento, ma basta la semplice motivazione, ai sensi dell’art. 1, reg. 22 ottobre 1921, n. 1411, per l’esecuzione della legge 13 agosto 1921, n. 1080, sulla riforma dell’amministrazione dello Stato”;; Cons. St., IV, 21 aprile 1923, in “Giust. amm.”, 1923, p. 338: “Quando l’esonero sia motivato da scarso rendimento, si può e si deve aver riguardo soltanto all’effettivo ed utile lavoro prestato, prescindendo dalle cause, che non è necessario siano ascrivibili a colpa
dell’esonerato;; e quindi valutabili agli effetti dell’esonero sono pure le assenze per malattia o per serie ragioni di famiglia”;; Cons. St., IV, 2 febbraio 1923, in “Giust. amm.”, 1923, p. 69: “Il fatto che le assenze dal servizio di un’impiegata telefonica si siano verificate per causa di gestazione, benché per regolamento sia stabilito in un primo tempo sia da considerarsi
l’impiegata in congedo straordinario, e in un secondo sia collocata in aspettativa per infermità, non esclude che tali assenze possano essere valutate come un elemento per determinare il minore rendimento dell’impiegata stessa. I motivi di salute in base ai quali l’impiegata fu esonerata, non è necessario sussistano al momento dell’esonero, ma solo al momento in cui fu attestata dalla visita medica la inidoneità a prestare servizio”. 35
Cons. St., IV, 12 maggio 1923, in “Riv. pubbl.”, 1924, p. 10.
31
3.1 – Le riforme De Stefani del biennio 1923 – 1924.
Il punto di svolta del periodo fascista in materia di pubblico impiego è rappresentato dal biennio 1923-1924.
Per prima cosa, con pedissequa fedeltà rispetto alle teorizzazioni del movimento fascista, nel 1923 il Ministro De Stefani emanò due provvedimenti legislativi
con i quali venne definitivamente sistema la materia dell’organizzazione dei
pubblici uffici: il r.d. 11 novembre 1923, sull’ordinamento gerarchico del personale civile e militare dello Stato e il r.d. 30 dicembre 1923, n. 2960, riguardante lo stato giuridico degli impiegati civili dello Stato; inoltre con i rr.dd. 26
giugno 1924, n. 1054 e 26 giugno 1924, n. 1058 venne affidata al giudice amministrativo (Consiglio di Stato e Giunta Provinciale Amministrativa) la giurisdizione esclusiva in materia di impiego pubblico.
L’intento delle riforme del 1923 di “attuare la coordinazione della struttura
amministrativa con la struttura politica del Regime”36 non rimase certo nascosto, ma anzi trovò esplicazione nella Relazione al Re che accompagnò il r.d.
2960 del 1923: “il rapporto di pubblico impiego non si concretizza in una ordinaria prestazione d’opera alla quale corrisponde un semplice e materiale 36
A. DE STEFANI, Prefazione a R. Spaventa, “Burocrazia, ordinamenti amministrativi e fascismo”, p. 5.
32
corrispettivo economico, ma bensì in un rapporto etico per cui l’impiegato è ammesso, normalmente per tutta la vita, nella compagine amministrativa affinché dedichi ad esse tutte le proprie forze d’ingegno e di cultura, nell’ambito degli scopi politici e sociali che sono proprio dello Stato. Si tratta, pertanto, di
un rapporto di fedeltà che solo può contrarre colui che, per la sua mentalità e
per le sue inclinazioni, viva ed agisca conformemente alle tendenze ideali e
pratiche che sono proprie dell’amministrazione nel ciclo storico in cui l’impiegato deve esplicare l’opera sua. Non è quindi ammissibile che l’impiegato si introduca nella compagine amministrativa con spirito che dissenta da quelle tendenze e portando in sé la restrizione mentale di prestare
l’opera propria apparentemente a favore degli scopi che inspirano la condotta dell’amministrazione, ma, segretamente e simultaneamente, con l’intento di contribuire a distruggere l’ordinamento, del quale egli dovrebbe essere per
ragioni etiche e giuridiche, il leale custode e il cosciente fautore” 37.
La disciplina dei due regi decreti del 1923 si caratterizzò per la massima gerarchizzazione dell’apparato, sia per quanto riguarda i gradi38, sia per quanto ri-
37
Testo integrale della Relazione al Re, allegata al r.d. 30 dicembre 1923, n. 2960
Il personale viene diviso in tre gruppi – A, B e C – a seconda del diploma richiesto per
l’accesso in carriera;; all’interno di ciascun gruppo vi è una distinzione in gradi, con l’aggiunta di due gradi iniziali per la carriera del gruppo C e per quella di talune categorie di funzionari
degli altri due gruppi (art. 2, r.d. 2395/1923).
38
33
guarda le retribuzioni39, venendo sconfessati i capisaldi della riforma del 1919:
venne infatti re-introdotto il sistema del “ruolo chiuso” e quello della gerarchia
dei gradi negli scatti retributivi. Il modello gerarchico di riferimento fu, sostanzialmente, quello militare; con un significato che va al di là della semplice adozione di un modello organizzativo e che vuole, in realtà, mutuarne lo spirito.
Complessivamente la riforma De Stefani accentua, notevolmente, lo spirito autoritativo del rapporto con la Pubblica Amministrazione allo scopo di assicurare “una disciplinata e solerte prestazione d’opera” 40.
Alle riforme del 1923 si affianca, in poco meno di un anno, la cristallizzazione
legislativa della giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo in materia
di pubblico impiego. Tale scelta non giunse certo inaspettata, sia perché frutto
di un folto dibattito dottrinale che aveva animato gli anni precedenti, sia perché
lo stesso Consiglio di Stato aveva già più volte dimostrato la chiara propensione ad attrarre nella sua sfera di competenza il maggior numero possibile di conflitti relativi al personale dipendente dalla Pubblica Amministrazione.
39
Per quanto riguarda l’aspetto retributivo, viene introdotto il carattere fisso dello stipendio per i primi quattro gradi e il carattere variabile, in rapporto al gruppo e al grado, per gli altri. Gli
scatti di retribuzione vengono fatti dipendere dall’anzianità e vengono calcolati in modo proporzionale all’interno di ciascun grado. Il meccanismo è strutturato, però, in modo tale che il limite massimo dello stipendio di un grado non possa superare quello minimo del grado superiore. Questo al fine di evitare l’inconveniente che aveva caratterizzato la legislazione precedente e che aveva suscitato malumori e critiche nel corpo impiegatizio (art. 4, r.d. 2395/1923).
40
Relazione al Re, allegata al r.d. 30 dicembre 1923, n. 2960.
34
In realtà la riforma del 1924, che arrivò anche su una spinta tecnico – giuridica
basata sull’estrema difficoltà di differenziare, in un rapporto di pubblico impiego, gli interessi legittima dai diritti soggettivi, con la conseguente difficoltà
di individuare, di volta in volta, il giudice competente, non fu scevra da considerazioni di carattere politico. Credere che il motore della riforma del 1924 sia
esclusivamente quello giuridico sarebbe mera illusione. D’altronde già nella Relazione al Re relativa al r.d. 30 dicembre 1923, n. 2840 si affermava chiaramente che nelle materie demandate alla competenza esclusiva è “così connaturato col diritto l’interesse pubblico che è impossibile, o assai difficile, separare l’uno dall’altro, mentre l’interesse suddetto è così prevalente ed assorbente da
far scomparire o affievolire la portata effettiva della questione patrimoniale di
diritto privato” 41.
E’ sicuramente vero e fuori da ogni dubbio che l’introduzione della giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo per le controversie in materia di
pubblico impiego comportò una razionalizzazione ed una semplificazione del
sistema della tutela, venendo vista con assoluto favore dai giuristi del tempo i
quali rivendicavano la maggiore preparazione in materia dei giudici amministrativi, essendo questi ultimi dotati di “quella speciale sensibilità giuridica che 41
Relazione al Re, allegata al r.d. 30 dicembre 1923, n. 2840.
35
occorre avere per conoscere delle controversie nascenti dai rapporti giuridici
pubblici, che non si acquista col solo studio degli istituti di diritto pubblico sostanziali e processuali, ma conoscendo a fondo l’atmosfera in cui vivono, acquistandone particolare fisionomia, quei rapporti medesimi” 42. E’ altrettanto
vero, tuttavia, che tale scelta sottolineò che la competenza del giudice amministrativo conseguì all’esigenza di privilegiare, all’interno del complesso rapporto che l’impiegato intrattiene con la Pubblica Amministrazione, il momento della pubblica funzione su quello della prestazione di lavoro, di impronta privatistico – contrattuale. E tale privilegio per la funzione pubblica poté essere assicurato, in linea con la tradizione, solo attraverso la devoluzione della controversie in materia di pubblico impiego al giudice amministrativo, che, per natura
e funzioni, è tradizionalmente più vicino alle ragioni del pubblico interesse.
La riforma del 1924, che finirà per influenzare tutto il rapporto di pubblico impiego successivo, comportò lo scaturire di tre conseguenze: “1) l’unità e la compattezza della materia attraverso l’elaborazione di principi rigidi riconducibili ad un unico modello di rapporto, qualificato come pubblico per la natura
dell’ente assuntore;; 2) la maggiore ed ulteriore profondità del distacco esistente tra rapporto di lavoro nella pubblica amministrazione e rapporto di la42
S. LESSONA, Gli sviluppi necessari della giurisdizione amministrativa, in Riv. pubbl., 1931,
I, pp. 466 ss..
36
voro nell’impresa; 3) la definitiva individuazione e delimitazione di una categoria di prestatori d’opera legittimamente sottoprotetti quanto all’esercizio dei propri diritti soggettivi” 43.
4. – Dal 1923 al 1948: la lunga stati dell’amministrazione italiana.
Negli anni 30 e 40 l’assetto legislativo dell’amministrazione italiana rimase immutato. Approvate le riforme De Stefani, che saranno sostitute, e il dato è
significativo, solo dal testo unico del 1957, l’apparato amministrativo non venne più sottoposto a interventi da parte del legislatore.
Certo, i numeri dell’epurazione annunciati da Mussolini non vennero affatto raggiunti e, certo, il sistema del collocamento a riposto mostrò tutta la sua inefficacia a raggiungere gli obbiettivi sperati.
Vero è, però, che negli anni trenta furono approvate una serie di normative di
settore44, fortemente innovative, che intervennero ad organizzare competenze
43
M. RUSCIANO, L’impiego pubblico in Italia, Bologna, Il mulino, 1978, p. 100.
37
inedite del potere pubblico, a creare rapporti nuovi tra lo Stato e gli interessi, a
sviluppare funzioni economiche e sociali sino ad allora sconosciute.
L’amministrazione, quindi, nella sua struttura rimasta immutata dal 1923, vide un cambiamento drastico delle sue funzioni: emerse in quegli anni, con violenza ma poca coscienza nell’esterno, un’amministrazione legislatrice, capace di
incidere, attraverso la specifica competenza tecnica di riferimento, sui contenuti delle nuove leggi (ad esempio, tra le tante esperienze del periodo, si può citare la riforma del 1933 sulla previdenza, che vide la luce grazie all’apporto fondamentale degli enti di settore e, per essi, dei dirigenti e dei funzionari di
maggiore esperienza) e un’amministrazione regolatrice di nuovi interessi, la cui
determinazione comportò una crescita esponenziale della sua discrezionalità
attraverso l’esplicarsi di quello che un giovanissimo Massimo Severo Giannini,
nel 1939, definì come il “potere di apprezzare in un margine determinato
44
Ci si riferisce in particolare ai testi unici sulla pubblica sicurezza, sulla finanza locale, sulla
pesca, sul catasto (1931), a quelli sulle acque ed impianti elettrici, sull’istruzione superiore,
sulla strada (1933), a quelli su comuni e provincie, sulla Corte dei Conti, sui consigli provinciali dell’economia corporativa (1934), sulla previdenza (1935), sull’assicurazione obbligatoria contro l’invalidità e la vecchiaia, sulla tubercolosi, sulla mutualità scolastica, sulla maternità,
sulle casse rurali ed artigiane (1937), sull’edilizia popolare ed economica (1938), sulla protezione della selvaggina e l’esercizio della caccia (1939), sull’istituzione della scuola (1940) e sulla legge urbanistica (1942).
38
l’opportunità di soluzioni possibili rispetto alla norma amministrativa da attuare” 45.
L’amministrazione italiana, nonostante un organizzazione arcaica, basata sul
modello gerarchico e su una stretta dipendenza dal Ministro di riferimento (figura che, nel periodo fascista, venne sostituita dall’accentratore Mussolini), negli anni che precedono la secondo guerra mondiale, inizia a sviluppare quelle
funzioni che le saranno proprie nei decenni successivi. Si tratta di una fase embrionale, che risente della morsa del fascismo, tanto come ideologia politica
quanto come strumento di controllo, nella quale, tuttavia, per la prima volta
nella storia amministrativa italiana l’apparato burocratico è visto non solo come mero mezzo di attuazione della linea di governo, supino ed inerme di fronte
alla volontà del partito al comando, ma anche come strumento di gestione discrezionale degli interessi pubblici, anche se nell’ ambito di movimento determinato dalla legge.
Certo, siamo molto lontani dal poter dire che l’amministrazione è indipendente dal vertice politico (ma, d’altronde, nel 2011, lo si può dire?), anche se, paradossalmente, i dirigenti apicali hanno più autonomia di quanta ne avessero negli anni precedenti al fascismo; e certo ci troviamo di fronte ad un corpo di
45
S. CASSESE, L’opera di Massimo Severo Giannini negli anni Trenta, in Materiali per una
storia della cultura giuridica, XX, n. 2, dicembre 1990, pp. 419 ss.
39
funzionari che, sia qualitativamente che quantitativamente, è incapace di far
fronte alle nuove funzioni che gli sono attribuite. Da una parte pecca
d’inesperienza, dall’altra soffre un’ assetto arcaico che non è in grado di metterla al passo con i tempi. A questo si deve aggiungere che il nodo della qualificazione del rapporto che lega il dipendente alla Pubblica Amministrazione
rimane irrisolto per volontà esplicita del lavoratore che, nel ritoccare la materia
del pubblico impiego, abbandona scientemente il problema.
La seconda guerra mondiale e la conseguente caduta del fascismo non comportano la rottura del passato, ma, piuttosto, il recupero della continuità con il periodo precedente. Le norme regolatrici rimangono quelle del periodo mussoliniano, seppur liberate dalle infezioni fasciste.
Una riforma dell’apparato burocratico veniva sentita come necessaria 46, ma
doveva fare i conti con la diffidenza che la stessa burocrazia dimostrava nei
confronti dei fini di razionalizzazione della materia. Alla fine del 1948
un’indagine promossa dalla Presidenza del Consiglio dei Ministri sui temi della ristrutturazione amministrativa si risolse in una serie di riposte generiche e
formule vuote, le quali ebbero l’unico merito di evidenziare la sostanziale e46
Nel 1946, nell’articolo Bisogna produrre pubblicato su “Il tempo”, l’allora Ministro del Tesoro Epicarmo Corbino sosteneva che il rendimento del personale pubblico dopo la guerra era
nettamente calato, che lo stesso orario di lavoro dalle 7-8 ore normali si era ridotto a 4 ore effettive e che l’inerzia dei dipendenti pubblici rallentava la ripresa economica del paese.
40
straneità delle burocrazie ministeriali ai temi della riforma (e, a guardare questo
dato oggi, si intravede l’inizio di una tendenza che ancora oggi caratterizza la
nostra amministrazione e, in particolar modo, i suoi ruoli gerarchici, i quali finiscono per subire le riforme senza condividerne le finalità).
Tutte le speranze di riforma e di adeguamento della Pubblica Amministrazione
vengono, quindi, riposte nell’Assemblea Costituente, la quale, però, non dedica ai problemi dell’amministrazione tutta la necessaria attenzione. 5. – L’art. 97, Cost.: i lavori preparatori e la “costituzionalizzazione” della diversità tra lavoro pubblico e privato.
Il dibattito della Costituente fu, sul tema del rapporto di lavoro con la Pubblica
Amministrazione, piuttosto scarno. Nel dibattito attorno all’ art. 54 l’attenzione maggiore fu dedicata a problemi minori ed aspetti secondari, quali, ad esempio,
l’opportunità che i funzionari, se eletti membri del Parlamento, potessero o meno, e in quale misura, progredire nella carriera per tutta la durata del mandato e davvero poco si disse sulle problematicità del rapporto di lavoro pubblico.
41
Diversamente, leggendo la discussione che precedette la stesura definitiva
dell’art. 97
47
, appare chiara, oltremodo cristallina, l’ideologia che mosse l’Assemblea Costituente nella formulazione della sezione II del Titolo III dedicata alla Pubblica Amministrazione.
47
Questa l’evoluzione dell'articolo 97, Cost. nei lavori preparatori: Il 20 settembre 1946 la terza Sottocommissione della Commissione per la Costituzione approva il seguente testo: “1. La Repubblica garantisce a tutti i cittadini il libero esercizio della propria attività professionale nel
rispetto delle leggi. 2. L'accesso agli impieghi nelle pubbliche amministrazioni e negli enti di
diritto pubblico è libero ai cittadini, salvo le limitazioni stabilite dalla legge, senza distinzione
di sesso, razza, religione e fede politica. 3. A tali impieghi si accede mediante concorso. 4. Per
l'insegnamento universitario i concorsi possono essere aperti anche a cittadini stranieri”. Il 26
ottobre 1946 nella terza Sottocommissione della Commissione per la Costituzione il Presidente
Ghidini dà lettura degli articoli approvati. “Il seguente articolo sostituisce quello approvato nella seduta del 20 settembre 1946: “Art. 7- Attività professionale: “1. La Repubblica garantisce a tutti i cittadini il libero esercizio della propria attività professionale. 2. L'accesso agli impieghi
nelle pubbliche Amministrazioni e negli Enti di diritto pubblico è libera ai cittadini, salvo le
limitazioni stabilite dalla legge, senza distinzione di sesso, razza, religione e fede politica. 3. A
tali impieghi si accede mediante concorso. 4. Per l'insegnamento universitario i concorsi possono essere aperti anche a cittadini stranieri”. Il 14 gennaio 1947 la prima Sezione della seconda Sottocommissione della Commissione per la Costituzione approva il seguente articolo: “Ai pubblici impieghi si accede mediante concorso, salvo i casi stabiliti dalla legge”. Il testo definitivo del Progetto di Costituzione elaborato dalla Commissione fu il seguente: Art. 91: “1. I pubblici uffici sono organizzati in base a disposizioni di legge, in modo da assicurare il buon
andamento e l'imparzialità dell'amministrazione. Nell'ordinamento degli uffici sono determinate le sfere di competenza, le attribuzioni e le responsabilità proprie dei funzionari. 2. Agli impieghi nelle pubbliche amministrazioni e negli enti di diritto pubblico si accede mediante concorso, salvo i casi stabiliti dalla legge. 3. I pubblici impiegati sono al servizio esclusivo della
Nazione. 4. I pubblici impiegati membri del Parlamento non possono conseguire promozioni se
non per anzianità”. Il 24 ottobre 1947, nella seduta pomeridiana, l'Assemblea Costituente approva il seguente articolo: “1. I pubblici uffici sono organizzati in base a disposizioni di legge,
in modo da assicurare il buon andamento e l'imparzialità dell'amministrazione. Nell'ordinamento degli uffici sono determinate le sfere di competenza, le attribuzioni e le responsabilità proprie dei funzionari. 2. Agli impieghi nelle pubbliche amministrazioni si accede mediante concorso, salvo i casi stabiliti dalla legge. 3. I pubblici impiegati sono al servizio esclusivo della
Nazione. 4. I pubblici impiegati membri del Parlamento non possono conseguire promozioni se
non per anzianità”. Il testo così elaborato venne portato in Assemblea generale ed approvato nella seguente formulazione: “1. I pubblici uffici sono organizzati secondo disposizioni di legge, in modo che siano assicurati il buon andamento e l'imparzialità dell'amministrazione. 2.
Nell'ordinamento degli uffici sono determinate le sfere di competenza, le attribuzioni e le responsabilità proprie dei funzionari. 3. Agli impieghi nelle pubbliche amministrazioni si accede
mediante concorso, salvo i casi stabiliti dalla legge”.
42
Il dibattito si sviluppò su piani diversi che, nel corso delle varie sedute, finiranno inevitabilmente per intersecarsi: in Commissione di discusse se costituzionalizzare l’accesso ai pubblici uffici mediante concorso; se, di contro, lasciare
il legislatore ordinario libero di scegliere; se e come disciplinare la responsabilità dei pubblici funzionari; in che modo codificare una formula che riuscisse a
garantire il pubblico dipendente di fronte alle influenze politiche. La preoccupazione che muove il dibattito costituzionale non riguarda mai i diritti del pubblico dipendente come lavoratore e il punto focale è sempre la natura pubblica
del suo datore di lavoro.
Il primo nodo problematico affrontato in Assemblea fu quello dell’accesso alla Pubblica Amministrazione per il tramite del concorso pubblico. Einaudi, a tal
proposito, nella seduta del 14 gennaio 1947, fece presente “di essere assai
dubbioso sull'opportunità di inserire nella Costituzione il primo articolo proposto dall'onorevole Bozzi, con cui in sostanza si stabilisce che si può accedere
ai pubblici impieghi soltanto per concorso o per elezione del popolo o per libera scelta della pubblica Amministrazione, e ciò perché possono aversi anche
altre forme di accesso alle cariche pubbliche. Così, per quanto riguarda l'insegnamento universitario, la chiamata diretta da parte della Facoltà non è un
concorso, né un'elezione, né una libera scelta della pubblica Amministrazione.
43
Non v'è ragione, inoltre, perché a certi gradi della Magistratura non si possa
consentire l'accesso per vie diverse da quelle previste nell'articolo proposto
dall'onorevole Bozzi: ad esempio, i magistrati di un certo grado potrebbero
benissimo essere scelti tra avvocati che abbiano dato ottima prova della loro
capacità. Tutta la magistratura inglese è scelta con questo sistema ed ha sempre dato prove di un notevole spirito di indipendenza, il che deriva anche dal
fatto che i magistrati inglesi non hanno una carriera. Comunque, il progresso
finora conseguito in Inghilterra nel campo della magistratura e dell'insegnamento superiore è dipeso proprio dal fatto che ai ministri è stata tolta ogni facoltà di nominare magistrati e professori universitari”48. L’On. Fuschini, in linea con l’idea di Einaudi, affermò l’opinione che “la Costituzione debba contenere soltanto principi di carattere generale sullo stato giuridico degli impiegati: è al legislatore ordinario poi che deve essere affidato il compito di sviluppare tali principi. È inutile, quindi, fissare norme di carattere costituzionale, per stabilire se ai pubblici impieghi si possa accedere per concorso o chiamata diretta o elezione: vi possono essere, infatti, altri modi per reclutare gli
impiegati, come ad esempio quello mediante contratto. Sarebbe inopportuno
fissare nella Costituzione i sistemi di reclutamento dei pubblici impiegati, per48
Seduta del 14 gennaio 1947, prima Sezione, seconda Sottocommissione della Commissione
per la Costituzione discute sui rapporti di pubblico impiego.
44
ché ciò riguarda il processo di organizzazione dello Stato a seconda delle varie esigenze del momento” 49. A loro si accodò anche l’Onorevole Fabbri, il
quale ritenne che “le norme riguardanti il pubblico impiego da inserire nella
Costituzione abbiano la loro sede normale nella legge sullo stato giuridico degli impiegati” 50 51.
Dalla parte opposta del dibattito l’Onorevole Tosato, il quale ritenne che, “affinché possa essere garantito il rispetto del principio dell'eguaglianza di tutti i
cittadini, per la parte della Costituzione relativa ai rapporti di pubblico impiego, sarebbe necessario adottare una norma costituzionale, in cui fosse affermato che ai pubblici uffici non si può accedere che per concorso, salvo i casi
49
Seduta del 14 gennaio 1947, prima Sezione, seconda Sottocommissione della Commissione
per la Costituzione discute sui rapporti di pubblico impiego.
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per la Costituzione discute sui rapporti di pubblico impiego.
51
L’Onorevole Corbino, in totale controtendenza rispetto al resto della Commissione, fu
l’unico a sostenere la necessità di eliminare dal testo Costituzionale qualsiasi riferimento alla Pubblica Amministrazione, proponendo la soppressione dell’intero art. 97, Cost.. Tosato, a
nome della intera Commissione, respinse tale proposta “radicale” con il seguente intervento: “questo articolo contiene disposizioni aventi grande importanza costituzionale: si fissa il principio che l'organizzazione dei pubblici uffici deve essere fatta per legge; si fissa quello che
nell'ordinamento degli uffici sono determinate le sfere di competenza al fine di precisare la responsabilità personale dei funzionari; si stabilisce il principio fondamentale dell'obbligo del
concorso per coprire i pubblici uffici, ed infine quelli che i pubblici impiegati sono esclusivamente al servizio dell'Amministrazione e non possono, quando sono membri del Parlamento,
conseguire promozioni se non per anzianità. Sono tutti principî di carattere fondamentale, di
importanza costituzionale, che la Commissione ritiene opportuno vengano fissati nella Costituzione. Si vedrà poi, in sede di coordinamento, se sia opportuno togliere qualche sovrabbondanza verbale: ma la sostanza dell'articolo dovrebbe rimanere”.
45
in cui la legge non disponga altrimenti” 52, proponendo di inserire nella Costituzione il seguente principio: “Ai pubblici impieghi si accede mediante concorso, salvo i casi stabiliti dalla legge”. Il Presidente Terracini, preoccupato di salvaguardare la meritocrazia nell’accesso alla Pubblica Amministrazione, si mostrò d'accordo con l'onorevole Tosato circa “l’opportunità di affermare nella Costituzione che ai pubblici impieghi si debba accedere per concorso.
Un'affermazione di tal genere starebbe a precisare in forma solenne che non si
può entrare a far parte di una pubblica Amministrazione per tramite di favoritismi” 53.
Nel dibattito sull’opportunità di inserire nella Costituzione il principio
dell’accesso alla Pubblica Amministrazione mediante concorso pubblico si inserirono alcune considerazioni, quasi fossero solo degli incider tantum, intorno
alla necessità di affermare l’indipendenza del pubblico impiegato rispetto al potere politico. Mortati, nell’esprimere la volontà di inserire un corpo di norme che riguardino specificamente la Pubblica Amministrazione, affrontò a viso
aperto il problema sostenendo la necessità “di assicurare ai funzionari alcune
garanzie per sottrarli alle influenze dei partiti politici. Lo sforzo di una costitu52
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per la Costituzione discute sui rapporti di pubblico impiego.
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zione democratica, oggi che al potere si alternano i partiti, deve tendere a garantire una certa indipendenza ai funzionari dello Stato, per avere un'amministrazione obiettiva della cosa pubblica e non un'amministrazione dei partiti. A
tale proposito la Costituzione di Weimar stabiliva che i funzionari erano a servizio della collettività e non dei singoli partiti”54.
Il Presidente Terracini, in posizione adiacente a quella dell’Onorevole Mortati, portò in Assemblea Costituente la concezione pubblicistica del rapporto di lavoro del pubblico impiegato, il quale svolge le sue funzioni “al servizio della
collettività” 55, esplicitando che “i pubblici impiegati sono subordinati a un determinato impegno, a differenza di coloro che si dedicano al commercio, alle
professioni liberali e in genere a qualsiasi altro lavoro; ed è appunto l'impegno di compiere la propria opera al servizio della collettività, che giustifica
poi l'idea di non riconoscere il diritto di sciopero a questa categoria di lavoratori, cosa che invece a nessuno mai è venuto in mente di contestare agli impiegati privati” 56. Fuschini, ritenne che “si debba dire che i funzionari sono al
servizio dello Stato e non già della collettività, perché la collettività è un con-
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cetto generico, mentre lo Stato rappresenta sempre qualcosa di concreto” 57. Il
Presidente Terracini, nel mettere in discussione la proposta dell'onorevole Mortati, la quale recitava “I pubblici impiegati sono al servizio della Nazione ed è
garantita la loro piena indipendenza da influenze politiche” e rispetto alla quale lo stesso Mortati, dichiarò che la formula da lui proposta “tende a completare la disposizione contenuta in altra parte del progetto della Costituzione, con
cui si stabilisce che tutti i cittadini sono ammessi ai pubblici impieghi senza distinzione di fede politica. Difatti, anche durante lo svolgimento della carriera,
l'impiegato dev'essere garantito da influenze politiche” 58, sottolineò che “rispetto all'idea di garantire agli impiegati l'indipendenza da influenze politiche,
essa è già affermata in altra parte del progetto della Costituzione, in cui è espressamente stabilito che tutti i cittadini sono ammessi ai pubblici impieghi
senza distinzione di sesso, di razza, di religione o di fede politica. La fede politica degli impiegati quindi non può essere ragione di un loro allontanamento
dal pubblico impiego o di misure di carattere disciplinare” 59.
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per la Costituzione discute sui rapporti di pubblico impiego.
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per la Costituzione discute sui rapporti di pubblico impiego.
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L’Onorevole Nobile, nel dichiararsi d’accordo con la proposta dell’Onorevole Mortati affermò l’esigenza di “garantire l'indipendenza del funzionario da influenze politiche, perché, ad esempio, è sempre possibile il caso di un Ministro
che voglia perseguitare un funzionario per le sue idee politiche” 60 61.
Quello che chiaramente emerge dagli interventi dei Costituenti è che essi mostrarono chiaramente di privilegiare la veste di “funzionario” del pubblico dipendente, aderendo ad una concezione pubblicista del rapporto di lavoro e mirando a salvaguardare l’interesse della pubblica amministrazione piuttosto che
quello del prestatore di lavoro. D’altronde la preoccupazione di garantire l’indipendenza del funzionario non muove dalla tutela del dipendente di fronte alla possibilità che quest’ultimo si trovi succube della volontà politica del momento, ma nasce esclusivamente dall’esigenza di assicurare l’imparzialità e il buon funzionamento della Pubblica Amministrazione, in modo che questi non
vengano sacrificati sull’altare degli interessi di parte o dei capricci politici dei Ministri di riferimento. E’ chiarissima l’inversione di tendenza rispetto agli articoli sul lavoro nell’impresa, attraverso i quali, ad opera della legge, costituzionale e non, e della contrattazione collettiva, si costruisce un sistema di tutela
60
Seduta del 14 gennaio 1947, prima Sezione, seconda Sottocommissione della Commissione
per la Costituzione discute sui rapporti di pubblico impiego.
61
E se si crede che le preoccupazioni dell’On. Nobile siano eccesive, soprattutto nel 2011, si rimanda al cap. III, par. 6.
49
del dipendente, il quale viene difeso dalla posizione di debolezza contrattuale
in cui si viene naturalmente a trovare rispetto al datore di lavoro e dalla supremazia che, di fatto, quest’ultimo esercita su di lui. Tutela che rimane del tutto
sconosciuta al dipendente pubblico, al quale il costituente non riesce a “perdonare” la natura pubblica del datore di lavoro 62.
62
Emblematica, in tal senso, fu la proposta dell’On. Bozzi che prevedeva il riconoscimento costituzionale del divieto di sciopero per i dipendenti pubblici (Prima sezione, Seconda Sottocommissione, seduta del 14 gennaio 1947). Il dibattito sul tema, al di fuori dell’assemblea e dopo l’approvazione della Costituzione, si fa infuocato. Gli ostacoli che vengono opposti al
riconoscimento del diritto di sciopero per i dipendenti pubblici si fondano da un lato
sull’affermata necessità di attendere le leggi regolatrici dello sciopero, secondo la previsione dell’art. 40, Cost.;; dall’altro sull’indiscussa sopravvivenza, allo stesso art. 40, delle norme del codice penale, le quali si accordano molto bene con le disposizioni costituzionali che impongono l’adempimento della funzione pubblica con disciplina ed onore, al servizio esclusivo della nazione. In primo luogo gli artt. 330 e 333 c.p. che puniscono, rispettivamente, i reati di “abbandono collettivo” e di “abbandono individuale” di “pubblici uffici, impieghi, servizi o lavori”, e poi anche l’art. 504 che punisce il reato di “coazione della pubblica autorità mediante
[…] sciopero”. La questione di costituzionalità si pone a partire dal 1958: con la sentenza 2 luglio 1958, n. 45 (in Giur. cost., 1958, p. 569, con nota di C. ESPOSITO) la Corte Costituzionale,
nel dichiarare la legittimità costituzionale dell’art. 333 c.p. afferma che “tale norma […] non può trovare applicazione allorché l’abbandono dell’ufficio, servizio o lavoro costituisca semplicemente partecipazione ad uno sciopero, se ed in quanto questo possa essere considerato
legittimo”. La Corte non si pronuncia su cosa debba intendersi per “sciopero legittimo”;; tuttavia, adottando un criterio che sarà poi alla base delle sue successive decisioni, accenna a quei
“preminenti interressi dell’organizzazione sociale e giuridica che non potrebbero essere subordinati ad un incondizionato ed illimitato esercizio dello sciopero”. Coerentemente con questa sua prima pronuncia, nel 1962 la Corte, pur ritenendo infondata la questione di legittimità
degli artt. 330 e 504 c.p., ritiene ammissibile lo loro applicabilità solo “entro limiti in cui la perseguibilità sello sciopero appare necessitata dal bisogno di salvaguardare dal danno, dal
medesimo derivante, il nucleo degli interessi generale assolutamente preminenti rispetto agli
altri collegati all’autotutela di categoria” (Corte cost., 28 dicembre 1962, n. 123, in Giur. cost.,
1962, p. 1506, con nota di V. CRISAFULLI, Incostituzionalità parziale dell’art. 330 c.p. o esimente dell’esercizio di un diritto?). Infine, con la sentenza 17 marzo 1969, n. 31 (in Giur. cost.,
1969, p. 410, con nota di G. NEPPI MODONA, Sciopero nei pubblici servizi, ordinamento corporativo e politica costituzionale e di R. ZACCARIA, Illegittimità dell’art. 330 c.p.: un’altra sentenza difficile della Corte Costituzionale) la Corte dichiara costituzionalmente illegittimo l’art. 330 c.p. “limitatamente all’applicabilità allo sciopero economico, che non comprometta funzioni o servizi pubblici essenziali aventi carattere di preminente interesse generale ai sensi della Costituzione”. 50
Così, per quanto riguarda l’amministrazione pubblica, a parte lo smantellamento dell’organizzazione di vertice più immediatamente espressiva del regime fascista, si lascia praticamente immutato tutto il resto della struttura. Si dice, incisivamente che “la Costituzione passò sopra gli apparati statali senza toccarli”63.
6. – Il testo unico del 1957.
Gli anni immediatamente successivi all’emanazione della Carta Costituzionale
si caratterizzarono per il consolidamento del modello pubblicistico e per il costante ed inesorabile allontanamento dal diritto del lavoro privato. La dottrina,
alla luce delle norme approvate dall’Assemblea, trovò argomenti di rango costituzionale a sostegno della diversità che intercorreva tra i due rapporti di impiego, quello privato e quello pubblico. L’applicabilità delle norme costituzionali si risolse in un ulteriore affermazione della specialità del rapporto di pub-
63
S. CASSESE, Immunità ed “inefficienza” della burocrazia, in La formazione dello Stato amministrativo, Milano, Giuffrè, p. 227, 1974.
51
blico impiego: ne è un esempio eclatante la riserva di legge in materia di organizzazione degli uffici stabilita dall’art. 97, Cost.64. Alla luce della tradizionale
concezione per cui il rapporto pubblico veniva attratto nella sfera
dell’organizzazione, tale norma fu interpretata come un ostacolo alla piena
ammissibilità della contrattazione collettiva nel settore pubblico, divenendo in
tal modo ulteriore strumento di allontanamento tra impiego pubblico e privato.
Una riforma del pubblico impiego, che, tra le altre cose, recepisse le novità introdotte dal dettato costituzionale, era avvertita come necessaria65. Venne, a tal
fine, costituito l’Ufficio per la riforma amministrativa66, che, con varie denominazioni, sarebbe sopravvissuto fino a divenire l’attuale Dipartimento della funzione pubblica e che agì fin dal 1950. L’ufficio conobbe il suo periodo più felice nei suoi primi 5 anni di vita, quando elaborò una serie di linee guida che,
solo parzialmente, sarebbero confluite nel testo unico del 10 gennaio del 1957,
64
Si veda, in proposito, P. CARETTI, C. PINELLI, U. POTOTCHINIG, G. LONG, G. BORRÈ, La pubblica amministrazione (art. 97 e 98 della Costituzione), Bologna-Roma, Zanichelli-Il Foro Italiano, 1994.
65
D’altronde un’indicazione in tal senso era arrivata proprio dalla Costituente. Il Presidente della Commissione per la Costituzione Meuccio Ruini, nella relazione che accompagnò il Progetto di Costituzione della Repubblica italiana indicò come fosse avvertito da tutti “il bisogno
che il Paese sia bene amministrato, che lo Stato non sia solo un essere politico, ma anche un
buon amministratore secondo convenienza e secondo giustizia. E si sente la tacita invocazione
ad una riforma profonda e semplificatrice”.
66
Per un’analisi approfondita dell’attività e della funzione dell’ufficio si rimanda a G. MELIS,
L’ufficio per la riforma: l’illusione della razionalità, in Lavoro e diritto, X, 2, pp. 213 ss, 1996.
52
n. 367. Alla base del disegno riformatore elaborato dall’ufficio per la riforma amministrativa fu posto il principio cardine del grado funzionale, vera e propria
rivoluzione rispetto alle riforme De Stefani del 1923: si sarebbe trattato, se la
riforma fosse andata in porto così come era stata progettata, di introdurre
un’articolazione organizzativa tale che a ciascun grado corrispondesse una funzione. Un principio evidentemente in grado di sovvertire tutta la filosofia gerarchica che sino ad allora aveva dominato l’ordinamento. Il grado funzionale subì, all’atto della trasformazione in legge, un totale ribaltamento e il testo unico del 1957 non fece altro che consolidare i principi tradizionali di rigidità, gerarchismo e verticismo, impressi nel sistema dei ruoli
chiusi, che da sempre caratterizzavano l’amministrazione italiana. L’idea centrale del passato, secondo cui il rapporto vive nell’esclusivo ambito dell’istituzione amministrativa (dove prevalgono sempre “gli interessi generali
dell’organizzazione dei pubblici uffici, anche se il funzionario è un cittadino
con una sua personalità”68) rimane una pietra angolare del sistema normativo.
Le trionfalistiche affermazioni con le qual il Governo si compiaceva di aver in-
67
Esso raccoglie organicamente la normativa dei decreti delegati nn. 4, 16, 17, 19 e 20 dell’11 gennaio 1956, emanati dal Governo in base alla delega avuta dal Parlamento con la legge 20
dicembre 1954, n. 1181.
68
PRESIDENZA DEL CONSIGLIO DEI MINISTRI, L’attuazione della riforma della pubblica amministrazione, Relazione del Ministro segretario di Stato G. Gonnella al Presidente della Repubblica sullo statuto degli impiegati civili dello Stato, Roma, 1957.
53
trodotto, per il tramite del testo unico, una legislazione più rispondente ai bisogni dell’amministrazione e adeguata al dettato costituzionale, risultano davvero poco fondate;; in realtà non si è fatto altro che “riverniciare con tinte più sfumate lo stato giuridico del 1923, utilizzando la giurisprudenza del Consiglio di
Stato creatasi, ovviamente, proprio su quel testo-base”69. Ciò è tanto più evidente soprattutto se si pensa che la legge delega lascia intravedere qualche tentativo del Parlamento di incidere sensibilmente su qualcuno dei profili tradizionali del pubblico impiego. Il divario, facilmente rintracciabile70, tra i contenuti
della legge delega e quelli delle leggi delegate, rende chiara l’intenzione del Governo di non toccare la spina dorsale del potere burocratico. Intenzione che
si realizzò anche attraverso l’assenso dell’alta burocrazia, che venne tacitata mediante la concessione di vantaggi retributivi e di carriera a fronte di scarse
aperture a nuove ed autonome responsabilità, e del potere sindacale. Il sindaca69
M. RUSCIANO, L’impiego pubblico in Italia, Bologna, Il mulino, 1978.
A titolo esemplificativo, l’art. 2, nn. 15 e 16 della legge delega disponeva che il nuovo statuto dovesse contenere disposizioni relative al “diritto e dovere di ogni impiegato di adempiere
le funzioni di ufficio al servizio esclusivo della Nazione e nel pieno godimento dei diritti e delle
libertà costituzionali”. Tali disposizioni dovevano garantire ai pubblici dipendenti “la massima
tutela delle loro esigenze di ordine individuale, familiare e sociale, nel quadro della più ampia
considerazione della loro personalità”. Questi principi vennero sostanzialmente disattesi nella stesura del testo unico: seppure venne stabilito che l’ammissione ai pubblici impieghi non potesse essere più rifiutata a “giudizio insindacabile dell’amministrazione”, seppure venisse del tutto modificata l’antica formula del giuramento, restò ferma, tra i requisiti necessari di ammissione ai concorsi “la buona condotta”;; essa, certo, non fu più quella “civile, morale e politica”, ma poteva comunque essere valutata discrezionalmente dall’amministrazione. Inoltre fra i doveri dell’impiegato rimane quello di mantenere, sia in ufficio che fuori, una condotta conforme alla dignità delle proprie funzioni.
70
54
lismo pubblico, infatti, nel quindicennio successivo all’entrata in vigore della Costituzione, si distinse nettamente da quello privato: per prima cosa, sotto il
profilo strutturale, perché fu prevalentemente sindacalismo autonomo, espressione di interessi di singole categorie di dipendenti, risultando del tutto scollegato dal mondo del lavoro subordinato nell’impresa;; poi, sotto il profilo delle strategie e delle forme di lotta, perché l’azione dei sindacati pubblici, non disponendo delle strumento tipico del contratto collettivo, si diresse, da un lato,
verso la conquista di forme di “partecipazione” intesa come presenza di rappresentanti del personale degli organi amministrativi (cd. cogestione), e, dall’altro, si espresse in forme di pressione sul Parlamento e sul Governo, volte non
all’introduzione di riforme complessive dell’organizzazione del lavoro e degli uffici, ma alla concessione di vantaggi economici per questa o quella categoria
di dipendenti71; vantaggi che non vennero certo negati da una classe politica
propensa ad una gestione clientelare del potere72.
71
Al Congresso della CGIL del 1949 Di Vittorio parlò dei pubblici dipendenti come di una
“zona depressa nella generale situazione dei lavoratori italiani” (G. DI VITTORIO, Rapporto
sull’attività e le lotte della CGIL al 2° congresso nazionale unitario (Genova, 4-9 ottobre
1949), in I Congressi della CGIL, Roma, 1970 (rist.), vol. III, pp. 46-47); e nel successivo
Congresso del 1952 venne annunciato come un successo il raggiungimento di un accordo tra la
federazione degli statali, aderente alla CGIL, la Dirstat e i sindacati autonomi sulla richieste da
avanzare al Governo per l’adeguamento delle retribuzioni al costo della vita (Cfr. Relazione al
3° Congresso della CGIL (Napoli, 26 novembre-3 dicembre 1952) in I congressi della CGIL,
cit., vol. IV-V, p. 149). Alle richieste di carattere economico si accompagnò sempre la richiesta
di una profonda riforma dell’amministrazione pubblica. Tuttavia si nota subito il modo diverso con cui vengo portate avanti le due rivendicazioni: quella di miglioramenti economici venne
55
7. – Le leggi del 1968 e del 1970: l’ ingresso dei diritti sindacali
nelle Pubbliche Amministrazioni.
Il punto di svolta del pubblico impiego si colloca nella seconda metà degli anni
sessanta.
A concorrere furono diversi fattori: il salto di qualità della politica sindacale,
tanto nel pubblico impiego quanto (e forse anche di più) nel settore privato,
l’ingresso del sindacalismo di tipo confederale nel settore pubblico73,
l’approvazione di una disciplina legislativa limitativa del licenziamenti individuali (l. n.604/1966), l’entrata in vigore dello Statuto dei Lavoratori (l. n. 300/1970) e l’introduzione del processo del lavoro (l. n. 533/1973).
L’insieme di questi eventi comportò, in un chiasmo che rappresenta il primo
germe delle istanze di privatizzazione che verranno, un ribaltamento del rapporto tra impiego pubblico e privato rispetto a quanto accaduto quarant’anni prima: si affermò il problema della estensione delle garanzie riconosciute ai dipendenti privati nel settore del pubblico impiego. D’ora in avanti, in altre paro-
sostenuta da un’ondata di scioperi; mentre quella della riforma degli apparati pubblici viene
espressa soltanto in mozioni e risoluzioni assembleari.
72
Si sviluppò in questo modo la prassi di interventi legislativi “microsezionali” (cd. leggine), che non fecero altro che creare una situazione di estrema frammentazione normativa.
73
Più diffusamente, si veda L. ZOPPOLI, Contrattazione e delegificazione nel pubblico impiego.
Dalla legge quadro alle politiche di privatizzazione, Napoli, Jovene, 1990.
56
le, la separazione del diritto del lavoro privato dal diritto del lavoro pubblico
non costituì più un vantaggio per i funzionari dell’amministrazione, per la cui tutela si iniziò a guardare al sistema privatistico.
Il rapporto di pubblico impiego, che sino ad allora aveva trovato integrale disciplina in atti unilaterali del potere pubblico, iniziò ad aprirsi al sistema dei
sindacati sperimentato nel lavoro alle dipendenze dell’impresa. La prima breccia si aprì a Palazzo Vidoni, nel 1966 in occasione di un vertice tra CGIL,
CISL, UIL e Governo da cui scaturirono due leggi-delega74 nelle quali, per la
prima volta75, la contrattazione sindacale fece il suo ingresso ufficiale nel settore del pubblico impiego76. Venne, in particolare, stabilito che mansioni e trattamento economico e di quiescenza di operai e impiegati delle carriere esecutive, di concetto e ausiliari (fatta eccezioni, quindi, per i dirigenti) potessero essere disciplinati con regolamento, in attuazione di accordi tra Governo e sindacati77.
74
LL. 18 marzo 1968, n. 249 e 28 ottobre 1970, n. 775.
Il metodo della contrattazione collettiva ottenne riconoscimento legislativo, per la prima volta, con la l. 12 febbraio 1968, n. 132, per il personale ospedaliero; poi venne esteso anche al
personale statale (l. 28 ottobre 1970, n. 775, successivamente modificata dalla l. 22 luglio
1975), degli enti pubblici non economici (l. n. 70/1975), nonché degli enti locali (l. 27 febbraio
1978, n. 43) e del servizio sanitario nazionale (l. 23 dicembre 1978, n. 833).
76
C. D’ORTA, Legge quadro sul pubblico impiego e qualifiche funzionali sette anni dopo: una
riforma “strabica”, in Riv. trim. dir. pub., 3, p. 771, 1990 parla dell’evento come “formale
sanzione in un settore centrale del pubblico impiego come quello statale”. 77
Art. 24, l. 28 ottobre 1970, n. 775: “1. Le mansioni ed il trattamento economico e di quiescenza degli operai e degli impiegati delle carriere esecutive, di concetto e ausiliarie delle
75
57
Con le già citate ll. nn. 249/1968 e 775/1970 fecero, inoltre, il loro ingresso sul
palcoscenico del rapporto di lavoro pubblico i diritti sindacali (permessi retribuiti, aspettativa per chi è impegnato in attività sindacale, diritto di affissione e
uso gratuito di locali da adibire ad uffici sindacali, riscossione, mediante trattenuta sullo stipendio, dei contributi sindacali, diritto di assemblea nei luoghi di
lavoro nei limiti di dieci ore annue retribuite). L’innovazione, a guardare il solo sistema del diritto del lavoro alle dipendenze della Pubblica Amministrazione è
storica. Ma, in un impietoso confronto con lo Statuto dei Lavoratori, da cui,
anche solo sulla base della coincidenza temporale, non ci si può esimere, torna
a fare capolino la diversità di atteggiamento del legislatore di fronte ai lavoratori privati e ai dipendenti pubblici.
Così, senza troppe difficoltà, ci si accorge che le lacune normative che caratterizzano la disciplina elaborata per il pubblico impiego sono molte e investono
Amministrazioni dello Stato, anche ad ordinamento autonomo, oltre che con legge, possono
essere disciplinati anche con regolamento in attuazione di accordi stipulati tra il Governo ed i
sindacati rappresentanti nei consigli di amministrazione o le confederazioni sindacali di cui essi facciano parte. 2. Il regolamento previsto dal precedente comma è emanato con decreto del
Presidente della Repubblica, previa deliberazione del Consiglio dei Ministri, sulla proposta del
Presidente del Consiglio dei Ministri, di concerto con il Ministro od i Ministri competenti e con
il Ministro per il tesoro. 3. Resta ferma la necessità dell'approvazione con legge dell'eventuale
copertura finanziaria. 4. Debbono in ogni caso essere disciplinati con legge lo stato giuridico,
le mansioni, il trattamento economico e di quiescenza del personale delle carriere direttive
dell'Amministrazione dello Stato, anche ad ordinamento autonomo. 5. La procedura prevista
dal primo e dal secondo comma si applica anche alla modifica, abrogazione o sostituzione delle
disposizioni vigenti ancorché contenute in leggi od in atti aventi valore di legge”.
58
profili significativi78: va innanzitutto sottolineata l’assenza di una disposizione che, in qualche modo, corrisponda a quella dell’art. 19 dello Statuto dei Lavoratori, seconda la quale in ogni unità produttiva i lavoratori posso costituire
“rappresentanze sindacali aziendali” nell’ambito “delle associazioni aderenti alle confederazioni maggiormente rappresentative sul piano nazionale” o “delle
associazioni sindacali, non affiliate alle predette confederazioni, che siano firmatarie di contratti collettivi nazionali o provinciali di lavoro applicati nell'unità produttiva”;; manca una tutela, analoga a quella prevista per il lavoro privato, contro la “discriminazione” (art. 15 e 16 dello Statuto), contro i “sindacati di comodo” (art. 17 dello Statuto) e, soprattutto, contro la “condotta antisindacale” (art. 28 dello Statuto) del datore di lavoro79.
La contraddizione di fondo che pervade le ll. nn. 249/1968 e 775/1970 fu determinata dalla volontà del legislatore di concedere senza esagerare, in modo
da evitare che il sindacalismo pubblico una volta avuta la mano riuscisse a
78
Nelle leggi del 1968 e del 1970 non si riesce quasi mai ad individuare con chiarezza il soggetto dell’autonomia collettiva: si usano indistintamente le espressioni “organizzazioni sindacali a carattere nazionale maggiormente rappresentative”, “organizzazioni sindacali dei lavoratori”, “sindacati rappresentati nei consigli di amministrazione”.
79
La Corte di Cassazione, dopo alcune pronunce (tra cui, Cass, SS. UU., 6 maggio 1972, n.
1380, in Giust. civ., I, p. 1408, 1973) in cui si limitava ad escludere i soli dipendenti statali dalla possibilità di fruire del procedimento ex art. 28, l. 300/1970, si è orientata verso la tesi
dell’inapplicabilità dell’art. 28 a tutto il settore del pubblico impiego (v. Cass., SS. UU., 9 novembre 1974, n. 3477, in Riv. giur. lav., II, p. 215, 1975; Cass., SS.UU., 19 novembre 1974, n.
3700, in Mass. giur. lav., p. 688, 1975; Cass., SS. UU., 11 novembre 1974, n. 3504, in Mass.
giur. lav., p. 648, 1975).
59
prendersi anche il braccio. La possibilità che la contrattazione collettiva potesse invadere gli spazi fino ad allora riservati alla determinazione unilaterale del
potere politico spaventava, e non poco. Così da un lato la classe politica volle
giovarsi dell’apporto delle maggiori organizzazione dei lavoratori, dall’altro non era disposta a perdere i benefici dati dalla presenza dei sindacati autonomi;
così finse di prendere atto della immanente realtà sindacale nel rapporto di
pubblico impiego, per poterne controllare l’operato e limitarla nell’erosione delle materie da disciplinare.
L’espandersi delle materie attratte nella competenza della contrattazione collettiva nel pubblico impiego, che, nonostante l’opposizione strenua della classe politica, lenta ma inesorabile ha caratterizzato tutti gli anni a venire (fino alla
battuta d’arresto determinata dalla riforma Brunetta) ha segnato profondamente
la materia del diritto del lavoro alle dipendenze della Pubblica Amministrazione ed è diventata il punto di origine del fenomeno contrattuale, determinandone
la conformazione morfologica.
60
8. – Il rapporto Giannini, ovvero il manifesto della privatizzazione.
Il vento di cambiamento che da un decennio soffiava sulla Pubblica Amministrazione trovò la sua massima espressione il 16 novembre 1979, giorno in cui
il Ministro della Funzione pubblica Massimo Severo Giannini80 trasmise alle
Camere il Rapporto sui principali problemi dell’Amministrazione dello Stato81.
Organizzato in cinque capitoli (Introduzione, Tecniche di Amministrazione,
Tecnologia
delle
Amministrazioni,
Personale
e
Riordinamento
dell’Amministrazione dello Stato) il rapporto Giannini, come fin da subito
venne
chiamato,
avvertiva
che
occorreva
ripensare
completamente
l’organizzazione della Pubblica Amministrazione la quale, a seguito dello sviluppo industriale degli ultimi decenni, era passata da essere un ente autoritativo
80
MINISTERO PER LA FUNZIONE PUBBLICA, Rapporto sui principale problemi
dell’Amministrazione dello Stato (trasmesso alle Camere il 16 novembre 1979), in Riv. trim.
dir. pub., 3, pp. 722 ss., 1982.
81
Allievo di Santi Romano e Guido Zanobini, diventa professore ordinario di diritto amministrativo a 24 anni, nel 1939. Capo di gabinetto del ministro per la Costituente Pietro Nenni dal
12 agosto 1945 al 2 agosto 1946. Nel 1976 presiede la commissione ministeriale che redigerà i
decreti del Presidente della Repubblica che trasferiscono le funzioni alle Regioni. Come tecnico di area socialista è ministro per la funzione pubblica nel primo governo Cossiga (4 aprile
1979 - 4 agosto 1980) e dei rapporti con il Parlamento nel secondo governo Cossiga (4 agosto
1980 - 18 ottobre 1980).
61
a un gestore di trasferimenti di ricchezza82. Occorreva, quindi, una riforma incisiva, un ripensamento globale dell’Amministrazione che la ponesse in grado di soddisfare la domanda che le si rivolgeva: uno sforzo enorme di modernizzazione e di razionalizzazione dello Stato.
Modernizzazione che, per Giannini, diventa sinonimo di “privatizzazione”83.
Questa è l’idea di fondo che pervade tutto il rapporto del Ministro. Egli, per primo, in assoluto controtendenza rispetto alla dottrina e alla giurisprudenza
del tempo, si era accorto che “se, guardando oltre le attuali incertezze, si cerchino le ragioni del travaglio, ci si avvede che esse stanno nel processo di
82
MINISTERO PER LA FUNZIONE PUBBLICA, Rapporto sui principale problemi
dell’Amministrazione dello Stato (trasmesso alle Camere il 16 novembre 1979), in Riv. trim.
dir. pub., 3, pp. 723-724, 1982: “Il dramma organizzativo degli Stati industriali avanzati, ovunque nei medesimi termini, è troppo noto affinché occorra illustrarlo: nel giro di pochi decenni, essi, partiti come enti di funzioni di ordine e di base, tipicamente autoritativi, sono divenuti anche enti gestori di servizi, ed infine anche enti gestori di trasferimenti di ricchezza. Ciascun tipo dei nuovi gruppi di funzioni si è aggiunto al precedente, peraltro modificandolo in
alcuni contenuti, in senso riduttivo di quantità, comunque sempre diminutivo dell’area autoritativa. Le amministrazioni statali che hanno saputo adeguarsi al rapido mutamento hanno retto; le altre no, e tra esse è la nostra.
Anche in ordine a questo accadimento, il Rapporto si astiene dal discutere sulle cause. Basti la
constatazione che da noi le amministrazioni d’ordine, le amministrazioni di servizi e le amministrazioni di finanza convivono in regimi di giustapposizione. Ripensare la posizione delle
amministrazioni dello Stato significa rendersi conto che, per la dominanza assunta da quelle
del secondo e del terzo tipo, lo Stato ha accentuato il carattere, che prima aveva solo in parte,
di azienda di attività terziaria, sia pure in alcuni casi anche munita delle leggi di potestà autoritativa per poter imporre le proprie decisioni mediante comandi unilaterali.
Questo concetto deve servire come guida, nell’analisi dei problemi che si passa ad esporre”. 83
Prima di Giannini a teorizzare il disegno di una costruzione unitaria del contratto di impiego
fu Pietro Cogliolo nel ventennio a cavallo tra la fine dell’Ottocento e l’inizio del Novecento. Nel 1991 questi scriveva: “il contratto di impiego ha diritto di essere un contratto a sé stante e
[…] può essere definito il contratto per il quale una persona destina la propria attività professionale in favore di privati, di industrie, di enti pubblici, con intendimento continuativo e scopi
di carriera e col divieto di dare ad altri la stessa attività”. 62
pubblicizzazione forzosa che i rapporti di pubblico impiego e di lavoro con gli
enti pubblici hanno subito nel corso di mezzo secolo. L’aver attribuito al giudice amministrativo la giurisdizione esclusiva per le controversie di impiego
pubblico fece scattare il meccanismo derivante dalla centralità del processo
per ogni esperienza giuridica, onde il giudice amministrativo non esitò a dire
pubblico ogni sorta di rapporto di lavoro sol che corresse con un ente pubblico, ed inventò, forzando le norme, il rapporto di impiego retto dalle norme
sull’impiego privato, il rapporto di impiego pubblico a contratto, piegando così delle realtà che erano nate come rapporti di diritto privato. Successivamente
intervenne la Corte dei Conti, che, per dare ordine alla spesa per il personale
degli enti pubblici, fece accentuare ulteriormente gli aspetti pubblicistici del
rapporto. L’inversione di tendenza si è avuta man mano che i rapporti di impiego privato acquistavano la semistabilità del regime assistenziale e previdenziale già propri dell’impiego pubblico;; la contrattazione collettiva nell’impiego pubblico è stata introdotta in nome di un “avvicinamento” tra i due rapporti, ma senza aver visto i problemi di fondo (e francamente neppure
la convenzione 151 del B.I.T. del giugno 1978, ne ha piena consapevolezza). I
rapporti di servizio, nell’impiego pubblico e in quello privato sono gli stessi: i
funzionari, i tecnici, gli operai delle Ferrovie dello Stato – dipendenti pubblici
63
– rendono prestazioni non dissimili rispetto a quelle dei corrispondenti lavoratori dell’ENEL – dipendenti privati –; gli ingegneri, i ragionieri, gli archivisti
dello Stato svolgono le stesse attività che svolgerebbero presso una impresa
privata. La differenza sta in ciò: che alcuni dei dipendenti pubblici aggiungono
al rapporto di servizio un rapporto d’ufficio quando divengono titolari di un
organo dello Stato, e in tale qualità agiscono con atti autoritativi di pubblico
potere: sono le persone attraverso le quali si esprimono le potestà pubbliche.
Vi è dunque una fascia di pubblici dipendenti che hanno uno status speciale,
per essere, in atto o in potenza, i portatori delle potestà pubbliche. C’è allora da chiedersi se un’altra strada percorribile non sia quella di privatizzare i rapporti di lavoro con lo Stato non collegati all’esercizio della potestà pubblica, conservando come rapporto di diritto pubblico solo quello di coloro ai
quali tale esercizio è affidato o affidabile, cioè gli attuali direttivi e dirigenti.
Non avrebbero rilievo le obiezioni che in tal modo salterebbero le piante organiche e il reclutamento per concorso, poiché le une e le altre esistono oramai
anche in imprese private” 84.
I problemi dell’amministrazione italiana erano analizzati con lucidità scientifica, le soluzioni proposte erano dettagliate e si inserivano in un quadro politico
84
Ibidem, p. 738-739.
64
che, per la prima volta, sembrava disponibile a prestare la sua attenzione ai
problemi del corpo burocratico italiano, il dilemma amletico della qualificazione del rapporto di pubblico impiego era affrontato dopo decenni di colpevole
non curanza.
Il Rapporto Giannini, alla sua comparsa sulla scena85, non poté che suscitare
molto scalpore. Più dei singoli progetti di riforma proposti, quello che più contava era il rovesciamento della concezione del rapporto di pubblico impiego rispetto alla tradizionale impostazione gerarchico – burocratica. Con un solo
colpo, e sulla base di inconfutabili argomentazioni, veniva messa in discussione la più radicata concezione della scienza giuridica pubblicistica e, con tono
perentorio, la supremazia del Consiglio di Stato in materia di giurisdizione e-
85
Il Rapporto fu seguito dalla deliberazione del Consiglio dei Ministri del 1 febbraio 1980, che
istituì gli uffici di organizzazione e metodo e dall’ordine del giorno approvato il 10 luglio dal Senato, che ripropose i punti essenziali del documento. Seguì la costituzione di una serie di
commissioni che avrebbero dovuto sviluppare i temi messi a fuoco dal Rapporto e ne avrebbero dovuto rendere operative le principali proposte. Le “commissioni Giannini” furono una quindicina: quella per la ristrutturazione dello Stato presieduta da Pototsching; quella per lo
studio dei problemi inerenti alla misurazione della produttività presieduta da Alessandro Taradel; la sottocommissione per il riordinamento delle aziende autonome presieduta da Enzo Capaccioli; quella per i controlli presieduta da Luigi Petriccione; quella per la revisione strutturale
ed organizzativa degli enti pubblici e di ricerca dello Stato presieduta da Fabio Merusi; quella
per il riordinamento della Presidenza del Consiglio presieduta da Giuliano Amato; quella per la
semplificazione delle procedure e la fattibilità e applicabilità delle leggi presieduta da Alberto
Barettoni; quella per la ristrutturazione dei poteri centrali presieduta da Franco Piga; quella per
la pubblicità degli atti amministrativi presieduta da Giuseppe Santaniello; quella per
l’omogeneizzazione dei trattamenti di quiescenza e di previdenza dei dipendenti pubblici e per
la perequazione dei trattamenti pensionistici presieduta da Vincenzo Colletti; quella per i rapporti Stato-regioni presieduta da Franco Bassanini; quella sul difensore civico presieduta da
Riccardo Chieppa; quella per la disciplina del diritto di sciopero nei pubblici servizi presieduta
da Guido Zangari.
65
sclusiva relativamente al rapporto di impiego pubblico86, che non fece certo attendere la sua risposta. In occasione del parere richiesto dalla Presidenza del
Consiglio dei Ministri, infatti,
il Consiglio di Stato, nella composizione
dell’Adunanza generale, ribadì l’esigenza che fosse garantito “al Consiglio di
Stato il suo ruolo, il suo prestigio, e la sua autonomia, mediante la salvaguardia della sua peculiare e tradizionale fisionomia caratterizzata dalla molteplicità delle fonti e dalla contemporanea rigorosa selezione della provvista dei
suoi membri, nonché da quella osmosi di funzioni e di esperienze che ne fanno
un organo vitalmente collegato all’Amministrazione piuttosto che un “corpo separato” ripiegato su se stesso”87, e nell’affermare la propria adesione
all’impostazione gerarchica del rapporto di impiego pubblico in riferimento al
quale “le scelte relative all’organizzazione dei pubblici uffici non coinvolgono soltanto gli interessi dello Stato – persona – datore di lavoro e quelle di funzionari – lavoratori, ma incidono su interessi dello Stato – comunità in quanto
si risolvono in scelte relative agli strumenti per perseguire i fini dello Stato –
86
“Non si può chiudere, senza dire anche della giustizia amministrativa, non, si badi, per i
suoi contenuti giurisdizionali – che pur ormai richiederebbero nuovi radicali ripensamenti -,
ma per i suoi contenuti amministrativi”, MINISTERO PER LA FUNZIONE PUBBLICA, Rapporto,
cit., p. 754.
87
CONSIGLIO DI STATO, ADUNANZA GENERALE, Parere 10 aprile 1980, n. 8 Gab – Pres. L. Levi Sandri, in Riv. trim. dir. pub., 3, pp. 757 ss., 1982.
66
comunità, e dunque condizionano il perseguimento di quei fini”88, ne richiamò
a sé tutto l’apparato di tutele perché tale “coinvolgimento di interessi è la vera
ratio (e il fondamento della permanente validità) della attribuzione del relativo
contenzioso alla giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo”89.
Non che Giannini non avesse chiaro quanto fosse difficile il percorso che si
prospettava (“non si possono attendere risultati a tempo breve”90 scriveva in
un passaggio del Rapporto) e quanta ostilità avrebbe incontrato91, ma di certo
non si aspettava che, per vedere tradotto in norme il suo progetto di riforma del
pubblico impiego, avrebbe dovuto aspettare ben 15 anni e che, nel frattempo, si
88
Ibidem, p. 763.
Ibidem, p. 763.
90
Ibidem, p. 729: “Il tempo del recupero di soglie minime di efficienza si può calcolare in un
quinquennio, a condizione che l’azione sia diuturna e perseverante, appoggiata da politici,
funzionari e sindacalisti che s’impegnino in una cammino di spine senza attendere ricompense.”
91
“Con la formazione del Governo Cossiga si stabilì di affrontare frontalmente la questione dell’impiego pubblico. Fu modificato il vecchio ufficio per la riforma amministrativa in ufficio
(poi dipartimento) per la funzione pubblica, e si incaricò il Ministro ad esso preposto di studiare l’intero problema, e di sentire il Parlamento;; fu così che il 16 novembre 1979 il Ministro addetto presentava al Parlamento un “Rapporto sui principali problemi dell’amministrazione dello Stato”. Il Rapporto prospettava come alternativa al mantenimento delle qualifiche funzionali, all’idea della legge quadro, alla conservazione dei profili pubblicistici dell’impiego pubblico quella della completa privatizzazione della materia, ossia dei rapporti di lavoro non collegati
all’esercizio di potestà pubbliche. Nel primo incontro che il Ministro della Funzione Pubblica ebbe con la Camera dei Deputati, questa espresse subito la sua avversione all’idea della privatizzazione. Altrettanto avvenne in Senato, che era stato officiato di esaminare e discutere il
Rapporto nella sua interezza (cosa che il Senato fece, dopo lunga discussione, giungendo ad
una precisa conclusione finale, invero poi disattesa dai governi successivi al Governo Cossigga). Per cui non rimaneva altra stra possibile se non quella della legge quadro”, così lo stesso M.S. GIANNINI, Per la privatizzazione del rapporto di pubblico impiego, in AA.VV., Scritti per
Mario Nigro, Vol. II, Milano, Giuffrè, pp. 165-166, 1991.
89
67
approvasse una legge92 che ignorasse completamente l’idea della privatizzazione, ma che decretò la fortuna della privatizzazione del pubblico impiego.
La legge-quadro del 29 marzo 1983, n. 93, che ebbe il merito di essere applicata per la prima volta in modo unitario a tutte le pubbliche amministrazioni e
che introdusse la fondamentale distinzione tra materie soggette ad essere regolate attraverso atti normativi e materie soggette ad essere regolate attraverso
accordo collettivo, recependo gli elementi di novità affermatisi nella legislazione del precedente quindicennio, dimostrò, in pochi anni, tutta la sua incapacità di realizzare gli obiettivi che ne erano alla base: numerose amministrazioni
si sottrassero all’applicazione della legge (cd. fuga dalla legge-quadro)93, la distinzione tra aree regolate dalla legge e aree regolate dagli accordi non resse,
essendosi verificate incursioni legislative in materie contrattualizzate, si verificarono, infine, ritardi nella stipulazione degli accordi. Divenne, così, evidente
il carattere compromissorio dell’impianto della legge, fondato sulla contaminazione del modello tradizionale del pubblico impiego con elementi privatistici
all’esito del quale l’intero sistema dell’autonomia collettiva non poggiava sull’autonomia privata, che era categoricamente esclusa dalla natura (rimasta) 92
L. 29 marzo 1983, n. 93.
C. D’ORTA, La fuga dalla legge quadro sul pubblico impiego: deroghe per enti o per categoria di personale?, in S. CASSESE, C. DELL’ARRINGA, M. SALVEMINI, Pubblico impiego. Le
ragioni di una riforma, Roma, Sipi, 1991.
93
68
pubblica del rapporto, ma trovava il proprio fondamento nella legge e, quindi,
nell’autorità dello Stato.
Il fallimento della legge-quadro e le contraddizioni che ne minavano il disegno
legislativo che ne era alla base diedero il colpo di grazia al tradizionale modello pubblicistico del rapporto di pubblico impiego, nei confronti del quale ci si
impegnò a realizzare un’ autentica “privatizzazione”94.
9.- La privatizzazione del pubblico impiego: dalla l. 421/1992 al
t.u. 165/2001.
“Secondo una scansione divenuta classica, la vicenda si articola su una duplica fase, iniziata l’una dalla legge 23 ottobre 1992, n. 421;; aperta l’altra dalla legge 15 marzo 1997, n. 59. Ma essa rivela la sua continuità “fisica” 94
A. GRANDI, L’unificazione del rapporto di lavoro pubblico e privato: problemi e prospettive,
in ISTITUTO DI STUDI SULL’AMMINISTRAZIONE, Riforma del rapporto di pubblico impiego. Contrattazione, democrazia, diritti. Un’ipotesi per nuove regole comuni del lavoro, Milano, Franco
Angeli, p. 17, 1990: “Certo la legge quadro è stata un passo avanti. Non neghiamo la positività di alcuni risultati e tuttavia l’assetto previsto da quella legge non regge proprio perché si è
fermato a metà del percorso. Anziché una piena contrattualizzazione come era nei disegni originari di molti, ci si è fermati ad un impasto di riserva di legge e contratto che, alla prova dei
fatti, non ha retto”.
69
nell’unicità del corpus di riferimento, il d.lgs. 3 febbraio 1993, n. 29, figliato dalla delega del 1992 e, poi, corretto ed integrato dalla successiva decretazione delegata della stessa delega del 1992 (dd.lgss. 19 luglio 1993, n. 247; 18
novembre 1993, n. 470; 23 dicembre 1993, n. 546) e della delega del 1997
(dd.lgss. 4 novembre 1997, n. 396; 31 marzo 1998, n. 80; 29 ottobre 1998, n.
387)”95
9.1.- La prima fase della privatizzazione: il d.lgs. 29/1993.
Fu la legge delega 23 ottobre 1992, n. 42196 a porre fine al “secolo breve”97 del
pubblico impiego e a determinare il “trasloco” del rapporto di lavoro con le
pubbliche amministrazioni dal diritto pubblico al diritto privato, e dalla legge al
95
F. CARINCI, Politica e tecnica della giurisprudenza costituzionale in tema di privatizzazione
del pubblico impiego, in R. SCOGNAMIGLIO (a cura di), Diritto del lavoro e Corte costituzionale, Napoli, ESI, p. 5.
96
In attuazione della legge delega 421/1992 viene emanato il d.lgs. 3 febbraio 1993, n. 29, successivamente modificato, nello stesso anno, con due decreti “correttivi” (d.lgs. 10 novembre 1993, n. 470 e d.lgs. 23 dicembre 1993, n. 546.).
97
L’espressione è di M. D’ANTONA: Lavoro pubblico e diritto del lavoro: la seconda privatizzazione del pubblico impiego nelle “leggi Bassanini”, in Lav. pubb. amm., 1, 1998.
70
contratto, provocando quello che è stato definito “il più importante cambiamento amministrativo di questo secolo”98.
La legge 421/1992, che prevedeva la riforma di quattro macroaree99, per realizzare il controllo e la razionalizzazione della spesa pubblica, dedicava al pubblico impiego l’art. 2, nel quale delegava il Governo “a emanare entro novanta
giorni dalla data di entrata in vigore della presente legge uno o più decreti legislativi, diretti al contenimento, alla razionalizzazione e al controllo della
spesa per il settore del pubblico impiego, al miglioramento dell'efficienza e
della produttività, nonché alla sua riorganizzazione” e a tal fine lo autorizzava a “prevedere, con uno o più decreti, salvi i limiti collegati al perseguimento
degli interessi generali cui l'organizzazione e l'azione delle pubbliche amministrazioni sono indirizzate, che i rapporti di lavoro e di impiego dei dipendenti
delle amministrazioni dello Stato e degli altri enti di cui agli articoli 1, primo
comma, e 26, primo comma, della legge 29 marzo 1983, n. 93, siano ricondotti
sotto la disciplina del diritto civile e siano regolati mediante contratti individuali e collettivi; prevedere una disciplina transitoria idonea ad assicurare la
graduale sostituzione del regime attualmente in vigore nel settore pubblico con
98
S. CASSESE, Le ambiguità della privatizzazione del pubblico impiego, in S. BATTINI, S. CASSESE (a cura di), Dall’impiego pubblico al rapporto di lavoro con le pubbliche amministrazioni, Milano, Giuffrè, p. 77, 1997.
99
Art. 1: sanità, art. 2: pubblico impiego, art. 3: previdenza, art. 4: finanza pubblica.
71
quello stabilito in base al presente articolo; prevedere nuove forme di partecipazione delle rappresentanze del personale ai fini dell'organizzazione del lavoro nelle amministrazioni”, a “prevedere criteri di rappresentatività ai fini dei
diritti sindacali e della contrattazione compatibili con le norme costituzionali” e a “prevedere l'affidamento delle controversie di lavoro riguardanti i pubblici
dipendenti, cui si applica la disciplina di cui al presente articolo […] alla giurisdizione del giudice ordinario secondo le disposizioni che regolano il processo del lavoro”.
Alla legge delega 421/1992, che non si era limitata a chiedere al Governo la realizzazione della parificazione normativa del diritto del lavoro pubblico con
quello privato, ma che aveva disegnato una bozza di riforma che investiva diversi aspetti della disciplina del (nuovo) pubblico impiego, tra cui la materia
della contrattazione collettiva e quella della tutela giurisdizionale, venne data
attuazione per il tramite del d.lgs. 3 febbraio 1993, n. 29100, con il quale per la
100
L’art. 1 fissa le finalità e l’ambito di applicazione del decreto: “Le disposizioni del presente
decreto legislativo disciplinano l'organizzazione degli uffici e i rapporti di lavoro e di impiego
alle dipendenze delle amministrazioni pubbliche, tenuto conto delle autonomie locali e di quelle delle regioni e delle provincie autonome, nel rispetto dell'articolo 97, comma primo, della
Costituzione, al fine di: a) accrescere l'efficienza delle amministrazioni in relazione a quella dei
corrispondenti uffici e servizi dei Paesi della Comunità Europea, anche mediante il coordinato
sviluppo dei sistemi informativi pubblici; b) razionalizzare il costo del lavoro pubblico, contenendo la spesa complessiva per il personale, diretta ed indiretta, entro i vincoli di finanza pubblica; c) realizzare la migliore utilizzazione delle risorse umane nelle pubbliche amministrazioni, curando la formazione e lo sviluppo professionale dei dipendenti, garantendo pari opportu-
72
prima volta nella storia del diritto del lavoro, il legislatore italiano si assume la
responsabilità, dalla quale fino ad allora era sempre fuggito a gambe levate, di
definire normativamente il rapporto di lavoro alle dipendenze della Pubblica
Amministrazione. L’art. 36 del citato d.lgs., rubricato “reclutamento del personale”, stabilisce, infatti, che “l’assunzione nelle amministrazioni pubbliche avviene con contratto individuale di lavoro” e in un colpo solo ha reso inservibili
tutte le teorie dottrinali che per oltre un secolo avevano cercato di dare una definizione, ostinatamente pubblicistica, del rapporto di lavoro101 alle dipendenze
della Pubblica Amministrazione.
L’art. 36, d.lgs. 29/1993 segna lo spartiacque tra la concezione tradizionale del
rapporto di lavoro alle dipendenze delle Pubbliche Amministrazioni (che d’ora in avanti verrà definito “privatizzato”102) e l’affermazione della “nuova” disciplina dello stesso e, nello stesso tempo, determina una storica transazione: la
Pubblica Amministrazione è costretta a scendere dal trono della titolarità esclunità alle lavoratrici ed ai lavoratori e applicando condizioni uniformi rispetto a quelle del lavoro privato”.
101
Negli anni si sono succedute diverse ricostruzioni del rapporto di lavoro alle dipendenze
della Pubblica Amministrazione: la teoria unilateralista, sostenuta, fra gli altri, da O. Ranelletti,
qualificava la nomina del pubblico impiegato in termini di provvedimento amministrativo condizionato nell’efficacia dall’accettazione del singolo;; la teoria contrattualistica, formulata da U. Forti, individuava l’atto di nomina in un contratto di diritto pubblico (o ad oggetto pubblico);; infine la teoria mediana tra le due che, ricostruita da M. Petrozziello, si sostanziava nel riconoscere nell’atto di nomina un atto amministrativo bilaterale.
102
Per un’analisi completa della lotta intestina tra le espressioni “privatizzazione” e “contrattualizzazione” si veda la nota n. 1 di A. PILEGGI, Efficienza della Pubblica Amministrazione e
Diritto del lavoro, Roma, Aracne, 2004.
73
siva della gestione del rapporto di lavoro, perdendo la sua immagine di deus ex
machina della vita lavorativa del dipendente, e a condividere con quest’ultimo la titolarità dell’autonomia privata di cui entrambi sono divenuti titolari. Il contratto di lavoro, cui si riferisce l’art. 36 del d.lgs. 29/1993, determina la nascita di una relazione con effetti obbligatori e paritaria rispetto all’Amministrazione, che assume la funzione di datore di lavoro, e non diviene, invece, parte di una
relazione fra singolo e collettività.
9.2.- La seconda fase della privatizzazione: il d.lgs. 80/1998.
La riforma del 1993 si presentava, in un certo senso, incompleta. Non tanto per
le categorie che rimanevano estranee al processo di privatizzazione (magistrati,
avvocati dello Stato, militari, personale delle forze di polizia, diplomatici, personale della carriera prefettizia), quanto per il fatto che veniva conservata la disciplina pubblicistica (e la giurisdizione amministrativa) in un numero cospicuo di materie (la responsabilità dei pubblici impiegati, il regime della incompatibilità, gli organi, gli uffici ed i modi di conferimento della titolarità dei me-
74
desimi, i principi fondamentali di organizzazione degli uffici, i procedimenti di
selezione per l’accesso al lavoro, i ruoli e le dotazioni organiche, nonché la loro consistenza complessiva). L’essere, per questi versi, una riforma a metà ha fomentato le fila dei detrattori della privatizzazione, che si trovavano in compagnia di tutta la giurisprudenza amministrativa, e in particolare del Consiglio
di Stato, il quale nel parere espresso sulla legge delega103 denunciava
l’illegittimità costituzionale della riforma in base alla incompatibilità tra il pubblico impiego (strumentale al perseguimento di finalità pubbliche di interesse generale) e il modello del lavoro privato, improntato a logiche di mercato.
Tuttavia la Corte Costituzionale è subito intervenuta a dissipare tutti i dubbi e
le incertezze sulla riforma “Bassanini” con le sentenze n. 313/1996 e 309/1997104, con le quali ha chiarito che l’art. 97 Cost. non impone alcun particolare stato giuridico per i dipendenti pubblici e dunque non impedisce
l’abbandono della tradizionale impostazione pubblicistica: “Vero è invece che
la scelta tra l'uno e l'altro regime resta affidata alla discrezionalità del legislatore, da esercitarsi in vista della più efficace ed armonica realizzazione dei fini e
dei principi che concernono l'attività e l'organizzazione della pubblica amministrazione. In particolare, il corretto bilanciamento tra i due termini dell'art. 97
103
104
Cons. St., Ad. gen., 31 agosto 1992, n. 146, in Foro it., III, 4, 1993.
In entrambi i casi il giudice relatore era Ruperto.
75
della Costituzione, imparzialità e buon andamento, può attuarsi - e tanto è avvenuto con la normativa in esame - riservando alla legge una serie di profili ordinamentali; sì che, per converso, risultino sottratti alla contrattazione tutti
quegli aspetti in cui il rapporto di ufficio implica lo svolgimento di compiti che
partecipano del momento organizzativo della pubblica amministrazione”105.
Nonostante l’autorevole avallo della riforma del 1993 rimaneva di fondo
l’incompletezza della disciplina del pubblico impiego, che faceva navigare a
105
Corte Cost., 18 luglio 1996, n. 313. E nello stesso senso Corte Cost., 14 ottobre 1997, n.
309: “L'evoluzione legislativa tuttora in atto si realizza dunque intorno all'accentuazione progressiva della distinzione tra aspetto organizzativo della pubblica amministrazione e rapporto
di lavoro con i suoi dipendenti. L'organizzazione, nel suo nucleo essenziale, resta necessariamente affidata alla massima sintesi politica espressa dalla legge nonché alla potestà amministrativa nell' ambito di regole che la stessa pubblica amministrazione previamente pone; mentre
il rapporto di lavoro dei dipendenti viene attratto nell'orbita della disciplina civilistica per tutti
quei profili che non sono connessi al momento esclusivamente pubblico dell'azione amministrativa”.
Attraverso un equilibrato dosaggio di fonti regolatrici si è potuto così abbandonare il tradizionale statuto integralmente pubblicistico del pubblico impiego, non imposto dall'art. 97 Cost., a
favore del diverso modello che scaturisce appunto dal nuovo assetto delle fonti. In proposito, la
Corte ha osservato come per questa via il legislatore abbia inteso garantire, senza pregiudizio
dell'imparzialità, anche il valore dell'efficienza contenuto nel precetto costituzionale, grazie a
strumenti gestionali che consentono, meglio che in passato, di assicurare il contenuto della prestazione in termini di produttività ovvero una sua ben più flessibile utilizzazione. Dati, questi
ultimi, dei quali la Corte ha sottolineato il carattere strumentale rispetto al perseguimento della
finalità del buon andamento della pubblica amministrazione.
2.1.3. - La sostanziale conformità a Costituzione del mutamento operato nella natura giuridica
del rapporto dei dipendenti pubblici può quindi essere affermata, non solo seguendo le linee
argomentative presenti nella sentenza n. 313 del 1996 ed in quelle precedenti (cfr. sentenze n.
359 del 1993 e n. 88 del 1996), ma anche avuto riguardo alle finalità di decentramento, snellimento e semplificazione di apparati e procedure, espresse dalla più recente legislazione. E ciò,
in quanto quel rapporto sempre più si va configurando nella sua propria essenza di erogazione
di energie lavorative, che, assunta tra le diverse componenti necessarie dell'organizzazione della pubblica amministrazione, deve essere funzionalizzata al raggiungimento delle finalità istituzionali di questa.
76
vele spiegate il rischio di una sostanziale conservazione della logica pubblicistica nella concreta attuazione della riforma.
In questa situazione nasce la “seconda privatizzazione”, la quale trae origine
nella legge delega 15 marzo 1997, n. 59, che intensifica, in numero e quantità, i
modelli privatistici. Ne scaturisce un nuovo confine tra regime privatistico e
regime pubblicistico, non più fondato sulla distinzione tra organizzazionelavoro, ma sulla distinzione tra macro-organizzazione e (pubblicistica) e microorganizzazione (privatistica)106.
La differenza che intercorre tra la due fasi della privatizzazione è notevole: la
prima era ispirata soprattutto dalla necessità di risanamento finanziario dello
Stato; la seconda, invece, si inserisce in una generale riforma del sistema amministrativo sulla base dei principi dell’autonomia, del decentramento delle funzioni, della semplificazione e della diretta finalizzazione dell’azione amministrativa a risultati e obiettivi.
Alla L. 59/1997107 si è dato attuazione per il tramite del D.Lgs. 31 marzo 1998,
n. 80, che ha profondamente modificato il D.Lgs. n. 29/1993 (completamente
106
Cfr. art. 2, co. 1, D.Lgs. 165/2001.
Art. 11, co. 4, L. 59/1997: “4. Il Governo è delegato ad emanare, entro dodici mesi dalla data di entrata in vigore della presente legge, uno o più decreti legislativi diretti a: anche al fine di
conformare le disposizioni del decreto legislativo 3 febbraio 1993, n. 29, e successive modificazioni, alle disposizioni della presente legge e di coordinarle con i decreti legislativi emanati
ai sensi del presente capo, ulteriori disposizioni integrative e correttive al decreto legislativo 3
107
77
febbraio 1993, n. 29, e successive modificazioni, possono essere emanate entro il 31 dicembre
1997. A tal fine il Governo, in sede di adozione dei decreti legislativi, si attiene ai principi contenuti negli articoli 97 e 98 della Costituzione, ai criteri direttivi di cui all'articolo 2 della legge
23 ottobre 1992, n. 421, a partire dal principio della separazione tra compiti e responsabilità di
direzione politica e compiti e responsabilità di direzione delle amministrazioni, nonché, ad integrazione, sostituzione o modifica degli stessi ai seguenti princìpi e criteri direttivi:
a) completare l'integrazione della disciplina del lavoro pubblico con quella del lavoro privato e
la conseguente estensione al lavoro pubblico delle disposizioni del codice civile e delle leggi
sui rapporti di lavoro privato nell'impresa; estendere il regime di diritto privato del rapporto di
lavoro anche ai dirigenti generali ed equiparati delle amministrazioni pubbliche, mantenendo
ferme le altre esclusioni di cui all'articolo 2, commi 4 e 5, del decreto legislativo 3 febbraio
1993, n. 29; b) prevedere per i dirigenti, compresi quelli di cui alla lettera a), l'istituzione di un
ruolo unico interministeriale presso la Presidenza del Consiglio dei ministri, articolato in modo
da garantire la necessaria specificità tecnica; c) semplificare e rendere più spedite le procedure
di contrattazione collettiva; riordinare e potenziare l'Agenzia per la rappresentanza negoziale
delle pubbliche amministrazioni (ARAN) cui è conferita la rappresentanza negoziale delle
amministrazioni interessate ai fini della sottoscrizione dei contratti collettivi nazionali, anche
consentendo forme di associazione tra amministrazioni, ai fini dell'esercizio del potere di indirizzo e direttiva all'ARAN per i contratti dei rispettivi comparti; d) prevedere che i decreti legislativi e la contrattazione possano distinguere la disciplina relativa ai dirigenti da quella concernente le specifiche tipologie professionali, fatto salvo quanto previsto per la dirigenza del
ruolo sanitario di cui all'articolo 15 del decreto legislativo 30 dicembre 1992, n. 502, e successive modificazioni, e stabiliscano altresì una distinta disciplina per gli altri dipendenti pubblici
che svolgano qualificate attività professionali, implicanti l'iscrizione ad albi, oppure tecnicoscientifiche e di ricerca; e) garantire a tutte le amministrazioni pubbliche autonomi livelli di
contrattazione collettiva integrativa nel rispetto dei vincoli di bilancio di ciascuna amministrazione; prevedere che per ciascun ambito di contrattazione collettiva le pubbliche amministrazioni, attraverso loro istanze associative o rappresentative, possano costituire un comitato di
settore; f) prevedere che, prima della definitiva sottoscrizione del contratto collettivo, la quantificazione dei costi contrattuali sia dall'ARAN sottoposta, limitatamente alla certificazione delle
compatibilità con gli strumenti di programmazione e di bilancio di cui all'articolo 1-bis della
legge 5 agosto 1978, n. 468, e successive modificazioni, alla Corte dei conti, che può richiedere elementi istruttori e di valutazione ad un nucleo di tre esperti, designati, per ciascuna certificazione contrattuale, con provvedimento del Presidente del Consiglio dei ministri, di concerto
con il Ministro del tesoro; prevedere che la Corte dei conti si pronunci entro il termine di quindici giorni, decorso il quale la certificazione si intende effettuata; prevedere che la certificazione e il testo dell'accordo siano trasmessi al comitato di settore e, nel caso di amministrazioni
statali, al Governo; prevedere che, decorsi quindici giorni dalla trasmissione senza rilievi, il
presidente del consiglio direttivo dell'ARAN abbia mandato di sottoscrivere il contratto collettivo il quale produce effetti dalla sottoscrizione definitiva; prevedere che, in ogni caso, tutte le
procedure necessarie per consentire all'ARAN la sottoscrizione definitiva debbano essere completate entro il termine di quaranta giorni dalla data di sottoscrizione iniziale dell'ipotesi di accordo; g) devolvere, entro il 30 giugno 1998, al giudice ordinario, tenuto conto di quanto previsto dalla lettera a), tutte le controversie relative ai rapporti di lavoro dei dipendenti delle pubbliche amministrazioni, ancorché concernenti in via incidentale atti amministrativi presupposti,
ai fini della disapplicazione, prevedendo: misure organizzative e processuali anche di carattere
generale atte a prevenire disfunzioni dovute al sovraccarico del contenzioso; procedure stra-
78
riscritto per oltre due terzi) realizzando un ulteriore avvicinamento del regime
giuridico del rapporto di lavoro alle dipendenze delle Pubbliche Amministrazioni a quello proprio del lavoro alla dipendenze delle imprese private. Avvicinamento realizzato anche (e soprattutto) mediante la devoluzione della controversie in materia di pubblico impiego al giudice ordinario, incluse quelle relative l’assunzione, il conferimento e la revoca di incarichi dirigenziali, le indennità di fine rapporto, i comportamenti antisindacali e le procedure relative alla
contrattazione collettiva108.
La riforma del 1998 ha istituito un procedimento di contrattazione collettiva
semplificato rispetto alle previsioni contenute nel D.Lgs. del 1993, attraverso il
giudiziali di conciliazione e arbitrato; infine, la contestuale estensione della giurisdizione del
giudice amministrativo alle controversie aventi ad oggetto diritti patrimoniali consequenziali,
ivi comprese quelle relative al risarcimento del danno, in materia edilizia, urbanistica e di servizi pubblici, prevedendo altresì un regime processuale transitorio per i procedimenti pendenti;
h) prevedere procedure di consultazione delle organizzazioni sindacali firmatarie dei contratti
collettivi dei relativi comparti prima dell'adozione degli atti interni di organizzazione aventi
riflessi sul rapporto di lavoro; i) prevedere la definizione da parte della Presidenza del Consiglio dei ministri - Dipartimento della funzione pubblica di un codice di comportamento dei dipendenti della pubblica amministrazione e le modalità di raccordo con la disciplina contrattuale
delle sanzioni disciplinari, nonché l'adozione di codici di comportamento da parte delle singole
amministrazioni pubbliche; prevedere la costituzione da parte delle singole amministrazioni di
organismi di controllo e consulenza sull'applicazione dei codici e le modalità di raccordo degli
organismi stessi con il Dipartimento della funzione pubblica.
108
Art. 45, comma 17, del D.Lgs. n. 80/1998: “Sono attribuite al giudice ordinario, in funzione di giudice del lavoro, le controversie di cui all’articolo 68 del decreto legislativo 3 febbraio 1993, n. 29, relativamente a questioni attinenti al periodo del rapporto di lavoro successivo al
30 giugno 1998. Le controversie relative a questioni attinenti al periodo di rapporto di lavoro
anteriore a tale data restano attribuite alla giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo e
debbono essere proposte, a pena di decadenza, entro il 15 settembre 2000”.
Residuano nella competenza del giudice amministrativo le controversie relative alle procedure
concorsuali precedenti l’assunzione.
79
quale si giunge alla sottoscrizione di un contratto collettivo che acquisti efficacia per tutte le amministrazioni del comporto e per tutti i lavoratori interessati.
10.- Dal testo unico n. 165/2001 alla “controriforma Brunetta”.
Tutta la normativa concernete il rapporto di lavoro con la Pubblica Amministrazione è confluita nel testo unico n. 165/2001, che costituisce, insieme ai
contratti collettivi, il testo normativo di riferimento per il pubblico impiego e
che, prima delle modifiche apportate dalla L. n. 150/2009109, ha subito corretti-
109
Questa la presentazione della L. 15/2009 fatta dal Ministro per la funzione pubblica, in
http://www.riformabrunetta.it/sites/default/files/u3/PRESENTAZIONE%20DELLA%20LEGG
E%2015.pdf: “Con 154 voti favorevoli e un voto contrario, l’Aula del Senato ha approvato definitivamente il disegno di legge recante “Delega al Governo finalizzata all’ottimizzazione della produttività del lavoro pubblico e alla efficienza e trasparenza delle pubbliche amministrazioni nonché disposizioni integrative delle funzioni attribuite al Consiglio nazionale
dell’economia e del lavoro e alla Corte dei conti” (AS 847/B). Se si esclude il lodo Alfano, si
tratta del primo disegno di legge approvato dal Parlamento dall’inizio della legislatura. Per meglio comprenderne la portata, si propone di seguito un’analisi dei suoi principali contenuti. RAPPORTO TEMPORALE TRA LEGGE E CONTRATTO: La Camera dei deputati ha introdotto l’articolo 1 con il quale viene regolato il rapporto di successione temporale tra legge e contratto collettivo, al fine di evitare che la presente riforma venga vanificata da un intervento
contrattuale successivo. OBIETTIVI: L’articolo 2 definisce i seguenti obiettivi del disegno di
legge: convergenza degli assetti regolativi del lavoro pubblico con quelli del lavoro privato,
con particolare riferimento al sistema delle relazioni sindacali;; miglioramento dell’efficienza e dell’efficacia delle procedure della contrattazione collettiva; introduzione di sistemi interni ed
esterni di valutazione del personale e delle strutture amministrative, finalizzati ad assicurare
l’offerta di servizi conformi agli standard internazionali di qualità; valorizzazione del merito e
80
conseguente riconoscimento di meccanismi premiali; definizione di un sistema più rigoroso di
responsabilità dei dipendenti pubblici; introduzione di strumenti che assicurino una più efficace organizzazione delle procedure concorsuali su base territoriale; valorizzazione del requisito della residenza dei partecipanti ai concorsi pubblici, qualora ciò sia strumentale al migliore
svolgimento del servizio. Al riguardo, era stato approvato un emendamento per cui i vincitori
delle procedure di progressione verticale dovranno permanere per almeno un quinquennio
nella sede della prima destinazione e sarà considerato titolo preferenziale la permanenza nelle
sedi carenti di organico. CONTRATTAZIONE COLLETTIVA E RIFORMA ARAN: L’articolo 3
è stato migliorato nei suoi contenuti recependo le utili proposte avanzate anche
dall’opposizione, in particolare prevedendo decreti legislativi attuativi in materia di contrattazione collettiva e integrativa. Esso prevede che verranno precisati gli ambiti della disciplina
del rapporto di lavoro pubblico riservati rispettivamente alla contrattazione collettiva e alla
legge, ferma restando la riserva in favore della contrattazione collettiva sulla determinazione
dei diritti e delle obbligazioni direttamente pertinenti al rapporto di lavoro; che saranno riordinate le procedure di contrattazione collettiva nazionale ed integrativa, in coerenza con il settore privato e nella salvaguardia delle specificità sussistenti nel settore pubblico; che sarà riformata l'Agenzia per la rappresentanza negoziale delle pubbliche amministrazioni (ARAN),
con particolare riguardo alle competenze, alla struttura ed agli organi della medesima Agenzia;; che sarà semplificato il procedimento di contrattazione anche attraverso l’eliminazione di
quei controlli che non sono strettamente funzionali a verificare la compatibilità dei costi degli
accordi collettivi. Inoltre, al fine di ridurre il ricorso a contratti di lavoro a termine, a consulenze e a collaborazioni, i decreti delegati dovranno contenere disposizioni dirette ad agevolare i processi di mobilità, anche volontaria, finalizzati a garantire lo svolgimento delle funzioni
pubbliche di competenza da parte delle amministrazioni che presentino carenza di organico.
Ciò permette di perseguire una più razionale distribuzione delle risorse umane utilizzando il
personale appartenente ai ruoli di altre amministrazioni ed evitando nel contempo ulteriori
spese e la formazione di precariato. VALUTAZIONE DELLE STRUTTURE E DEL PERSONALE: L’articolo 4 prevede che saranno predisposti preventivamente gli obiettivi che l'amministrazione si pone per ciascun anno e che sarà rilevata, in via consuntiva, quanta parte degli
obiettivi è stata effettivamente conseguita, anche con riferimento alle diverse sedi territoriali,
assicurandone la pubblicità ai cittadini;; che sarà prevista l’organizzazione di confronti pubblici annuali sul funzionamento e sugli obiettivi di miglioramento di ciascuna amministrazione,
con la partecipazione di associazioni di consumatori e utenti, organizzazioni sindacali, studiosi e organi di informazione e la diffusione dei relativi contenuti mediante adeguate forme di
pubblicità, anche in modalità telematica; che saranno previsti mezzi di tutela giurisdizionale
degli interessati nei confronti delle amministrazioni e dei concessionari di servizi pubblici che
si discostano dagli standard qualitativi ed economici fissati o che violano le norme preposte al
loro operato, con esclusione del risarcimento del danno per il quale resta ferma la disciplina
vigente;; che sarà istituito, nell’ambito del riordino dell’ARAN e in posizione autonoma e indipendente (la nomina dei membri dell'organismo è subordinata al parere favorevole dei due
terzi dei componenti delle Commissioni parlamentari competenti), un organismo centrale di
valutazione con il compito di: a) indirizzare, coordinare e sovrintendere all’esercizio indipendente delle funzioni di valutazione; b) garantire la trasparenza dei sistemi di valutazione; c)
assicurare la comparabilità e la visibilità degli indici di andamento gestionale, informando
annualmente il Ministro per l’attuazione del programma di Governo sull'attività svolta. Sarà infine assicurata la totale accessibilità dei dati relativi ai servizi resi dalla pubblica amministrazione tramite la pubblicità e la trasparenza degli indicatori e delle valutazioni operate da
81
vi e modifiche, tra le quali, particolarmente significativa è stata la l. 15 luglio
2002, n. 145 sul riordino della dirigenza statale.
ciascuna pubblica amministrazione. In tema di azione collettiva nei confronti delle pubbliche
amministrazioni e dei concessionari di servizi pubblici, la Camera ha ribadito che si tratta di
azione volta al ripristino del servizio e del rispetto degli standard, con esclusione del risarcimento del danno per il quale resta ferma la disciplina vigente; inoltre saranno introdotti strumenti e procedure al fine di evitare duplicazioni e sovrapposizioni con le azioni che si possono
proporre alle autorità indipendenti o agli organismi con funzioni di vigilanza e controllo nel
settore. Infine, l’articolo 4 è stato integrato dalla Camera dei deputati che ha deciso di destinare 4 milioni di euro alla realizzazione di progetti sperimentali ed innovativi volti a diffondere e raccordare le metodologie della valutazione tra le amministrazioni centrali e gli enti territoriali (anche tramite la fissazione di standard da pubblicare on-line). Inoltre verranno sviluppati i processi di formazione del personale preposto alle funzioni di controllo e valutazione e
sarà migliorata la trasparenza delle procedure di valutazione mediante lo sviluppo di un apposito sito web. MERITO, INCENTIVI E PREMI: L’articolo 5 prevede che saranno introdotti
nell’organizzazione delle pubbliche amministrazioni concreti strumenti di valorizzazione del merito e metodi di incentivazione della produttività e della qualità della prestazione lavorativa, secondo le modalità attuative stabilite dalla contrattazione collettiva, e che saranno stabilite percentuali minime di risorse da destinare al merito e alla produttività, previa misurazione
secondo criteri oggettivi del contributo e del rendimento del singolo dipendente pubblico. RIFORMA DELLA DIRIGENZA PUBBLICA: L’articolo 6 prevede il divieto di corrispondere il trattamento economico accessorio nell’ipotesi di responsabilità del dirigente che abbia omesso di vigilare sulla effettiva produttività delle risorse umane allo stesso assegnate e sull'efficienza
della struttura che dirige. Saranno previsti concorsi per l’accesso alla prima fascia dirigenziale e saranno ridotti gli incarichi conferiti ai dirigenti non appartenenti ai ruoli e ai soggetti
estranei alla pubblica amministrazione. Verrà favorita la mobilità nazionale - che, come specificato in un emendamento approvato, potrà avvenire anche tra comparti amministrativi diversi
- e internazionale dei dirigenti. La retribuzione dei dirigenti legata al risultato non dovrà essere inferiore al 30 per cento della retribuzione complessiva. Al riguardo era stato approvato
dalla Camera un emendamento che esclude l’applicabilità della precedente disposizione alla dirigenza sanitaria. Inoltre l’Aula di Montecitorio ha stabilito che il conferimento
dell’incarico dirigenziale generale ai vincitori di concorso sia subordinato a un periodo di formazione, non inferiore a sei mesi, presso uffici amministrativi di uno Stato dell’Unione europea o di un organismo comunitario o internazionale. SANZIONI DISCIPLINARI E RESPONSABILITA' DEI PUBBLICI DIPENDENTI: L’articolo 7 prevede che saranno razionalizzati i tempi di conclusione dei procedimenti disciplinari e che verranno previsti meccanismi
rigorosi per l’esercizio dei controlli medici durante il periodo di assenza per malattia del dipendente. Al fine di favorire la massima conoscibilità del codice disciplinare è prevista
“l’equipollenza tra la affissione del codice disciplinare all’ingresso della sede di lavoro e la sua pubblicazione nel sito web dell'amministrazione”. Si prevede inoltre la definizione della tipologia delle infrazioni più gravi che comportano la sanzione del licenziamento. Infine, una
modifica introdotta dalla Camera prevede che il dipendente pubblico, ad eccezione di determinate categorie, in relazione alla specificità di compiti ad esse attribuiti, sarà identificabile
tramite un cartellino di riconoscimento; ciò garantirà maggiore trasparenza nei rapporti fra
amministrazione e cittadino-utente”.
82
Ma è la riforma del 2009 che torna, ancora una volta, ad incidere in maniera
determinante sulla disciplina del rapporto di lavoro alle dipendenze delle Pubbliche Amministrazioni.
Il D.Lgs. 150/2009 può essere definito, senza offesa per i padri delle fasi precedenti, come la terza privatizzazione. Sulla base di altisonanti definizione dal
sapore americano ed espressioni evocative della gestione dell’impresa privata,
le linee guida della riforma, preceduta dalla pubblicazione del cd. piano industriale, sono espressive di una evidente (e contraddittoria) “ripubblicizzazione” e “decontrattualizzazione” del rapporto di lavoro con la Pubblica Amministrazione. Si prevede, infatti, un inversione del meccanismo che, fino ad allora, aveva regolato i rapporti tra legge e contratto collettivo: prima della riforma la
deroga era sempre possibile, tranne che la legge qualificasse le sue disposizioni
inderogabili, mentre a seguito dell’intervento legislativo del 2009 la deroga è ammessa solo se la legge dispone espressamente in tal senso. Tale intervento è
espressione della sfiducia del legislatore nei confronti delle capacità della contrattazione collettiva110 di garantire gli interessi pubblici coinvolti dalla gestione del personale. In quest’ottica vengono drasticamente ridotte le materie attribuite alla contrattazione collettiva, alla quale rimane la sola previsione della in110
Potrebbe obiettarsi che la contrattazione collettiva ha dato prova di sé solo in due tornate
contrattuali dal 1998 al 2009.
83
formazione quale forma di partecipazione sindacale alle determinazioni dirigenziali che vanno dall’organizzazione degli uffici alla gestione dei rapporti di lavoro. Ne è conseguita lo smantellamento del sistema di relazioni sindacali e
la scomparsa di istituti come la concertazione e la consultazione111.
111
Art. 3, legge delega 15/2009: “1. L’esercizio della delega nella materia di cui al presente articolo è finalizzato a modificare la disciplina della contrattazione collettiva nel settore pubblico al fine di conseguire una migliore organizzazione del lavoro e ad assicurare il rispetto
della ripartizione tra le materie sottoposte alla legge, nonché, sulla base di questa, ad atti organizzativi e all’autonoma determinazione dei dirigenti, e quelle sottoposte alla contrattazione
collettiva. 2. Nell’esercizio della delega nella materia di cui al presente articolo il Governo si attiene ai seguenti princìpi e criteri direttivi: a) precisare, ai sensi dell’articolo 2 del decreto legislativo 30 marzo 2001, n. 165, come modificato, da ultimo, dall’articolo 1 della presente legge, gli ambiti della disciplina del rapporto di lavoro pubblico riservati rispettivamente alla contrattazione collettiva e alla legge, fermo restando che è riservata alla contrattazione collettiva la
determinazione dei diritti e delle obbligazioni direttamente pertinenti al rapporto di lavoro; b)
fare in ogni caso salvo quanto previsto dagli articoli 2, comma 2, secondo periodo, e 3 del decreto legislativo 30 marzo 2001, n. 165, e successive modificazioni; c) prevedere meccanismi
di monitoraggio sull’effettività e congruenza della ripartizione delle materie attribuite alla regolazione della legge o dei contratti collettivi; d) prevedere l’applicazione delle disposizioni di
cui agli articoli 1339 e 1419, secondo comma, del codice civile, in caso di nullità delle clausole
contrattuali per violazione di norme imperative e dei limiti fissati alla contrattazione collettiva;
e) individuare criteri per la fissazione di vincoli alla contrattazione collettiva al fine di assicurare il rispetto dei vincoli di bilancio, anche mediante limiti massimi di spesa ovvero limiti minimi e massimi di spesa; f) prevedere, ai fini dell’accertamento dei costi della contrattazione integrativa, uno schema standardizzato di relazione tecnica recante i contenuti minimi necessari
per la valutazione degli organi di controllo sulla compatibilità economico-finanziaria, nonchè
adeguate forme di pubblicizzazione ai fini della valutazione, da parte dell’utenza, dell’impatto della contrattazione integrativa sul funzionamento evidenziando le richieste e le previsioni di
interesse per la collettività; g) potenziare le amministrazioni interessate al controllo attraverso
il trasferimento di personale in mobilità ai sensi dell’articolo 17, comma 14, della legge 15 maggio 1997, n. 127; h) riordinare le procedure di contrattazione collettiva nazionale, in coerenza con il settore privato e nella salvaguardia delle specificità sussistenti nel settore pubblico,
nonchè quelle della contrattazione integrativa e riformare, senza nuovi o maggiori oneri per la
finanza pubblica, l’Agenzia per la rappresentanza negoziale delle pubbliche amministrazioni (ARAN), con particolare riguardo alle competenze, alla struttura ed agli organi della medesima
Agenzia, secondo i seguenti criteri: 1) rafforzamento dell’indipendenza dell’ARAN dalle organizzazioni sindacali anche attraverso la revisione dei requisiti soggettivi e delle incompatibilità
dei componenti dei relativi organi, con particolare riferimento ai periodi antecedenti e successivi allo svolgimento dell’incarico, e del personale dell’Agenzia;; 2) potenziamento del potere
di rappresentanza delle regioni e degli enti locali; 3) ridefinizione della struttura e delle competenze dei comitati di settore, rafforzandone il potere direttivo nei confronti dell’ARAN;;
84
La riforma dimostra tutta la sua sfiducia non solo nei confronti della contrattazione collettiva, ma anche della dirigenza, che, nonostante i proclami di indipendenza e di autonomia, finisce per essere imbrigliata nel sistema
dell’apparato sanzionatorio predisposto dal legislatore, che, in questo modo, ne
controlla l’operato.
La Riforma Brunetta rappresenta il terzo intervento in materia di pubblico impiego nell’arco di venti anni, ponendosi, tuttavia, in netta disconuità rispetto al 4) riduzione del numero dei comparti e delle aree di contrattazione, ferma restando la competenza della contrattazione collettiva per l’individuazione della relativa composizione, anche
con riferimento alle aziende ed enti di cui all’articolo 70, comma 4, del decreto legislativo n. 165 del 2001, e successive modificazioni; 5) modificazione, in coerenza con il settore privato,
della durata dei contratti al fine di ridurre i tempi e i ritardi dei rinnovi e di far coincidere il periodo di regolamentazione giuridica con quello di regolamentazione economica; 6) rafforzamento del regime dei vigenti controlli sui contratti collettivi integrativi, in particolare prevedendo specifiche responsabilità della parte contraente pubblica e degli organismi deputati al
controllo sulla compatibilità dei costi; 7) semplificazione del procedimento di contrattazione
anche attraverso l’eliminazione di quei controlli che non sono strettamente funzionali a verificare la compatibilità dei costi degli accordi collettivi; i) introdurre norme di raccordo per armonizzare con gli interventi di cui alla lettera h) i procedimenti negoziali, di contrattazione e di
concertazione di cui all’articolo 112 del decreto del Presidente della Repubblica 5 gennaio
1967, n. 18, e ai decreti legislativi 12 maggio 1995, n. 195, 19 maggio 2000, n. 139, 13 ottobre
2005, n. 217, e 15 febbraio 2006, n. 63; l) prevedere che le pubbliche amministrazioni attivino
autonomi livelli di contrattazione collettiva integrativa, nel rispetto dei vincoli di bilancio risultanti dagli strumenti di programmazione annuale e pluriennale di ciascuna amministrazione,
sulle materie e nei limiti stabiliti dai contratti collettivi nazionali, tra i soggetti e con le procedure negoziali che questi ultimi prevedono, con possibilità di ambito territoriale e di riferimento a più amministrazioni; m) prevedere l’imputabilità della spesa per il personale rispetto ai servizi erogati e definire le modalità di pubblicità degli atti riguardanti la spesa per il personale
e dei contratti attraverso gli istituti e gli strumenti previsti dal codice dell’amministrazione digitale, di cui al decreto legislativo 7 marzo 2005, n. 82; n) prevedere, al fine di ridurre il ricorso
a contratti di lavoro a termine, a consulenze e a collaborazioni, disposizioni dirette ad agevolare i processi di mobilità, anche volontaria, finalizzati a garantire lo svolgimento delle funzioni
pubbliche di competenza da parte delle amministrazioni che presentino carenza di organico;
o) prevedere, al fine di favorire i processi di mobilità intercompartimentale del personale delle
pubbliche amministrazioni, criteri per la definizione mediante regolamento di una tabella di
comparazione fra i livelli di inquadramento previsti dai contratti collettivi relativi ai diversi
comparti di contrattazione”.
85
passato più prossimo. Eppure, a guardare gli obiettivi delle privatizzazioni che
si sono susseguiti questi appaiono più o meno simili, senza rilevanti differenze,
che, inspiegabilmente, si colgono nei testi delle riforme.
Il pubblico impiego, purtroppo, non ha ancora trovato il suo eden legislativo e
rimarrà ancora a lungo un “cantiere a cielo aperto”112.
Il legislatore manca infatti di occuparsi di problemi non secondari nella gestione del rapporto113, pensando di ignorare il problema che dei dipendenti pubblici
italiani prima vada modificata la mentalità da burocrati legati all’idea del posto fisso come garanzia intangibile, e si trova a dover fare i conti con il fronte dei
“ri-pubblicisti” che cresce giorno dopo giorno.
112
L’espressione è di A. PILEGGI, Efficienza della Pubblica Amministrazione e Diritto del Lavoro, Roma, Aracne, p. 83, 2004.
113
E la tutela della professionalità del dirigente, le cui soluzioni vengono affidate da anni
all’opera, pure discontinua, della giurisprudenza, ne è un esempio.
86
87
CAPITOLO SECONDO
SIMBOLOGIA E IRREALTA’ DI UN GEMELLAGGIO: DIRIGENTE
PRIVATO E DIRIGENTE PUBBLICO PRIVATIZZATO 114
SOMMARIO: 1. Una (non) definizione di “dirigente”. – 2. Dirigenza
pubblica privatizzata e dirigenza privata: un iniquo confronto tra
legislazioni – 3. Verso una ri - publicizzazione della dirigenza (ancora)
“privatizzata”?
1. – Una (non) definizione di “dirigente”.
114
Il titolo del capitolo è (fatta eccezione per la modifica evidenziata in corsivo) di FRANCO
CARINCI, Simbologia e realtà di un gemellaggio: dirigente privato e dirigente pubblico privatizzato, in FRANCO CARINCI – RAFFAELE DE LUCA TAMAJO - PAOLO TOSI – TIZIANO TREU (diretto da), La Dirigenza, Quaderni di diritto del lavoro e delle relazioni industriali, Torino, UTET, 2009.
88
Una definizione di “dirigente”, sia esso pubblico, privato o privatizzato, è una nota mancante della nostra legislazione, che ne ha sempre dato un inquadramento in negativo: al dirigente privato non si applicano le limitazioni all’orario di lavoro (R.d. n. 1955 del 1923), il riposo domenicale e settimanale (L. n.
270/34), l’obbligatorietà del libretto di lavoro (L. n. 112/35), la disciplina del
collocamento (L. n. 2641/49), la normativa sul licenziamento (L. 604/1966).
In positivo la definizione del dirigente (privato) – a cui il legislatore della dirigenza privatizzata ha, disperatamente, cercato di ispirarsi – si deve alla Corte
Costituzionale, che, con la sentenza n. 121/1972115, ha individuato i tratti tipici
115
La sentenza citata, prima di giungere ad una definizione del dirigente, compie una ricostruzione storica della disciplina in materia: “anteriormente al 1942 i dirigenti avevano trovato una prima, anche se non specifica, considerazione nella legge 15 giugno 1893, n. 295, art. 14,
comma secondo, in cui sia pure ai limitati effetti di essa, i direttori e gli amministratori di fabbriche o imprese industriali che davano abitualmente lavoro a non meno di 50 operai, erano
posti sullo stesso piano degli industriali. Al personale direttivo delle aziende, poi, si erano riferiti il r.d.l. n. 692 del 1923 sull'orario di lavoro e i relativi regolamenti approvati con i rr.dd. nn.
1955 e 1956 del 1923. Ancora, la legge sull'impiego privato (r.d.l. n. 1825 del 1924, convertito
nella legge n. 562 del 1926) aveva riservato agli impiegati di grado più elevato un trattamento
di maggior favore in caso di licenziamento. Inoltre, il r.d.l. 1 luglio 1926, n. 1130, aveva prescritto che il personale dirigente dovesse far parte di associazioni sindacali autonome distinte
da tutte le altre, ma inserite nell'organizzazione degli imprenditori. Ed infine al personale avente funzioni direttive con responsabilità dell'andamento dell'azienda o dei servizi, non erano state applicate le norme di cui alla legge n. 370 del 1934 sul riposo domenicale e settimanale e
neppure quelle poste con la legge 10 gennaio 1935, n. 112, sull'istituzione del libretto di lavoro.
Il legislatore del 1942, con le sopracitate norme, quindi ha preso atto di una realtà giuridica e
normativa già esistente ed ha tenuto altresì conto della specifica e distinta regolamentazione
collettiva. Successivamente a quella data e fino ad oggi, sul piano legislativo e su quello della
contrattazione collettiva, ha avuto conferma e sviluppo il precedente orientamento volto a fare
dei dirigenti una categoria a sé stante di prestatori di lavoro subordinato. Di codesto indirizzo
sono sicuri segni l'esclusione dei dirigenti dalla disciplina del cosiddetto blocco dei licenziamenti (d.lg.lgt. 21 agosto 1945, n. 523; d.lg.lgt. 9 novembre 1945, n. 788, e d.lg.lgt. 8 febbraio
1946, n. 50) e dall'obbligo della assunzione tramite gli uffici di collocamento (art. 11, terzo
comma, n. 2, della legge 29 aprile 1949, n 264); nonché la possibilità di richiesta nominativa
89
del ruolo nella “collaborazione immediata con l'imprenditore per il coordinamento aziendale nel suo complesso od in un ramo importante di esso; nel carattere fiduciario della prestazione; l'ampio potere di autonomia nell'attività
direttiva; nella supremazia gerarchica su tutto il personale dell'azienda o di un
ramo importante di essa, anche senza poteri disciplinari, ma sempre con poteri
organizzativi; nella subordinazione esclusiva all'imprenditore o ad un dirigente superiore; e nell'esistenza di un potere di rappresentanza extra o infraziendale”. Continua la Corte, ulteriormente specificando: “Al dirigente, in sostanza, che occupa il posto più elevato nella scala gerarchica dei prestatori di lavoro subordinato, è assicurata nell'impresa una posizione che trova nel potere
direttivo la sua più vera qualificazione. L'imprenditore, singolo o collettivo, ha
nel dirigente il collaboratore che lo sostituisce o lo assiste nello svolgimento
delle funzioni che gli sono proprie, e l'esecutore, con discrezionale responsabilità, delle sue direttive. Appare per ciò essenziale che in tal caso tra l'impren-
per l'assunzione di impiegati amministrativi e tecnici con mansioni direttive in agricoltura (art.
11, comma secondo, lett. a, del d.l. 3 febbraio 1970, n. 7, convertito nella legge 11 marzo 1970,
n. 83); ed infine, la mancata applicazione delle forme di previdenza previste per gli altri dipendenti; e così pure delle limitazioni poste dalla legge n. 230 del 1962. In sede sindacale, poi, i
dirigenti godono di un inquadramento autonomo; e gli atti di autodisciplina collettiva (sino al
contratto collettivo nazionale del 29 luglio 1970 per i dirigenti di aziende industriali) pongono
del pari discipline autonome (ed in quanto assoggettate al regime della legge n. 741 del 1959,
operanti erga omnes con la valorizzazione della categoria sul piano normativo). Tutto ciò conduce a ritenere che la categoria dei dirigenti presenta peculiari caratteristiche che sono oggetto
di una disciplina particolare e trova riscontro nella definizione che del dirigente viene offerta in
giurisprudenza ed in termini, nella sostanza, sufficientemente costanti”.
90
ditore ed il dirigente s'instauri e si mantenga un rapporto di reciproca fiducia
e di positiva valutazione, ed è in armonia con codesta esigenza che il rapporto
possa venir meno per determinazione unilaterale solo che soggettivamente
vengano considerate cessate le condizioni idonee a soddisfare la detta esigenza. Si può pertanto ritenere, senza bisogno di far ricorso a formule o qualità
che non sempre rispecchiano la realtà effettuale del fenomeno colto nel suo
complessivo accadere, che la situazione dei dirigenti non è di per sé eguale o
assimilabile a quella degli impiegati ed operai”116.
116
Nello stesso senso, C.Cost., 309/1992: “Il rapporto di lavoro dei dirigenti si differenzia nettamente da quello dei lavoratori subordinati (impiegati ed operai) per il diverso grado di collaborazione esistente con l'imprenditore, del quale il dirigente - cui spettano autonomia e discrezionalità delle decisioni - deve godere sempre la fiducia, costituendone un vero e proprio "alter
ego". Giustamente quindi, il rapporto stesso cade nell'area della libera recedibilità, salvo le garanzie derivanti dai contratti collettivi della categoria di appartenenza - che, in via generale,
prevedono la possibilità di adire un collegio arbitrale ai fini dell'accertamento della mancanza
di una idonea giustificazione dell'intimato licenziamento - nonché dalla legge, contro fatti che
ledono la dignità di uomo e di lavoratore del dirigente medesimo (licenziamenti senza l'atto
scritto, discriminatori o disciplinari senza osservanza di norme di garanzia procedimentale)” e, più di recente, Corte Cass., SS. UU., 6041/1995: “Gli obblighi della preventiva contestazione e
dell'attribuzione di un termine a difesa, previsti dall'art. 7 L. 20 maggio 1970 n. 300, non riguardano il licenziamento del dirigente di aziende industriali - e cioè del prestatore di lavoro
che, collocato al vertice dell'organizzazione aziendale, svolge mansioni tali da caratterizzare la
vita dell'azienda con scelte di respiro globale, e si pone in un rapporto di collaborazione fiduciaria con il datore di lavoro dal quale si limita a ricevere direttive di carattere generale per la
cui realizzazione si avvale di ampia autonomia, ed anzi esercita i poteri propri dell'imprenditore (del quale è un "alter ego") assumendone, anche se non sempre, la rappresentanza esterna
(per cui la suddetta esclusione non si estende anche al cosiddetto pseudo-dirigente o dirigente
meramente convenzionale, relativamente al quale le mansioni concretamente attribuite ed esercitate non hanno le caratteristiche tipiche del rapporto propriamente dirigenziale) - ove il contratto collettivo ad esso applicabile non preveda procedimento e sanzioni disciplinari ma richieda la motivazione del recesso soltanto ai fini del procedimento arbitrale, dovendosi applicare a tale licenziamento, oltre che alle norme contrattuali, la disciplina di cui agli art. 2118 e
2119 c.c.”. 91
La figura del dirigente viene, quindi, definita alla luce del suo ruolo, i cui tratti
distintivi possono essere identificati nella collaborazione immediata con
l’imprenditore, nel carattere fiduciario, nella supremazia gerarchica con o senza poteri disciplinari, ma con poteri organizzativi, nel potere di rappresentanza
all’interno e all’esterno dell’azienda.
Ed è questo il modello a cui il legislatore si è ispirato nel modellare e plasmare
la dirigenza statale117, la quale, nell’ottica delle riforme che si sono succedute,
sarebbe dovuta assurgere a diventare la classe manageriale della Pubblica
Amministrazione, con compiti di gestione del personale, di contenimento della
spesa e di organizzazione del lavoro.
2.– Dirigenza pubblica privatizzata e dirigenza privata: un
iniquo confronto tra legislazioni.
Ma così non è stato. E non è ancora.
117
Tuttavia una prima differenza è subito evidente. Nel settore privato i dirigente hanno sindacati e contratti completamente autonomi; mentre nella dirigenza pubblica privatizzata i dirigenti di base sono rappresentati ai tavoli negoziali anche da sindacati aderenti alle confederazioni
degli altri lavoratori.
92
La dirigenza ha sempre rappresentato la spina nel fianco nella convivenza sotto
lo stesso tetto della disciplina del lavoro pubblico e privato, tale da condannare
la privatizzazione a rimanere a metà del suo percorso118.
La dirigenza privata vive di vita propria a partire dal 1926, anno in cui viene
approvata la L. n. 562 che, agli artt. 4 e 10, introduce il concetto di “institori,
procuratori, direttori tecnici ed amministrativi”, seppure non per dettare una
normativa specifica della categoria, ma per disciplinare, rispettivamente, le particolarità della materia del periodo di prova e della risoluzione del contratto di
impiego a tempo indeterminato. Manca una definizione, come si è già detto,
ma il ruolo è già avvertito in tutta la sua specificità119. Lo dimostra chiaramente, semmai ce ne fosse bisogno, il legislatore del 1942 che all’art. 2095 espressamente distingue i prestatori di lavoro subordinato in “dirigenti, quadri, impiegati e operai”.
118
In proposito si veda F. CARINCI, Simbologia e realtà di un gemellaggio: il dirigente privato
ed il dirigente pubblico privatizzato, in F. CARINCI, R. DE LUCA TAMAJO, P. TOSI, T. TREU (diretto da), La dirigenza, in Quaderni di Diritto del Lavoro e delle Relazioni Industriali, Torino,
UTET, p. 7, 2009
119
Specificità di cui il legislatore continua a tenere conto, come dimostrano il r.d.l. 1 luglio
1926, n. 1130, il quale aveva prescritto che il personale dirigente dovesse far parte di associazioni sindacali autonome distinte da tutte le altre, ma inserite nell'organizzazione degli imprenditori; la L. n. 370 del 1934 che non applicava al personale con funzioni direttive con responsabilità dell'andamento dell'azienda o dei servizi le norme sul riposo domenicale e settimanale;
la l. n. 112 del 10 gennaio 1935 che escludeva dall’ambito di applicazione delle norme sull'istituzione del libretto di lavoro il personale dirigente.
93
Diversamente, invece, la dirigenza pubblica. Senza voler risalire ai tempi di
Cavour e Giolitti, i cui Ministri, come si è visto, non lasciavano nessun margine di autonomia ai dirigenti, la disciplina normativa dedicata alla classe dirigenziale era pressoché nulla. I testi normativi si occupavano della figura del dirigente pubblico al solo fine di determinarne le retribuzioni e gli scatti di carriera, così da tacitarlo evitando pretese di autonomia, senza delinearne una disciplina di concetto e senza preoccuparsi di delimitarne la dipendenza rispetto
al potere politico. Il dirigente pubblico rappresentava eslusivamente la longa
manus del Ministro, il suo gregario nella terra straniera delle Amministrazioni
Pubbliche.
Perché, in un testo legislativo che si occupi di Pubblica Amministrazione, si usi
l’espressione “dirigenza” bisogna pazientemente attendere il 1972 (e, rispetto al 1926, sono passati ben 46 anni), anno nel quale il legislatore ha il merito di
aver introdotto – finalmente – la figura del dirigente nel pubblico impiego (attraverso un frazionamento della carriera direttiva) articolandone la struttura su
tre qualifiche120 (dirigente generale, dirigente superiore e primo dirigente). A
120
Art. 1, D.P.R. 30 giugno 1972, n. 748: “Qualifiche: 1. Nell'ambito delle carriere direttive
delle Amministrazioni dello Stato, anche ad ordinamento autonomo, le qualifiche dei dirigenti
sono articolate come segue: dirigente generale; dirigente superiore; primo dirigente. 2. In relazione a funzioni dirigenziali particolari, proprie di talune Amministrazioni, nelle annesse tabelle relative ai ruoli organici dei dirigenti sono previste qualifiche superiori”.
94
ciascun livello dirigenziale furono attribuiti non solo compiti di direzione di uffici (oltre a quelli ispettivi, di studio e di ricerca), ma anche, e soprattutto, effettivi ed autonomi poteri di decisione nel quadro delle direttive generali e delle
priorità stabilite da ciascun Ministro121. A questi poteri veniva fatta corrispondere, in conformità ai principi fissati dalla legge di delega, una precisa responsabilità dirigenziale collegata sia all’osservanza degli indirizzi emanati dal Governo e dal Ministro competente, sia al conseguimento dei risultati dell’azione degli uffici a cui sono preposti i dirigenti stessi 122. In sede di controllo gerarchico dell’intera attività dirigenziale, venne previsto, infine, che i provvedimenti adottati dai dirigente nell’ambito delle rispettive competenze possano es-
121
Cfr. artt. 2 e 3, comma 1, D.P.R. n. 748 del 1972.
In particolare, la suddetta disciplina era contenuta nell’art. 19 del D.P.R. n. 748 del 1972, rubricato “Responsabilità per l'esercizio delle funzioni dirigenziali”. I primi due commi disponevano: “1. Ferma restando la responsabilità penale, civile, amministrativa, contabile e disciplinare prevista per tutti gli impiegati civili dello Stato, i dirigenti delle diverse qualifiche sono responsabili, nell'esercizio delle rispettive funzioni, del buon andamento, dell'imparzialità
e della legittimità dell'azione degli uffici cui sono preposti. 2. I dirigenti medesimi sono specialmente responsabili sia dell'osservanza degli indirizzi generali dell'azione amministrativa
emanati dal Consiglio dei Ministri, e dal Ministro per il dicastero di competenza, sia della rigorosa osservanza dei termini e delle altre norme di procedimento previsti dalle disposizioni di
legge o di regolamento, sia del conseguimento dei risultati dell'azione degli uffici cui sono
preposti”. Sulla responsabilità dirigenziale per il mancato raggiungimento del risultato nel
D.P.R. n. 748 del 1972, cfr. M. U. FRANCESE, La responsabilità dei dirigenti statali
nell’esercizio delle funzioni dirigenziali. Rassegna di giurisprudenza – Profili di riforma, in
Foro amm., pp. 280 ss., 1991; F. LONGO, Considerazioni sulla responsabilità dirigenziale, in
Foro amm., p. 973, 1987.
122
95
sere rimossi dal Ministro mediante esercizio discrezionale del potere di annullamento, revoca o riforma dei provvedimenti stessi123.
Il D.P.R. 748/1972, ambiziosamente, credette di poter determinare la separazione, o addirittura, come è stata definita, la “separatezza”124, tra politica e
amministrazione così che si abbandonasse il modello cavouriano di stretta dipendenza del dirigente, che spesso proveniva dai ranghi della politica, dal Ministero o dal diverso organo politico di vertice, al quale veniva, nel contempo,
attribuita la responsabilità amministrativa e gestionale della conduzione degli
uffici dell’amministrazione. La realizzazione di quest’obiettivo fallì miseramente: a remare contro la realizzazione degli intenti del legislatore del D.P.R.
1972/748125, che comunque si muoveva nell’acqua torbida dell’ambiguità126,
123
Cfr. art. 3, comma 3, D.P.R. n. 748 del 1972.
L’espressione è di I. VOLPE, in O. FORLENZA, G. TERRACCIANO, I. VOLPE, La riforma del
pubblico impiego, Il sole 24 ore, 1999, p. 19.
125
Il D.P.R., venuto alla luce nell’ultimo giorno prima della scadenza della delega n. 775, ad opera del governo Andreotti – Malagodi, di centro-destra, non tenne assolutamente conto dei
criteri sostenuti dalle confederazioni sindacali, secondo i quali l’adozione di provvedimento sulla dirigenza, alla luce di quanto disposto nella legge delega, andava subordinata
all’attuazione del decentramento regionale e alla conseguente revisione del numero e delle funzioni dei Ministeri e, quindi, dei funzionari direttivi. Trasmesso il D.P.R. 748/1972 alla Corte
dei Conti, questa ne negava il visto e la registrazione sulla base di numerosi rilievi riguardanti
la non conformità ai criteri direttivi contenuti nella legge delega (Corte conti, sez. contr., 25
agosto 1972, n. 493, in Foro amm., 1972, I, 3, p. 253). Ma il Consiglio dei Ministri deliberava
di “dare corso” al decreto delegato, nonostante il rifiuto della registrazione, accogliendo le richieste espresse dalla Dirstat, pur di guadagnarsi il consenso dell’alta burocrazia, sicché le Sezioni Unite della Corte ne ordinavano la registrazione con riserva. (Corte conti., sez. riun., 6
dicembre 1972, n. 14, in Foro amm., 1972, I, 3, p. 423). Sul D.P.R. 30 giugno 1972, n. 748,
cfr. in dottrina LORENZA CARLASSARE, Amministrazione e potere politico, Padova, CEDAM,
p. 238 ss., 1974; L. ARCIDIAGONO, La gerarchia nelle recenti leggi di riforma
dell’amministrazione, in Jus, 1, pp. 45 ss. 1975; G. BACHELET, Responsabilità del ministro e
124
96
furono proprio coloro i quali la legge individuava come protagonisti della riforma: i Ministri, da una parte, che, preoccupati di vedersi minacciati nella loro
azione politica, continuavano ad esercitare una eccessiva ingerenza negli affari
di diretta competenza dei dirigenti; i dirigenti stessi, dall’altra che non vedevano di buon occhio l’attribuzione di una serie di responsabilità a fronte di un carico di lavoro maggiore e che, con preoccupazione, intravedevano nel D.P.R. il
riconoscimento legislativo della perdita dei privilegi e dello status acquisiti nel
corso dei decenni precedenti127.
D’altronde che, tra politica e dirigenti pubblici, ci fosse un tacito accordo, che
il D.P.R. avrebbe potuto smantellare, era cosa notoria: il modello clientelare,
competenza esterna degli uffici direttivi dei Ministeri, in La riorganizzazione dei ministeri nel
quadro della riforma dell’Amministrazione, Atti del Convegno organizzato a Catania (29.30
giugno 1974) dal Centro italiano di studi amministrativi, Padova, CEDAM, pp. 28 ss, 1975;
M. D’ALBERTI, L’alta burocrazia in Italia, in MARCO D’ALBERTI (a cura di), L’alta burocrazia: studi su Gran Bretagna, Stati Uniti d'America, Spagna, Francia, Italia, Bologna, Il Mulino, 1994, pp. 150 ss..
126
Per una legge che venne presentata come l’apice del progetto di indipendenza dell’Amministrazione dalla politica, si leggono con troppa frequenza espressioni come “elaborano progetti per attuare le direttive del Ministro”, “coadiuvare il Ministro nello svolgimento della azione amministrativa”, “in attuazione dei programmi stabiliti dal Ministro”, “salva in ogni caso la facoltà del Ministro di avocare i singoli affari”.
127
In tal senso, cfr. F. CALÀ, in Il dirigente della pubblica amministrazione, Roma, Libreria
Forense, p. 24, 2006 per il quale “le intenzioni della riforma sono state tradite nell’attuazione pratica dal comportamento della classe dirigente, che non ha avuto la capacità o la volontà di
sottrarre alla classe politica quei poteri che essa deteneva e che il D.P.R. del 1972 ha ad essa
sottratto. Si può dire che la dirigenza ha preferito un atteggiamento di mera esecuzione di ordini o indicazioni puntuali dei vertici politici delle amministrazioni. In sostanza, la classe dirigente ha accettato lo “scambio sicurezza-potere”, cioè essa ha di fatto rinunziato ad esercitare gli autonomi poteri amministrativi e di gestione ad essa attribuiti dalla normativa contenuta
nel D.P.R. 748/1972 “in cambio della esenzione da responsabilità (ossia, della “copertura” del loro operato da parte dei vertici politici) e della non eccessiva interferenza degli organi
politici sullo loro carriera e sicurezza di status”. 97
che ancora oggi si fatica ad estirpare dalla cultura della Pubblica Amministrazione italiana prevedeva, quasi fosse una prassi, avanzamenti di carriera e benefici economici in cambio della totale adesione al programma del partito
maggioritario di turno. Il motore che muoveva l’azione dirigenziale nella Pubblica Amministrazione, di conseguenza, non era il soddisfacimento della domanda dell’utenza dei servizi pubblici, così da realizzarne il buon andamento e
l’efficienza, ma la volontà di rispondere ai desiderata degli organi politici.
Il primo passo verso un più marcato modello di responsabilità dirigenziale fu
compiuto con la legge n. 142 del 1990, che, seppur solo in relazione alla dirigenza locale, affermava il principio in base al quale i poteri di indirizzo e controllo politico appartengono ad una fase nettamente distinta da quella relativa
all’esercizio dei compiti gestionali. Tale principio venne definitivamente sancito, per tutte le Amministrazioni Pubbliche, dal D.Lgs. 3 febbraio 1993, n. 29.
Eliminato il presupposto gerarchico, il nuovo assetto del D.Lgs. n. 29/93,
all’insegna del principio di distinzione tra politica e amministrazione, stabilì due blocchi di competenze, riservate ed esclusive, caratterizzate dalla reciproca
infungibilità: l’uno afferente l’attività di indirizzo, di definizione degli obietti-
98
vi e di controllo, propria degli organi di governo;; l’altro la sfera della gestione amministrativa, attribuita alla competenza dirigenziale128.
La seconda fase della privatizzazione129, che istituisce per i dirigenti un unico
ruolo interministeriale presso la Presidenza del Consiglio dei Ministri, estende
128
Cfr. artt. 3 e 4 del D.Lgs. n. 29 del 1993. L’art. 3 stabilisce: “Gli organi di governo esercitano le funzioni di indirizzo politico-amministrativo, definendo gli obiettivi ed i programmi da
attuare ed adottando gli altri atti rientranti nello svolgimento di tali funzioni, e verificano la rispondenza dei risultati dell'attività amministrativa e della gestione agli indirizzi impartiti”;; l’art. 4, invece, sancisce “1. le amministrazioni pubbliche assumono ogni determinazione organizzativa al fine di assicurare l'attuazione dei principi di cui all'articolo 2, comma 1, e la rispondenza al pubblico interesse dell'azione amministrativa. 2. Nell'ambito delle leggi e degli
atti organizzativi di cui all'articolo 2, comma 1, le determinazioni per l'organizzazione degli
uffici e le misure inerenti alla gestione dei rapporti di lavoro sono assunte dagli organi preposti
alla gestione con la capacità e i poteri del privato datore di lavoro”.
129
Al riguardo, gli artt. da 8 a 17 del D.Lgs. n. 80 del 1998 hanno ad oggetto la ridefinizione
della disciplina concernente i dirigenti delle amministrazioni statali, secondo quanto indicato,
in particolare, dai criteri di delega di cui all’art. 11, comma 4, lett. a), b) e d), della legge n. 59 del 1997. Viene, quindi, introdotta la contrattualizzazione dei dirigenti generali, che risultano
in tal modo equiparati al restante personale dirigenziale, per i quali il regime privatistico era
stato già introdotto dal D.Lgs. n. 29 del 1993. Tra le maggiori novità apportate dal decreto in
esame si segnalano: la previsione del limite di sette anni per tutti gli incarichi dirigenziali e la
possibilità di revoca, da parte del Governo che entra in carica, dei cosiddetti incarichi di vertice
(segretario generale di ministeri, incarichi di direzione di strutture articolate in uffici dirigenziali generali). Tale facoltà può essere esercitata nei primi novanta giorni dall’insediamento del nuovo Governo che ha ottenuto la fiducia del Parlamento. In tema di trattamento economico, si
stabilisce che quello fondamentale viene definito in sede di contrattazione collettiva per l’area dirigenziale, mentre il trattamento accessorio, correlato alle responsabilità attribuite ed ai risultati conseguiti, viene regolato dai contratti individuali. La separazione di funzioni tra organi di
direzione politica e dirigenti viene perseguita attraverso la messa al bando dei poteri del Ministro concernenti l’avocazione e l’annullamento degli atti dirigenziali;; nei casi in cui tali atti
possano arrecare pregiudizio all’interesse pubblico, si prevede la nomina di un commissario ad
acta. Analoga finalità è sottesa alla norma per la quale gli atti e i provvedimenti dei dirigenti
posti al vertice dell’amministrazione sono sottratti al regime dell’impugnabilità con ricorso gerarchico. Nel nuovo assetto assume particolare rilievo l’assegnazione ad uffici dirigenziali generali. Tale incarico comporta per il dirigente l’attribuzione di specifiche funzioni che tendono a realizzare un modello in larga misura assimilabile a quello privatistico.
Con particolare riferimento all’attribuzione degli incarichi dirigenziali, l’art 13 del D.Lgs. n. 80 del 1998 stabilisce, al comma 1, che i criteri generali per il conferimento degli incarichi devono
tenere conto delle caratteristiche dei programmi da realizzare, delle attitudini e capacità professionali del soggetto, anche in relazione ai risultati da questo conseguiti in precedenza. Il comma 2 dispone che tutti gli incarichi dirigenziali sono conferiti a tempo determinato, per la dura-
99
il regime di diritto privato anche ai dirigenti generali, che erano rimasti esclusi
dalla riforma del 1993. Il modello che ne emerge è caratterizzato da una distinzione molto netta e marcata tra funzione politica ed attività dirigenziale per
quel che concerne la responsabilità, ma molto più sfumata per quanto attiene
alla gestione. Anche se i rispettivi compiti sono tassativamente individuati,
l’ampiezza dei poteri riconosciuta agli organi politici in ordine alla nomina e alla revoca dei dirigenti lascia intravedere, infatti, una figura dirigenziale poco
autonoma nell’esercizio della propria attività di gestione. La riforma del 1998
eleva a sistema il principio della temporaneità degli incarichi dirigenziali, sia di
livello generale che di livello non generale, rendendo il rapporto tra Amministrazione e singoli Ministri, i quali rispondono solo in sede di responsabilità
politica, più “politicizzato”. Manca, infatti, la garanzia del buon andamento e
dell’imparzialità dell’Amministrazione, la quale non può che risiedere nella
ta compresa fra due e sette anni, con possibilità di rinnovo. Per quanto, invece, attiene alla revoca degli incarichi dirigenziali, l’art. 21 distingue due fattispecie di responsabilità dirigenziale, cui si ricollegano conseguenze differenti: a) responsabilità (generica) per i risultati negativi
dell’attività amministrativa o della gestione, nonché per il mancato raggiungimento degli obiettivi (comma 1); b) responsabilità per grave inosservanza delle direttive impartite dall’organo competente e responsabilità specifica per i risultati negativi dell’attività e della gestione (comma 2). Nel primo caso, viene disposta la revoca dall’incarico affidato al dirigente stesso e l’assegnazione ad altro incarico;; nel secondo caso, viene effettuata la contestazione degli addebiti al dirigente interessato, che è sentito in contraddittorio. A seguito di tali procedure, può essere disposta l’esclusione dal conferimento di ulteriori incarichi di livello dirigenziale corrispondente a quello revocato, per un periodo di almeno due anni e, nei casi di maggiore gravità,
è previsto il recesso dal rapporto di lavoro, secondo le norme del codice civile e dei contratti
collettivi. I provvedimenti in questione devono essere adottati previo parere conforme del
“Comitato dei Garanti” di cui al comma 3 dell’art. 21. 100
continuità delle funzioni esercitate da coloro che, come recita l’art. 98, Cost., “sono al servizio esclusivo della Nazione”.
A seguito della riforma degli anni Novanta, nel rapporto dirigenziale, si distinguono un rapporto di servizio, retto da un contratto privatistico di lavoro, di
norma a tempo determinato, e un rapporto di ufficio, che consente il concreto
espletamento delle funzioni dirigenziali. Distinzione che rimane valida
tutt’oggi e sulla quale si innesta la distinzione tra politica ed amministrazione.
Il rapporto dirigenziale viene “precarizzato”130 con la L. 145 del 2002131, con la
quale vengono modificate le disposizioni in materia di accesso alla qualifica
dirigenziale, di ruolo unico della dirigenza, di conferimento e revoca degli incarichi dirigenziali. Viene stabilito, infatti, che l’accesso alla dirigenza avviene non solo per il tramite del concorso pubblico, ma anche mediante corsoconcorso selettivo di formazione; viene abolito il ruolo unico e ristabilito il
ruolo dei dirigenti per ogni singola amministrazione;; viene disciplinato l’atto di 130
Sulla “precarizzazione” della dirigenza pubblica all’esito del nuovo regime: SABINO CASSEIl rapporto tra politica e amministrazione e la disciplina della dirigenza, in Lav. P.A., p.
1231 ss., 2003, in cui l’Autore afferma che “la precarizzazione dei dirigenti pubblici, la cui
sorte è ora legata doppiamente ai politici, ha rimesso nella mani di questi ultimi la gestione
amministrativa. Qual è il dirigente amministrativo che non piegherà il capo dinnanzi alle interferenze politiche nell’attività di gesitione, se sa che, dopo pochi mesi o un anno, le sue sorti sono decise, senza controlli e senza doverne motivare, dal politico di turno?” e ID., Il nuovo
regime dei dipendenti pubblici italiani: una modifica costituzionale, in Giornale dir. amm., p.
1341 ss., 2002.
131
Si veda anche la Circ. Pres. Cons. min. – Dip. Fun. Pub. 31 luglio 2002 “Modalità applicative della legge sulla dirigenza”, in G.U. 5 agosto 2002, n. 182.
SE,
101
conferimento dell’incarico, che avviene mediante “provvedimento” cui accede un contratto che definisce il solo trattamento economico. L’oggetto dell’incarico, gli obiettivi da conseguire e la durata del medesimo sono invece
stabiliti unilateralmente dall’amministrazione con il provvedimento di conferimento.
Viene, inoltre, introdotta una disciplina transitoria degli incarichi dirigenziali
già conferiti, che immette nel nostro ordinamento il temuto spoil system (reso
inoperante, come si vedrà, dalle pronunce della Corte Costituzionale).
L’ultimo intervento (solo in ordine di tempo) è la legge delega n. 15 del 2009,
che ha introdotto una serie di principi volti a rendere effettivo l’esercizio dei poteri datoriali della dirigenza sul presupposto che la dirigenza, a seguito delle
precedenti riforme, non fosse stata messa nelle condizioni di disporre a pieno
dei poteri e degli strumenti necessari a governare il personale e a garantire il
funzionamento degli uffici. Sono stati quindi introdotti una serie di correttivi
volti ad aumentare le prerogative datoriali dei dirigenti, accompagnati dal dovere (pena la decurtazione della retribuzione) di esercitare una specie di “potere disciplinare” sui dipendenti132. La riforma Brunetta, accompagnata dalla vo-
132
Nelle parole di Umberto Carabelli, La riforma “Brunetta”: un breve quadro sistematico delle novità legislative e alcune considerazioni critiche, in W. P. C. S. D. L. E. “Massimo D’Antona”.IT, 101/2010: “Centralità assoluta assumono, nell'ambito del provvedimento ri-
102
formatore, anche le previsioni in materia di poteri dirigenziali. Al riguardo, si è detto che tra
gli obiettivi del D. Lgs. n. 150/2009 si colloca il riconoscimento, in capo al dirigente, di una
maggiore autonomia nei confronti tanto della politica quanto del 'contropotere' sindacale, ed
un rafforzamento delle sue prerogative manageriali (peraltro rigorosamente individuate e vincolate nell'esercizio); ma anche la sua sottoposizione ad un più efficace sistema di valutazione
e la sua esposizione alle conseguenze di quest'ultima sul piano della responsabilità dirigenziale e su quello retributivo. Per quanto attiene all'autonomia dalla politica, gli obiettivi del legislatore si sono tradotti in una serie di previsioni in materia di incarichi (tra cui merita segnalazione la riformulazione dei criteri su cui deve fondarsi l'attribuzione dell'incarico - al fine di
assegnare maggiore rilievo al complessivo profilo professionale del soggetto interessato - e la
riduzione dello spoils system ai soli incarichi di Segretario generale di Ministeri o di direzione
di strutture articolate in uffici dirigenziali generali, ovvero agli incarichi di livello equivalente), di progressione di carriera (viene introdotto - entro il limite del 50% dei posti disponibili il concorso per l'accesso alla qualifica di dirigente di prima fascia), di responsabilità dirigenziale (rispetto alla quale la legge collega, ancora più chiaramente del passato, l'accertamento
del mancato raggiungimento degli obiettivi «alle risultanze del sistema di valutazione» previsto dal D. lgs. n. 150/2009) e di incompatibilità (si prevede che non possano essere attribuiti
incarichi di direzione di strutture abilitate alla gestione del personale a soggetti che rivestano,
o che nei due anni precedenti abbiano rivestito cariche in - ovvero abbiano avuto rapporti di
collaborazione o consulenza con - partiti politici o organizzazioni sindacali). In merito, invece,
alla difesa dell'autonomia dirigenziale dall' 'invadenza' del sindacato, si è detto più sopra che
il legislatore ha esclusola disponibilità negoziale dei poteri dirigenziali in materia organizzazione degli uffici e del lavoro (nell'ambito degli uffici). Al riguardo va detto che, prima della
riforma del 2009, in materia di disciplina dei rapporti di lavoro la legge era chiara nel prevedere la loro regolazione su base contrattuale (intendendosi con tale espressione riferirsi tanto
al contratto individuale che a quello collettivo), ferma restando la possibilità, per la contrattazione integrativa, di intervenire a disciplinare gli istituti del rapporto (o anche solo alcuni aspetti di essi) solo nei limiti previsti dalle c.d. clausole di rinvio della contrattazione nazionale.
E tale regime era stato tacitamente ritenuto applicabile, in assenza di un esplicito riferimento
legislativo, pure all'esercizio del potere dirigenziale di organizzazione del lavoro, ammettendosi la possibilità di una regolazione contrattuale dei vari aspetti dello stesso da parte di clausole del contratto nazionale, o anche di quello integrativo (sempre nei limiti della relativa
clausola di rinvio). In merito, invece, alla negoziabilità di un altro potere dirigente, quello di
micro-organizzazione, o di organizzazione degli uffici, nonostante l'incertezza del dato legislativo, si era comunque ritenuto, alla luce del disposto dell'art. 9 (in combinato disposto con gli
artt. 5, co. 2 e 40, co. 1) (tutti vecchia formulazione), del D. Lgs. n. 165/2001, che, ferma restando la totale esclusione di una negoziabilità del potere di organizzazione degli uffici, vi era
peraltro spazio, per quanto riguardava gli «atti interni di organizzazione aventi riflessi sul
rapporto di lavoro», per un intervento della contrattazione collettiva nazionale che li assoggettasse solo ed esclusivamente agli istituti della partecipazione. Orbene, i risultati emergenti da
numerose ricerche degli scorsi anni in materia di contrattazione collettiva del settore pubblico
attestano con evidenza che, nei fatti, si è assistito ad una progressiva espansione della contrattazione verso le molteplici aree dell'organizzazione di uffici e strutture. E questo
'straripamento' della contrattazione integrativa non ha riguardato solo la materia dell'organizzazione degli uffici, ma anche quella dell'organizzazione del lavoro: se è vero, infatti, che
per quest'ultima materia, la legge - come si è detto - non impediva alla contrattazione di intervenire a fissarne regole e limiti, è pur vero che anche per essa valeva il principio della vinco-
103
latività delle clausole di rinvio, onde risultava illegittimo trasformare una procedura di partecipazione sindacale (prevista dal contratto di comparto riguardo ad un aspetto del potere di
organizzazione del lavoro) in una procedura negoziale. Proprio la preoccupazione per questa
progressiva 'invasione', ad opera della contrattazione collettiva, dell'area delle prerogative
riguardanti l'organizzazione degli uffici e del lavoro, e la ferma intenzione di restituire al dirigente la piena autonomia decisionale anche rispetto all'interlocutore sindacale, sono state
all'origine di un forte ripensamento da parte del legislatore del 2009 dell'assetto regolativo dei
poteri dirigenziali. Di qui la decisione di sgombrare il campo da ogni incertezza normativa e
di 'immunizzare' in toto i poteri dirigenziali di organizzazione degli uffici e del lavoro da una
forte incidenza sindacale. Le tre norme rilevanti continuano ad essere gli artt. 5, co. 2, 9 e 40,
co,1, D. Lgs. n. 165/2001; solo che, nelle loro nuove formulazioni esse non sembrano lasciare
più adito ad interpretazioni estensive. Ai sensi del nuovo art. 5, co. 2, «le determinazioni per
l'organizzazione degli uffici e le misure inerenti alla gestione dei rapporti di lavoro sono assunte in via esclusiva dagli organi preposti alla gestione con la capacità e i poteri del privato
datore di lavoro, fatta salva la sola informazione ai sindacati, ove prevista nei contratti di cui
all'art. 9»; con l'aggiunta, poi, del chiarimento che «rientrano, in particolare, nell'esercizio
dei poteri dirigenziali le misure inerenti la gestione delle risorse umane nel rispetto del principio di pari opportunità, nonché la direzione, l'organizzazione del lavoro nell'ambito degli uffici». Il nuovo art. 9, poi, stabilisce «fermo restando quanto previsto dall'art. 5, co. 2, i contratti
collettivi nazionali disciplinano le modalità e gli istituti della partecipazione». Ed infine, in
forza del nuovo art. 40, co. 1, «la contrattazione collettiva determina i diritti e gli obblighi direttamente pertinenti al rapporto di lavoro. Sono in particolare escluse dalla contrattazione
collettiva le materie attinenti all'organizzazione degli uffici, quelle oggetto di partecipazione
sindacale ai sensi dell'articolo 9, quelle afferenti alle prerogative dirigenziali ai sensi degli
articoli 5, comma 2, 16 e 17». Al di là della formulazione talvolta insicura e della presenza di
affermazioni forse ultronee, il combinato disposto di queste norme non sembra lasciare dare
adito a dubbi: i poteri dirigenziali di organizzazione degli uffici e del lavoro continuano ad
essere di natura rigorosamente privatistica - in quanto le relative determinazioni sono assunte,
appunto, «con la capacità e i poteri del privato datore di lavoro» - ma, a differenza di quanto
avviene nel settore privato, non è ammessa la loro disponibilità in sede di contrattazione collettiva, e tanto meno è ammesso, rispetto ad essi, che la contrattazione nazionale possa prevedere forme partecipative più evolute della mera informazione. Quest'ultima, dunque, costituisce - solo se espressamente prevista dai CCNL - l'unico strumento di 'interlocuzione sindacale'
ammesso nei confronti del dirigente, al quale, viene in tal modo imposto di assumere, alla fine,
unilateralmente - se si vuole, in responsabile solitudine - le proprie decisioni organizzative. La
disciplina appena riassunta è assistita da un apparato sanzionatorio di particolare robustezza.
Infatti, ai sensi del nuovo art. 2, co. 3-bis, D. Lgs. n. 165/2001, “nel caso di nullità delle disposizioni contrattuali per violazione di norme imperative o dei limiti fissati alla contrattazione
collettiva, si applicano gli articoli 1339 e 1419, secondo comma, del codice civile». Il legislatore richiama, dunque, la nullità relativa, accompagnata dalla inserzione di clausole legali;
anche se, in realtà, è da notare che, nel caso di clausole contrattuali che violano il limite della
non negoziabilità delle decisioni in materia di organizzazione degli uffici e del lavoro, alla loro nullità corrisponderà piuttosto la riespansione dell'originario potere dirigenziale, che potrà
essere esercitato nuovamente scevro da vincoli. Accanto a queste previsioni, si collocano, poi,
altre rilevanti. La previsione, di portata generale, si rispecchia in quella dell’art. 40, co. 3quinquies, quinto periodo, D. Lgs. n. 165/2001, secondo cui «nei casi di violazione dei vincoli
e dei limiti di competenza imposti dalla contrattazione nazionale o dalle norme di legge, le
104
lontà del Ministro di cui porta il nome di combattere il lassismo, la mancanza
clausole [dei contratti integrativi: n.d.a.] sono nulle, non possono essere applicate, e sono sostituite ai sensi degli articoli 1339 e 1419, secondo comma, del codice civile». Merita di essere
ricordato che l’art. 65, D. Lgs. n. 150/2009 ha dettato una disciplina transitoria prevedendo che «entro il 31 dicembre 2010, le parti adeguano i contratti collettivi integrativi vigenti alla
data di entrata in vigore del presente decreto alle disposizioni riguardanti la definizione degli
ambiti riservati, rispettivamente, alla contrattazione collettiva e alla legge, nonché a quanto
previsto dalle disposizioni del Titolo III del presente decreto» (co. 1) (queste ultime sono quelle in materia di merito e di premi); e che «in caso di mancato adeguamento ai sensi del comma
1 i contratti integrativi vigenti alla data di entrata in vigore del presente decreto cessano la
loro efficacia a decorrere dal 1° gennaio 2011 e non sono ulteriormente applicabili» (co. 2).
Come si vede, la disciplina transitoria offre alle parti la possibilità di eliminare autonomamente le norme in contrasto con il nuovo regime; ma decorso il periodo massimo concesso scatta
la sanzione non più della nullità parziale, ma della nullità totale del contratto integrativo. Disposizioni che attribuiscono formalmente al dirigente specifici poteri manageriali, ma anche
responsabilità 'corrispettive'. Così, le prerogative dirigenziali sono anzitutto arricchite
dell'importante aspetto relativo alla partecipazione alla determinazione delle risorse e dei profili professionali necessari per lo svolgimento dei compiti istituzionali delle strutture di appartenenza; a fronte di ciò viene, peraltro, introdotto, a carico del dirigente, un obbligo di rilevare la presenza di eccedenze di personale negli uffici di propria competenza, la cui violazione è
valutabile ai fini della responsabilità per danno erariale. Anche se va detto che, in verità, l'effettivo rispetto di tale obbligo appare poco probabile, sia per l'obiettiva difficoltà di accertamento della sua violazione, sia per la resistenza quasi istintiva che, almeno nel breve periodo,
prevedibilmente opporranno i dirigenti, tenuto conto della tradizionale concezione - che appare tuttora dominante nelle pubbliche amministrazioni - secondo cui all'autorevolezza di una
posizione dirigenziale non è estraneo il numero di dipendenti assegnati alla relativa struttura.
Soprattutto, di fondamentale importanza appare il riconoscimento al dirigente del potere/dovere di valutare il personale assegnato ai propri uffici, nonché la conseguente erogazione
di incentivi e premi; potere al quale fa riscontro la previsione di una sua diretta responsabilità
nel caso di «colpevole violazione del dovere di vigilanza sul rispetto, da parte del personale
assegnato ai propri uffici, degli standard quantitativi e qualitativi fissati dall'amministrazione». Forti perplessità solleva, infine, dal punto di vista delle strategie di governo del personale, l'obbligo, posto a carico del dirigente, di esercitare effettivamente e nei termini dovuti il potere disciplinare – a pena di esporsi a sua volta a sanzioni disciplinari, salvo che l'omissione o
il ritardo non dipenda da giustificato motivo, o da non manifestamente infondate o non irragionevoli valutazioni sull'insussistenza dell'illecito (pur a fronte di «condotte aventi oggettiva e
palese rilevanza disciplinare») –, incentivandolo in questo anche attraverso un depotenziamento della sua responsabilità in relazione «a profili di illiceità nelle determinazioni concernenti lo svolgimento del procedimento disciplinare» (responsabilità che viene limitata per legge ai casi di dolo o colpa grave). L'imposizione di questo vincolo, a ben vedere, fornisce ulteriore conferma di come il disegno riformatore del legislatore si sia ispirato ad una concezione
neo-autoritaria della gestione del personale, nel convincimento che solo attraverso il ripristino
di un rigoroso rispetto delle regole che disciplinano i rapporti di lavoro siano possibili recuperi significativi di efficienza. Tuttavia è indubbio che siffatta scelta legislativa sottrae al dirigente significativi spazi di discrezionalità che, nel settore privato, risultano essenziali dal punto di vista delle strategie manageriali di governo del personale”.
105
di meritocrazia e la presenza dei cd. “fannulloni” all’interno delle Pubbliche
Amministrazioni, ha trasformato il dirigente pubblico in controllore facendolo
diventare a sua volta controllato, cadendo nella trappola latina del “quis custodiet ipsos custodes?133” costringendolo a subire, ancora una volta, una riforma
di cui non si sente partecipe134 e privandolo di spazi di discrezionalità135, nonostante i proclami della riforma.
133
Cfr. VI Satira di Giovenale. Anche Platone, La Repubblica, lib. III, cap. XIII, “Nempe ridiculum esset, custode indigere custodem”.
134
Cfr. STEFANO SEPE, Burocrazia e apparati amministrativi: evoluzione storica e prospettive
di riforma, Milano, Giuffrè, p. 225, 1996: “lo sforzo di immaginare una amministrazione del
tutto estranea alle lotte e alle pressioni politiche […] non era più ipotizzabile sia per la scelta di “partecipazione” voluta dal Costituente, sia per la stessa complessità e rilevanza quantitativa delle pubbliche amministrazioni. Il vero problema non è stato più quello della contrapposizione/esclusione tra politica e amministrazione, ma della ricerca delle forme di integrazione”. 135
Emblematico il tal senso è l’art. 21, co. 1-bis, che configura una sorta di culpa in vigilando:
“Al di fuori dei casi di cui al comma 1, al dirigente nei confronti del quale sia stata accertata,
previa contestazione e nel rispetto del principio del contraddittorio secondo le procedure previste dalla legge e dai contratti collettivi nazionali, la colpevole violazione del dovere di vigilanza sul rispetto, da parte del personale assegnato ai propri uffici, degli standard quantitativi e
qualitativi fissati dall'amministrazione, conformemente agli indirizzi deliberati dalla Commissione di cui all'articolo 13 del decreto legislativo di attuazione della legge 4 marzo 2009, n. 15,
in materia di ottimizzazione della produttività del lavoro pubblico e di efficienza e trasparenza
delle pubbliche amministrazioni, la retribuzione di risultato è decurtata, sentito il Comitato dei
garanti, in relazione alla gravità della violazione di una quota fino all'ottanta per cento”. 106
3.- Verso una ri - publicizzazione della dirigenza (ancora)“privatizzata”?
Dal 1972 ad oggi la dirigenza pubblica (poi privatizzata) è stata la categoria più
martellata dalle riforme, riuscendo a guadagnarsi (e, in un confronto con la
“dimenticata” dirigenza privata, sarebbe il caso di aggiungere “addirittura”) intere leggi tutte per sé.
Di contro, la dirigenza privata è rimasta estranea all’evoluzione del diritto del
lavoro privato, continuando ad essere presa in considerazione a fini negativi,
per essere esclusa dall’applicazione di questa o di quella disciplina.
La differenza è evidente se si aprono i manuali di diritto del lavoro (privato e
privatizzato). Alla dirigenza pubblica sono dedicati interi paragrafi; la dirigenza privata non appare neppure nell’indice. D’altronde, a scavare più in profondità, non si può non notare che la dirigenza
pubblica è la categoria di lavoratori alla quale, nel vigente testo unico, è dedicato un intero capo, il secondo, e il maggior numero di norme (ben 20 articoli,
disposti su due sezioni).
Il legislatore ha visto, sin dal 1993, nella categoria dirigenziale la vera leva della privatizzazione, lo strumento attraverso il quale attuare la realizzazione del
107
suo programma riformatore136. E così, paradossalmente, rispetto alla dirigenza
privata che, in quanto categoria non afflitta da debolezza contrattuale, è quasi
ignorata dal legislatore, la dirigenza pubblica privatizzata diventa il vero teatro
della riforma del pubblico impiego, in una congierge di norme e articoli che
l’hanno trasformata, almeno sulla carta, nel “privato datore di lavoro” nell’accezione più malvagia, facendola diventare, agli occhi dei dipendenti, il
cane da guardia del padrone e che, più che occuparsi della disciplina del rapporto, si preoccupa di determinarne le funzioni alla luce dell’organizzazione delle strutture137. E l’ultima riforma del pubblico impiego ha continuato a
bombardare la categoria dei dirigenti, imbrigliati nella aspirazione “genitoriale” di diventare ad immagine e somiglianza di quella privata, dimenticando di
136
FRANCO CARINCI, Simbologia cit., p. 9: “L’art. 4, D.Lgs 165/2001 nella sua formula originaria recitava: “Le amministrazioni pubbliche assumono ogni determinazione per l’organizzazione degli uffici al fine di assicurare la economicità e rispondenza al pubblico interesse dell’azione amministrativa. Nelle materie soggette alla disciplina del codice civile, delle leggi sul lavoro e dei contratti collettivi esse operano con i poteri del privato datore di lavoro, adottando tutte le misure inerenti all’organizzazione ed alla gestione dei rapporti di lavoro”. Ma nella sua stesura definitiva lo stesso articolo dispone: “Nell’ambito delle leggi e degli atti organizzativi di cui all’art. 2, comma 1, le determinazioni per l’organizzazione degli uffici sono assunte dagli organi preposti alla gestione con la capacità e i poteri del privato datore di
lavoro” (art. 5, comma 2, D.Lgs 165/2001). L’evoluzione della formula è evidente, perché sconta la distinzione, operata nel passaggio dalla prima alla seconda privatizzazione, tra macro-organizzazione tenuta sotto la riserva amministrativa e micro-organizzazione ricondotta
alla disciplina civilistica e perché ha come destinatari non più le “amministrazioni”, ma specificatamente gli “organi di gestione”;; ed ha come contenuti non più “i poteri del privato datore di lavoro”, ma “la capacità e i poteri del privato datore di lavoro””.
137
Significativo a tal proposito il fatto che il capo sulla dirigenza sia inserito nel Titolo II rubricato “Organizzazione” e che venga immediatamente dopo le norme che disciplinano le “Relazioni con il pubblico”.
108
chiedersi se nel nostro ordinamento il dirigente pubblico ha smesso di essere un
burocrate fino a diventare manager.
E così alla fine di un ventennio in cui le riforme si sono susseguite come tappe
di una corsa affannosa e senza respiro, iniziano a farsi sempre più insistenti le
voci di una “ri-pubblicizzazione” della disciplina e del rapporto dirigenziale,
mosse dall’idea (non certo originale) che l’attuale assento della dirigenza “vada
criticato non perché non abbia garantito l’assoluta indipendenza dell’amministrazione rispetto al momento dell’indirizzo politico, […] quanto, piuttosto perché non ha tenuto conto delle varie tipologie di posizioni in ordine
alle diverse strutture ed attività cui i dirigenti sono preposti”138.
Si ritorna, quindi, al passato e a quanto Giannini aveva espresso con il suo rapporto in tema di (non) privatizzazione della dirigenza: “[…] alcuni dei dipendenti pubblici aggiungono al rapporto di servizio un rapporto di ufficio, quando divengono titolari di un organo dello Stato, e in tale qualità agiscono con
atti autoritativi di pubblico potere: sono le persone attraverso le quali si esprimono le potestà pubbliche. Vi è dunque una fascia di pubblici dipendenti
che hanno uno status speciale, per essere, in atto o in potenza, i portatori delle
138
ROBERTO ALESSE, La dirigenza dello Stato tra politica e amministrazione, Torino, Giappichelli, p. 130, 2006.
109
potestà pubbliche”139. Ed ancora lo stesso Giannini in un saggio del 1991 tornava a ribadire l’eslusione dei dirigenti dalla privatizzazione: “In presenza di
questa realtà giuridica, le soluzioni possibili sono due: o il vecchio strumento
del munus pubblico, ossia si considerano coloro che svolgono tali attività dei
dipendenti retribuiti legati da contratti d’opera di diritto comune, ma in una particolare posizione giuridica pubblicistica di titolare di un munus; oppure si
utilizza la categoria moderna del rapporto d’impiego pubblico”140. Continua
ancora Giannini menzionando le esperienze dei paesi europei e le pronunce
della Corte di Giustizia: “La tendenza delle legislazioni contemporanee è verso
la seconda soluzione, quella del rapporto di lavoro pubblico, come specie autonoma di rapporto di lavoro. Del resto in tal senso è la tendenza del diritto
comunitario, per ora espressa solo in decisioni della Corte di Giustizia, ma rispondente alla formazione positiva di alcuni dei diritti europei dominanti, nei
quali è disciplinato dal diritto privato il rapporto di lavoro con le pubbliche
amministrazioni, salvo i casi indicati. Nella misura in cui le tendenze di diritto
139
MINISTERO PER LA FUNZIONE PUBBLICA, Rapporto cit., pp. 738-739.
MASSIMO SEVERO GIANNINI, Per la privatizzazione del rapporto di pubblico impiego, in
Scritti per Mario Nigro, Milano, Giuffrè, pp. 171-172, 1991.
140
110
comunitario sono anticipazioni di un diritto comune degli Stati europei, la tendenza in questione non è un accadimento secondario”141.
A Giannini fa eco, pochi anni più tardi e a privatizzazione avvenuta, Rusciano:
“Vorrei però premettere, a proposito delle riforme in materia dell’ultimo decennio, che sono molto colpito dalla scarsa capacità, dimostrata dai riformatori, di mantenere una linea coerente di politica del diritto: tanto da far pensare all’interprete malizioso che non manchi la volontà di strumentalizzare le riforme, piegandole all’esigenza del momento e degli interessi politici contingenti. Ciò vale sia per il governo di centro sinistra, sia per il governo di centro-destra”142. Si chiede Rusciano: “E’ coerente, ad esempio, per garantire una equilibrata relazione orizzontale fra “politica” e “amministrazione”, vero fulcro della riforma della dirigenza, utilizzare lo strumento contrattuale, introdotto nel 1997? Non occorre, invece, a tal fine, una legittimazione ex lege
dell’alto dirigente, cioè una relazione verticale, grazie alla quale lo status deriva direttamente dalla legge, senza alcuna mediazione politica personalizzata?”143.
141
Ibidem, p. 172.
MARIO RUSCIANO, Contro la privatizzazione della dirigenza pubblica, in Studi in onore di
Giorgio Ghezzi, Bologna, CEDAM, II, pp. 1553 ss., 2005.
143
Ibidem, p. 1559.
142
111
112
CAPITOLO TERZO
IL DIRIGENTE PUBBLICO TRA TUTELA REALE E TUTELA OBBLIGATORIA
SOMMARIO: 1. Dirigente pubblico privatizzato e dirigente privato: la
fine del rapporto di lavoro. – 2. La responsabilità dirigenziale: le novità sostanziali e procedurali introdotte dal D.Lgs. 150/2009. – 2.1. Il
ciclo di gestione della performance: cenni. – 2.2.- Il comitato dei Garanti – 3. L’inapplicabilità dell’art. 2103, C.C. agli incarichi dirigenziali: un demansionamento autorizzato. – 4. L’impossibilità di rinnovo e la revoca dell’incarico: le sanzioni “espulsive” del rapporto di servizio e “conservative” del rapporto di lavoro. – 4.1. La tutela giurisdizionale
tra diritto alla rassegnazione dell’incarico e risarcimento del danno. –
4.2. Riorganizzazione degli uffici e revoca dell’incarico dirigenziale. Quale tutela? – 4.3. La tutela reale e la sua effettività. – 4.4. Gli inca-
113
richi dirigenziali e il fantasma “spoil system”. – 5. Licenziamento del
dirigente pubblico privatizzato e privato: tutele e problemi a confronto
– 5.1. Il dirigente privato: la libera recedibilità e la nozione di giustificatezza – 5.2. Il dirigente pubblico privatizzato e l’applicazione della
tutela reale. – 6. Un caso particolare: se l’ambasciatore porta pena.
1.– Dirigente pubblico privatizzato e dirigente privato: la fine del
rapporto di lavoro.
La differenza tra dirigenza pubblica privatizzata e dirigenza privata risalta in
tutta la sua evidenza con riferimento alla regolazione della fine del rapporto.
Tale differenza è determinata dalla convivenza, in capo al solo dirigente pubblico privatizzato, di due rapporti diversi: quello, a tempo indeterminato, acquisito per concorso o corso selettivo e quello, di natura temporanea, di attribuzione dell’incarico. Di conseguenza nella disciplina che regola il rapporto del dirigente pubblico
privatizzato con la Pubblica Amministrazione, a differenza di quanto accade
114
per il dirigente privato, corrisponde, a fronte di una pressoché assoluta stabilità
del rapporto di base del dirigente pubblico (messa in discussione soltanto nei
casi più gravi di responsabilità dirigenziale o disciplinare previsti dalla contrattazione collettiva, a norma dell'art. 21, D. Lgs. 165/2001), una maggiore incertezza per quel che concerne il rapporto di incarico, circa cioè la pretesa alla
permanenza nell'incarico fino alla scadenza del periodo minimo concordato o
anche al conferimento di un nuovo incarico.
La problematica sottesa a tale “sdoppiamento” del rapporto è evidente, essa è
costituita dalla duplice ratio della tutela che viene in evidenza solo con riguardo alla Pubblica Amministrazione: quella pubblicistica del dirigente come funzionario, ispirata al principio di legalità di chi svolge la propria attività lavorativa in funzione dell’efficienza e del buon andamento della Pubblica Amministrazione e al quale deve, quindi, essere garantita una netta distinzione tra il potere di indirizzo attribuito al vertice politico e il potere di gestione riservata al
dirigente; e quella privatistica del dirigente come lavoratore subordinato.
Per il dirigente privato tutto è più semplice. Esiste un solo rapporto: quello di
lavoro che si connota per lo stretto vincolo di fiduciarietà e che, in ragione di
ciò, è regolato da una diversa disciplina rispetto a quella delle altre categorie di
prestatori di lavoro.
115
E così, sebbene le recentissime riforme del pubblico impiego si esprimano nel
senso di individuare nel dirigente pubblico privatizzato “i poteri e le responsabilità del privato datore di lavoro”, per cui, i dirigenti sarebbero equiparabili a
veri e propri imprenditori con riguardo alle unità amministrative dirette, viste
come imprese e i politici e i vertici costituzionali sarebbero comparabili agli
imprenditori e i dirigenti ai datori di lavoro, cercando, con un’espressione linguistica che avrebbe dovuto realizzare l’intento del legislatore come una formula magica, di occultare la differenza che intercorre tra i due rapporti e che è
chiaramente espressa dai principi costituzionali sanciti, da una parte dall’art. 41, Cost., e, dall’altra, dall’art. 97, Cost., i due capisaldi delle pronunce giurisprudenziali che regolano i rapporti del dirigente pubblico privatizzato e del dirigente privato si fondano proprio su queste due norme costituzionali.
Entrambi i dirigenti sono dei lavoratori subordinati, ma in termini e con modalità ben diverse. Per i dirigenti pubblici privatizzati esiste una disciplina del tutto eccezionale con riguardo al contratto di lavoro, quale risultato non tanto e
non solo della previa procedura concorsuale, quanto della conclusione in bianco dello stesso contratto, con l’individuazione dell’oggetto rinviata ad una successiva determinazione unilaterale, qual è il conferimento dell’incarico. E, coerentemente esiste una disciplina del tutto peculiare dello svolgimento del rap-
116
porto, configurato come il passaggio da un incarico all’altro, con un unico rapporto di lavoro che viene a far da supporto ad un continuum di rapporti di servizio rispetto agli uffici volta a volta ricoperti.
2.- La responsabilità dirigenziale: le novità sostanziali e procedurali introdotte dal D.Lgs. 150/2009.
L’art. 21, D.Lgs. 165/2001144, rubricato “responsabilità dirigenziale”, recita:
“Il mancato raggiungimento degli obiettivi accertato attraverso le risultanze
144
Per una ricostruzione storica delle vicende normative dell’art. 21, T.U. 165/2001, cfr. PACERBO, La responsabilità dirigenziale tra rigore e garanzia, in Il lav. nelle P. A., 3-4,
2002: “L'art. 2 l. 23 ottobre 1992, n. 421 aveva conferito al Governo la delega per la riforma
del lavoro alle dipendenze dell'amministrazione pubblica e dell'organizzazione amministrativa,
ponendo fra i principi della delega medesima "la mobilità, anche temporanea, dei dirigenti,
nonché la rimozione dalle funzioni e il collocamento a disposizione in caso di mancato conseguimento degli obiettivi prestabiliti dalla gestione" (lettera g, n. 3); non vi era dunque alcun
riferimento alla rimozione dall'impiego o al collocamento a riposo per ragioni di servizio. Di
conseguenza l'art. 20, comma 4, ultimo periodo, d.lgs. 29/1993 (emanato in attuazione della
delega) aveva disposto che "l'inosservanza delle direttive generali o il risultato negativo della
gestione possono comportare, previe controdeduzioni degli interessati, il collocamento a disposizione per la durata massima di un anno, con conseguente perdita del trattamento economico accessorio connesso alle funzioni". Successivamente, però, un decreto legislativo “correttivo” - precisamente, l'art. 6 d.lgs. n. 470/1993, emanato sempre sulla base della delega
contenuta nell'art. 2 l. n. 421/1992 - aveva sostituito il testo dell'art. 20 d.lgs. n. 29/1993, prevedendo (comma 9, ultimo periodo) la possibilità - in caso di responsabilità particolarmente
grave o reiterata - di disporre nei confronti dei dirigenti generali "il collocamento a riposo per
ragioni di servizio". L'art. 11, comma 4, l. 15 marzo 1997, n. 59 aveva nuovamente delegato il
Governo a introdurre disposizione integrative e correttive del d.lgs. n. 29/1993: in punto di
SQUALE
117
del sistema di valutazione di cui al Titolo II del decreto legislativo di attuazione della legge 4 marzo 2009, n.15, in materia di ottimizzazione della produttività del lavoro pubblico e di efficienza e trasparenza delle pubbliche amministrazioni ovvero l'inosservanza delle direttive imputabili al dirigente comportano, previa contestazione e ferma restando l'eventuale responsabilità discipli-
responsabilità dirigenziale , tuttavia, la delega non affermava nulla di nuovo; per giunta la delega si richiamava in generale ai criteri direttivi di cui all'art. 2 l. n. 421/1992. Neppure in tale
contesto era dunque contemplato il collocamento a riposo e la rimozione dall'incarico. Né
traccia di una simile previsione si riscontra nell'art. 11, comma 1, lett.c, l. n. 59/199, col quale
il Governo era stato delegato a riordinare e potenziare i meccanismi e gli strumenti di monitoraggio e di valutazione dei costi, dei rendimenti e dei risultati dell'attività svolta dalle amministrazioni pubbliche. Sulla base di queste deleghe, si era proceduto ad un ulteriore riassetto del
quadro normativo: l'art. 43, comma 1, d.lgs. 30 marzo 1998, n. 80 aveva abrogato l'art. 20,
comma 9, d.lgs. n. 29/1993 (l'articolo era stato poi integralmente abrogato dall'art. 10, comma
1, d.lgs. 30 luglio 1999, n. 286), mentre l'art. 7 d.lgs. 29 ottobre 1998, n. 387aveva modificato
l'art. 21, commi 1 e 2, d.lgs. n. 29/1993, reintroducendo la previsione del recesso dal rapporto
di lavoro nei casi di responsabilità dirigenziale di "maggiore gravità". In tale formulazione le
norme erano confluite nel testo unico (d.lgs. 30 marzo 2001, n. 165). Il Consiglio di Stato già
in precedenza aveva sollevato la questione di costituzionalità dell'art. 20, comma 9, d.lgs. n.
29/1993, ma la Corte gli aveva rimesso gli atti chiedendo un nuovo esame di rilevanza della
questione a seguito dell'abrogazione della norma impugnata. Il Consiglio di Stato aveva però
riproposto la questione, ritenendo che ne perdurasse la rilevanza, in ragione del fatto che la
normativa applicabile ratione temporis al caso in esame fosse proprio l'art. 20, comma 9,
d.lgs. n. 29/1993 nella versione anteriore alle modifiche del 1998-99. Reinvestita della questione, la Corte ha rilevato con la sentenza in commento il vizio di eccesso di delega per la
normativa impugnata (sebbene ormai abrogata). Non è mancato un “monito” al legislatore: a questo proposito è molto significativo il passo in cui la Corte esclude la rilevanza della disciplina sopravvenuta (d.lgs. n. 80/1998) ai fini del giudizio, segnalando però che essa deriva da
un "successivo decreto legislativo...emanato sulla base di una successiva legge di delega (anche se in parte coincidente per contenuto)". Poco dopo la decisione della Corte costituzionale,
la questione ha comunque trovato una sua sistemazione pro futuro per effetto dell'art. 3, comma 2, l. 15 luglio 2002, n. 145, che - sostituendo l'art. 21, comma 1, d.lgs. n. 165/2001 - ha espressamente previsto che "in relazione alla gravità dei casi, l'amministrazione può, inoltre,
revocare l'incarico collocando il dirigente a disposizione..., ovvero recedere dal rapporto di
lavoro secondo le disposizioni del contratto collettivo". Dopo questo intervento con legge
“formale”, è evidente che la normativa vigente non può andare incontro a problemi di costituzionalità per eccesso di delega. Ciò nondimeno, la sentenza si rivela molto importante: infatti
la Corte ha inteso fissare alcuni principi `sostanziali' in materia di responsabilità dirigenziale
. Su questi aspetti pare opportuno soffermarsi nei paragrafi che seguono.
118
nare secondo la disciplina contenuta nel contratto collettivo, l'impossibilità di
rinnovo dello stesso incarico dirigenziale. In relazione alla gravità dei casi,
l'amministrazione può inoltre, previa contestazione e nel rispetto del principio
del contraddittorio, revocare l'incarico collocando il dirigente a disposizione
dei ruoli di cui all'articolo 23 ovvero recedere dal rapporto di lavoro secondo
le disposizioni del contratto collettivo”.
La responsabilità dirigenziale consegue, quindi, non tanto ad un inadempimento da parte del dirigente, e quindi al fatto che egli sia venuto meno ad un obbligo al quale era tenuto in forza di una specifica disposizione, ma al mancato
raggiungimento degli obbiettivi che gli erano stati assegnati e alle direttive che
gli erano state impartite. Tale responsabilità esprime un’inidoneità alla funzione di dirigente, che può verificarsi anche se il comportamento del medesimo
non abbia violato specifiche disposizioni. Al contrario, infatti, laddove egli si
renda inadempiente rispetto ad un obbligo che discenda da una previsione di
legge o del contratto, individuale o collettivo, il comportamento sarà rilevante
sul piano disciplinare145.
145
Alla responsabilità dirigenziale si aggiunge la responsabilità disciplinare, che, alcuni hanno
considerato autonoma e distinta, altri una specie rispetto alla prima. A questo proposito in dottrina sono state prospettate almeno tre diverse tesi: una prima volta ad affermare che la responsabilità dirigenziale è nettamente diversa e distinta da quella disciplinare;; un’altra, di segno opposto, secondo la quale la responsabilità dirigenziale sarebbe una sottospecie della responsabilità disciplinare; una terza secondo la quale i due tipi di responsabilità possono talvolta coinci-
119
dere, talvolta divergere. In relazione alla varietà di tesi sostenute la Corte di Cassazione, con la
sentenza Cass. civ. sez. lav. 20 febbraio 2007, n. 3929, ha ritenuto preferibile quest’ultima tesi, avendo affermato che la responsabilità dirigenziale può prescindere da ogni rilevanza
dell’elemento soggettivo per quanto riguarda il mancato raggiungimento degli obiettivi, e quindi configurarsi come una sorta di responsabilità oggettiva del tutto distinta dalla responsabilità disciplinare, la quale, invece, presuppone sempre quantomeno la negligenza colpevole
del lavoratore. Tuttavia, sostiene la Cassazione, quando il mancato raggiungimento degli obiettivi dipende da negligenza o inerzia del dirigente, la responsabilità dirigenziale è tutt’uno con quella disciplinare. Successivamente la Cassazione è tornata sui suoi passi con le recentissime
sentenze nn.14628/2010 e 8329/2010 ribadendo la netta distinzione tra responsabilità disciplinare e responsabilità dirigenziale. Tali conclusioni non hanno trovato accoglimento unanime
nella dottrina. Contra ALESSANDRO BOSCATI, Disciplina speciale del rapporto di lavoro del
dirigente pubblico e tutela applicabile in caso di illegittimo recesso dell’amministrazione, in
ADL, 3, pp. 716 ss, 2007, il quale ha osservato come la responsabilità dirigenziale non possa
essere qualificata responsabilità oggettiva perché essa si basa sulla professionalità del dirigente
e quindi sulla componente soggettiva; solo nel caso in cui il mancato raggiungimento degli obiettivi e delle direttive sia da ricollegare ad un fattore estraneo alla disponibilità del dirigente
può essere esclusa la responsabilità dirigenziale. Ancora in dottrina, SANDRO MAINARDI, La
responsabilità dirigenziale e il ruolo del Comitato dei Garanti, in Il Lav. nelle P.A., 6, pp.
1078-1106, 2002: “Mentre la responsabilità disciplinare presuppone un comportamento illecito e colposo del dipendente, il quale viene meno al rispetto di regole giuridiche poste a tutela
della propria attività, la responsabilità dirigenziale per risultato prescinde dal comportamento
del soggetto per ricollegarsi direttamente “ai risultati complessivi prodotti dall’organizzazione cui il dirigente è preposto”, determinando, “in caso di giudizio negativo, più che una colpa del
dirigente, la sua inidoneità alla funzione”. Ancora, sula rapporto intercorrente tra responsabilità amministrativa e responsabilità dirigenziale, TOMMASO MIELE, Commento all’art. 21. Responsabilità dirigenziale, in L’impiego pubblico. Commento al d.lgs 30 marzo 2001, n. 165,
(mod. con l. 15 luglio 2002, n. 145), Milano, Giuffrè, pp. 428-458, 2003: “Quanto ai rapporti
fra responsabilità dirigenziale, o per mancato raggiungimento degli obiettivi, e responsabilità
amministrativa del dirigente, si ritiene che il mancato raggiungimento degli obiettivi o dei risultati prefissati dagli organi di governo non può ritenersi, di per sé solo, un evento dannoso
di carattere patrimoniale causato dal dirigente, con la conseguenza che esso non assume rilievo ai fini della affermazione della responsabilità amministrativa dello stesso dirigente pubblico, se non ricorrono gli ulteriori elementi necessari ai fini della configurazione della stessa
responsabilità amministrativa, e segnatamente, se non ricorre, nella fattispecie un danno patrimoniale per le finanze dell’amministrazione pubblica autonomamente configurabile, connotato da quei requisiti di attualità e di certezza elaborati dalla giurisprudenza della Corte dei
Conti”. Peraltro, il testo dell’art. 21 del D.Lgs. 165/2001, pur riconoscendo che uno stesso
comportamento può astrattamente rilevare sul piano della responsabilità dirigenziale, in quanto
riferibile al mancato raggiungimento degli obiettivi o alla inosservanza delle direttive, ma può
anche concretizzare una forma di responsabilità disciplinare, afferma in maniera inequivocabile
che le due forme di responsabilità sono distinte. Ciò che qualifica la responsabilità dirigenziale
è il risultato che il dirigente è riuscito a raggiungere in un certo arco di tempo rispetto agli
standard fissati in sede di programmazione ed organizzazione; in definitiva, la responsabilità
dirigenziale concerne la valutazione della capacità manageriale e delle competenze organizzative del dirigente.
120
Proprio perché connessa ad una inadeguatezza al ruolo e non a specifici inadempimenti, la responsabilità dirigenziale prescinde dalla sussistenza di uno
specifico profilo di colpa, nel senso che il mancato conseguimento degli obbiettivi assume di per sé rilevanza esprimendo in sé una negligenza sufficiente
ai fini della sussistenza della responsabilità dirigenziale146.
La responsabilità dirigenziale può essere, dunque, configurata come una responsabilità di risultato, che attiene specificatamente al contenuto dell’incarico conferito, agli obiettivi che il dirigente deve conseguire in esito
all’assegnazione del medesimo e alle direttive che egli deve seguire ai fini del suo raggiungimento.
Il nuovo testo dell’art. 21, D.Lgs. 165/2001 si segnala per l’introduzione, accanto alle previsioni tradizionali (mancato raggiungimento degli obbiettivi e/o
inosservanza delle direttive) e in perfetta coerenza con lo spirito della riforma,
146
In tal senso, il caso di un dirigente medico al quale era stato revocato l’incarico, sulla base di una valutazione negativa per aver costui mostrato carenza di dinamismo ed eccessiva lentezza, provocando eccessive attese dei pazienti e disagio organizzativo, per aver creato inconvenienti alla funzionalità del reparto, per non aver partecipato alle riunioni nelle quali venivano
impartite direttive operative, per aver avuto un contegno ottimale con il dirigente sovraordinato
e il personale infermieristico. Il Giudice ha ritenuto che le giustificazioni del dipendente, volte
a dimostrare la insussistenza di una colpa da parte sua, e ad addurre esimenti quali, ad esempio,
i ricorrenti periodi di assenza per malattia ai quali il dirigente era stato costretto, non potessero
consentire al medesimo l’esonero dalla responsabilità. L’accertamento di tale responsabilità, ha sottolineato il Giudice, “involge soltanto l’efficienza e le capacità direttive di un dipendente”;; la natura non disciplinare di tale responsabilità “prescinde”, “dalla ricostruzione del giudizio
negativo in rigorosi termini di colpa a carico del dirigente”. Sulla base di tali argomentazioni, è stato ritenuto legittimo il provvedimento di revoca dell’incarico disposto nei confronti del dirigente medico. (Cfr. Trib. Firenze, 16 dicembre 2002, n. 1499, inedita a quanto costa).
121
di una specifica ipotesi di responsabilità dirigenziale, conseguente al mancato
esercizio di prerogative manageriali che contraddistinguono l’operato del dirigente.
Il comma 1 bis dell’art. 21, D.Lgs. 165/2001 infatti prevede: “Al di fuori dei casi di cui al comma 1, al dirigente nei confronti del quale sia stata accertata,
previa contestazione e nel rispetto del principio del contraddittorio secondo le
procedure previste dalla legge e dai contratti collettivi nazionali, la colpevole
violazione del dovere di vigilanza sul rispetto, da parte del personale assegnato ai propri uffici, degli standard quantitativi e qualitativi fissati dall'amministrazione, conformemente agli indirizzi deliberati dalla Commissione di cui
all'articolo 13 del decreto legislativo di attuazione della legge 4 marzo 2009,
n. 15, in materia di ottimizzazione della produttività del lavoro pubblico e di
efficienza e trasparenza delle pubbliche amministrazioni, la retribuzione di risultato è decurtata, sentito il Comitato dei garanti, in relazione alla gravità
della violazione di una quota fino all'ottanta per cento”.
La responsabilità prevista al comma 1-bis implica una negligenza colpevole da
parte del dirigente, mentre quella prevista dal primo comma si può far valere
anche a prescindere da una specifica colpa.
122
Il problema che si pone, in riferimento a tale norma, riguarda il rapporto con la
responsabilità conseguente al mancato raggiungimento degli obiettivi e
all’osservanza delle direttive imputabili al dirigente previsto dal comma 1 del medesimo articolo. Tale conflitto sembra essere risolto dallo stesso art. 21,
comma 1-bis in termini di reciproca esclusione, in quanto l’applicazione di tale disposizione è prevista “al di fuori dei casi di cui al comma 1”. Sembra, dunque, che il legislatore abbia voluto prevedere che, anche laddove il dirigente
abbia conseguito gli obiettivi e rispettato le direttive, e per questo non gli siano
state applicate le misure previste dal comma 1 dell’art. 21, sia comunque passibile di altra forma di sanzione, ossia della decurtazione della sua retribuzione
di risultato, nell’ipotesi in cui egli non abbia svolto la sua funzione di garante dell’efficienza e della produttività dei dipendenti preposti al suo ufficio.
2.1.- Il ciclo di gestione della performance: cenni.
123
Al fine di una corretta applicazione delle norme in materia di responsabilità dirigenziale, il D.Lgs. n. 150/2009147 ha introdotto significativi elementi di novità
in tema di meccanismi di misurazione e di valutazione della performance, ritenendo che uno dei motivi di scarsa effettività del sistema di responsabilità dirigenziale si annidasse a monte dell’intero procedimento e consistesse nel fatto che gli obbiettivi assegnati con l’incarico fossero alquanto generici.
147
In attuazione dell’art. 4, comma 2, Legge delega 15/2009: “2. Nell’esercizio della delega nella materia di cui al presente articolo il Governo si attiene ai seguenti principi e criteri direttivi: a) individuare sistemi di valutazione delle amministrazioni pubbliche diretti a rilevare, anche mediante ricognizione e utilizzo delle fonti informative anche interattive esistenti in materia, nonchè con il coinvolgimento degli utenti, la corrispondenza dei servizi e dei prodotti resi
ad oggettivi standard di qualità, rilevati anche a livello internazionale; b) prevedere l’obbligo per le pubbliche amministrazioni di predisporre, in via preventiva, gli obiettivi che
l’amministrazione si pone per ciascun anno e di rilevare, in via consuntiva, quanta parte degli
obiettivi dell’anno precedente è stata effettivamente conseguita, assicurandone la pubblicità per i cittadini, anche al fine di realizzare un sistema di indicatori di produttività e di misuratori della qualità del rendimento del personale, correlato al rendimento individuale ed al risultato conseguito dalla struttura; c) prevedere l’organizzazione di confronti pubblici annuali sul funzionamento e sugli obiettivi di miglioramento di ciascuna amministrazione, con la partecipazione
di associazioni di consumatori e utenti, organizzazioni sindacali, studiosi e organi di informazione, e la diffusione dei relativi contenuti mediante adeguate forme di pubblicità, anche in
modalità telematica; d) promuovere la confrontabilità tra le prestazioni omogenee delle pubbliche amministrazioni anche al fine di consentire la comparazione delle attività e dell’andamento gestionale nelle diverse sedi territoriali ove si esercita la pubblica funzione, stabilendo annualmente a tal fine indicatori di andamento gestionale, comuni alle diverse amministrazioni pubbliche o stabiliti per gruppi omogenei di esse, da adottare all’interno degli strumenti di programmazione, gestione e controllo e negli strumenti di valutazione dei risultati; e) riordinare
gli organismi che svolgono funzioni di controllo e valutazione del personale delle amministrazioni pubbliche secondo i seguenti criteri: 1) estensione della valutazione a tutto il personale
dipendente; 2) estensione della valutazione anche ai comportamenti organizzativi dei dirigenti;
3) definizione di requisiti di elevata professionalità ed esperienza dei componenti degli organismi di valutazione; 4) assicurazione della piena indipendenza e autonomia del processo di valutazione, nel rispetto delle metodologie e degli standard definiti dall’organismo di cui alla lettera f); 5) assicurazione della piena autonomia della valutazione, svolta dal dirigente
nell’esercizio delle proprie funzioni e responsabilità”.
124
Per tale ragione è stato previsto un ciclo di gestione della performance148 articolato su varie fasi, comprendenti la definizione e l’assegnazione degli obiettivi, dei valori attesi di risultato e dei rispetti indicatori, il collegamento tra gli
obiettivi e l’allocazione delle risorse, il monitoraggio in corso di esercizio e
l’attivazione di eventuali interventi correttivi, la misurazione e la valutazione della performance, organizzativa ed individuale, l’utilizzo di sistemi premianti, la rendicontazione dei risultati agli organi di indirizzo amministrativo, ai vertici
delle amministrazioni, nonché ai competenti organi esterni, ai cittadini, ai soggetti interessati, agli utenti e ai destinatari dei servizi. E’ previsto, inoltre, che il piano della perfomance, redatto su base triennale, contenente l’individuazione degli indirizzi e degli obiettivi strategici e la definizione, rispetto agli obiettivi
finali e intermedi delle risorse, degli indicatori per la misurazione e la valutazione della performance dell’amministrazione nonché degli obiettivi assegnati al personale dirigenziale ed i relativi indicatori, sia redatto entro il 31 gennaio
di ogni anno. Entro il 30 giungo dovrà essere predisposta la relazione sulla perfomance che attesti, in relazione all’anno precedente, i risultati organizzativi e individuali rispetto ai singoli obiettivi programmati e alle risorse, con rilevazione degli eventuali scostamenti e il bilancio di genere realizzato.
148
“Performance” è la parola che, con le sue 98 volte, è la più utilizzata nel D.Lgs. 150/2009.
125
All’individuazione di una tempistica precisa nell’individuazione e nell’assegnazione degli obiettivi nonché della verifica del grado del loro conseguimento, si aggiunge una esplicita previsione che indica le necessarie caratteristiche dei medesimi: tra queste, si precisa che gli obiettivi devono essere
“specifici e misurabili in termini concreti e chiari” e che devono essere “riferibili ad un arco temporale determinato, di norma corrispondente ad un anno”.
2.2.- Il comitato dei Garanti.
La riforma “Brunetta” è intervenuta a modificare la disciplina prevista per il Comitato dei Garanti, la cui funzione, almeno astrattamente, è quella di evitare
che l’istituto della responsabilità dirigenziale possa essere utilizzato per esercitare un’illegittima influenza sull’autonomia del dirigente. Prima della riforma del 2009 il Comitato dei Garanti si configurava come organo ausiliario dell’amministrazione e i cui componenti erano caratterizzati da
specifica capacità professionale e da una tendenziale terzietà rispetto all’organo politico.
126
L’autonomia e il funzionamento del Comitato era tuttavia messa in discussione dai meccanismi di nomina dei suoi componenti, di esclusiva estrazione governativa, e dalla possibilità di prescindere dal parere qualora emesso oltre il termine (peraltro molto breve) previsto. L’art. 42, D.Lgs. 150/2009 ha riscritto l’art. 22 del D.Lgs. n. 165/2001149, disciplinando nuovamente il Comitato dei
Garanti, modificandone la composizione e attribuendogli nuove competenze.
Il nuovo testo dell’art. 22, D.Lgs. 165/2001 prevede, infatti, che il Comitato sia composto da un consigliere della Corte dei Conti, designato dal suo Presidente,
un componente designato dal Presidente della Commissione per la valutazione,
un altro designato dal Ministro per la pubblica amministrazione e l’innovazione scelto tra esperti con specifica qualificazione ed esperienza nei settori
149
Il nuovo testo dell’art. 22 è così formulato: “1. I provvedimenti di cui all'articolo 21, commi
1 e 1-bis, sono adottati sentito il Comitato dei garanti, i cui componenti, nel rispetto del principio di genere, sono nominati con decreto del Presidente del Consiglio dei Ministri. Il Comitato
dura in carica tre anni e l'incarico non è rinnovabile. 2. Il Comitato dei garanti è composto da
un consigliere della Corte dei conti, designato dal suo Presidente, e da quattro componenti designati rispettivamente, uno dal Presidente della Commissione di cui all'articolo 13 del decreto
legislativo di attuazione della legge 4 marzo 2009, n. 15, in materia di ottimizzazione della
produttività del lavoro pubblico, e di efficienza e trasparenza delle pubbliche amministrazioni,
uno dal Ministro per la pubblica amministrazione e l'innovazione, scelto tra un esperto scelto
tra soggetti con specifica qualificazione ed esperienza nei settori dell'organizzazione amministrativa e del lavoro pubblico, e due scelti tra dirigenti di uffici dirigenziali generali di cui almeno uno appartenente agli Organismi indipendenti di valutazione, estratti a sorte fra coloro
che hanno presentato la propria candidatura. I componenti sono collocati fuori ruolo e il posto
corrispondente nella dotazione organica dell'amministrazione di appartenenza è reso indisponibile per tutta la durata del mandato. Per la partecipazione al Comitato non è prevista la corresponsione di emolumenti o rimborsi spese. 3. Il parere del Comitato dei garanti viene reso entro il termine di quarantacinque giorni dalla richiesta; decorso inutilmente tale termine si prescinde dal parere”. 127
dell’organizzazione amministrativa e del lavoro pubblico; gli ultimi due estratti
a sorte fra i dirigenti degli uffici dirigenziali che hanno presentato la propria
candidatura e che debba essere necessariamente sentito prima dell’adozione dei provvedimenti di revoca e di mancata conferma nell’incarico, nonché nelle ipotesi di decurtazione dell’indennità di risultato a seguito della mancata vigilanza sulla attività del personale.
Il legislatore del 2009, furbescamente, con l’intento di dare un colpo al cerchio e uno alla botte, ha modificato la composizione dell’organo così da “spoliticizzarlo” rendendo l’illusione di un controllo esterno e terzo sulle determinazioni in merito agli incarichi dirigenziali, ma ne ha poi degradato il parere a semplice
visto, peraltro non obbligatorio. Rispetto alla precedente formulazione, infatti,
in base alla quale le misure sanzionatorie dovevano essere adottate “previo parere conforme del Comitato dei Garanti”, l’art. 22, D.Lgs. 165/2001 oggi recita: “I provvedimenti di cui all’art. 21, commi 1 e 1-bis sono adottati sentito il
Comitato dei Garanti”, facendo scomparire la formalizzazione del procedimento attraverso l’ “eliminazione fisica” del “parere”. 128
3.- L’inapplicabilità dell’art. 2103, C.C. agli incarichi dirigenziali: un demansionamento legalizzato.
La giurisprudenza di legittimità150, in relazione alla fine del rapporto dirigenziale, aveva avuto modo di precisare le differenze tra la dirigenza privata e
quella pubblica privatizzata: “mentre nel rapporto dirigenziale privato vale il
principio della recedibilità ad nutum, a norma dell’art. 2118 cod. civ. (e salva la disciplina risarcitoria in caso di recesso ingiustificato), nel pubblico impiego il mancato raggiungimento degli obiettivi non comporta la possibilità di risoluzione ad nutum del rapporto con il dirigente, ma tre sbocchi graduati a seconda della gravità del caso, tutti causali: l’impossibilità di rinnovo dell’incarico, la revoca dello stesso, il recesso dal rapporto di lavoro (D.Lgs.
30 marzo 2001, n. 165, art. 21, comma 5, ora comma 1, come sostituito dalla
L. 15 luglio 2002, n. 145, art. 2)”. Nel caso di impossibilità di rinnovo dell’incarico e di revoca dello stesso non viene mai in discussione il rapporto di lavoro con la Pubblica Amministrazione;; nell’ipotesi più grave di recesso, invece, si configura un vero e proprio licenziamento, in ragione del quale il dirigente perde l’incarico e lo “status”.
150
Cass., sez. lav., 1 febbraio 2007, n. 2233.
129
Ed è proprio sulla disciplina del mancato rinnovo, della revoca e del recesso
che si innesta il problema della tutela della professionalità del dirigente pubblico.
Al di là delle problematiche patologiche che scaturiscono dalla disciplina legislativa, due sono i dati costanti e intoccabili che, come fiumi sotterranei, hanno
sempre modellato la “terra di mezzo” della disciplina del dirigente pubblico privatizzato.
In primo luogo, la negazione ferma e costante ad opera della giurisprudenza
che spetti al dirigente pubblico privatizzato il diritto a vedersi riassegnato
l’incarico già espletato151.
151
Ex multis, Cass. civ. Sez. lavoro, 02/03/2009, n. 5025, rigetta App. Trento, 23/05/2005: “In tema di dirigenza medica, non è configurabile un diritto soggettivo a conservare un determinato
incarico dirigenziale, risolvendosi il controllo giudiziale circa il mancato rinnovo dell'incarico
in un'indagine sul rispetto delle garanzie procedimentali previste, nonché sull'osservanza delle
regole di correttezza e buona fede. (Nella specie, relativa al mancato rinnovo dell'incarico di
dirigente dell'unità operatoria di anestesia e rianimazione, la S.C., nell'enunciare il principio
anzidetto, ha confermato la decisione della Corte territoriale, che aveva escluso l'ammissibilità
della domanda di riesame della procedura valutativa, di per sé indenne da vizi procedurali, in
quanto rimessa alla discrezionalità dell'ente)”;; Cass. civ. Sez. lavoro, 22/12/2004, n. 23760: “Il sistema normativo del lavoro pubblico dirigenziale negli enti locali (trasfuso da ultimo nell'art.
109 del D. Lgs. n. 267 del 2000) esclude la configurabilità di un diritto soggettivo a conservare
in ogni caso determinate tipologie di incarico dirigenziale (ancorché corrispondenti all'incarico
assunto a seguito di concorso specificatamente indetto per determinati posti di lavoro e anteriormente alla cosiddetta "privatizzazione"). Lo stesso sistema, peraltro, conferma il principio
generale che, nel lavoro pubblico, alla qualifica dirigenziale corrisponde soltanto l'attitudine
professionale all'assunzione di incarichi dirigenziali di qualunque tipo e non consente perciò anche in difetto della espressa previsione di cui all'art. 19 D. Lgs. n. 165 del 2001 stabilita per
le amministrazioni statali - di ritenere applicabile l'art. 2103 cod. civ., risultando la regola del
rispetto di determinate specifiche professionalità acquisite non compatibile con lo statuto del
dirigente pubblico locale, con la sola eccezione della dirigenza tecnica”;; Rigetta, App. Napoli, 21 Agosto 2004 Cass. civ. Sez. lavoro Sent., 23/02/2007, n. 4275: “Il personale iscritto nel ruo-
130
Anche a seguito dell’eliminazione del principio di rotazione degli incarichi, che ha determinato il passaggio dalla “temporaneità” alla “precarizzazione” degli incarichi, rimane un dato immanente alla intera regolamentazione della
lo unico della dirigenza delle amministrazioni statali risulta, bensì, in possesso dell'idoneità
professionale a svolgere le mansioni corrispondenti, ma acquista la qualifica dirigenziale soltanto mediante il contratto individuale di lavoro - per la stessa qualifica - con l'amministrazione, mentre l'ordinamento non riconosce alcun diritto alla stipulazione del contratto di lavoro (e
non è, perciò, ammissibile una sentenza costitutiva ex art. 2932 c.c.), né in esito all'espletamento di procedure concorsuali, né per effetto del conferimento, con atto unilaterale e non recettizio, dell'incarico dirigenziale, né come conseguenza di ogni altro atto preliminare che, parimenti, preceda la stipulazione del contratto (nella specie, la suprema corte ha negato il diritto
del lavoratore ad ottenere, dopo che era cessata la sua sospensione cautelare dal servizio, la stipula di un contratto di lavoro per un incarico dirigenziale corrispondente a quello precedentemente ricoperto)” e ancora “In tema di impiego pubblico privatizzato, il personale iscritto nel ruolo unico della dirigenza delle amministrazioni statali acquista la qualifica dirigenziale soltanto mediante contratto individuale di lavoro con l'amministrazione, senza che costituisca titolo per l'insorgenza del diritto e del corrispondente obbligo né l'esito di procedure concorsuali
né l'atto, unilaterale e non recettizio, di conferimento dell'incarico dirigenziale, ovvero ogni altro atto preliminare che preceda la stipulazione del contratto. Ne consegue che per il dipendente pubblico l'inserimento - a seguito di sospensione cautelare obbligatoria dal servizio perché
assoggettato a misura restrittiva della libertà personale - nel ruolo unico della dirigenza delle
amministrazioni statali ai sensi dell'art. 23 del d.lgs. 3 febbraio 1993 n. 29, come sostituito
dall'art. 15 del d.lgs. 31 marzo 1998 n. 40, non costituisce titolo per l'insorgenza del diritto alla
stipulazione con l'amministrazione pubblica del contratto dal quale dipende - in via esclusiva l'acquisizione della qualifica dirigenziale. Né il contratto può essere surrogato dalla sentenza
costitutiva di cui all'art. 2932 cod. civ. che ne produca gli effetti, atteso che il giudice non può,
sostituendosi alla stessa fonte, determinare i contenuti essenziali del contratto non concluso.
(Nella specie la S.C. ha confermato, correggendone la motivazione, la sentenza di merito che
aveva respinto la domanda di un Soprintendente per i beni ambientali volta ad ottenere, una
volta cessate la restrizione della libertà personale e la sospensione dal servizio, il conferimento
dello stesso incarico in altra sede)”;; Rigetta, App. Genova, 31 Marzo 2004, Cass. civ. Sez. lavoro, 12/02/2007, n. 3003: “A seguito della privatizzazione dei rapporti di lavoro alle dipendenze delle pubbliche amministrazioni, il personale iscritto nel ruolo unico della dirigenza delle amministrazioni statali risulta in possesso dell'idoneità professionale a svolgere le mansioni
corrispondenti, ma acquista la qualifica dirigenziale solamente con la stipula di apposito contratto individuale di lavoro con l'amministrazione, senza che l'iscrizione nel ruolo costituisca
titolo per l'insorgenza del diritto alla stipulazione del contratto in questione”. Conformi anche Cass. civ. Sez. lavoro, 15/02/2010, n. 3451; Cass. civ. Sez. lavoro, 02/03/2009, n. 5025; Cass.
civ. Sez. lavoro Sent., 19/12/2008, n. 29817; Cass. civ. Sez. lavoro Sent., 26/11/2008, n.
28276; Cass. civ. Sez. lavoro Sent., 22/08/2007, n. 17888; Cass. civ. Sez. lavoro Sent.,
22/06/2007, n. 14624; Cass. civ. Sez. lavoro, 23/02/2007, n. 4275; Cass. civ. Sez. lavoro,
25/09/2006, n. 20801, Cass. civ. Sez. lavoro, 10/10/2005, n. 19677.
131
disciplina della dirigenza la facoltà, per l’ente, di evitare la cristallizzazione del
personale dirigenziale in un determinato incarico.
E poi, la previsione dell’art. 19, comma 1, D.Lgs. 165/2001, che sancisce l’inapplicabilità dell’art. 2103, c.c. agli incarichi dirigenziali: “Al conferimento
degli incarichi e al passaggio ad incarichi diversi non si applica l'articolo
2103 del codice civile”. Mentre, infatti, per il personale non dirigenziale lo ius
variandi del datore di lavoro può essere esercitato nel rispetto dell’equivalenza delle mansioni, nel caso degli incarichi dirigenziali tale principio non è operante.
La giurisprudenza152 ha ormai delineato con precisione l'inapplicabilità delle
garanzie del lavoro privato nei confronti del mutamento delle mansioni che
152
Cassazione civile sez. lav., 15 febbraio 2010, n. 3451: “Il sistema normativo del lavoro pubblico dirigenziale negli enti locali (trasfuso da ultimo nell'art. 109 d.lg. n. 267 del 2000), nell'escludere la configurabilità di un diritto soggettivo a conservare in ogni caso determinate tipologie di incarico dirigenziale (ancorché corrispondenti all'incarico assunto a seguito di concorso
specificatamente indetto per determinati posti di lavoro e anteriormente alla cosiddetta "privatizzazione"), conferma peraltro il principio generale che, nel lavoro pubblico, alla qualifica dirigenziale corrisponde soltanto l'attitudine professionale all'assunzione di incarichi dirigenziali
di qualunque tipo, e non consente perciò - anche in difetto dell'espressa previsione di cui all'art.
19 d.lg. n. 165 del 2001 stabilita per le amministrazioni statali - di ritenere applicabile l'art.
2103 c.c., risultando la regola del rispetto di determinate specifiche professionalità acquisite
non compatibile con lo statuto del dirigente pubblico locale, con la sola eccezione della dirigenza tecnica, la quale va tuttavia interpretata in senso stretto, ossia nel senso che il dirigente
tecnico, il cui incarico è soggetto ai principi della temporaneità e della rotazione, deve comunque svolgere mansioni tecniche”;; Cassazione civile, sez. lav., 2 marzo 2009 n. 5025: “In tema di dirigenza medica, non è configurabile un diritto soggettivo a conservare un determinato incarico dirigenziale, risolvendosi il controllo giudiziale circa il mancato rinnovo dell'incarico in
un'indagine sul rispetto delle garanzie procedimentali previste, nonché sull'osservanza delle
regole di correttezza e buona fede. (Nella specie, relativa al mancato rinnovo dell'incarico di
dirigente dell'unità operatoria di anestesia e rianimazione, la S.C., nell'enunciare il principio
132
anzidetto, ha confermato la decisione della Corte territoriale, che aveva escluso l'ammissibilità
della domanda di riesame della procedura valutativa, di per sé indenne da vizi procedurali, in
quanto rimessa alla discrezionalità dell'ente)”;; Cassazione civile sez. lav., 19 dicembre 2008, n.
29817 (Cassa App. Torino 3 agosto 2004 e decide nel merito): “Agli incarichi dirigenziali conferiti ai dirigenti del servizio sanitario anche in epoca antecedente all'entrata in vigore delle
modifiche introdotte dal d.lg. n. 80 del 1998 all'art. 19 d.lg. n. 29 del 1993, non è applicabile
l'art. 2103 c.c., avendo la legge previsto il principio di rotazione che costituisce fondamento
dell'assegnazione delle mansioni dirigenziali, in quanto l'incarico identifica la funzione dirigenziale e, quindi, le attività concrete assegnate al dirigente che fondano l'immedesimazione
organica con l'amministrazione. Nell'ambito del rapporto di lavoro pubblico privatizzato, la regola della rotazione degli incarichi dirigenziali - con il quale il legislatore ha inteso perseguire,
nel preminente interesse generale al raggiungimento degli obiettivi fissati all'organizzazione
dei pubblici uffici dall'art. 97 cost., il fine di evitare la cristallizzazione degli incarichi anzidetti
e, nel contempo, di arricchire le doti culturali e professionali dei dirigenti interessati mediante
lo scambio di esperienze e attività - è incompatibile con il sistema caratterizzato dal principio,
ex art. 2103 c.c., di equivalenza delle mansioni, proprio del lavoro subordinato privato”;; Cassazione civile sez. lav., 26 novembre 2008, n. 28276: “In tema di reggenza, allorché il dirigente
dell'ufficio sia provvisoriamente sostituito da personale in possesso, a sua volta, di qualifica
dirigenziale, non sorge il diritto alla tutela prevista dall'art. 2103 c.c. - espressamente esclusa
dagli articoli 16 e 19 del d.lg. n. 165 del 2001 - venendo comunque in rilievo lo svolgimento di
mansioni riconducibili alla qualifica ricoperta, né può fondarsi, dall'eventuale omissione della
stipulazione del contratto di diritto privato per l'assunzione della dirigenza , la pretesa a percepire ulteriori compensi, la cui esistenza è ricollegabile solo all'avvenuta stipula dell'atto. (Nella
specie, relativa alla sostituzione del Direttore dell'Agenzia regionale per l'impiego da parte di
un altro dirigente dell'ufficio, durata, quasi senza soluzioni di continuità, dal 1991 al 1999, la
S.C., nel rigettare il ricorso, ha comunque escluso lo svolgimento di mansioni superiori non
potendosi qualificare l'Agenzia regionale per l'impiego quale ufficio dirigenziale generale)”;; Cass. 22 febbraio 2006 n. 3880: “Con la istituzione del ruolo unico dei dirigenti - previsto
dall'art. 15 d.lg. 31 marzo 1998 n. 80, che ha sostituito l'art. 23 d.lg. 3 febbraio 1993 n. 29, e le
cui modalità di costituzione e tenuta sono disciplinate dal d.P.R. 26 febbraio 1999 n. 150 - il
legislatore ha riconosciuto al datore di lavoro pubblico ampia potestà discrezionale sia nel ritenere di non avvalersi di un determinato dipendente mettendolo così a disposizione del ruolo
unico, sia nella scelta dei soggetti ai quali conferire incarichi dirigenziali; rispetto a tale potestà
discrezionale la posizione soggettiva del dirigente aspirante all'incarico non può atteggiarsi
come diritto soggettivo pieno, bensì come interesse legittimo di diritto privato, da riportare,
quanto alla tutela giudiziaria, nella più ampia categoria dei "diritti" di cui all'art. 2907 c.c. La
tutela di tale posizione giuridica soggettiva, affidata al giudice ordinario in funzione di giudice
del lavoro, non è dissimile da quella già riconosciuta al partecipante ad una procedura di selezione concorsuale adottata dal datore di lavoro privato ed è estesa a tutte le garanzie procedimentali di selezione previste dalla legge e dai contratti collettivi”, Cass. 6 aprile 2005 n. 7131:
“Nelle amministrazioni dello Stato, dopo che il d.lg. 31 marzo 1998 n. 80 ha prodotto la cessazione automatica degli incarichi dirigenziali a tempo indeterminato e introdotto il principio di
temporaneità dei nuovi incarichi; il dirigente non ha alcun diritto soggettivo all'assegnazione di
un incarico di funzione dirigenziale, essendo in facoltà dell'amministrazione di confermare il
dirigente nel precedente incarico o di attribuirgli un diverso incarico, o di porlo a disposizione
del ruolo unico costituito presso la presidenza del consiglio dei ministri”;; Cass. 20 marzo 2004
n. 5659: “Nelle amministrazioni dello Stato, dopo che il d.lg. 31 marzo 1998 n. 80 ha prodotto
133
possa comportare dequalificazione professionale del dirigente. Tale previsione
è considerata immanente al nuovo assetto della dirigenza pubblica contrattualizzata, nel quale la qualifica dirigenziale non esprime più una posizione lavorativa inserita nell'ambito di una carriera e caratterizzata dallo svolgimento di
determinate mansioni, bensì esclusivamente l'idoneità professionale del dipendente, che tale qualifica ha acquisito mediante il contratto di lavoro stipulato
all'esito della prevista procedura concorsuale, a svolgerle concretamente per effetto del conferimento, a termine, di un incarico dirigenziale. Dalla scissione
tra instaurazione del rapporto di lavoro dirigenziale e conferimento dell'incarico si fa discendere l'insussistenza di un diritto soggettivo del dirigente pubblico
al conferimento di un incarico dirigenziale, determinando quello che nel settore
privato sarebbe considerato un vero e proprio demansionamento, “per giunta
la cessazione automatica degli incarichi dirigenziali a tempo indeterminato e introdotto il principio di temporaneità dei nuovi incarichi; il dirigente non ha alcun diritto soggettivo all'assegnazione di un incarico di funzione dirigenziale, essendo in facoltà dell'amministrazione di
confermare il dirigente nel precedente incarico o di attribuirgli un diverso incarico, o di porlo a
disposizione del ruolo unico costituito presso la presidenza del consiglio dei ministri”;; Cass. 22
dicembre 2004 n. 23760: “Il sistema normativo del lavoro dirigenziale negli enti locali esclude la configurabilità di un diritto soggettivo a conservare determinate tipologie di incarico dirigenziale (ancorché assunte a seguito di concorso ed anteriormente alla c.d. "privatizzazione") e
non consente - anche in difetto dell'espressa previsione di cui all'art. 19 d.lg. n. 165, cit., stabilita per le amministrazioni statali, e del previsto adeguamento dell'ordinamento ai principi della
dirigenza statale - di ritenere applicabile l'art. 2103 c.c., risultando la regola del rispetto delle
specifiche professionalità acquisite non compatibile con lo statuto del dirigente pubblico locale, con la sola eccezione della dirigenza tecnica”. 134
punitivo, senza che a ciò siano di ostacolo i fondamentali principi di tutela della professionalità e di irriducibilità della retribuzione propri di quelli che pure
dovrebbe essere il diritto “comune” del lavoro: principi applicabili senza riserve ai dirigenti privati (pur privi di garanzie legali di stabilità del rapporto,
e dunque certamente licenziabili per inefficienza della gestione), che vengono
invece espressamente accantonati nei confronti dei dirigenti pubblici, con una
doppia deroga espressa all’art. 2103 cod. civ., che riguarda sia il profilo negativo della tutela della professionalità, e cioè il divieto di adibizionea funzioni
inferiori, sia il profilo positivo inerente alla corrispondenza tra funzioni ed inquadramento ”153.
Tale consolidato indirizzo ha trovato alcuni temperamenti sulla base del riconoscimento giurisprudenziale che la mancata attribuzione di compiti lavorativi
al dirigente integri comunque un demansionamento professionale154, che ca-
153
Cfr. A. PILEGGI, Efficienza cit., p. 90.
La Cassazione, inoltre, tornando sul punto, ha specificato che il risarcimento del danno può
essere riconosciuto solo a seguito di un’ allegazione, a carico del lavoratore che voglia accedere alla tutela risarcitoria, che “ad esempio deduca l'esercizio di un'attività soggetta a continua
evoluzione e caratterizzata da vantaggi connessi all'esperienza professionale destinati a venir
meno in conseguenza del loro mancato esercizio per un apprezzabile periodo di tempo, o provi
in concreto le aspettative conseguibili in caso di regolare svolgimento del rapporto. Il danno
da dequalificazione, proprio perché può assumere diversa natura, richiede che il lavoratore
indichi in maniera specifica il tipo di danno che assume di avere subito e poi fornisca la prova
dei pregiudizi in concreto scaturiti, anche attraverso presunzioni gravi, precise e concordanti,
ed tal fine possono, ad esempio, essere valutati quali elementi presuntivi, la qualità e quantità
dell'attività lavorativa svolta, il tipo e la natura della professionalità coinvolta, la durata del
demansionamento, la diversa e nuova collocazione lavorativa dopo la lamentata dequalifica154
135
giona al dirigente un danno alla professionalità, da determinarsi anche in via
equitativa, secondo i criteri utilizzati dalla giurisprudenza nel lavoro privato155.
Tuttavia la massima tutela riconosciuta, in linea con la tradizione, non è la garanzia dell’incarico al dirigente, ma un mero risarcimento del danno che, a
fronte di un’eventuale messa in mobilità e di una conseguente perdita di professionalità, non può certo costituire una misura adeguata a tutela del lavoro.
In tendenza opposta, ma ancora minoritaria, probabilmente isolata, è il principio affermato dalla Suprema Corte con la sentenza n. 24738/2008156, che ha riconosciuto il demansionamento come un fatto duraturo e foriero di perdita di
professionalità, che non può configurarsi ove la sottoutilizzazione professionale abbia carattere meramente temporaneo e provvisorio e sia conseguente
all'immediato avvio di una struttura, purché seguita dalla pronta assegnazione
zione”: Cass. 26 febbraio 2009 n. 4652; Cass. 19 dicembre 2008 n. 29832; Cass., sez. un., 24
marzo 2006 n. 6572; Cass. 26 giugno 2006 n. 14729.
155
Cass. 26 novembre 2008 n. 28274.
156
In materia di pubblico impiego privatizzato, la sottoutilizzazione professionale di un dirigente a seguito di trasferimento ad un ente di nuova istituzione - nella specie, Agenzia regionale per l'ambiente - non integra i presupposti del demansionamento, quale fatto duraturo e foriero di perdita di professionalità, ove l'attività lavorativa svolta abbia carattere meramente temporaneo e provvisorio e sia conseguente all'immediato avvio della nuova struttura operativa, sempreché sia seguita dalla pronta assegnazione di mansioni equivalenti a quelle di provenienza
rispetto alla competenza richiesta, al livello professionale raggiunto ed al patrimonio professionale acquisito dal dipendente (nella fattispecie, la Corte ha confermato la decisione di merito
che aveva escluso la responsabilità risarcitoria sul rilievo che il demansionamento e la privazione delle funzioni erano diretta conseguenza delle difficoltà operative collegate alla fase
d'avvio della nuova struttura, avevano riguardato la generalità dei dipendenti di fascia dirigenziale, ed erano state di breve durata, essendo seguite dall'attribuzione di nuove mansioni di carattere dirigenziale del massimo livello riconosciuto presso il nuovo ente).
136
di mansioni equivalenti a quelle di provenienza rispetto alla competenza richiesta, al livello professionale raggiunto ed al patrimonio professionale acquisito
dal dipendente.
Di conseguenza, non soltanto il dirigente non ha diritto a vedersi riassegnare
l’incarico già espletato, ma neppure ha diritto ad ottenere un incarico ad esso
equivalente.
L’esigenza di tutelare l’interesse del dirigente al conferimento di un incarico di
medesimo livello a quello espletato, ignorata dal legislatore, è stata ascoltata
dalla contrattazione collettiva, trovando riconoscimento nell’art. 13, comma 4 del CCNL della dirigenza dei Ministeri per il quadriennio 1998/2001157, il quale disponeva che, in assenza di una valutazione negativa, qualora
l’amministrazione non avesse inteso confermare il medesimo nell’incarico già
ricoperto avrebbe dovuto assicurare al medesimo un incarico “almeno equiva157
L’art. 13, CCNL per il Quadriennio 1998 - 2001 ed il primo Biennio economico 1998 –
1999 del Personale Dirigente dell'Area I che al primo comma sanciva, quasi come un comandamento “tutti i dirigenti hanno diritto ad un incarico”, al successivo comma 4 stabiliva: “1. Le
singole amministrazioni effettueranno con le procedure di cui all'art. 35, entro tre mesi dalla
scadenza naturale del contratto individuale, una valutazione complessiva dell'incarico svolto;
qualora non intendano confermare lo stesso incarico precedentemente ricoperto e non vi sia
una espressa valutazione negativa ai sensi del citato art. 35, sono tenute ad assicurare al dirigente un incarico almeno equivalente. 2. Per incarico equivalente si intende l'incarico cui corrisponde una retribuzione di posizione complessiva di pari fascia ovvero una retribuzione di posizione il cui importo non sia inferiore del 10% rispetto a quello precedentemente percepito.
Nelle ipotesi di ristrutturazione e riorganizzazione che comportano la modifica o la soppressione delle competenze affidate all'ufficio o una loro diversa valutazione, si provvede ad una nuova stipulazione dell'atto di incarico, assicurando al dirigente l'attribuzione di un incarico equivalente”.
137
lente”, intendendosi per tale l’incarico cui corrispondeva una retribuzione complessiva di pari fascia ovvero una retribuzione di posizione il cui importo
non fosse inferiore al 10 per cento rispetto a quello precedentemente percepito.
Al di là delle critiche che possono essere mosse alla scelta del criterio di equivalenza valutato su base retributiva, la L. 145/2002 ha disposto l’introduzione del comma 12 bis dell’art. 19, D.Lgs. 165/2001, il quale, proprio in ragione
della disciplina derogatoria introdotta con il contratto collettivo ed al fine di
bypissarla, sancisce la non derogabilità da parte della contrattazione collettiva
delle disposizioni in materia di incarichi dirigenziali. Di conseguenza le citate
norme della contrattazione collettiva, essendo stata stipulate in deroga al principio di legge, sono state espunte dal successivo CCNL.
4.- L’impossibilità di rinnovo e la revoca dell’incarico: le sanzioni “espulsive” del rapporto di servizio e “conservative” del rapporto di lavoro.
138
Ai sensi dell’art. 21, D.Lgs. 165/2001, le sanzioni che determinano il caducamento dall’incarico e al contempo la conservazione del rapporto di lavoro sono l’impossibilità di rinnovo dell’incarico a seguito del mancato raggiungimento
degli obiettivi da parte del dirigente all’esito delle risultanze del sistema di valutazione e la revoca dal’incarico con il collocamento del dirigente a disposizione nei ruoli a fronte del mancato raggiungimento degli obiettivi o di una inosservanza delle direttive imputabili al dirigente connotati da una rilevante
gravità. In relazione a quest’ultima ipotesi, stante la genericità del disposto
normativo, l’opinione dominante è che alla revoca dall’incarico dirigenziale
segua una sostanziale inutilizzazione del dirigente, alimentando i dubbi di chi
valuta difficilmente giustificabile rispetto ai principi costituzionali di buon andamento ed economicità la permanenza nell'amministrazione di dirigenti retribuiti, ma concretamente inerti in quanto privi di incarico e, a causa della loro
inutilizzazione, demotivati e frustrati dalla mancanza di una prestazione lavorativa da svolgere e dalla perdita del bagaglio professionale acquisito.
Alla disciplina legislativa si aggiunge quella della contrattazione collettiva: i
CCNL 2006-2009, che hanno fissato il limite massimo del collocamento a disposizione in due anni, prevedono che, durante tale periodo, in cui il dirigente
ha diritto al solo trattamento economico stipendiale, è tenuto ad accettare even-
139
tuali incarichi dirigenziali (anche se non equivalenti al precedente) proposti
dall’Amministrazione di appartenenza e che l’ingiustificata mancata accettazione dell’incarico comporta il recesso dal rapporto di lavoro. I contratti inoltre
dispongono che, prima della scadenza del periodo massimo di due anni del collocamento a disposizione, possa trovare applicazione la disciplina della risoluzione consensuale secondo le disposizioni dei previgenti CCNL.
4.1.- La tutela giurisdizionale tra diritto alla rassegnazione
dell’incarico e risarcimento del danno.
Il dirigente pubblico non può essere arbitrariamente rimosso dal suo incarico158. A tutela della sua indipendenza è stato infatti previsto un sistema di valu-
158
L’accesso alla qualifica dirigenziale avviene, per la seconda fascia, mediante due procedure diverse: concorso o corso-concorso; per la prima fascia attraverso un concorso pubblico, per
titoli ed esami relativamente alla copertura della metà dei posti che si rendono annualmente disponibili a seguito delle cessazioni dal servizio, per la copertura di singoli posti dirigenziali di
prima fascia che richiedano specifica esperienza e peculiare professionalità, si potrà provvedere
tramite un apposito concorso pubblico destinato a soggetti in possesso dei predetti requisiti e
delle attitudini manageriali corrispondenti ai posti di funzione da coprire, i quali stipuleranno
un contratto a tempo determinato di durata non superiore a 3 anni.
Gli incarichi dirigenziali si classificano in tre categorie: incarichi di vertice, cioè quelli di Segretario generale, di direzione di strutture articolate al loro interno in uffici dirigenziali e altri
equivalenti. Tali incarichi sono conferiti a dirigenti di prima fascia o a persone in possesso del-
140
tazione del suo operato, all’esito del quale si fa discendere la conferma o meno nell’incarico svolto.
Tuttavia il sistema, che comunque presenta delle criticità, può dare luogo ad
aspetti patologici che non possono lasciare il dirigente pubblico sfornito di tutele.
Il legislatore, anche quello del 2009, ha sempre ignorato il problema, nulla disponendo circa le conseguenze dell’illegittimità dell’atto di revoca della Pubblica Amministrazione. E la giurisprudenza, tanto di merito quanto di legittimità, da anni dibatte sull’opportunità di garantire il solo risarcimento del danno o di disporre in via giudiziale (anche) la riassegnazione nell’incarico.
le specifiche qualità professionali richieste dal comma 6, dell’art. 19 del D.Lgs. 165/2001, con decreto del Presidente della Repubblica, previa deliberazione del Consiglio dei ministri su proposta del ministro competente. Trattasi di incarichi di carattere prevalentemente fiduciario che
implicano compiti di collaborazione con il Ministro e cessano comunque di diritto decorsi novanta giorni dal voto sulla fiducia al nuovo Governo; incarichi di uffici dirigenziali generali,
che concernono la direzione di strutture ministeriali della dimensione di direzione generale o
strutture equiparate. Essi sono conferiti con decreto del Presidente del Consiglio dei Ministri,
su proposta del Ministro competente a dirigenti iscritti nella prima fascia di ruolo di cui all’art. 23 del D.Lgs. 165/2001, o in misura non superiore al settanta per cento della relativa dotazione,
agli altri dirigenti appartenenti ai medesimi ruoli ovvero, con contratto a tempo determinato ed
esperti particolarmente qualificati (art. 19, co. 4, 5-bis, del D.Lgs. 165/2001); incarichi di funzioni dirigenziali non generali, i quali consistono in incarichi di direzione di strutture minori,
quali divisioni o sezioni, ovvero di uffici periferici. Essi sono conferiti dal dirigente dell’ufficio dirigenziale generale ai dirigenti della seconda fascia assegnati al suo ufficio dagli organi di
governo, possono essere conferiti anche a dirigenti di amministrazioni non statali, compresi gli
organi costituzionali, nel limite del cinque per cento della dotazione organica dei dirigenti di
seconda fascia e ad esperti particolarmente qualificati, esterni o anche interni a ciascuna amministrazione, entro il limite dell’otto per cento della medesima dotazione (art. 19, co. 5, 5-bis, e
6 del D.Lgs. 165/2001).
141
Nel caso in cui il giudice ordinario riconosca l'invalidità della revoca, potrà dichiararne la nullità. Occorre però interrogarsi se da una simile pronuncia discenda anche il diritto del dirigente alla reintegrazione nelle funzioni dirigenziali svolte sulla base dell'originario provvedimento di conferimento dell'incarico
I giudici di merito continuano ad oscillare tra posizioni discordanti, dichiarando, alcuni il diritto al solo risarcimento del danno159, altri la riassegnazione
nell’incarico precedentemente svolto160.
159
Trib. Roma, 23 gennaio 2003, in GC, I, 2278, 2003, Trib. Firenze 15 gennaio 2004, in Lav.
Pubbl. Amm., p. 194, 2004; Trib Firenze 6 dicembre 2002, in Riv. Crit. Dir. Lav., 759, 2003,
Trib. Avezzano, 31 gennaio 2006, in Lav. giur. 9, 898, 2006, nota di Filì.
160
Tra le ultime Trib. Verona 14 novembre 2007, in Banca Dati Utet Giuridica, 2007; Cass. 1
febbraio 2007, n. 2233, in Arg. Dir. Lav., 2007, 3, 686, con nota di Boscati; in Foro It., 2007,
6, 1, 1719 nota di D’Auria;; in questa Lav. giur., 2007, 889, con nota di Menghini, il quale ha
sottolineato come i giudici abbiano riconosciuto la reintegra del dirigente perché nulla disponeva il contratto collettivo riguardo alle conseguenze del recesso ingiustificato, sottolineando
come fuori da casi così marginali trovi applicazione la previsione negoziale in deroga alla legge. Nel vigore della versione dell'art. 19 d.lgs. n. 165 antecedente alla modifica apportata con
la L. 145/2002, la giurisprudenza aveva in più di un'occasione disposto la reintegrazione
nell'incarico: Trib. Catanzaro, 27 febbraio 2002, in GC, I, 2630, 2002; Trib. Napoli, 20 giugno
2000, in FI, I, 718, 2001; Trib. Venezia, 8 giugno 2000, ibidem, 719; Trib. Firenze, 13 ottobre
1999, in FI, I, 1302, 2000; Trib. Firenze, 20 luglio 1999, ibidem, 1303; Trib. Potenza, 16 novembre 1999, in GC, I, 916, 2000; Trib. Belluno, 3 ottobre 2002, in GA, 1172, 2002 ha confermato l'ordinanza con la quale era stato ordinato all'amministrazione di reintegrare nell'incarico precedentemente ricoperto un dirigente che era stato soggetto ad un provvedimento di rotazione. una simile possibilità per il giudice ordinario è stata affermata anche dopo la novella
del 2002. Trib. Roma, 21 aprile 2005, in www.lavoropubblico.formez; Trib. Benevento, 17 novembre 2004, in ENNIO APICELLA – FILIPPO CURCURUTO – PAOLO SORDI – VITO TENORE, Il
pubblico impiego “privatizzato” nella giurisprudenza, Milano, Giuffrè, p. 512, 2005; Trib.
Roma, 5 febbraio 2003, in GC, I, 2277, 2003. Ancora sul tema in favore della riassegnazione:
Trib. Napoli, 27 settembre 2006, in Lav. Pubbl.Amm., 1211; Trib. Voghera, 15 gennaio 2004,
in Riv. Critica Dir. Lav., p. 98, 2004, nel caso dell’illegittima revoca dell’incarico, successiva alla conferma, del segretario comunale, con diritto dello stesso alla reintegrazione in forma
specifica nelle precedenti funzioni; Trib. Napoli 7 gennaio 2003, in Dir. Lav. Merc., p. 505,
142
La Corte di Cassazione161, a sezioni unite, dopo una serie di pronunce discordanti condizionate dai continui ritocchi alla materia operati dal legislatore, ha
da ultimo dichiarato il diritto alla rassegnazione dell’incarico illegittimamente revocato162: “Il d.lg. 30 marzo 2001 n. 165, art. 21 dopo aver definito la fattispecie della "responsabilità dirigenziale", prevede la revoca dell' incarico dirigenziale solo "in relazione alla gravità dei casi"; sicché occorre che sussistano i presupposti di fatto della responsabilità dirigenziale (mancato raggiungimento degli obiettivi, inosservanze di direttive, illeciti disciplinari) e che
questi raggiungano una soglia di apprezzabile gravità tale da essere proporzionale alla più radicale misura della revoca dell' incarico . In ogni caso, a
garanzia del dirigente , gli incarichi dirigenziali possono essere revocati e2003; Trib. Piacenza 30 ottobre 2003 e Trib. Roma 6 dicembre 2001, entrambe in
www.lavoropubblico.formez.it.. Le corti di merito, però, hanno in alcuni casi distinto dalla revoca in toto dell’incarico il caso in cui la revoca fosse strumentale all’attribuzione
di altre mansioni: sotto il profilo della salvaguardia della professionalità acquisita, oltre al risarcimento del danno veniva assicurata anche la rimozione degli effetti mediante “reintegrazione” nella precedente posizione di lavoro: Trib. Ariano Irpino, 15 ottobre 2002, in Risorse
umane, p. 279, 2003; Trib. Firenze, 13 ottobre 1999, in Foro It., I, p. 1302, 2000; Trib. Firenze,
20 luglio 1999, ibidem, p. 1303.
161
Cass. civ. SS. UU., 01 dicembre 2009, n. 25254
162
Cfr. Cass. civ., sez. lav. 01 febbraio 2007, n. 2233: “Nel rapporto dirigenziale pubblico esiste una scissione, ignota al diritto privato, tra l'acquisto della qualifica di dirigente con rapporto
di lavoro a tempo indeterminato e il successivo conferimento, a tempo determinato, delle funzioni dirigenziali, sicché la disciplina propria del settore privato - e in particolare l'esclusione
del dirigente , ex art. 10 l. 15 luglio 1966 n. 604, dal regime di stabilità reale - non può essere
automaticamente trasposta nel settore pubblico; conseguentemente deve affermarsi che l'illegittimità del recesso di una p.a. dal rapporto di lavoro con un dirigente comporta l'applicazione al
rapporto fondamentale sottostante della disciplina di cui all'art. 18 st. lav., a norma dell'art. 51,
comma 2, d.lg. 30 marzo 2001 n. 165, mentre all' incarico dirigenziale si applica la disciplina
del rapporto a termine sua propria”.
143
sclusivamente nei casi e con le modalità dell'art. 21, comma 1, secondo periodo, cit. Quanto poi alle conseguenze della revoca illegittima dell' incarico dirigenziale la disciplina del recesso dal rapporto di lavoro dei dirigenti pubblici
non è quella dell'art. 2118 c.c., propria dei dirigenti privati, ma segue i canoni
del rapporto di lavoro dei dipendenti con qualifica impiegatizia. Pertanto, in
caso di revoca illegittima dell' incarico dirigenziale ne consegue che l'Amministrazione è tenuta a ripristinare l' incarico dirigenziale illegittimamente revocato ed a corrispondere le differenze retributive”.163
163
A conclusione diversa è giunta la stessa Corte di Cassazione (Cass. sez. lav. 19 giugno
2007, n. 14186) in relazione alla pretesa del dirigente legittimamente rimosso di ottenere un
risarcimento dei danni in ragione della mancata percezione delle mensilità residue; pretesa respinta in primo grado, ma accolta in sede di appello, sul presupposto che, non essendo il limite
di durata minima dell'incarico dirigenziale suscettibile di riduzione convenzionale tra le parti,
la revoca intervenuta prima dello scadere del termine minimo di durata (biennale, nel caso in
esame), benché legittima e fondata, radicherebbe, in ogni caso, il diritto del dirigente al risarcimento del danno, da quantificarsi nella misura delle retribuzioni che gli sarebbero spettate
fino allo scadere del biennio. Al giudizio della Corte viene quindi sottoposto l'effetto giuridico
della cessazione anticipata del rapporto di incarico dirigenziale a termine, e in particolare l'ipotizzata stabilità del dirigente pubblico nel periodo di durata minima dell'incarico, che, laddove
asserita, configurerebbe in capo a questi, anche in caso di dedotta legittimità della revoca per
giusta causa ex art. 21, d. lgs. n. 165/2001, una ragione di danno risarcibile per tutto il restante
periodo completante l'incarico. La decisione si fonda sul rilievo sistematico occupato dall'art.
21 del d.lgs. n. 165/2001 nel contesto ordinamentale di riferimento. La Corte, infatti, dopo aver
richiamato l'allora vigente disciplina secondo cui gli incarichi dirigenziali sono conferiti a tempo determinato e hanno una durata non inferiore a due anni e non superiore a sette, con facoltà
di rinnovo (art. 19, secondo comma, d. lgs. n. 165/2001), la pone in relazione con l'art. 21 dello
stesso testo legislativo, che contempla le ipotesi di responsabilità dirigenziale connesse al mancato raggiungimento degli obiettivi e all'inosservanza delle direttive generali, quali fattispecie
legittimanti la revoca dell'incarico dirigenziale e la destinazione del dirigente ad altro incarico.
In tale contesto sembra inverosimile che, a fronte di un provvedimento di revoca pienamente
legittimo, sia sul piano delle motivazioni sostanziali sia su quello dei vincoli procedurali,
l'amministrazione si veda poi impegnata a riconoscere al dirigente giustamente destituito un
rimedio risarcitorio, realizzando così un tipo di sanzione non contemplata dall'art. 21, cit., che
si risolverebbe in un ingiustificato mantenimento in vita degli effetti giuridici dell'incarico diri-
144
Per quanto riguarda, poi, i rimedi risarcitori, la prima circostanza di fatto da tener presente è quella relativa all'affidamento o meno di altro incarico al dirigente cui sia stato illegittimamente revocato quello inizialmente assegnato. In
caso negativo, il provvedimento di revoca determina sicuramente una lesione
del diritto soggettivo del dirigente di eseguire mansioni di livello dirigenziale
(diritto che trova fonte nel contratto di lavoro); in questo caso, quindi, il dirigente ha diritto al risarcimento del danno alla professionalità, al pari di qualsiasi altro dirigente al quale non sia stato assegnato alcun incarico. Tale danno andrà liquidato sulla base della durata del periodo di tempo in cui il dirigente è
rimasto privo di incarico.
Ma la tutela risarcitoria configurabile a favore del dirigente che si sia visto revocare in maniera illegittima un incarico in precedenza legittimamente assegnatogli non si arresta a questo unico profilo. Infatti deve riconoscersi che, a
seguito del provvedimento di conferimento dell'incarico, il precedente interesse
all'attribuzione di un determinato incarico aveva ormai acquisito lo spessore
genziale revocato, fino alla scadenza del termine di durata minima, difficilmente tollerabile dal
punto di vista dei principi costituzionali del buon andamento e dell'economicità della pubblica
amministrazione. Diversamente, la pretesa risarcitoria da parte del dirigente destituito rileva
nei soli casi in cui l'incarico sia stato revocato illegittimamente, per carenza di responsabilità
dirigenziale o anche disciplinare; fattispecie, quest'ultima, che determina sicuramente una lesione del diritto del dirigente di eseguire mansioni di livello dirigenziale e, quindi, un diritto al
risarcimento del danno alla professionalità «che andrà liquidato sulla base della durata del periodo di tempo in cui il dirigente è rimasto privo di incarico».
145
del diritto soggettivo (appunto allo svolgimento, non più solamente di un qualsiasi incarico dirigenziale, ma proprio di quello specifico incarico dirigenziale
oggetto del provvedimento di conferimento) e pertanto nulla osta alla piena risarcibilità di qualsiasi profilo di pregiudizio derivante dall'illegittima revoca.
Ne consegue che il dirigente avrà diritto al risarcimento anche dei pregiudizi
economici connessi, non già semplicemente al mancato espletamento di funzioni dirigenziali in assoluto, ma al mancato svolgimento proprio delle funzioni
dirigenziali oggetto dell'incarico illegittimamente revocatogli. Pertanto il giudice dovrà tener conto, ai fini della quantificazione, anche del trattamento economico accessorio collegato al particolare incarico dirigenziale di cui si tratta.
Quest'ultima precisazione rende evidente che anche nella diversa ipotesi in cui
al dirigente, contestualmente all'illegittima revoca del primo incarico, sia assegnato altro incarico dirigenziale, potrà apprezzarsi un danno risarcibile tutte le
volte in cui il secondo incarico non sia equivalente al primo.
Ciò, in primo luogo, sul piano del trattamento economico complessivo: infatti,
in virtù dell'originario provvedimento di conferimento dell'incarico, il dirigente
aveva acquisito il diritto a svolgere quell'incarico per tutta la durata prefissata
e, conseguentemente, anche a percepire il relativo trattamento economico ac-
146
cessorio per il medesimo lasso di tempo; se il trattamento accessorio proprio
del successivo incarico è inferiore, il dirigente avrà diritto alla differenza.
Si deve ammettere, inoltre, la possibilità per il dirigente di far valere, in simili
eventualità, anche un danno alla professionalità. Infatti, se è vero che, ai sensi
dell'art. 19 d.lgs. n. 165 del 2001, il contratto di lavoro di dirigente statale deve
intendersi pienamente rispettato dall'Amministrazione quale che sia il tipo di
incarico che assegna al dipendente e se pure è vero che, in caso di passaggio
(legittimamente attuato) da un incarico all'altro, il dirigente non ha un interesse
tutelato a vedersi affidato un incarico del medesimo livello di quello ricoperto
in precedenza, è però altrettanto vero che non può sostenersi che un incarico di
direzione, ad esempio, di un dipartimento ministeriale determini l'esplicazione
della medesima professionalità di un incarico di direzione di un qualsiasi ufficio dirigenziale di livello non generale; pertanto, nel momento in cui il primo
venga illegittimamente revocato ante tempus ed al dirigente sia assegnato il secondo, sembra inevitabile riconoscere una lesione del diritto alla professionalità, anche se, in sede di liquidazione di tale danno, il giudice deve tener conto
necessariamente del fatto che l'incarico sarebbe comunque cessato per scadenza del termine originariamente stabilito nel provvedimento di conferimento e,
quindi, anche l'entità del risarcimento sarà diversa a seconda del tempo che, al
147
momento della revoca, residuava prima della scadenza naturale dell'incarico;
ciò in quanto, alla scadenza naturale del primo incarico, l'Amministrazione avrebbe potuto del tutto legittimamente assegnare al dirigente un incarico di livello inferiore.
Quanto al diritto al risarcimento del danno all'immagine ed alla dignità del dirigente, esso sussisterà non automaticamente in ogni caso di revoca illegittima,
ma solamente nei casi in cui una simile vicenda sia caratterizzata da condotte
e/o atti della P.A. gratuitamente lesivi di quei beni del lavoratore.
4.2.- Riorganizzazione degli uffici e revoca dell’incarico dirigenziale. Quale tutela?
Il dirigente amministrativo ed il dirigente dei servizi alla persona del Comune
di Limbiate avevano adito il giudice ordinario lamentando l’illegittimità del provvedimento di sospensione cautelare e poi di revoca dell’incarico dirigenziale, adottato dal Sindaco, e l’illegittimità della delibera della Giunta comunale di dichiarazione di eccedenza e poi di collocamento in disponibilità. Con atto
148
particolarmente articolato, i ricorrenti avevano eccepito la mancata individuazione dei motivi della revoca dell’incarico ed il mancato rispetto della relativa
procedura, nonché la nullità della procedura di modifica della dotazione organica e della connessa procedura di mobilità, cui erano stati sottoposti, per la
mancata osservanza dell’iter previsto sia dalla legge sia dalla contrattazione
collettiva. Alla base della
vertenza, i dirigenti avevano comunque posto il carattere discriminatorio dei
provvedimenti presi nei loro confronti, per divergenza politica con la giunta entrante, e avevano chiesto, una volta dichiarata l’illegittimità degli atti di gestione, previa disapplicazione degli atti amministrativi presupposti, la reintegra nel
posto di lavoro ed il risarcimento dei danni patrimoniali, esistenziali,
all’immagine e del danno morale. Entrambi i gradi di merito, confermata la
giurisdizione della magistratura ordinaria, avevano accolto la questione
dell’illegittimità della revoca degli incarichi dirigenziali, nonché della illegittimità del collocamento in disponibilità, riconoscendo tutela risarcitoria, ma solo per le voci di danno patrimoniale, all’immagine ed alla professionalità quest’ultimo ridotto in appello – disattendendo invece la domanda di reintegrazione o di riammissione in servizio nelle precedenti mansioni dirigenziali. La
149
Corte di Cassazione164, invece, si è pronunciata a favore della riassegnazione
dell’incarico, precedentemente revocato con atto di riforma della pianta organica a sua volta giudicato illegittimo per contrarietà alla legge. La questione del
diritto al ripristino delle funzioni dirigenziali si dimostra di indubbio interesse.
Ciò che viene in rilievo nel caso di specie è proprio la soppressione delle posizioni dirigenziali, a cui aveva fatto seguito il recesso ante tempus dall’incarico: quest’ultimo atto, giudicato privo di giusta causa, determina il diritto del dirigente a riprendere servizio nella propria posizione e per il tempo residuo di durata, detratto il periodo d’illegittima revoca dell’incarico. Pronunciata l’illegittimità della delibera di soppressione delle posizioni dirigenziali, per
violazione di legge, e disapplicato quindi l’atto, il vizio si è proiettato a cascata anche sulla revoca degli incarichi, sul collocamento in posizione di staff ed ancora sulla messa in disponibilità. Tuttavia, i giudici di merito non vi avevano
ravvisato alcuna nullità per motivi discriminatori e quindi non ammisero la
reintegra nell’incarico dirigenziale, come la legge stessa prevedrebbe in circostanze simili. Le Sezioni Unite affermano che la riammissione nell’incarico dirigenziale non sarebbe limitata alla sola esistenza del motivo discriminatorio:
allo stesso risultato si perviene dalla dichiarata disapplicazione dell’atto pre164
Cassazione civile, Sez. Un., 16 febbraio 2009, n. 3677
150
supposto per violazione di legge, che travolge tutti gli effetti della revoca ante
tempus dell’incarico dirigenziale. Il ragionamento prende le mosse dalla considerazione che, nella specie l’amministrazione avrebbe meramente applicato un atto di organizzazione carente dei presupposti legali. Rilevato ciò, non potrebbe
che derivare la perdita di efficacia di ogni atto successivo con la reviviscenza
della situazione quo ante.
Non potrebbe, invece, ammettersi la sola tutela risarcitoria165: allo stesso modo
che per la reintegra del settore privato, quand’anche essa avvenisse a distanza 165
Dalla sentenza citata: “Si trae conferma della possibilità di rassegnazione dell’incarico dirigenziale illecitamente revocato dai principi enunciati in molteplici pronunzie della Corte Costituzionale in materia del cd. spoil system (Corte Cost. n. 233/2006, n. 104 del 2007, n.
103/2007) e quindi in casi che, benché innegabilmente diversi da quello in esame, fanno tuttavia comprendere i parametri entro i quali va collocata la tutela riservata al dirigente pubblico,
in termini di effettività. Nell’ultima pronunzia citata il Giudice delle leggi ha affermato che la prevista contrattualizzazione della dirigenza non implica che la pubblica amministrazione abbia la possibilità di recedere liberamente dal rapporto di ufficio e che quest’ultimo, sul quale
si innesta il rapporto di servizio sottostante, pur se caratterizzato dalla temporaneità
dell’incarico, deve essere connotato da specifiche garanzie, in modo tale da assicurare la tendenziale continuità dell’azione amministrativa e una chiara distinzione funzionale tra i compiti
di indirizzo politico - amministrativo e quelli di gestione, affinché il dirigente possa esplicare
la propria attività in conformità ai principi di imparzialità e di buon andamento dell’azione amministrativa ex art. 97 Cost.. Ha aggiunto la Corte che, a regime, la revoca delle funzioni
legittimamente conferite ai dirigenti può essere conseguenza solo di una accertata responsabilità dirigenziale, in presenza di determinati presupposti ed all’esito di un procedimento di garanzia puntualmente disciplinato. Inoltre, con la sentenza n. 381 del 2008, la medesima Corte
ha dichiarato la illegittimità costituzionale della L.R. Lazio n. 8 del 2007, con la quale, in caso
di decadenza dalla carica conseguente a pronunzie della Corte Costituzionale, si dava alla
Giunta regionale la facoltà alternativa o di procedere al reintegro nelle cariche, con ripristino
dei relativi rapporti di lavoro, oppure di procedere ad un’offerta di equo indennizzo. In detta pronunzia la Corte ha affermato che in questi casi «forme di riparazione economica, quali, ad
esempio, il risarcimento del danno o le indennità riconosciute dalla disciplina privatistica in
favore del lavoratore ingiustificatamente licenziato, non possono rappresentare, nel settore
pubblico, strumenti efficaci di tutela lesi da atti illegittimi di rimozione di dirigenti amministrativi...».”
151
di tempo senza che sia più disponibile la posizione precedentemente ricoperta,
“non per questo si è mai ritenuto di negare la pronunzia di reintegra nel posto
di lavoro, giacché una cosa è il tipo di provvedimento che il giudice può emettere, altra cosa è la sua idoneità ad essere eseguito in forma specifica. Si tratta
invero dei consueti limiti che incontra la tutela del lavoratore e che attengono
non già al giudizio di cognizione ma alla fase esecutiva, in cui peraltro non
può escludersi l’adempimento spontaneo da parte del datore”166.
Il paragone con il settore privato, invero, si esaurisce qui. La Cassazione nega,
infatti, un collegamento anche solo in termini di parallelismo tra i dirigenti
pubblici e quelli privati: questi ultimi non beneficiano della tutela ripristinatoria; al contrario, per il dirigente pubblico, il cui incarico è esclusivamente temporaneo, il ripristino del rapporto a seguito della pronuncia di illegittimità della
revoca non farebbe che riportare la situazione al momento precedente il recesso
166
Ancora dalla sentenza: “Nel caso in esame, l’attribuzione del solo risarcimento non costituirebbe effettiva “disapplicazione” dell’illegittimo provvedimento presupposto, perché questo
continuerebbe a giustificare la revoca dell’incarico dirigenziale e i conseguenti provvedimenti che sono culminati, per quanto riguarda il F., con il licenziamento a seguito del decorso dei
ventiquattro mesi di collocazione in disponibilità. Invero, in tal caso, la situazione che si viene
a creare non sembra dissimile rispetto a quanto avviene nel lavoro privato, in relazione alle
pronunzie di reintegra nel posto di lavoro conseguenti a sentenze che ravvisino la illegittimità
del licenziamento e che intervengano a distanza di tempo: anche in questi casi la posizione lavorativa, il reparto, le funzioni precedentemente svolte possono non esistere più, eppure non
per questo si è mai ritenuto di negare la pronunzia di reintegra nel posto di lavoro, giacché
una cosa è il tipo di provvedimento che il giudice può emettere, altra cosa è la sua idoneità ad
essere eseguito in forma specifica. Si tratta invero dei consueti limiti che incontra la tutela del
lavoratore e che attengono non già al giudizio di cognizione ma alla fase esecutiva, in cui peraltro non può escludersi l’adempimento spontaneo da parte del datore”. 152
ed avrebbe in ogni caso effetti circoscritti alla scadenza prefissata. Il meccanismo giuridico che porta alla disapplicazione dell’atto illegittimo, scrivono i giudici, consente una situazione “dissociata”: il provvedimento non viene annullato e resta pertanto operativo in via generale; al tempo stesso, essendo privato dei propri effetti nei confronti del destinatario per via della disapplicazione, non giustifica più l’atto di gestione che, si potrebbe dire, cade e comporta il pieno ripristino della situazione precedente. In altre parole, ritenuta illegittima
la revoca, riacquista efficacia l’originario atto di conferimento dell’incarico dirigenziale e si deve pertanto procedere alla riassegnazione alle mansioni, che in
ogni caso è limitata alla durata residua indicata nell’atto di attribuzione. Se si
riconoscesse il solo risarcimento, invece, si continuerebbe “a giustificare la revoca dell’incarico dirigenziale ed i conseguenti provvedimenti che sono culminati con il licenziamento” dopo il collocamento in disponibilità.
Le Sezioni Unite si sono, allora, interrogate sui poteri del giudice nei confronti
della pubblica amministrazione quale datore di lavoro, in particolare per i
provvedimenti di accertamento, quelli costitutivi e di condanna ritenuti necessari o richiesti dalla natura delle posizioni del dipendente. Sul punto è opinione
della Corte che, ove venga richiesta la tutela di un diritto soggettivo, sia consentito condannare l’ente di appartenenza ad un facere preciso, anche se ciò
153
possa far seguito alla mera disapplicazione dell’atto amministrativo. In linea
con le pronunce della Consulta, n. 103 e n. 104 del 2007, la Cassazione ribadisce quindi l’esigenza che la tutela riservata al dirigente pubblico si esprima in termini di effettività. La posizione fa il paio così con l’esclusione della libera recedibilità dal rapporto dirigenziale pubblico: quest’ultimo, pur se caratterizzato dalla temporaneità dell’incarico, deve essere ugualmente connotato da specifiche garanzie, in modo tale da assicurare la tendenziale continuità
dell’azione amministrativa e una chiara distinzione funzionale tra i compiti di
indirizzo politico-amministrativo e quelli di gestione. La disapplicazione
dell’atto presupposto, quindi, non può limitarsi a generare una pretesa risarcitoria: privando di effetti disapplicato dal giudice ordinario, la precedente situazione giuridica, compromessa dall’atto datoriale, riacquista esistenza e legittimità.
4.3.- La tutela reale e la sua effettività.
154
Il problema che qui si pone è l’effettiva tutela del lavoratore pubblico dinanzi alla possibilità concreta di mettere in esecuzione gli ordini del giudice in forma
specifica ed in particolare le modalità di attuazione dell’ordinanza cautelare da parte dell’autorità giudicante.
Bisogna in primo luogo premettere che a seguito della riforma non sorgono
dubbi circa l’ammissibilità dei procedimenti di urgenza ex artt. 700 c.p.c. e 669-duodecies c.p.c nel rapporto di pubblico impiego privatizzato, data
l’ampiezza dei poteri attribuiti al giudice ordinario dall’art. 63, secondo comma del d.lgs. 165/2001 (“il giudice adotta, nei confronti delle pubbliche amministrazioni, tutti i provvedimenti di accertamento, costitutivi o di condanna, richiesti dalla natura dei diritti tutelati”). E, in tal senso, si è chiaramente espressa la Corte di Cassazione sostenendo che “Nelle controversie relative ai rapporti di lavoro alle dipendenze delle pubbliche amministrazioni, l'art. 63,
comma 2, del d.lg. n. 165 del 2001, nel prevedere espressamente che «Il giudice adotta, nei confronti delle pubbliche amministrazioni, tutti i provvedimenti,
di accertamento, costitutivi o di condanna, richiesti dalla natura dei diritti tutelati», attribuisce al giudice del lavoro il potere di adottare qualsiasi tipo di
sentenza, ivi compresa la sentenza di condanna ad un facere, dovendosi ritenere irrilevante il carattere infungibile dell'obbligo in quanto la relativa decisio-
155
ne non solo è potenzialmente idonea a produrre i suoi effetti tipici in conseguenza della (eventuale) esecuzione volontaria da parte del debitore, ma è altresì funzionale alla produzione di ulteriori conseguenze giuridiche (derivanti
dall'inosservanza dell'ordine in essa contenuto) che il titolare del rapporto è
autorizzato ad invocare in suo favore, prima fra tutte la possibile successiva
domanda di risarcimento del danno, rispetto alla quale la condanna ad un facere infungibile assume valenza sostanziale di sentenza di accertamento. (Nella specie, la S.C., in applicazione del principio enunziato, ha cassato la sentenza di merito che aveva escluso l'ammissibilità della domanda di condanna del
Ministero dell'economia e delle finanze all'adempimento dell'obbligo di valutare la posizione del dirigente, lasciato in inattività forzosa, ai fini del conferimento di un incarico corrispondente alle sue qualifiche)”167.
Inoltre, data la natura dei provvedimenti in esame, il cui carattere fondamentale
è l’urgenza della tutela, sarebbe assurdo arrivare, in questa materia, al risultato per cui l’inottemperanza dell’obbligato non sia coercibile a causa dell’impossibilità di agire del giudice (basata sulla dicotomia tra condotte fungibili e condotte infungibili).
167
Cassazione civ., sez. lav. 26 novembre 2008, n. 28274
156
Questa conclusione può essere idonea nel rapporto di lavoro privato dove
l’assunzione è effettuata su caratteri esclusivamente fiduciari ( e non certo tramite concorso pubblico) e nel quale il datore di lavoro gestisce un impresa privata.
E’ invece da ritenersi pregiudizievole nell’ambito del pubblico impiego.
In primo luogo occorre fare riferimento all’art. 1, comma 1 del d. lgs. 165/2001, il quale fissando le finalità della privatizzazione, evidenzia il binomio tra “organizzazione degli uffici” e “i rapporti di lavoro e di impiego alle
dipendenze delle pubbliche amministrazioni”. Ed è proprio sulla scorta di questo binomio che va ricercata la differenziazione di tutela rispetto al rapporto di
lavoro privato. D’altronde la stessa Corte Costituzionale nella sentenza n.
146/2008 ha affermato: “Malgrado la progressiva assimilazione del rapporto di lavoro alle dipendenze delle pubbliche amministrazioni con quello alle dipendenze dei datori di lavoro privati, sussistono ancora differenze sostanziali
che rendono le due situazioni non omogenee. Per tale motivo è da ritenere
ammissibile una disciplina differenziata del rapporto di lavoro pubblico rispetto a quello privato, in quanto il processo di omogeneizzazione incontra il limite
della specialità del rapporto e delle esigenze del perseguimento degli interessi
generali. La pubblica amministrazione, infatti, conserva pur sempre – anche in
157
presenza di un rapporto di lavoro ormai contrattualizzato – una connotazione
peculiare, essendo tenuta al rispetto dei principi costituzionali di legalità, imparzialità e buon andamento cui è estranea ogni logica speculativa.”
Ed è proprio sulla scia di questa parziale omogeneizzazione che non si deve ritenere esistente nel pubblico impiego la dicotomia comportamenti fungibili comportamenti infungibili a causa della connotazione pubblica del datore di lavoro, delle particolari finalità che la P.A. persegue e dei principi costituzionali
in materia.
Il giudice quindi non solo può ordinare l’assegnazione del ricorrente ad incarico dirigenziale di pari livello rispetto a quello svolto in precedenza, ma può, a
seguito di inottemperanza della Pubblica Amministrazione, anche determinare
quale siano le modalità pratiche del reinserimento168. In particolare
nell’ordinanza del 1 dicembre 2006 del Tribunale di Reggio Calabria, emessa sulla scorta di un’istanza ex art. 669 duodecies c.p.c per l’attuazione di un provvedimento cautelare ex art. 700 c.p.c. e il giudice osserva che “neppure teoricamente accettabile appare la deduzione dell’”infungibilità” del comportamento richiesto all’intimato, sul parallelismo della condizione del privato datore di lavoro; infatti la natura privatistica della gestione del rapporto di la168
In questo senso si sono espressi: Tribunale di Catania, ordinanza 13 ottobre 2000; Tribunale
di Trani, sez. appello lavoro, ordinanza 21 novembre 2000.
158
voro dei dipendenti dell’ente pubblico non assimila in toto la Pubblica amministrazione al privato datore di lavoro, restando sostanzialmente divergenti e
differenziate le posizioni di autonomia del primo, tutelato nella libertà di iniziativa economica dall’art. 41 Cost. (e che comunque sopporta direttamente le conseguenze negative, non solo risarcitorie, causate dalla propria condotta);
laddove la pubblica amministrazione deve funzionalizzare la propria azione al
perseguimento dell’interesse pubblico ex art. 97 Cost., interesse che coincide
con quello del rispetto della legalità nel caso in cui sia stata affermata la regola di condotta del caso singolo dall’ordine del giudice” .
Sulla base di questa argomentazione non sorgono dubbi circa il potere del giudice di determinare in maniera concreta e puntuale le modalità di reintegro del
pubblico dipendente qualora l’Amministrazione risultasse inottemperante. Dall’altra parte, se così non fosse, il dipendente pubblico si vedrebbe sottratta una tutela che, fino alla novella del 1998, con la quale tutte le controversie relative ai rapporti di lavoro alle dipendenze delle pubbliche amministrazioni sono
state devolute al giudice ordinario, gli era garantita dal giudizio di ottemperanza. E comunque, a questo proposito, si osserva che lo stesso articolo 669duodecies c.p.c. offre una testuale conferma all’attuazione delle misure cautela-
159
ri da parte dell’autorità giudiziaria nel momento in cui le stesse sono rimesse allo stesso giudice dell’esecuzione.
4.4.- Gli incarichi dirigenziali e il fantasma “spoil system”.
La legge n. 145 del 2002 introdusse diverse forme di spoils system169, prevedendo che gli incarichi di segretario generale o di capo dipartimento cessassero
decorsi novanta giorni dal voto sulla fiducia al Governo (art. 19, co.8,d.lgs. n.
165 del 2001) e, inoltre, che le nomine degli organi di vertice e dei componenti
dei consigli di amministrazione o degli organi equiparati degli enti pubblici,
delle società controllate o partecipate dello Stato, delle agenzie o di altri organismi comunque denominati, conferite dal Governo o dai Ministri nei sei mesi
antecedenti la scadenza naturale della legislatura, potessero essere confermate,
169
Il sistema delle spoglie, mutuato dalla tradizione americana, senza fare i conti con la duplice
struttura del rapporto di lavoro dirigenziale (rapporto di ufficio – rapporto di servizio) e dimenticandosi della diversa struttura costituzionale degli Stati Uniti, basata sul sistema dei “checks
and balances”.
160
revocate, modificate o rinnovate entro sei mesi dal voto di fiducia del Governo170.
In via transitoria introdusse, poi, uno spoils system operativo solo per il Governo in carica al momento dell’entrata in vigore dellla legge n. 145 del 2002, in base al quale, nel caso in cui, entro novanta giorni dalla data di entrata in vigore della legge stessa, non si fosse proceduto all’attribuzione di incarichi di funzione dirigenziale di livello non generale secondo le disposizioni introdotte e
secondo il criterio di rotazione, gli incarichi in essere si intendevano confermati, mentre gli incarichi di funzioni dirigenziali di livello generale cessavano automaticamente allo spirare del sessantesimo giorno dall’entrata in vigore della legge n. 145 del 2002171.
L’introduzione del sistema dello spoil system scatenò immediatamente la reazione dell’opinione pubblica e della dottrina giuridica, che vedevano, dopo anni di battaglia per l’autonomia, nel sistema introdotto con la L. 145 del 2002, il
riconoscimento della dipendenza della dirigenza dalla classe politica.
In realtà il legislatore finse di dimenticare che la Corte Costituzionale già si era
espressa in relazione alle ipotesi di cessazione ope legis dell’incarico dirigen-
170
171
Art. 6 della legge n. 145 del 2002
Art. 3, co. 7, della legge n. 145 del 2002.
161
ziale con la ordinanza n. 11 del 2002172, affermando che “la disciplina del rapporto di lavoro dirigenziale nei suoi aspetti qualificanti, in particolare il conferimento degli incarichi dirigenziali (assegnati tenendo conto, tra l’altro, delle attitudine e della capacità professionali del dirigente), nonché la procedimentalizzazione dell’accertamento di tale responsabilità (artt. 19 e 20 del d.lgs. n.
29 del 2003, ed ora arti. 19, 21 e 22 del d.lgs. n. 165 del 2011), è connotata da
specifiche garanzie, mirate a presiedere il rapporto di impiego dei dirigenti
generali, la cui stabilità non implica necessariamente anche stabilità
dell’incarico, che, proprio al fine di assicurare il buon andamento e l’efficienza dell’amministrazione pubblica, può essere soggetto ala verifica dell’azione svolta e dei risultati perseguiti”.
E la Corte Costituzionale, chiamata a pronunciarsi sull’art. 3, co. 7, della legge
n. 145 del 2002, con la sentenza n. 103 del 23 marzo 2007173, non si smentì, di-
172
C. cost. ord. 30 gennaio 2002, n. 11, in Giur. cost., 2002, 68.
C. cost., 23 marzo 2007 n. 103; in pari data, con la decisione n. 104, la Corte costituzionale,
ha dichiarato la illegittimità del combinato disposto dell’art. 71, co. 1, 3 e 4, lett. a), della legge
della regione Lazio 17 febbraio 2005 n. 9 (legge finanziaria regionale per l’anno 2005) e dell’art. 55, co. 4, della legge regione Lazio 11 novembre 2004 n. 1 (Nuovo Statuto della regione Lazio), nella parte in cui prevede che i direttori generali delle Asl decadono dalla carica
il novantesimo giorno successivo alla prima seduta del Consiglio regionale, salvo conferma
con le stesse modalità previste per la nomina; che tale decadenza opera a decorrere dal primo
rinnovo, successivo alla data di entrata in vigore dello Statuto; che la durata dei contratti dei
direttori generali delle Asl viene adeguata di diritto al termine di decadenza dell’incarico;; nonché dell’art. 96 della legge della regione siciliana 26 marzo 2002, n. 2 (Disposizioni programmatiche e finanziarie per l’anno 2002), nella parte i cui prevede che gli incarichi di cui ai commi 5 e 6 già conferiti con contratto possono essere revocati entro novanta giorni
173
162
chiarando la illegittimità costituzionale, in quanto la norma impugnata, prevedendo un meccanismo generalizzato e automatico di cessazione ex lege degli
incarichi dirigenziali in corso, si poneva in contrasto con gli artt. 97 e 98 della
Costituzione: “E' costituzionalmente illegittimo l'art. 3, comma 7, della legge
15 luglio 2002, n. 145 nella parte in cui dispone che gli incarichi dirigenziali
di livello generale "cessano il sessantesimo giorno dalla data di entrata in vigore della presente legge, esercitando i titolari degli stessi in tale periodo esclusivamente le attività di ordinaria amministrazione". La norma, prevedendo
un meccanismo - cosiddetto spoil system una tantum - di cessazione automatica, ex lege e generalizzata degli incarichi dirigenziali di livello generale si pone in contrasto con gli artt. 97 e 98 Cost.: infatti, le recenti leggi di riforma
della pubblica amministrazione hanno disegnato un nuovo modulo d'azione,
che misura il rispetto del canone dell'efficienza alla luce dei risultati che il dirigente deve perseguire, nel rispetto degli indirizzi posti dal vertice politico.
Pertanto, la revoca delle funzioni legittimamente conferite ai dirigenti può essere conseguenza soltanto di un'accertata responsabilità, all'esito di un procedimento di garanzia puntualmente disciplinato. E' necessario che sia comunque garantita la presenza di un momento procedimentale di confronto dialettidall’insediamento del dirigente generale nella struttura cui lo stesso è preposto. Entrambe in
Guida al Diritto, 2007, 14, 74 ss, con nota di FORLENZA.
163
co tra le parti, nell'ambito del quale, da un lato, l'amministrazione esterni le
ragioni per cui ritiene di non consentire la prosecuzione sino alla scadenza
contrattualmente prevista e, dall'altro, sia assicurata al dirigente la possibilità
di far valere il diritto di difesa, nel rispetto dei principi del giusto procedimento, finalizzati a garantire scelte trasparenti e verificabili, in ossequio al precetto dell'imparzialità dell'azione amministrativa”. La norma dichiarata illegittima, infatti, secondo la Consulta, non assicurava una adeguata tutela del rapporto di ufficio in corso dei dirigenti, non prevedendo essa una previa fase di valutazione del dirigente idonea a giustificare la revoca dell’incarico non ancora scaduto. Per non incorrere nella censura in incostituzionalità, il legislatore avrebbe dovuto garantire il rispetto del c.d. giusto procedimento, nel senso che
egli avrebbe dovuto prevedere una previa fase valutativa della posizione del dirigente alla luce dell’attività da questi svolta e dei nuovi obiettivi politicoamministrativi della compagine governativa. Tale fase avrebbe dovuto assicurare un momento dialettico tra le parti, sì da consentire al dirigente di far valere
il diritto di difesa.
La norma annullata anche sotto altro profilo si poneva in contrasto con il principio di buon andamento dell’azione amministrativa;; essa infatti comprometteva la continuità dell’azione amministrativa, che del principio di buon andamen-
164
to costituisce corollario, in relazione alla “originaria” durata dell’incarico, modulata, tra l’altro, in considerazione della peculiarità della singola posizione dirigenziale e degli specifici risultati che quel dirigente avrebbe dovuto perseguire174.
Ancora in materia di spoil system, la Corte Costituzionale175 ha dichiarato, nel
2010, l’infondatezza della questione di legittimità costituzionale, non ritenendo
sussistente la contrarietà alla Costituzione lo spoil system attuato negli uffici di
diretta collaborazione con il Ministro, sollevata in riferimento agli articoli 97 e
98 della Costituzione, dell’articolo 1, co. 24-bis, del decreto-legge 18 maggio
2006, n.181176 il quale, modificando il secondo comma dell’art. 14 del decreto legislativo 30 marzo 2001, n. 165, prevede che “all’atto del giuramento del Ministro, tutte le assegnazioni di personale, ivi compresi gli incarichi anche di
174
Con sentenze n. 161 del 2008 e n. 81 del 2010 la Corte Costituzionale ha dichiarato per gli
stessi motivi la illegittimità costituzionale dell’art. 2, co. 161, del d.l. n. 261 del 2006, convertito in L.n. 286 del 2006, nella parte in cui prevede che in sede di prima applicazione dell’art. 19, co. 8, del D.Lgs. n. 165 del 2001 (come modificato dai commi 159 e 11 dello stesso d.l. n. 286
del 2006), gli incarichi ivi previsti, conferiti prima del 17 maggio 2006, cessano ove non confermati entro sessanta giorni dalla data di entrata in vigore dello stesso decreto. L’art. 40 del d.lgs. n. 150 del 2009 ha abrogato la parte contenuta nel comma 8 dell’art. 19 del d.lgs. n. 165 del 2001, che, per effetto del comma 159, del decreto legge n. 262 del 2006, aveva esteso il sistema di spoil system a regime anche “al personale di cui al comma 5-bis, limitatamente al personale non appartenente ai ruoli di cui all’art. 23, e al comma 6”. Ne consegue che ili predetto
comma 8, dell’art. 19, del d.lgs. n. 165 del 2001, prevede attualmente una sola ipotesi di spoil
system a regime, stabilendo che gli incarichi di funzione dirigenziale “di cui al comma 3 cessano decorsi novanta giorni dal voto sulla fiducia al Governo”.
175
C. cost., 28 ottobre 2010, n. 304, in www.lexitalia.it, 11/2010.
176
Recante “Disposizioni urgenti in materia di riordino delle attribuzioni della Presidenza del
Consiglio dei Ministri e dei Ministeri”, convertito in legge, con modificazioni, dalla legge 17
luglio 2006, n. 233.
165
livello dirigenziale e le consulenze e i contratti anche a termine», conferiti
nell’ambito degli uffici di diretta collaborazione, «decadono automaticamente
ove non confermati entro trenta giorni dal giuramento del nuovo Ministro”. Il
giudice costituzionale nell’occasione ha precisato che nell’ordinamento della Pubblica Amministrazione deve essere assicurata una chiara distinzione tra
funzioni politiche e funzioni amministrative di tipo dirigenziale, al fine di assicurare, in particolare, la piena attuazione dei principi costituzionali di buon andamento e di imparzialità dell’azione della pubblica amministrazione. Perché
possa in concreto operare tale differenziazione di compiti è necessario, altresì,
che il rapporto di ufficio, pur se caratterizzato dalla temporaneità dell’incarico, sia connotato da specifiche garanzie, le quali presuppongono che esso sia regolato in modo tale da assicurare l’effettivo rispetto dei principi consacrati dal citato art. 97 Cost.
I meccanismi di decadenza automatica dei rapporti dirigenziali in corso si pongono in contrasto con l’art. 97 Cost., in quanto pregiudicano la continuità dell’azione amministrativa, introducono in quest’ultima un elemento di parzialità, sottraggono al soggetto dichiarato decaduto dall’incarico le garanzie del giusto procedimento e svincolano la rimozione del dirigente dall’accertamento oggettivo dei risultati conseguiti.
166
Gli uffici di diretta collaborazione con il Ministro (cosiddetti uffici di staff),
nella collaborazione che di essi ha dato la normativa vigente, svolgono
un’attività di supporto strettamente correlata all’esercizio delle predette funzioni in un ambito organizzativo riservato all’attività politica con compiti di supporto delle stesse funzioni di governo e di raccordo tra queste e quelle amministrative di competenza dei dirigenti. Pertanto deve ritenersi che, così come la
nomina del personale, compreso quello dirigenziale, può avvenire, in base alla
normativa vigente, intuitu personae, senza predeterminazione di alcun rigido
creterio che debba essere osservato nell’adozione dell’atto di assegnazione all’ufficio, allo stesso modo, - e simmetricamente – è possibile in qualunque
momento interrompere il rapporto in corso, qualora sia venuta meno la fiducia
che deve caratterizzare in maniera costante lo svolgimento del rapporto stesso.
5.- Licenziamento del dirigente pubblico privatizzato e privato:
tutele e problemi a confronto.
167
Il licenziamento del dirigente pubblico privatizzato rappresenta il punto di confronto più elevato con la disciplina del dirigente privato.
Prima di soffermarsi sul tipo di tutela che la giurisprudenza riconosce al dirigente pubblico privatizzato illegittimamente licenziato si deve far presente che
due sono in giurisprudenza le posizioni circa il tema della libera recedibilità.
Una prima tesi è espressa dalla sentenza emessa il 31 dicembre 2004 dalla Corte di Appello di Napoli177, la quale ritiene che, così come per la dirigenza privata, anche per la dirigenza pubblica, in materia di licenziamento, il principio
generale è quello della recedibilità ad nutum178.
Si arriva a tale conclusione sulla base dell’assunto della completa privatizzazione realizzata dal D.Lgs. 80/1998. La Corte subito aggiunge che il principio è
“temperato, tuttavia, dall’espresso rinvio anche alla contrattazione collettiva di settore che già nella prima tornata aveva introdotto il concetto di recesso
“giustificato”. Si avrebbe, quindi, “una struttura causale del licenziamento del
dirigente che si realizza nell’obbligo contrattualmente previsto di contestuale motivazione da parte dell’amministrazione e di previo esperimento di una pro-
177
Inedita a quanto consta.
Affermano la libera recedibilità anche Trib. Piacenza, 17 febbraio 2004, in lavoropubblico.formez.it e Trib. Roma, 5 giugno 2000, in GI, 2000, 49. Applicano invece la tutela risarcitoria prevista dal contratto collettivo senza porsi il problema della sussistenza del libero recesso,
Trib. Firenze, 15 gennaio 2004, in Lav. P.A., p. 194, 2004; Trib. Firenze, 6 dicembre 2002, in
Riv. crit. dir. lav., p. 759, 2003.
178
168
cedura di contestazione e di audizione”. Pertanto la tutela apprestata sarebbe quella “garantita dallo stesso contratto collettivo – id est la corresponsione di
un indennizzo – salvi i casi di nullità o giuridica inesistenza del recesso che ricadono nella disciplina generale del contratto”.
La Corte d’Appello sottolinea che l’esigenza di garanzia del dirigente, e quindi la separazione tra funzione tecnica e funzione politica, troverebbe “attuazione
proprio in virtù della completa assimilazione tra dirigente pubblico e dirigente
privato, nella tutela forte per il caso di licenziamento discriminatorio come
prevista dall’art. 3 della L. 108/1990”.
Di diversissimo avviso la Corte di Cassazione che, con la sentenza dell’1 febbraio 2007, n. 2233179, afferma, dopo che “la disciplina della dirigenza privata
179
Questo il fatto così come riportato dalla stessa Corte di Cassazione: “Con ricorso depositato
il 21 gennaio 2004 il Dott. A. P. ha convenuto in giudizio avanti al Tribunale di Torino, giudice del lavoro, l'Agenzia delle Dogane esponendo: -che era risultato tra i vincitori del corsoconcorso di formazione dirigenziale promosso dalla scuola superiore di pubblica amministrazione (S.S.P.A.) per il reclutamento di 165 impiegati civili nella qualifica di dirigente; -che con
provvedimento del dipartimento funzione pubblica del 13.2.2002 era stato assegnato all'Agenzia delle Dogane; -che in data 29.4.2002 aveva sottoscritto un contratto individuale di lavoro
con l'Agenzia delle Dogane, con inquadramento quale dirigente di seconda fascia ai sensi del
CCNL comparto ministeri area dirigenti e con l'incarico di assistente di direzione presso la
direzione regionale del Piemonte e della Valle d'Aosta dell'Agenzia delle Dogane, a far tempo
dal 2.5.02; - che nel contratto, della durata di 2 anni, era previsto un periodo di prova di 6
mesi di effettivo servizio che andava contrattualmente a scadere il 12.11.02; - che in data
28.3.03 gli era stata comunicata la risoluzione del rapporto di lavoro per mancato superamento del periodo di prova; -che tale decisione era stata confermata con comunicazione scritta del
10.4.2003 con la quale si affermava che gli effetti della risoluzione del rapporto sarebbero decorsi dal 13.4.2003; che il provvedimento datoriale era stato impugnato con raccomandata del
2 6.5.03. Sulla base di queste premesse, il ricorrente, ritenuta illegittima la risoluzione del
rapporto perchè intervenuta dopo la scadenza del periodo di prova, chiedeva la condanna della convenuta alla reintegrazione nel posto di lavoro, al pagamento delle retribuzioni maturate
169
non è perciò sovrapponibile a quella della dirigenza pubblica. La diversità di
disciplina del recesso nel rapporto dirigenziale privato e pubblico è confermata dalla giurisprudenza costituzionale. La Corte (sent. 25 luglio 1996 n. 313) nel dichiarare infondata la questione proposta dal Tar Lazio, che aveva sospettato di illegittimità costituzionale le norme in esame per violazione
dell'articolo 97 Cost., perché la libera recedibilità dal rapporto dirigenziale
avrebbe inciso sulla sfera di autonomia e di responsabilità dei dirigenti, presidio del buon andamento e imparzialità dell'amministrazione - ha rilevato che
dalla data del licenziamento a quella della reintegra e al risarcimento dei danni subiti in conseguenza dell'illegittimo licenziamento. Con sentenza in data 9.6.2004 il giudice adito, nella
resistenza della convenuta, accoglieva il ricorso, condannando l'Agenzia delle Dogane alla
reintegrazione nel posto di lavoro ed al risarcimento del danno in misura pari alle retribuzioni
globali di fatto maturate dal giorno del licenziamento a quello dell'effettiva reintegra. Il primo
giudice, ritenuta la illegittimità del licenziamento, rilevava in particolare che le conseguenze
che ne scaturivano erano quelle di cui alla L. n. 300 del 1970, art. 18, considerato che il
D.Lgs. n. 165 del 2001, art. 51, prevede espressamente l'applicazione della L. n. 300 del 1970
alle pubbliche amministrazioni a prescindere dal numero dei dipendenti. La Corte di Appello
di Torino, con sentenza depositata il 26 aprile 2005, ha respinto il primo motivo di appello
della Agenzia delle Dogane, volto a far dichiarare tempestivo il recesso, e, in accoglimento del
secondo motivo, ha respinto la domanda di reintegra nel posto di lavoro e ridotto la condanna
al risarcimento del danno al pagamento delle retribuzioni dal giorno del licenziamento a quello di scadenza del contratto. Il giudice d'appello ha basato la propria decisione di accoglimento sulla equiparazione di disciplina, anche negli aspetti risolutori, tra dirigente dell'impiego
privato (cui non è applicabile la L. 20 maggio 1970, n. 300, art. 18) e dirigente pubblico contrattualizzato; anzi ha ritenuto che questa soluzione fosse tanto più obbligata, per il rilievo che
nella dirigenza pubblica l'incarico dirigenziale è per espressa disposizione di legge di carattere temporaneo (D.Lgs. n. 165 del 2001, art. 19, come modificato dalla L. n. 145 del 2002, art.
3). La Corte di merito riteneva altresì che anche gli effetti dell'illegittimità del licenziamento
devono essere necessariamente circoscritti alla durata biennale dell'incarico dirigenziale, essendo il rapporto regolato dal contratto di diritto privato stipulato il 29.4.2002 che prevede
appunto che l'incarico abbia durata biennale, per cui il risarcimento del danno deve essere
circoscritto al pagamento delle retribuzioni dal giorno del licenziamento a quello della scadenza del contratto. Avverso la detta sentenza ha proposto ricorso per Cassazione l' A. con un
unico motivo, illustrato da memoria ai sensi dell'art. 378 c.p.c.. L'Agenzia delle Dogane si è
costituita con controricorso, resistendo”.
170
l'applicabilità al rapporto di lavoro dei pubblici dipendenti delle disposizioni
previste dal codice civile comporta non già che la pubblica amministrazione
possa liberamente recedere dal rapporto stesso ma semplicemente che la valutazione dell'idoneità professionale del dirigente è affidata a criteri e procedure
di carattere oggettivo assistite da un'ampia pubblicità e dalla garanzia del
contraddittorio a conclusione delle quali soltanto può essere esercitato il recesso”. Continua ancora la Corte sostenendo che “la disciplina del recesso dal
rapporto di lavoro dei dirigenti pubblici non è dunque quella dell'art. 2118
cod. civ, propria dei dirigenti privati, ma segue i canoni del rapporto di lavoro
dei dipendenti privati con qualifica impiegatizia, in coerenza con la tradizionale stabilità del rapporto di pubblico impiego”180. E aggiunge che “anche la disciplina contrattuale del procedimento sanzionatorio, cui il contratto collettivo
è facilitato dal rinvio dell'art. 21, è articolata sul modello della L. 20 maggio
180
Nello stesso senso si era già espressa la Corte Costituzionale con la sentenza n. 313/1996:
“D'altronde, è appena il caso di rammentare che l'applicabilità al rapporto di lavoro dei pubblici
dipendenti delle disposizioni previste dal codice civile comporta non già che la pubblica amministrazione possa liberamente recedere dal rapporto stesso, ma semplicemente che la valutazione dell'idoneità professionale del dirigente è affidata a criteri e a procedure di carattere oggettivo - assistite da un'ampia pubblicità e dalla garanzia del contraddittorio -, a conclusione
delle quali soltanto può essere esercitato il recesso”.
171
1970, n. 300, art. 7, nel rispetto del principio costituzionale del contraddittorio
(Corte cost. n. 313/1996 cit.), proprio del recesso causale”181.
Oggi la tesi dominante e largamente accettata in dottrina è l’assoluta non configurabilità del recesso ad nutum del dirigente pubblico privatizzato, anche sulla scorta del dato legislativo che, come visto, riconette il provvedimento di espulsione al mancato raggiungimento degli obiettivi e all’inosservanza delle direttive la cui gravità sia tale da non consentire la prosecuzione del rapporto di
lavoro per una categoria, quella dirigenziale, che è comunque connotata da uno
stretto vincolo di fiduciarietà.
5.1.- Il dirigente privato: la libera recedibilità e la nozione di
giustificatezza.
181
Più precisamente la Corte sostiene: “ Infatti l'art. 27 del contratto collettivo nazionale di lavoro del personale con qualifica dirigenziale del comparto ministeri prevede due ipotesi di recesso dell'amministrazione, una con preavviso, e l'altra senza preavviso. In entrambi i casi
prima di formalizzare il recesso l'amministrazione deve contestare per iscritto l'addebito convocando l'interessato per una data non anteriore al quinto giorno dal ricevimento della contestazione per essere sentito a sua difesa. Il dirigente può farsi assistere da un rappresentante di
associazione sindacale cui aderisce o conferisce mandato o da un legale di sua fiducia. In entrambi i casi l'amministrazione deve indicare per iscritto i motivi del recesso. Solo queste due
ipotesi di recesso previste dall'art. 27 possono condurre alla risoluzione del rapporto fondamentale”.
172
Anche a voler guardare al rapporto di lavoro del dirigente privato, che oggi non
è affatto assimilabile a quello del dirigente pubblico privatizzato anche sulla
base della solo presenza in capo a quest’ultimo di due rapporti diversi e distinti, si deve sottolineare che non risulta certo sfornito di tutele.
Come noto, il rapporto di lavoro dirigenziale privato è sottratto ex art. 10 L. n.
604/1966182 alla generale disciplina legale limitativa del licenziamento, in ragione del particolare vincolo fiduciario che lega le parti.
Ma anche il rapporto di lavoro dirigenziale non è insensibile alla valutazione
dei risultati conseguiti dal lavoratore, dal momento che la posizione del dirigente in seno all’organizzazione si qualifica per la particolare responsabilità connessa alle scelte affidategli, oltre che per la relativa più elevata retribuzione;
il che giustifica la libertà di recesso del datore di lavoro, il quale, nel caso di
mala gestione dell’impresa, paga, letteralmente, in prima persona.
È altrettanto noto, tuttavia, che la facoltà del datore di lavoro di recedere liberamente dal contratto, riconosciutagli dalla legge attraverso l’art. 2118 c.c.,
182
Articolo 10, L. 604/1966: “Le norme della presente legge si applicano nei confronti dei prestatori di lavoro che rivestano la qualifica di impiegato e di operaio, ai sensi dell'articolo 2095
del Codice civile e, per quelli assunti in prova, si applicano dal momento in cui l'assunzione
diviene definitiva e, in ogni caso, quando sono decorsi sei mesi dall'inizio del rapporto di lavoro”.
173
deve in realtà misurarsi, e finisce per scontrarsi, con le previsioni contrattuali183
che restituiscono ai motivi del recesso la rilevanza che la legge ha inteso, appunto, escludere.
La protezione negata dalla legge viene infatti garantita per via negoziale (pur,
ovviamente, con minore intensità e con contenuti diversi da quelli valevoli nei
confronti degli altri lavoratori per effetto degli artt. 3 e 8 legge n. 604/1966, oltre che dell’art. 18 St. lav.) attraverso i contratti collettivi dei dirigenti, i quali
hanno introdotto, con previsioni sostanzialmente analoghe nei vari settori184, il
presupposto della “giustificatezza”185 quale condizione di legittimità del licenziamento. Ove il licenziamento risulti non giustificato (pur essendo, comunque,
idoneo ad estinguere il vincolo contrattuale), il dirigente avrà diritto ad una tutela indennitaria di misura variabile, compresa tra un minimo ed un massimo
indicati dal contratto collettivo.
183
La sanzione prevista dai contratti colletti per il licenziamento ingiustificato del dirigente
privato consiste nell’obbligo del datore di lavoro di parare una indennità cd. supplementare, di cui è fissata la misura minima, di norma rapportata all’indennità di preavviso, e quella massima
(tale indennità si aggiunge all’indennità sostitutiva del preavviso non lavorato e al trattamento di fine rapporto).
184
Solo per citarne alcuni, tra gli altri c.c.n.l. per i dirigenti di aziende industriali del 23 maggio
2000; quello per i dirigenti di aziende del commercio del 27 maggio 2004; quello per i dirigenti
del settore del credito del 19 aprile 2005; quello per i dirigenti delle imprese di assicurazione
del 15 ottobre 2007.
185
Al vizio di ingiustificatezza è equiparato quello di omessa motivazione contestuale, sanzionato anch’esso con l’obbligo di pagamento dell’indennità supplementare. Anche la violazione del procedimento disciplinare (ma, su questo punto, la giurisprudenza è ancora divisa) è equiparata al vizio di ingiustificatezza, non potendosi far valere il motivo disciplinare senza la relativa procedura, con la conseguente spettanza dell’indennità di fine supplementare. Diversamente si applica la tutela reale anche al dirigente nel caso di licenziamento discriminatorio.
174
Invero, l’introduzione di limiti convenzionali alla facoltà datoriale di recesso, proprio perché trova sede nella definizione di un assetto di interessi liberamente stabilito dai contraenti collettivi nell’esercizio della loro autonomia, nulla toglie alla persistente sussistenza, dal punto di vista dell’ordinamento giuridico statale, delle ragioni di fondo dell’esenzione dall’applicazione della legge n.
604/1966, che continua a rimanere assolutamente valida.
La nozione di giustificatezza del licenziamento, introdotta dai contratti collettivi, mal si presta, peraltro, ad essere definita una volta per tutte nei suoi contenuti. E ciò non solo perché essa possiede natura di clausola a precetto generico
(o a fattispecie aperta), pronta ad adattarsi ai mutamenti della realtà materiale
che essa intende regolare e idonea ad essere riempita di contenuto ad opera
dell’interprete anche con riguardo alle peculiarità del caso concreto. Il dato in
cui ci si imbatte più frequentemente è che la nozione contrattuale di giustificatezza non coincide con quella legale di giusta causa o giustificato motivo di licenziamento di cui agli artt. 2119 c.c. e 3 legge n. 604/1966. Tuttavia, tale nozione in negativo di giustificatezza poco aiuta. La giurisprudenza aggiunge
(provando a darne una definizione in positivo) che essa riguarda piuttosto vicende o comportamenti del dirigente oggettivamente idonei a incidere irreversibilmente sul peculiare rapporto fiduciario intercorrente tra le parti. La giusti-
175
ficatezza del licenziamento dipenderebbe semplicemente dalla ragionevolezza
e dalla serietà del motivo del recesso, da accertarsi secondo un equo contemperamento dei contrapposti interessi.
Risulta invero consolidata, nella giurisprudenza della Suprema corte, la massima in base alla quale “fatti o condotte non integranti una giusta causa o un
giustificato motivo di licenziamento con riguardo ai generali rapporti di lavoro
subordinato, ben possono giustificare il licenziamento del dirigente, per cui, ai
fini della giustificatezza del medesimo, può rilevare qualsiasi motivo, perché
apprezzabile sul piano del diritto, idoneo a turbare il legame di fiducia con il
datore, nel cui ambito rientra l’ampiezza della fiducia e uno spazio più ampio
ai fatti idonei a scuoterla”186.
Pertanto, il licenziamento può essere adeguatamente supportato da qualsiasi
motivo, perché giustificato, vale a dire costituente la base di una decisione coe-
186
Così, Cass. 7 agosto 2004, n. 15322; negli stessi termini Cass. 11 giugno 2008, n. 15496;
Cass. 19 agosto 2005, n. 17039; Cass. 17 gennaio 2005, n. 775; Cass. 20 giugno 2003, n. 9896;
Cass. 13 gennaio 2003, n. 322; Cass. 8 novembre 2002, n. 15749; Cass. 8 novembre 2001, n.
13839; Cass. 12 febbraio 2000, n. 1591; Cass. 4 gennaio 2000, n. 22; Cass. 1 luglio 1999, n.
6729; Cass. 19 giugno 1999, n. 6169; Cass. 20 novembre 1998, n. 11765. In senso contrario e
isolato, Cass. 3 gennaio 2005, n. 370 secondo la quale “in tema di licenziamento dei dirigenti, per quanto non possa affermarsi la che nozione di giustificato motivo di cui all’art. 3 della legge n. 604 del 1966, gli elementi di tale nozione devono essere ricostruiti dal giudice di merito –
sulla scorta delle specifiche espressioni letterali delle clausole contrattuali – attraverso il riferimento alle nozioni di giusta causa e di giustificato motivo di licenziamento; in linea di principio, infatti, una tale operazione ermeneutica potrebbe avere successo ove nessuna censura sia
stata formulata nei confronti dell’adottata interpretazione ovvero in quanto supportata da adeguata motivazione”.
176
rente e sorretta da motivi apprezzabili, i quali non richiedono l’analitica verifica di specifiche condizioni, ma una globale valutazione che escluda
l’arbitrarietà del licenziamento187.
5.2.- Il dirigente pubblico privatizzato e l’applicazione della tutela reale.
In materia di reintegrazione del dirigente pubblico illegittimamente licenziato i
precedenti delle corti di merito sono abbastanza numerosi, e, per lo più, tendono ad escludere l'applicabilità della tutela reale188.
187
Alla stregua di tale ampia nozione, la Corte di Cassazione, 3 aprile 2002, n. 4729, ha ritenuto giustificato, in base al contratto collettivo dei dirigenti di imprese industriali, il licenziamento motivato con il mancato raggiungimento degli obiettivi prefigurati al momento del conferimento dell’incarico. Infatti, “trattandosi di un elemento di esclusiva origine negoziale, la interpretazione della disposizione che prevede il canone della giustificatezza del recesso va
compiuta – nell’ambito di una valutazione che, ovviamente, escluda l’arbitrarietà del licenziamento, al fine di evitare una generalizzata legittimazione della piena libertà di recesso del
datore di lavoro – attraverso la ricostruzione della volontà delle parti, le quali, in relazione al
carattere fiduciario assegnato al dirigente, nonché all’ampiezza dei poteri conferitegli, ben possono attribuire rilievo decisivo, ai fini del mantenimento del rapporto, e nei limiti delle
competenze affidategli, al raggiungimento di determinanti risultati minimi di produttività ovvero all’esito positivo di determinate operazioni finanziarie in vista delle quali il dirigente sia stato assunto, o all’attuazione di un programma di riorganizzazione aziendale finalizzata ad una più economica gestione dell’impresa, o del ramo di essa, affidato al dirigente”.
188
Si vedano, ex multis, Trib. Firenze, 15 gennaio 2004, in Dir. Lav. II, 84, 2005, con nota di
BOTTINO, Trib. Trapani, 26 novembre 2003, in GM, 774, 2004; Trib. Roma, 23 gennaio 2003,
177
L’ultima parola (definitiva?)189 è spettata alla Corte di Casssazione che, con la
già citata sentenza n. 2233/2007 ha esteso la tutela reale al dirigente pubblico
privatizzato illegittimamente licenziato. La Cassazione sostiene, infatti, che
l'interrogativo circa le conseguenze di un eventuale licenziamento illegittimo
vada sciolto nel senso di individuarle nel carattere reintegratorio della tutela.
A sostegno di tale conclusione, la sentenza invoca il secondo comma dell'art.
51 D.Lgs. 165/2001, che estende al pubblico impiego le norme della legge n.
300/1970, incluso l'art. 18, concernente la tutela reale del posto di lavoro: è vero che la norma non si applica ai dirigenti (privati), ma l'esclusione non può
concernere quelli pubblici, poiché, per la Corte, “il rapporto fondamentale stabile dei dipendenti pubblici con attitudine dirigenziale è assimilato dall'art. 21
D.Lgs. 30 marzo 2001, n. 165, a quello della categoria impiegatizia”. In senso
contrario, non possono valere nemmeno le disposizioni del contratto colletti-
in GC, I, 2278, 2003; Trib. Firenze, 6 dicembre 2002, in RCDL, 759, 2003, con nota di GIAPPICHELLI. Anche la giurisprudenza amministrativa ha espresso, in prevalenza, la stessa posizione:
cfr. Cons. Stato, VI, 26 aprile 2000, n. 2493, in Lav. P.A., 639, 2000, con nota di MONTINI.
Applicano invece la tutela reale anche ai dirigenti pubblici: Trib. Reggio Calabria, 8 novembre
2002, in Giurisprudenza di merito, 913, 2003, e, più recentemente, Trib. Napoli, Ord. 27 settembre 2006, in questa Lav. P.A., 1211, 2006, con nota di BOSCATI.
189
Alla sentenza n. 2233 del 2007 è subito seguita, nello stesso senso, Cass. SS.UU., 1 dicembre 2009, n. 25254.
Da ultima Cassazione civile sez. lav., 05 gennaio 2011, n. 190: “In tema di lavoro pubblico
privatizzato nel caso di licenziamento illegittimo, ai fini della liquidazione del danno, si applica
l'art. 18 l. 20 maggio 1970 n. 300, con la conseguenza che il risarcimento del danno non incontra il limite delle sei mensilità retributive previste dall'art. 8 l. 15 luglio 1966 n. 604, come sostituito dall'art. 2, comma 5, l. 11 maggio 1990 n. 108, che riguarda i soli rapporti di lavoro
privato con tutela obbligatoria”
178
vo190 - che pure sembrano presupporre l'impraticabilità della tutela reale - proprio perché esse non potrebbero comunque contraddire il disposto dell'art. 51
D.Lgs. n. 165/2001.
Nello stesso senso anche la Corte Costituzionale191, che ha affermato: “A differenza di quanto accade nel settore privato, nel quale il potere di licenziamento
del datore di lavoro è limitato allo scopo di tutelare il dipendente, nel settore
pubblico il potere dell'amministrazione di esonerare un dirigente dall' incarico
e di risolvere il relativo rapporto di lavoro, è circondato da garanzie e limiti
che sono posti non solo e non tanto nell'interesse del soggetto da rimuovere,
ma anche e soprattutto a protezione di più generali interessi collettivi: in particolare, ai sensi dell'art. 97 cost. contrasta con l'imparzialità amministrativa,
un regime di automatica cessazione dell' incarico che non rispetti il giusto
procedimento, mentre contrasta con il buon andamento, un sistema di automatica sostituzione dei dirigenti che prescinda dall'accertamento dei risultati
conseguiti. Ne deriva, sul piano degli strumenti di tutela, che forme di ripara190
In dottrina, contrario ALESSANDRO BOSCATI, Licenziamento del dirigente pubblico tra diritto vigente e prospettive di riforma, in Lav. P.A, 6, pp. 1211 ss., 2006: ”La circostanza che la
fonte collettiva disponga espressamente una tutela risarcitoria per l'ipotesi di licenziamento
ingiustificato è emblematica della non applicabilità della tutela reintegratoria. Diversamente
non sarebbe spiegabile in maniera ragionevole perché in presenza di un regime di tutela reale
le organizzazioni sindacali rappresentative e l'Aran abbiano disciplinato una più tenue tutela
risarcitoria. Né può essere considerata irrilevante la circostanza che le parti negoziali abbiano espressamente limitato l'applicabilità della tutela reintegratoria alla prima fase di applicazione del contratto collettivo”. 191
Corte Cost., 24 ottobre 2008, n. 351
179
zione economica, quali, ad esempio, il risarcimento del danno o le indennità
riconosciute dalla disciplina privatistica in favore del lavoratore ingiustificatamente licenziato, non possono rappresentare, nel settore pubblico, strumenti
efficaci di tutela degli interessi collettivi lesi da atti illegittimi di rimozione di
dirigenti amministrativi”.
In dottrina, invece, non si è riscontrata unanimità sulla ricostruzione operata
dalla giurisprudenza delle Magistrature Superiori, ritenendo che siano infondati, in particolare, gli argomenti su cui si fonda la pronuncia della Corte di Cassazione. In primo luogo, quello fondato sull’art. 51, D.Lgs. 165/2001, “poiché
questa disposizione estende ai dipendenti pubblici la disciplina del lavoro privato, con il relativo campo di applicazione eccettuando soltanto i limiti dimensionali (“numero dei dipendenti”) previsti per l’applicazione dello statuto dei lavoratori e, quindi, tenendo fermi i limiti categoriali ovunque previsti e sul cui
presupposto indiscusso si è non a caso sviluppata tutta la contrattazione collettiva per la tutela obbligatoria negoziale del dirigente pubblico ingiustificatamente licenziato” 192. E poi quello fondato sulla diversità della dirigenza pub-
192
ANTONIO VALLEBONA, Il licenziamento del dirigente pubblico, in Giur. It., pp. 2723-2725,
2010.
180
blica rispetto alla dirigenza privata “poiché insufficiente ad una interpretazione
creativa, consentendo soltanto la remissione alla Corte Costituzionale”193.
6.- Un caso particolare: se l’ambasciatore porta pena.
Il comma 6 dell’art. 19, D.Lgs. 165/2001 consente il conferimento di incarichi dirigenziali, entro il limite del 10 per cento della dotazione organica dei dirigenti appartenenti alla prima fascia e dell’8 per cento della dotazione organica di quelli appartenenti alla seconda fascia, a persone in possesso di particolare e
comprovata qualificazione professionale, che abbiano svolto attività in organismi ed enti pubblici privati ovvero aziende pubbliche o private con esperienza
acquisita per almeno un quinquennio in funzioni dirigenziali o che abbiano
conseguito una particolare specializzazione professionale, culturale e scientifica desumibile dalla formazione universitaria e postuniversitaria, da pubblicazioni scientifiche o da concrete esperienze di lavoro maturate, anche presso
amministrazioni statali, ivi comprese quelle che conferiscono gli incarichi, in
193
Ibidem
181
posizioni funzionali previste per l’accesso alla dirigenza o che provengono da settori della ricerca, della docenza universitaria, delle magistrature e dei ruoli
degli avvocati e procuratori dello Stato. Per gli incarichi di segretario generale,
capo di dipartimento e di funzioni di livello generale è previsto un termine di
durata di tre anni, mentre per gli altri incarichi la durata massima è fissata in un
quinquennio194.
Proprio sulla base dell’art. 19, co. 6, D.Lgs 165/2001, il Ministro per la Pubblica Amministrazione e l’Innovazione ha conferito, in data 23 giugno 2008, ad
un soggetto esterno alla Pubblica Amministrazione l’incarico di Capo del Dipartimento per l’innovazione e le tecnologie. Il dirigente, come risulta dalla
194
Art. 19, comma 6, D.Lgs. 165/2001, come modificato dall'articolo 40, comma 1, lettera e),
del D.Lgs. 27 ottobre 2009, n. 150: “Gli incarichi di cui ai commi da 1 a 5 possono essere conferiti, da ciascuna amministrazione, entro il limite del 10 per cento della dotazione organica dei
dirigenti appartenenti alla prima fascia dei ruoli di cui all'articolo 23 e dell'8 per cento della dotazione organica di quelli appartenenti alla seconda fascia, a tempo determinato ai soggetti indicati dal presente comma. La durata di tali incarichi, comunque, non può eccedere, per gli incarichi di funzione dirigenziale di cui ai commi 3 e 4, il termine di tre anni, e, per gli altri incarichi di funzione dirigenziale, il termine di cinque anni. Tali incarichi sono conferiti, fornendone esplicita motivazione, a persone di particolare e comprovata qualificazione professionale,
non rinvenibile nei ruoli dell'Amministrazione, che abbiano svolto attività in organismi ed enti
pubblici o privati ovvero aziende pubbliche o private con esperienza acquisita per almeno un
quinquennio in funzioni dirigenziali, o che abbiano conseguito una particolare specializzazione
professionale, culturale e scientifica desumibile dalla formazione universitaria e postuniversitaria, da pubblicazioni scientifiche e da concrete esperienze di lavoro maturate per almeno un
quinquennio, anche presso amministrazioni statali, ivi comprese quelle che conferiscono gli
incarichi, in posizioni funzionali previste per l'accesso alla dirigenza, o che provengano dai settori della ricerca, della docenza universitaria, delle magistrature e dei ruoli degli avvocati e
procuratori dello Stato. Il trattamento economico può essere integrato da una indennità commisurata alla specifica qualificazione professionale, tenendo conto della temporaneità del rapporto e delle condizioni di mercato relative alle specifiche competenze”. professionali. Per il periodo di durata dell'incarico, i dipendenti delle pubbliche amministrazioni sono collocati in aspettativa senza assegni, con riconoscimento dell'anzianità di servizio.
182
narrativa in fatto del ricorso ex art. 700 c.p.c., “ha dunque svolto l’incarico di Capo del Dipartimento per l’innovazione e le tecnologie con risultati eccellenti, conseguendo pienamente gli obiettivi assegnatigli, come accertato all’esito delle procedure di “verifica e valutazione dei risultati”, di cui all’art. 21 del CCNL dell’Area VIII per la dirigenza della Presidenza del Consiglio dei Ministri in data 13 aprile 2006, anche ai fini del riconoscimento della retribuzione
di risultato”.
Tuttavia, “in data 26 marzo 2009 il quotidiano “La nuova Venezia” pubblicava un articolo dal titolo (“Il Centro del restauro rimane al palo”) nel quale si alludeva a ritardi del Ministro e dei suoi uffici nella realizzazione del suddetto
Centro, ed in particolare a ritardi nell’erogazione di una somma di € 50.000,00 alla Società Arsenale di Venezia S.p.A. per la realizzazione di uno
studio di fattibilità. Lo stesso giorno, il ricorrente, alla sola presenza del Prof.
Mario Dal Co e del Dott. Vittorio Pezzuto, aveva l’ardire di mostrare il suddetto articolo al Ministro, il quale veniva repentinamente colto da
un’irrefrenabile irritazione che sfogava pubblicamente, e senza troppo riguardi, nei confronti del Dott. Torda, accusato, con toni alterati, di non averlo tempestivamente informato su questione alla quale teneva moltissimo trattandosi
della sua città natale. Il malcapitato Dott. Torda tentava di spiegare al Mini-
183
stro come i presunti ritardi dipendessero unicamente dalla impossibilità giuridica – originariamente non considerata affatto dal Ministro, nelle esternazioni
e promesse pubbliche, ma accertata dai tecnici del Dipartimento – di erogare
direttamente ed immediatamente una somma di € 50.00,00 ad una società per
azioni, senza espletare procedure ad evidenza pubblica. Il Ministro – interessato soltanto ad una immediata smentita sul giornale - non voleva sentire ragioni e troncava bruscamente la conversazione “licenziando” (nel vero senso della parola, purtroppo) il Dott. Torda. Da quel preciso istante il Ministro non
ha considerato più il Dott. Torda come Capo del Dipartimento, pretendendone
reiteratamente le immediate dimissioni (sia pure per interposta persona), ed
ignorandolo platealmente, come se non esistesse, incurante delle conseguenze
in termini di efficienza e di immagine (anche per la stessa Amministrazione). In
particolare, da quel fatidico 26 marzo il ricorrente non è stato più invitato ai
briefing quotidiani con il Ministro e con tutti i collaboratori, convocati a Palazzo Vidoni, essendogli stato fatto pervenire il messaggio che la sua presenza
non sarebbe stata gradita. […] E così in data 10 aprile 2009 il Segretario Generale presso la Presidenza del Consiglio dei Ministri ha trasmesso alle OO.SS. rappresentative, la proposta di modifica degli artt. 2l e 22 del dpcm 23
luglio 2002 (“Ordinamento delle strutture generali della Presidenza del Con-
184
siglio dei Ministri”), cioè delle disposizioni relative, rispettivamente, al Dipartimento della Funzione Pubblica ed al Dipartimento per l’innovazione e le tecnologie, avviando così le procedure di consultazione sindacale previste dalla
contrattazione collettiva. Le suddette modifiche consistono nell’individuazione di un nuovo nome per il Dipartimento per l’innovazione e le tecnologie (che si chiamerà “Dipartimento per la digitalizzazione della pubblica amministrazione e l’innovazione tecnologica”) ed in una diversa articolazione delle competenze del Dipartimento stesso, rimaste sostanzialmente immutate, pur con gli
adeguamenti derivanti dal coordinamento con il d.lgs. n. 82 del 2005 (Codice
dell’amministrazione digitale), e salva l’attribuzione di funzioni di vigilanza sull’Agenzia per la diffusione delle tecnologie per l’innovazione istituita dall’art. 1, comma 368, lett. d) l. n. 266 del 2005. Le “modifiche” in questione riflettono dunque, attraverso un mero aggiornamento formale, un maquillage,
della declaratoria normativa relativa alle competenze del Dipartimento, adattamenti già da tempo messi in pratica nell’attività concreta del Dipartimento medesimo, che, ovviamente, ha tenuto conto, e si è conformato spontaneamente, al quadro normativo in evoluzione (il d.lgs. n. 82 del 2005 e la l. n. 266 del
2005 erano in vigore ben prima che al ricorrente venisse conferito l’incarico di Capo del Dipartimento!). […] Con lettera in data 14 maggio 2009 il Mini-
185
stro in persona ha comunicato al Dott. Torda che “a seguito della recente riorganizzazione” sarebbero “mutate in modo sostanziale” le competenze per il
Dipartimento per le innovazioni e le tecnologie e, pertanto, ai sensi dell’art. 62, comma 1 e 3 del contratto collettivo per i dirigenti della Presidenza del
Consiglio, “l’incarico di Capo del dipartimento […] deve intendersi cessato,
in conseguenza delle suddette rilevanti modifiche del suo oggetto”. Nella lettera si asserisce che le “accresciute competenze” del Dipartimento includerebbero “specifici compiti di pianificazione, progettazione, elaborazione ed attuazione di interventi relativi all’innovazione” e che “tali nuovi compiti” imporrebbero di avvalersi “di una figura dal profilo professionale – diverso da quello della S.V. – maggiormente in possesso di specifiche competenze ed esperienze professionali nel campo della programmazione economica e della valutazione dei progetti di investimenti pubblici”. Il Ministro conclude dunque con l’affermare che “l’esigenza di acquisire tale diversa professionalità mi impedisce, pertanto, di confermarLa nel nuovo incarico”. Con la memoria difensiva l’Amministrazione evidenziava che la rimozione del
dirigente dall’incarico era causata dalla sola riorganizzazione e non da un intento persecutorio del Ministro e che, in ogni caso, trovandosi in presenza di un
186
incarico di natura apicale non si applicavano le garanzie previste per i dirigente
superiori.
Il Tribunale di Roma195, riconoscendo, in via preliminare, che “i provvedimenti
di revoca e di cessazione degli incarichi sono atti unilaterali che
l’Amministrazione adotta nella sua capacità di diritto privato di datore di lavoro e, quindi soggetti al controllo del giudice ordinario”, ha ordinato la reintegrazione nell’incarico dirigenziale in favore del dirigente con riferimento al “Dipartimento per la digitalizzazione della pubblica amministrazione” sulla base dell’assunto
che
si
deve
escludere
la
sussistenza,
in
capo
all’Amministrazione Pubblica, di un potere di disporre la revoca o la cessazione dell’incarico dirigenziale sganciato da qualsivoglia procedimentalizzazione. Nel caso di specie, Il Tribunale ha rilevato, inoltre, che “dal confronto tra le
attribuzione del “Dipartimento per la digitalizzazione della Pubblica Amministrazione e l’innovazione tecnologica” e il preesistente “Dipartimento per l’innovazione e le tecnologie” non appare dirimente, posto che il nucleo duro
delle attribuzioni del ridenominato dipartimento è comunque l’innovazione tecnologica della Pubblica Amministrazione a mezzo dell’informatica” ed aggiunge che “a fronte di una valutazione assolutamente positiva da parte del
195
Tribunale di Roma, ordinanza del 15 giugno 2009, inedita a quanto consta.
187
capo del dicastero in ordine all’attività dell’odierno ricorrente per il semestre giugno – dicembre 2008 risulta del tutto stridente l’individuazione di altro soggetto estraneo alla Pubblica Amministrazione quale dirigente del ridenominato dipartimento, senza che sia in alcun modo esplicitato quali sarebbero
le note connotanti in senso sfavorevole la posizione del ricorrente con riferimento ai nuovi compiti attribuiti al dipartimento”.
Nonostante la pronuncia del Tribunale, ad oggi, dopo l’ordinanza ex art. 700
c.p.c. e altre due statuizioni del giudice in procedimenti cautelari ex artt. 669
duodecies c.p.c. e 669 terdecies c.p.c., il dirigente protagonista di questa vicenda non è ancora rientrato in possesso del suo incarico e si trova, dopo due anni,
ad attendere la prima udienza del giudizio di merito, che ha intrapreso, pur rinunciando, oramai, alla richiesta di reintegrazione nell’incarico, limitandosi al
solo profilo risarcitorio.
188
189
CONCLUSIONI
All’ultima pagina di questa tesi possiamo provare a dare, in ordine sparso, delle
risposte alle domande dell’introduzione. Rusciano ha scritto196: “Per ora mi pare che i dati dell’esperienza dimostrino soltanto una cosa: intorno alla dirigenza di vertice si è mosso tutto, ma sembra
continuare a stare ferma, grazie alle proverbiali resistenze al cambiamento
della burocrazia”.
E’ indubbiamente vero che la disciplina della dirigenza sia la più “ritoccata” dalle riforme. Ma è altrettanto vero che allo spinoso problema della professionalità del dirigente pubblico (che, a dirla tutta, per il legislatore italiano non esiste) non si è data una risposta legislativa. A “sbrogliare la matassa” ci ha pensato la giurisprudenza che, dopo le prime incertezze iniziali, ha deciso per il diritto alla reintegrazione a seguito di accertato provvedimento illegittimo di rimozione. Anche se, quando interviene un giudice a dirimere la questione, il
rapporto di lavoro è oramai sfociato nella sua fase patologica.
Certo, alla corti italiane il merito di aver riconosciuto che il solo risarcimento
del danno non è misura adeguata a rifondere il pregiudizio subito da un diri196
Mario Rusciano, Contro cit.
190
genze pubblico privatizzato colpito da un provvedimento dal contenuto illegittimo. E di aver aperto, di conseguenza, la strada della tutela reale.
La giurisprudenza ha svolto il ruolo di garante della professionalità del dirigente pubblico privatizzato (che, invece, esiste); ruolo che, nel rapporto di lavoro
tra il dirigente privato e l’imprenditore, è svolto dalle regole del libero mercato. Oggi le conseguenze di un’attività politica che gestisca la Pubblica Amministrazione in maniera spregiudicata, che ne sperperi le risorse umane (che, nonostante le denuncie sulla presenza dei cd. “fannulloni”, ci sono) 197 ed economiche non possono essere sopportate da una classe dirigenziale sfornita, per
legge, di tutele.
E anche a voler uscire dalla logica del singolo, riconducendo tutto alla collettività, si arriva alle medesime conclusioni.
Traendo ispirazione dal dettato dell’art. 97 della Costituzione, non si può fare a
meno di chiedersi come possano essere garantite l’efficienza e il buon andamento della Pubblica Amministrazione se si avalla l’esistenza di un sistema che lascia i dirigenti (colpiti da un provvedimento illegittimo e in attesa di una
pronuncia giurisdizionale) immotivati, sfiduciati, costretti ad una perdita del
bagaglio di conoscenze acquisite.
197
Per una breve elencazione si veda VITO TENORE, Noi non siamo fannulloni. Ritratti di 100
dipendenti che onorano la P.A., Dike, 2010.
191
A pagare il prezzo di una siffatta situazione non è il Ministro o l’organo politico di vertice (i quali, oggi, non rispondono neanche in sede di responsabilità
politica) ma la collettività, che paga due volte: il danno emergente del risarcimento costretto a versare ove non si proceda alla reintegrazione e il lucro cessante derivante dalla perdita di una professionalità, che, grazie al suo lavoro
migliori il funzionamento dell’apparato pubblico. 192
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RINGRAZIAMENTI
Sperando che nessuno se ne vergogni,
perché “sono una parte di tutto ciò che ho incontrato sulla mia strada”.
Al Prof. Antonio Pileggi, per l’impegno, la dedizione e la generosità con cui interpreta il mestiere di insegnante; per il privilegio di vederlo
all’opera ogni giorno. E per essere un idealista (come me!).
A Salvatore e Francesco, per avermi introdotto nel gruppo dei “carbonari”, così da farmi sentire accolta. A Matteo, comunque sia finita, per gli anni che abbiamo passato assieme.
A Silvia, per essere diventata un’amica.
A Elisa, la mia tenutaria di segreti. E un’attenta ascoltatrice.
A Marta, che mi conosce davvero.
A Francesca, mia “moglie”. Per tutti i giorni (e le notti) di studio assieme. Per avermi preso per mano quando ne avevo bisogno. Senza di lei
non sarei qui.
Ad Elena, che c’è sempre, ovunque si trovi nel mondo.
A Mattia, per avermi perdonata.
A Giuseppe e Andrea, per la sicurezza che ci saremo gli uni per gli altri.
A L., per avermi seguito da lontano così da non farmi sentire sola. Mai.
A mio Zio Silvano, che mi ha sempre (fatto sentire) protetta.
A mio padre, per avermi insegnato che si può ricominciare, sempre. A
Katia, per esserci. E ad entrambi, per Matteo.
A me.
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