Filosofia della scienza di Carlo Cilia Appunti che affrontano l'annoso problema della conoscenza umana. Partendo dal concetto di causalità si passa ad analizzare il procedimento per risalire alla verità dai dati sperimentali o viceversa, secondo il metodo della clessidra. Si citano il calcolo delle probabilità, la verità nella scienza per Heidegger e Husserl, fino al significato di verità nella legge scientifica. Università: Università degli Studi di Catania Facoltà: Lettere e Filosofia Esame: Filosofia della scienza Carlo Cilia Sezione Appunti 1. Concetto di causalità e condizioni Partiamo da un’idea vaga di causa (anche se chiaramente non possiamo sapere a priori cosa si intende per causa): Newton ha parlato di “vera” causa e non semplicemente di “causa”. Il concetto di vera causa è un concetto sul quale si è discusso molto: esiste una causa quando si verificano queste condizioni: C’è una condizione necessaria: una parte di un tizio va al cinema C’è una condizione sufficiente: il fatto che un tizio sia andato al cinema C’è una condizione necessaria e sufficiente: 1 + 2 Se non c’è la terza non esiste effetto in un nesso causale; è esattamente quella che viene chiamata condicio sine qua non. La condizione necessaria e sufficiente (in una parola la causa) è ciò che basta senza che serva nient’altro per ottenere un effetto. Questa condizione quasi mai sono in grado di coglierla; infatti la vera causa non coincide esattamente con la condizione necessaria perché altrimenti ogni condizione necessaria (che non esaurisce il tutto) si trasforma in vera causa! Ecco che allora diventa difficile determinare la vera causa e di conseguenza capire bene cosa si intende per causalità. Filosofia della scienza Pagina 1 di 60 Carlo Cilia Sezione Appunti 2. Ontologia e epistemologia della causa. Hume e Kant A questo punto è bene distinguere il concetto di vera causa ponendoci su due piani: Ontologico (ossia sapere cosa è la vera causa) Epistemologico (ossia sapere come facciamo a stabilire la vera causa) La cosa che facilmente viene da fare in prima istanza è quella di dare maggior importanza al piano ontologico (seguendo la strada seguita dai “realisti”). Ma questa via ci riporta al problema alquanto complesso e di non facile soluzione di stabilire cosa e quale sia esattamente sia la causa necessaria e sufficiente; è per questo motivo che rapidamente si sfocia nell’ ontologismo. Il problema quindi se pretende di essere affrontato con l’auspicio di trovare qualche risultato utile deve necessariamente essere affrontato da un punto di vista epistemologico. Ma senza inoltrarci troppo nella ricerca si nota come facilmente, seguendo un approccio esclusivamente epistemologico il rischio è quello di cadere nel relativismo. Infatti una delle affermazioni che naturalmente viene da fare è quella che ha fatto Hume e cioè affermare che “causale è ciò che si verifica nel rapporto di due oggetti contigui a livello spaziale, temporale e di uniformità”. Kant però ha pensato bene di mettere in crisi questa idea facendo notare che spesso causa ed effetto sono contemporanei. È per questo motivo che egli preferisce parlare di “simmetria” tra causa ed effetto (secondo il suo famoso esempio della pallina e il cuscino si vede che poggiando la pallina sul cuscino questo si fa concavo e l’effetto è contemporaneo ossia non vi è contiguità come voleva Hume; questo crea un rapporto di simmetria tra la solidità della pallina e la sofficità del cuscino nel momento in cui questi entrano in contatto soprattutto perché questo evento non può mai verificarsi all’inverso e cioè che la stessa pallina si faccia concava a contatto col cuscino). Sulla contiguità spaziale invece Kant è d’accordo con Hume; infatti essa è condizione necessaria affinché si verifichi un rapporto causale: i due oggetti devono necessariamente essere contigui spazialmente. Filosofia della scienza Pagina 2 di 60 Carlo Cilia Sezione Appunti 3. Concetto di causalità. Einstein e entanglement Kant però, insieme con Hume, sarebbe stato di lì a poco smentito dalle nuove scoperte in ordine alla meccanica quantistica: Einstein stesso scoprì a proposito della relazione tra fenomeni che non sempre due fenomeni in relazione causale tra loro dipendono l’uno dall’altro in senso spaziale; o meglio non necessariamente essi sono contigui. Questo fenomeno è stato poi definito entanglement: esso mostra come è possibile che si stabilisca una connessione causale tra fenomeni anche a milioni di km di distanza. E per di più questo fenomeni non è neanche per un attimo dimostrabile a livello locale; esso si verifica solamente a grandi distanze. La cosa interessante è: come spiegarlo? Newton avrebbe risposto con la frase: “ipotesis non fingo” (non faccio ipotesi) noi potremmo invece azzardare l’idea che anche se non riusciamo a scorgerla in realtà la connessione causale esiste. Questa situazione è esattamente quella dell’elettrone nella scatola che finché non è osservato non se ne può determinare la posizione esatta perché risulta essere come una nuvola. E dividendo la scatola in due e separando le due parti non saprò mai da che parte sta l’elettrone; questa incertezza gnoseologica è il risultato di un interazione (che è stata chiamata “passione”) che si stabilisce tra le due parti; è come se l’una dipendesse dall’altra fintanto che io non mi accerto da che parte sta l’elettrone. Questo ci fa intuire che esiste un legame causale tra le due metà di scatola, ma risulta impossibile ad oggi, con la rappresentazione dell’elettrone che abbiamo, stabilire quale sia la “vera causa” che li lega. La teoria super assodata della relatività ristretta afferma che non esiste velocità superiore a quella della luce (300.000 km/s). questo fenomeno entra un po’ in conflitto con le nuove teorie sviluppate in meccanica quantistica; non che esse si contraddicano escludendosi a vicenda, quanto piuttosto risultano inconciliabili. Il tentativo di conciliazione tra le due teorie a dato vita a quello che è stato chiamato modello standard. Filosofia della scienza Pagina 3 di 60 Carlo Cilia Sezione Appunti 4. Reichenbach e la causa comune Reichenbach ha introdotto il concetto di “causa comune”; ogni volta che statisticamente c’è una correlazione vi sono due possibilità: un fenomeno è causa dell’altro (A e B sono collegati e A è causa di B) esiste una causa comune tra i due fenomeni (esempio: un uomo e una donna si incontrano sempre in piscina. Il “sempre” indica la correlazione statistica e la causa comune potrebbe essere quella che “se la intendono”). Nel caso della scatola contenente l’elettrone il concetto di causa comune viene meno: i due fenomeni sembrano si essere correlati ma non si riesce a trovare la loro causa comune. La teoria della relatività ristretta non è in grado di cogliere la correlazione e spiegare il fenomeno perché non ammette al suo interno il concetto di causa comune. Filosofia della scienza Pagina 4 di 60 Carlo Cilia Sezione Appunti 5. Principio di determinazione di Heisenberg E’ bene inoltre considerare all’interno di questo discorso il principio di determinazione di Heisenberg: secondo tale principio se io calcolo la posizione esatta di un determinato corpo (elettrone) non sarò in grado di stabilire con lo stesso grado di esattezza la sua velocità e viceversa. Se io quindi “fisicamente” preparo un esperimento stabilendo da prima la posizione ossia lo “stato” di un dato oggetto (elettrone) sarò in grado di conoscere con assoluta certezza la posizione dell’oggetto (oppure la sua velocità nel caso in cui avrò preparato l’esperimento a partire da essa) ma non saprò nulla riguardo alla sua velocità. Filosofia della scienza Pagina 5 di 60 Carlo Cilia Sezione Appunti 6. Meccanica quantistica e unità per analogia La meccanica quantistica invece si preoccupa di stabilire cosa succede in uno stato di “Entanglement” per cui non conosco a priori né la posizione né la velocità di un dato oggetto se non quando farò un’osservazione sperimentale sullo stato dell’oggetto. La preparazione dell’esperimento quindi in meccanica quantistica non segue il principio di determinazione. Quando parlo di causalità posso dire che essa non è univoca ma è un’ unità per analogia. Si deve infatti distinguere la univocità (che stabilisce una base comune tra due elementi) dall’ unità per analogia (esiste un’unità ma non si riesce a trovare ciò che accomuna le due cose analoghe; non si trova cioè il genere comune). Per entrare addentro al problema della causalità si deve inoltre avere chiara la distinzione tra fatto (token ossia un singolo evento che è ben caratterizzato che quindi prende il nome di “fatto”) ed evento (type che indica un evento generico che non ha una precisa individuazione). Se noi affrontiamo il problema della causalità da un punto di vista ontologico dobbiamo affermare che essa abbraccia sia il fatto che l’evento. In realtà però nel mondo, ontologicamente parlando essa riguarda propriamente fatti non eventi. Riguardo a questo Hume si era espresso in maniera diversa: egli infatti partendo da un approccio epistemico affermava che è possibile parlare di causalità nella correlazione tra due eventi solo quando questi eventi si ripetono sempre uguali e si ha la certezza che essi si ripeteranno in futuro. Filosofia della scienza Pagina 6 di 60 Carlo Cilia Sezione Appunti 7. Michotte. Percezione e causalità Michotte a proposito di questo complica un po’ le cose: egli afferma che è a partire dalla percezione che in prima istanza si può parlare di causalità: se do un calcio ad un pallone quello si muove e io percepisco il suo movimento. È chiaro però che esistono percezioni che non risultano valide e vanno ulteriormente indagate, così come spesso vi sono nessi causali che non siamo in grado di percepire. Ad ogni modo però la percezione può essere un buon modo per cogliere in prima analisi i nessi causali. Filosofia della scienza Pagina 7 di 60 Carlo Cilia Sezione Appunti 8. Calcolo della probabilità, Kolmogorov Come si vede il quadro che riguarda il concetto di causalità risulta molto frastagliato ed è importante ad esso aggiungere un altro tassello e cioè il calcolo della probabilità. p(A) = la probabilità che un certo enunciato A sia vero. P(a) = la probabilità che un certo enunciato a si verifichi (e quindi in questo caso trattasi di evento). Kolmogorov (matematico) ha dimostrato che matematicamente p(A) è uguale a p(a). Infatti in entrambi i casi vale la regola secondo cui si passa da 0 che rappresenta l’insieme vuoto e 1 che è invece la totalità. La probabilità è quindi la funzione di un insieme vuoto partendo dal quale è possibile raggiungere, passando per i numeri reali, la pienezza totale dell’insieme rappresentata dal numero 1. Ma chi ci dice che questo concetto matematico coglie veramente la nozione di probabilità? Bene il calcolo della probabilità di Kolmogorov funziona con enunciati semplici ma se noi vogliamo calcolare la probabilità che la teoria della relatività sia vera o si verifichi, incorriamo in problemi insormontabili perché essa al suo interno implica un’altra serie di teorie già di per sé complicate. Quindi lo strumento di controllo che a noi serve non è “quantitativo” (che percentuale ha la teoria di essere vera o di verificarsi) quanto “qualitativo” ossia “comparativo” nel senso di “capacità descrittiva e normativa del mondo” e non solo di correttezza formale. Quando parliamo di probabilità sarebbe bene non parlare mai di “probabilità assoluta” cioè p(A) ma piuttosto di p(A/K) ossia a partire dalle conoscenze di sfondo che noi abbiamo (k = background knowledge). Filosofia della scienza Pagina 8 di 60 Carlo Cilia Sezione Appunti 9. Calcolo delle probabilità in Reichenbach, Salmon e Suppes Reichenbach, Salmon, Suppes hanno addirittura teorizzato che attraverso il calcolo delle probabilità si definisce il concetto stesso di causalità e in particolare attraverso la formula dell’aumento della probabilità: Dati due eventi A e B, se affermiamo che p(A) < p (A/B) allora dovremo necessariamente affermare che in qualche modo B favorisce A, perché dato B, A cresce. In effetti tale formula non ha un valore strettamente ontologico ma ha un forte valore epistemico. Facciamo un esempio: se io desidero stare con una donna (A) ma mi rendo conto che tutte quelle con cui ci provo mi dicono di no. Allora decido di vestire firmato comprare una Ferrari (B) e il risultato è che qualche donna mi dice di si. Anche se attraverso questo risultato non riesco a determinare quale sia la vera causa (quindi questo risultato non ha valore da un punto di vista ontologico) è vero però che B favorisce A da un punto di vista epistemologico perché è evidente che comprando la Ferrari e vestendo bene riesco ad “acchiappare” quindi questo assume un valore dal punto di vista epistemologico; attraverso l’aumento della probabilità non sarò in grado di dire con certezza che essa rappresenta la vera causa (ontologico) ma quanto meno esso mi determina una via, una strategia, un metodo per raggiungere la vera causa. Salmon addirittura parte dalla teorizzazione di Reichenbach e si limita ad affermare che la causalità non è nient’altro che l’aumento della probabilità. Dobbiamo però tenere sempre in considerazione che spesso quella che sembra essere la vera causa in realtà non lo è: a proposito dell’emancipazione femminile per lungo tempo si è creduto che essa fosse proporzionale alla ricchezza di un paese. In realtà studi recenti hanno dimostrato come non sia la ricchezza quanto l’istruzione a far aumentare l’emancipazione femminile. Il fatto poi che l’istruzione fosse sviluppata maggiormente nei paesi più ricchi non deve far cadere nell’errore di considerare i due fattori coincidenti. Nel caso specifico quello della ricchezza prende il nome di “fattore ombra”. La conclusione è quindi che la formula sopra riportata non rappresenta uno strumento di verità assoluta e quindi non ha alcun valore ontologico ma è in grado quanto meno di mettere in luce quali sono i meccanismi attraverso i quali ci si può avvicinare alla vera causa. Filosofia della scienza Pagina 9 di 60 Carlo Cilia Sezione Appunti 10. Cos'è la legge scientifica Le leggi scientifiche (capitolo 2 del libro) Che cosa è una legge scientifica? (diciamo già da subito che il destino è quello di non essere in grado di trovare una definizione precisa di legge scientifica!) Le leggi sono enunciati generali (e questa è una caratteristica che in linea di principio delinea una legge). Chiaramente non tutti gli enunciati generali sono leggi. Il problema del filosofo è stabilire quale tra tutti gli enunciati generali (quindi le migliaia di teoria formulate) si possa fregiare del titolo di “legge” (oltre chiaramente ad essere una teoria vera). Facciamo un esempio; l’enunciato: “non esiste in natura una palla d’oro di 10 tonnellate” è un enunciato vero ma non una legge scientifica perché potrebbe anche succedere che un ultra miliardario decida di crearla. Invece l’enunciato: “non esiste una palla d’uranio arricchito di 10 tonnellate” è un enunciato vero e anche una legge scientifica perché non è fisicamente e chimicamente possibile creare una palla tanto grande poiché essa esplode molto prima di raggiungere le 10 tonnellate e questo descrive un pezzo di mondo. Ecco allora che il legame che si instaura tra un enunciato e una legge non è semplicemente di ordine “sintattico” ma piuttosto di tipo “semantico” e “ontologico”. Filosofia della scienza Pagina 10 di 60 Carlo Cilia Sezione Appunti 11. Van Fraassen, Pargetter e la legge scientifica Ecco allora che il legame che si instaura tra un enunciato e una legge non è semplicemente di ordine “sintattico” ma piuttosto di tipo “semantico” e “ontologico”. Hume aveva sostenuto che le leggi non sono nient’atro che enunciati generali e un enunciato non si differenzia dall’altro se non per una maggiore o minore generalizzazione. Van Frassen ha fatto un passo avanti sostenendo all’interno di questi enunciati generali (caratterizzati da una regolarità persistente) esistono delle distinzioni: enunciati occasionali che nonostante siano caratterizzati da una regolarità persistente non ci permettono di poter parlare di legge enunciati nomologici che oltre a presentare regolarità possiedono caratteristiche che distinguono nettamente un enunciato dall’altro Il prof. supera questa impostazione…. Vediamo dunque quali sono che cercano di spiegare il concetto di legge distaccandosi da Hume. È bene innanzitutto esplicitare il significato del concetto di necessità. Una prima risposta è stata fornita da Pargetter: “necessario inteso scientificamente significa riferirlo ad un insieme di mondi possibili”. Qualcosa quindi è necessario se risulta vero in tutti i mondi possibili. Una legge allora sarebbe un enunciato vero in tutti i mondi possibili. Questa definizione però ci aiuta poco perché chiaramente i mondi possibili di cui parla non sono sperimentabili. Infatti anche dal punto di vista semantico è chiaro che se introduciamo la locuzione modale “possibili” ci discostiamo dal concetto di “necessità” ed entriamo in un circolo vizioso. Filosofia della scienza Pagina 11 di 60 Carlo Cilia Sezione Appunti 12. Armstrong e valore ontologico degli enunciati Armstrong non ha come obiettivo quello di fondare la differenza delle leggi dagli enunciati partendo dagli enunciati stessi. Egli si rifà ad Aristotele che si riferiva nello specifico al valore ontologico degli enunciati: quando io enuncio una legge non mi sto riferendo all’insieme degli enunciati che più individui prima di me hanno verificato. Sto parlando di qualcosa di più: negli enunciati nomologici in realtà io sto cogliendo qualcosa di essenziale che mi rappresenta “sempre” quell’evento concreto del mondo. Per cui il riassunto dell’esperienza passata si verifica solo quando gli enunciati si riferiscono ad eventi che non si basano su caratteristiche essenziali. Il problema che nasce allora è: quali sono queste caratteristiche essenziali? Aristotele affermava: vedo il cavallo ma non la cavallinità e il problema di capire cosa fosse la cavallinità in ultima analisi rimaneva un problema aperto. Armstrong seguendo Aristotele ha detto: le essenze sono presenti quando sono “istanziate” ossia hanno la presenza concreta dell’oggetto. Il discorso quindi come è evidente slitta così sul piano metafisico. Un tentativo di risposta è stato fatto da chi ha fatto notare che una legge ha alla base una relazione. Ci deve ad esempio essere una relazione tra una palla di uranio e 10 tonnellate. Ma il problema che si pone è: chi garantisce questa relazione? Cosa ci garantisce che questa relazione sia sempre la stessa? Cadiamo così nel paradosso messo in luce da Platone del “terzo uomo”; ci deve sempre essere un elemento esterno alla teoria, invariante, che garantisca la relazione tra oggetti o tra concetti; se due eserciti sono lontani l’uno dall’altro 3 km, questo significa che ogni componente dell’esercito A dista tre km da ogni elemento dell’esercito B? chiaramente no! Quindi non possiamo concludere che dalla relazione tra A e B si possa dedurre la stessa relazione tra ogni singolo soldato di A e ogni singolo soldato di B! Le essenze quindi non ci aiutano a livello “individuale”. L’essenza, in questa impostazione che mette al centro la relazione, vale per l’esercito non per ogni suo singolo componente. Si nota quindi che questo tentativo di risposta crea più problemi di quanti ne risolve. Filosofia della scienza Pagina 12 di 60 Carlo Cilia Sezione Appunti 13. Legge scientifica per Mill e Ramsey C’è un terzo tentativo di risposta proposto da John Stuart Mill e poi sviluppato Lewis, Ramsey Erman: una legge è un enunciato vero inserito in una teoria. Affrontiamo l’impostazione partendo dai problemi che pone. Innanzitutto secondo tale impostazione io potrei un qualsiasi enunciato generale “vero” all’interno di una teoria. Ma questo senza troppi commenti risulta inaccettabile. Ma Mill dice: vanno accettate solo le migliori teorie. Una teoria è migliore tra tante possibilità quando è un buon compromesso tra semplicità e informatività. Il fatto è che la semplicità è inversamente proporzionale alla informatività. Una teoria risulta allora essere buona quando viene infranta questa antitesi. Queste considerazioni maturano con la riflessione di Ramsey con il quale si arriva a questa definizione di legge: si tratta della teoria migliore che riesce a trovare un buon compromesso tra semplicità e informatività. L’idea che salta fuori allora è questa: le leggi sono enunciati inseriti in una teoria. Ma questa idea è assolutamente inconcludente. Filosofia della scienza Pagina 13 di 60 Carlo Cilia Sezione Appunti 14. Kuhn e la legge scientifica Kuhn è antipopperiano: lui fa chiaramente notare che non ha senso l’idea di Popper di buttar via una teoria quando essa viene falsificata: molti scienziati infatti non pensano neanche lontanamente di buttar via un’intera teoria, anche se falsificata, finché non se ne trova una migliore che la sostituisca. È per questo che secondo il filosofo, il falsificazionismo da solo non basta. Una buona legge sarà allora F=MmG/r2. Questa è una buona legge perché riesce ad essere semplice e al tempo stesso ci informa effettivamente su un pezzo di mondo e in generale su molte cose. Questo è quindi un buon strumento epistemico (ossia di conoscenza e interpretazione della realtà) e non ontologico (come ad esempio avrebbe voluto Lewis che di fronte ad una legge semplice e generale come quella di gravitazione universale ha parlato di necessità) anche se bisogna ammettere che al suo interni essa porta con se anche un valore ontologico dal momento che rappresenta una descrizione di come “effettivamente” funziona quel pezzo di mondo. Filosofia della scienza Pagina 14 di 60 Carlo Cilia Sezione Appunti 15. Cartwright e la legge scientifica È bene però fare attenzione a non cadere nell’errore di considerare tutte le leggi dello stesso valore e quindi tutte uguali tra loro per il fatto che possiedono necessariamente qualcosa di comune. A sfatare ogni dubbio è stata la Cartwright in un suo scritto “Come le leggi della fisica mentono”. La studiosa prende in esame il pendolo e la legge che descrive l’isocronia delle oscillazioni. Dato che tale legge è più fondata su calcoli matematici che su prove fisiche e sperimentali si chiede: chi mi assicura che la legge che ho trovato attraverso una serie di astrazioni matematiche rispecchia e descrive esattamente il meccanismo del pendolo? Questa obiezione, giusta, serve a farci riflettere sul fatto che nonostante ci troviamo di fronte ad una legge a tutti gli effetti, questa differisce di molto da quella precedente per il suo scarso legame diretto con la realtà. Resta il fatto però che questi tipi di leggi con le loro astrazioni vengono accolte e utilizzate come tali perché nonostante la loro origine sia più squisitamente matematica, spiegano molto bene un numero enorme di fenomeni che tra l’altro spesso hanno magari poco a che fare con l’ambito all’interno del quale sono nate. Concludendo questo argomento facciamo ancora riferimento a Van Frassen che è stato colui che ha confutato tutte le impostazioni fin qui viste a proposito del concetto di legge scientifica. Nella sua pars costruens egli sviluppa un’idea secondo la quale la scienza non va alla ricerca di leggi ma di simmetrie. Filosofia della scienza Pagina 15 di 60 Carlo Cilia Sezione Appunti 16. Definizione di simmetria per Weyl La prima definizione di “simmetria” è stata proposta da Herman Weyl che negli anni 50 scrive un libricino proprio dal titolo Simmetrie. Secondo l’autore dello scritto una simmetria è un’invarianza rispetto a una trasformazione (definizione che riguarda l’aspetto qualitativo). Il cerchio è ad esempio che da l’idea di una simmetria: se ad esempio la trasformazione coincide con la rotazione del cerchio si vede che esso rimane esattamente identico prima e dopo. Weyl ha notato anche un’altra cosa: l’insieme delle trasformazioni rispetto all’invarianza ha certe proprietà algebriche precise cioè è un gruppo1. Questa definizione può funzionare: ma quale problema pone? Nonostante siamo passati da un concetto vago ad una sua esplicazione (il che è sempre un grosso passo avanti) questa risulta essere incompleta. Esistono delle simmetrie che non sono riconducibili al concetto di gruppo; un esempio è immaginare un cerchio con tre interruzioni nella circonferenza: questa figura può risultare simmetrica per certi versi ma non rispetta la definizione di Weyl. Filosofia della scienza Pagina 16 di 60 Carlo Cilia Sezione Appunti 17. Definizione di gruppoide nel concetto di simmetria Per ovviare a questo problema è stato introdotto un nuovo concetto ossia quello di “gruppoide”. In questo modo la definizione di simmetria diventerebbe: invarianza rispetto ad una trasformazione che ha la struttura algebrica di un gruppoide. Tutti i gruppi sono gruppoidi ma non viceversa. Al di là della specifica differenza tra i due concetti quello che ci preme giustificare è l’affermazione di Van Frassen secondo cui la scienza non cerca leggi ma simmetrie. Tale affermazione è giustificata dal fatto che effettivamente si è notato come, partendo da un livello molto semplice quale può essere lo spazio unidimensionale (rappresentabile su una retta) attraverso il quale ipoteticamente scegliamo di descrivere il mondo e affermando quindi che basta un solo numero a descrivere la posizione di un oggetto (non le sue caratteristiche, perché per queste dobbiamo necessariamente aggiungere altri valori) tra un numero e l’altro esistono delle simmetrie ossia non sono gli uni completamente slegati dagli altri. Tale discorso può essere utilizzato anche a livello atomico e molecolare. Nel momento in cui quindi io scorso simmetrie a livello molecolare, conosco pezzi di mondo ed inoltre sono anche in grado di prevederne il comportamento. Filosofia della scienza Pagina 17 di 60 Carlo Cilia Sezione Appunti 18. Teoria scientifica coerente e empiricamente significativa Ci poniamo un altro problema: che cosa è una teoria scientifica. La prima cosa che dobbiamo tenere presente è che scientifico non coincide con vero. Scientifico potrebbe essere sinonimo di ponderato, prudente, valutazione prudente. Una teoria scientifica è una teoria che può essere indagata razionalmente. Una teoria può dirsi scientifica quando innanzitutto è enunciata con un certa esattezza. Inoltre essa deve essere coerente ed empiricamente significativa. Coerente vuol dire che essa non deve al suo interno contenere contraddizioni. Se così fosse, in una teoria dove l’enunciato A è non A è vero, tutte le affermazioni finirebbero per essere vere e non avremmo nessun motivo per ammettere che una teoria così sia scientifica. La contraddizione può essere accettata all’interno di una “situazione cognitiva” non di una singola teoria. Una situazione cognitiva è l’insieme di credenze che si sviluppano in un dato momento storico a partire dalle teorie accettate che sono state sviluppate fino a quel momento. La situazione cognitiva che oggi viviamo è ad esempio piena di teorie contraddittorie che però sono in grado di spiegare pezzi di mondo differenti o i medesimi con procedimenti diversi. Ma quello che è più interessante è che la teoria deve essere empiricamente significativa ossia controllabile. Filosofia della scienza Pagina 18 di 60 Carlo Cilia Sezione Appunti 19. Essenza della realtà e visione a clessidra E a proposito di ciò saltano fuori due problemi: che cos’è la realtà? In prima istanza diciamo semplicemente che è ciò che ci circonda. Ma lo scienziato non si occupa della realtà solo ed esclusivamente nel suo aspetto nudo e crudo, ma sulla base di “dati sperimentali” che si portano dietro tutta una loro problematica e non possono essere in alcun modo fatti coincidere con la realtà in sé e per sé. I dati sperimentali infatti sono anch’essi carichi di teorie perché presumono un approccio ben definito al mondo piuttosto che un altro. Ma la cosa ancora più interessante è che la scienza non si basa solo su dati sperimentali, ma anche su entità non tangibili (elettroni, campi magnetici) quindi la scienza ha a che fare con un apparato teorico che non sempre è direttamente determinabile a partire dalla realtà. Una domanda allora nasce spontanea: qual è la differenza tra la MQ e l’astrologia? Perché la MQ è, con i dovuti rappezzamenti, considerata una teoria più o meno scientifica mentre l’astrologia affatto pur basandosi entrambe su termini fortemente teorici? La risposta ci viene data utilizzando i due criteri sopra citati. Per comprendere a pieno come sia possibile discernere tra una teoria scientifica e non, un buon metodo è quello della visione a clessidra. La scienza sarebbe una clessidra che ha alle estremità da una parte la pura esperienza sensoriale e dalla parte opposta le teorie; al centro nella parte che si restringe e dove le due piramidi si incontrano, stanno i dati sperimentali. teorie dati sperimentali esperienza Nella rete teorica alcuni concetti sono legati ai dati sperimentali, altri invece possono non esserlo (i cosiddetti “termini teorici”); ad esempio il termine teorico “lunghezza” è abbastanza ancorabile ai dati (non direttamente all’esperienza perché cmq lunghezza presuppone un calcolo misurativo anche se molto semplice) mentre il concetto di forza o velocità non lo sono in maniera diretta. Filosofia della scienza Pagina 19 di 60 Carlo Cilia Sezione Appunti 20. Bridgman. Dall'esperienza ai dati sperimentali Noi per il momento ci occupiamo della metà bassa della clessidra. Bridgman ha scritto un libretto dal titolo “La logica della fisica moderna” nel quale sostiene che nella scienza i suoi concetti devono tutti essere ricondotti a delle operazioni (e quindi rientrerebbero tutti nel gruppo dei termini teorici). Ma le operazioni cosa sono? Prendiamo la lunghezza: anch’essa è una serie di operazioni (se pur semplici si deve stabilire una unità di misura dopodiché prendere tale unità e misurare ciò che ci interessa). La velocità invece implica un calcolo un po’ più astratto perché ha a che fare molto di più con la matematica. A questo proposito Bridgman ci fa notare che passare dall’esperienza ai dati sperimentali non è né solamente un fare pratico, né solamente un passaggio teorico, ma entrambe le cose. Se ci riferiamo invece alla parte alta della clessidra secondo B. tale passaggio è irrilevante, non da considerare. Filosofia della scienza Pagina 20 di 60 Carlo Cilia Sezione Appunti 21. Carnap. Logica e similarità parziale Carnap nello stesso periodo propone un tentativo puramente intellettuale; a proposito del passaggio dall’esperienza alla teoria (o meglio ai concetti da utilizzare per costruire una teoria) egli sostiene che essa avvenga attraverso strumenti puramente logici(riferendosi alla logica di Frege). Alla base del pensiero di Carnap c’è quindi la logica. L’idea è questa: abbiamo dei dati sensoriali A e B legati tra loro da una relazione (Er = relazione) intesa come ricordo di una similarità parziale (ad esempio il mio maglione rosso con il rossetto di una donna). Carnap con questa relazione vuole arrivare a spiegare tutti i concetti della scienza, fino a quelli più generici. Filosofia della scienza Pagina 21 di 60 Carlo Cilia Sezione Appunti 22. Critica di Goodman alle similarità parziali di Carnap La relazione che c’è tra i tre suoni è sempre una relazione parziale. Quindi noi dovremmo concludere che a partire da tali relazioni parziali noi siamo in grado di riconoscere il suono. Ma questo non è vero. E l’errore sta nel confondere il suono, che è ciò che noi percepiamo con i sensi, e le sue proprietà fisiche attraverso le quali si può instaurare una relazione. Se il suono è l’insieme di timbro altezza e intensità (che noi percepiamo con i sensi) ogni di queste caratteristiche ha qualcosa di fisico (il timbro è ciò che caratterizza uno strumento ma fisicamente esso è la forma dell’onda, così come l’altezza è ciò che i nostri sensi percepiscono ma è fisicamente la frequenza del suono). Confondere le due cose significa cadere in un grosso tranello: tra un “maglione” e un “maglione rosso” c’è un salto gigantesco perché “rosso” non è una proprietà fisica ma sensoriale. Nonostante Carnap provi a dare una soluzione (riportare a fattor comune due elementi con caratteristiche comuni) non risolve il problema della distinzione tra caratteristiche fisiche di un elemento e sensoriali. Quindi la procedura del ridurre a insiemi pezzi di mondo che hanno similarità parziali è scorretta. Egli insomma non riesce a definire il “concetto” senza cadere in un circolo vizioso (dato che il concetto è ciò che mette insieme, racchiude oggetti e gruppi di oggetti in un insieme comune). Quindi nonostante noi le proprietà le conosciamo non riusciamo a definirle. Dunque l’unico modo per uscire da questo problema sarebbe quello di tornare alla metafisica; Aristotele spiega il rapporto tra il maglione e il rossetto attraverso il concetto di essenza del rosso. Ma Carnap è un nominalista e non accetta questo ritorno alla metafisica rimanendo intrappolato nel concetto di concetto. Goodman allora arriva alla conclusione che le proprietà sono convenzionali: io prima definisco il rosso in un certo modo, e poi vado a cercare quel concetto, così come l’ho espresso, negli oggetti chiamando rossi quelli che si conformano alla mia definizione. Anche questo è un atteggiamento nominalista e nonostante venga in parte abbracciato anche da Goodman egli ne intuisce i limiti. Per uscirne egli infatti dice che le proprietà è il ricercatore che deve crearle: se esse vanno bene, vengono mantenute altrimenti scartate. E questo lo fa perché non vuole in alcun modo cadere nel platonismo che risolverebbe il problema ma considera le proprietà come delle essenze, insite negli oggetti (ad esempio nell’in sé del rossetto ci sta che sia presente la proprietà-essenza del rosso). Filosofia della scienza Pagina 22 di 60 Carlo Cilia Sezione Appunti 23. Kant e le categorie a priori Kant nei confronti di questo problema si poneva così: qualsiasi essere senziente nel momento in cui percepisce il mondo, lo percepisce secondo delle categorie che sono insite nell’intelletto umano, ossia a priori e che quindi sono uguali per tutti. Anche in questo caso c’è una vena di platonismo in virtù del fatto che si teorizza una categorizzazione dell’intelletto che segue principi a priori uguali per tutti, quindi ideali. I post-kantiani, per rispondere a questa condanna di platonismo, hanno poi parlato di “individuo empirico” affermando con tale espressione che la capacità di categorizzare uguale per tutti gli uomini non ha dei fondamenti metafisici ma parte dalla struttura empirica del soggetto che categorizza. Filosofia della scienza Pagina 23 di 60 Carlo Cilia Sezione Appunti 24. Hempel e la visione accettata. Termini osservati e termini teorici Fallito allora il tentativo di partire dal basso (tecnica del bottom up) cioè dall’esperienza per arrivare alle teorie passando per i dati sperimentali (che sono una liofilizzazione dell’esperienza) si è arrivati alla conclusione che il procedimento da seguire è quello top – down cioè costruiamo una teoria e poi andiamo a vedere se essa descrive uno o più pezzi di mondo attraverso il riscontro empirico e la raccolta di dati sperimentali. È certo che ci sono molte scienze fortemente induttive come la geologia. Ma le teorie più straordinarie sono teorie top-down e cioè sono ipotesi che poi si rivelano funzionare in maniera straordinaria. Le teorie dunque non vengono prodotte a partire dai dati sperimentali; questi invece vengono prodotti dall’esperienza attraverso processi materiali, induttivi. La vera scienza è quindi che partendo dall’esperienza raccoglie dati teorizzando. Questo vuol dire che i calcoli che facciamo a partire dall’esperienza e con i quali raccogliamo i dati sperimentali sono sempre fatti contemporaneamente alla costruzione di un’ipotesi e all’interno di essa. I calcoli infatti sono sempre fatti a partire dall’ipotesi che formuliamo ma al tempo stesso sono strettamente legati all’esperienza. È per questo che l’ipotesi e l’esperienza diretta di incontrano nel “dato sperimentale” che è appunto il frutto del calcolo veicolato dalla teoria di ciò che si raccoglie nell’esperienza. È in questo caso che si giunge con Hempel alla “Received view” o visione accettata. La visione accettata introduce a proposito della teoria una distinzione importante che è quella tra termini osservati e termini teorici. Nel primo caso si tratta di termini che la teoria introduce e che hanno un collegamento diretto con i dati sperimentali; nel caso dei termini teorici siamo invece di fronte a termini che la teoria introduce per dare coerenza ad essa stessa e che quindi non hanno un legame diretto con i dati sperimentali (quindi i calcoli che provengono dall’esperienza) ma solo mediato dai termini più vicini ai dati: Nella rete teoria i termini che stanno qui sono teorici cioè non legati ai dati diretti. TEORIA DATI SPERIMENTALI I termini osservativi sono quelli che stanno molto vicino ai dati Filosofia della scienza Pagina 24 di 60 Carlo Cilia Sezione Appunti 25. Conoscenza umana. Stato mentale e stato fisico Fondamentale per affrontare questo problema è l’articolo di Donald Davidson “Mental events” (1970) e anche l’articolo di Kim “Psychological laws” che è quasi una traduzione in termini più semplici dell’articolo di Davidson. Entrambi sostengono che le credenze dell’uomo dipendono necessariamente dalla struttura chimica del cervello. Ma il prof. Fano si allontana da questa impostazione e a suo avviso si devono introdurre quattro concetti che sono in grado di chiarificare la questione: emergenza, sopravvenienza, stato fisico e stato mentale. Quest’ultimo è un temine teorico che vuole semplicemente esprimere ad esempio il desiderare l’acqua di un uomo nel deserto, senza cercare legami con la struttura psichica di quell’uomo; è chiaro che lo stato mentale dell’esempio è conseguenza di uno stato fisico che riguarda invece la struttura biologica del nostro organismo: il caldo e la sudorazione creano lo stato mentale del desiderio dell’acqua. A questo punto dobbiamo fare una attenzione a distinguere tra l’emergenza di un evento A da un altro evento B e la sopravvenienza tra A e B. Che “A emerge da B” vuole dire che “A non si da mai senza B”, cioè esiste una correlazione statistica tra i due eventi. Se c’è A allora ci deve essere anche B. questo però (attenzione!) non vuol dire che B sia la causa di A; l’emergenza dice solo che se accade A sicuramente accadrà anche B. dunque l’emergenza non crea la legge che lega A e B ma fa solo una constatazione di fatto. Dire invece che “A sopravviene a B” significa dire senza B non esiste A. Qui allora non si tratta più di una correlazione statistica ma siamo di fronte a una legge. B sarà condizione necessaria e sufficiente perché A non solo si verifichi ma sia. In relazione al nostro discorso e cioè il problema del rapporto mente-corpo dunque potremmo concludere che noi siamo autorizzati a sostenere che uno qualsiasi stato mentale M emerge da uno certo stato fisico F (non posso elaborare il desiderio di bere senza un cervello fisico) ma non che sopravviene allo stato fisico, perché non conosciamo nessuna legge scientifica che ci spieghi che si tratta di una correlazione causale (ossia che il trovarsi nel deserto mi faccia venire il desiderio di bere). Filosofia della scienza Pagina 25 di 60 Carlo Cilia Sezione Appunti 26. Frege e il linguaggio. Senso e riferimento Quando noi asseriamo qualcosa utilizziamo quella che viene chiamata funzione apofantica detta anche dichiarativa o assertiva. Un’asserzione è ad esempio “a è A”. questa è un’asserzione a prescindere che sia vera o falsa. L’asserzione quindi prescinde dalla verità o falsità. Se però vogliamo fare un passo verso il mondo ci chiediamo: come facciamo a stabilire la sua verità? Come possiamo controllare questo enunciato? Cosa lega il linguaggio al mondo? Frege ha chiamato questo legame con il mondo senso (sinn in tedesco) ossia la maniera in cui noi ci leghiamo al mondo attraverso il linguaggio. Il senso non va confuso con il riferimento o significato (in tedesco Bedeutung che si legge bedoitung) che invece sarebbe l’oggetto. Passando da un semplice nome proprio (come ad esempio tavolo) ad un enunciato che descrive il nome proprio come si instaura il legame con il mondo? Mentre il nome “tavolo” ha una corrispondenza diretta con l’oggetto reale nel mondo, l’obiettivo dell’enunciato è quello di stabilire la verità o falsità di qualcosa che riguarda l’oggetto “tavolo”. Il riferimento quindi coinciderà con la verità o falsità di un enunciato, mentre il senso sarà la maniera di controllare l’enunciato. Filosofia della scienza Pagina 26 di 60 Carlo Cilia Sezione Appunti 27. Frege. Verità e falsità di un enunciato Da questi presupposti scaturiscono due vie: chi è realista e dice che la verità o falsità degli oggetti dipende solo dal mondo; mentre chi è verificazionista afferma che vero e falso sono due proprietà modali linguistiche che possono essere attribuite solo ad enunciato che descrive la realtà e quindi controllabile. Frege si pone il problema del linguaggio a partire dalle considerazione che abbiamo fatto poco sopra a proposito della rete teorica e della presenza in essa di termini teorici che non sono direttamente ancorati ai dati sperimentali. A suo avviso noi sia autorizzati ad utilizzare solo enunciati che hanno “senso” ossia sono controllabili se vogliamo considerarli enunciati scientifici. Presto però ci si rese conto che utilizzando questo principio si doveva buttare via buona parte della scienza, perché in tal modo Frege brucia completamente tutta la metafisica che è invece indispensabile alla teorizzazione e di cui la scienza si era servita fino a quel momento per progredire. È importante però sottolineare che tutta la “metafisica” che introduco all’interno di una teoria deve anche essere fortemente ancorata alla teoria, cioè deve essere rigorosamente coerente con tutto l’apparato teorico. In fondo il tentativo di Frege è apprezzabile perché egli voleva evitare che all’interno di una rete teorica si potesse introdurre di tutto. La soluzione che da butta via con l’acqua sporca anche il bambino. Filosofia della scienza Pagina 27 di 60 Carlo Cilia Sezione Appunti 28. Olismo semantico di Quine e Putnam Oggi infatti, seguendo la visione accettata, i siamo ben coscienti del fatto che la domanda che dobbiamo porci non è “che senso ha un singolo enunciato” (quindi in termini freghiani che legame ha con il mondo) ma “che senso ha un enunciato all’interno di una rete teorica coerente”. Questo è il passo in avanti che è stato fatto da Quine e che ha dato vita a quello che prende il nome di olismo semantico. Negli anni ’60 succede un fatto importante: Puttnam scrive un articolo: “Cosa le teorie non sono”. La tesi è questa: la received view descrive le teorie scientifiche non per come sono fatte. La scienza non è fatta così come la visione accettata la descrive (cioè la clessidra descritta sopra). Egli però non dice mai cosa la scienza è ma solo cosa a suo modo di vedere non è. Di li a poco anche Quine in qualche modo seguirà questa linea sostenendo una sorta di “naturalizzazione della scienza” che porta avanti l’idea secondo cui il filosofo della scienza non deve dire come la scienza dovrebbe essere, ma deve limitarsi a riflettere su come essa è. Cioè dall’articolo di Puttnam in poi si sviluppa l’idea che il filosofo che si occupa di scienza non deve dare dei modelli riguardo al modo di essere della scienza, cioè la sua riflessione non deve in alcun modo essere normativa. Filosofia della scienza Pagina 28 di 60 Carlo Cilia Sezione Appunti 29. Teoria scientifica in Van Frassen, Suppes e Giere In realtà questo è proprio quello che un filosofo della scienza deve fare: l’obiettivo è quello di problematizzare per giungere a formulare concetti normativi. Ed è a partire da questa consapevolezza che Van Frassen, Suppes hanno cercato di dirci cosa una teoria è, seguendo il criterio opposto a quello che aveva seguito Puttnam. A cosa ha portato questa impostazione “positiva”? La scienza non è un fatto linguistico ma è un utilizzo di modelli (il che a detta del prof. è assolutamente vero). Non per niente la parte più ostica per il filosofo della scienza è quella della fisica contemporanea perchè non si basa su dei modelli definiti ma è in progress, in fieri, li sta cercando. Giere afferma allora che una teoria scientifica è un insieme di modelli che possono essere presi come strumenti esplicativi del mondo; ogni modello è capace di spiegarmi pezzi di mondo. La conclusione a questo discorso può quindi essere questa: con Carnap diciamo che se vogliamo capire cosa la scienza sia, la received view rimane la risposta migliore ad oggi. Se ci chiediamo invece come la scienza funziona, allora la teoria dei modelli risulta l’impostazione più realistica per spiegare come la scienza agisce, ossia creando modelli e provando a vedere se coincidono con pezzi di mondo, ossia li descrivono bene. Filosofia della scienza Pagina 29 di 60 Carlo Cilia Sezione Appunti 30. Heidegger e la verità nella scienza Cos’è la verità. Il problema che ci poniamo è carattere normativo. Partiamo dalle situazioni comuni: “Il pennarello è sul tavolo”. Questa asserzione può essere vera o falsa. Se dico che questo enunciato è vero significa che facendo determinate operazioni ottengo certi risultati che mi confermano che il pennarello è sul tavolo. C’è dunque un legame strettamente pragmatico tra l’enunciato e la sua verità o falsità, perché questa dipende da un’osservazione pratica. In questo caso la verità non ha nulla di intuitivo o metafisico. Non dimentichiamoci che gli enunciati che possono essere veri o falsi sono solo quelli apofantici o dichiarativi (o assertivi). In effetti però il problema è ancora più alla radice: cosa è vero? Enunciati, enuncianti, pezzi di mondo? Cioè cosa è che si fa portatore di verità? È bene fare una precisazione e cioè che noi stiamo affrontando il problema a partire da un impostazione semantica, cioè concentrandoci sugli enunciati. Ma questa non è l’unica pista che si può seguire. Heidegger ad esempio smonterebbe questa impostazione perché sostiene che i pezzi di mondo hanno una loro esistenza e quindi una loro falsità o verità a prescindere dal loro rapporto che instaura con il soggetto conoscente. Quindi il portatore di verità è il pezzo di mondo in sé e per sé e non l’enunciato che io costruisco. Alla luce dell’impostazione di H. ci chiediamo: questo modo di procedere che mette in primo piano gli enunciati esaurisce il concetto di verità? La sensazione è che non sia così. Infatti delle volte succede che la scienza non proceda per enunciati, ma ad esempio intuitivamente. Filosofia della scienza Pagina 30 di 60 Carlo Cilia Sezione Appunti 31. Teoria scientifica e teoria della corrispondenza A questa impostazione che mette in primo piano gli enunciati si accosta la teoria della corrispondenza secondo la quale affinché un enunciato come “il pennarello è sul tavolo” sia un enunciato vero deve esiste una corrispondenza tra l’enunciato e il pezzo di mondo. Questa teoria pone subito diversi problemi alla nostra attenzione: intanto dovremmo chiederci a cosa corrisponde nella realtà la copula”è”; cioè la copula è dovrebbe descrivere una condizione di esistenza? E a cosa corrisponde questa condizione di esistenza a livello fattuale? Dovrebbe esistere un fatto che corrisponde “all’essere del pennarello” In secondo luogo come ci comportiamo nel caso in cui all’interno della nostra teoria inseriamo un termine teorico? A cosa corrisponde partendo dal presupposto che esso è teorico? Nonostante questi problemi la teoria della corrispondenza non è una teoria da buttar via. Introduciamo seguendo Davidson il concetto di condizione di verità diversa dall’accesso alla verità. Se noi facciamo una distinzione tra il fatto che un pezzo di mondo “sia” e il nostro modo di accedere a questo pezzo di mondo e quindi dire “come” dovremmo in teoria fare un passo avanti verso un approccio più pragmatico alla realtà. Rimaniamo cmq perplessi anche dopo questa distinzione; è per questo che molti filosofi hanno abbandonato questa ipotesi corrisp Filosofia della scienza Pagina 31 di 60 Carlo Cilia Sezione Appunti 32. Definizione di coerentismo Kant, Berkley, Bradley sono tra quegli autori che si sono accostati al coerentismo. Kant nella Critica della ragion pratica esprime un’idea che è apparentemente corrispondenti sta, ma in realtà sfocia nel coerentismo. Egli afferma che la realtà intesa come oggetto in sé rimane fuori dal mio esame nella ricerca della verità; la verità io la colgo attraverso i miei processi intellettivi. Parto certamente dalla realtà ma la mia conoscenza si stru$ttura attraverso le mie categorie intellettive. L’idea parte dal presupposto dell’inacessibilità dell’in sé del mondo e quindi della verità intrinseca delle cose. Ecco allora il coerentismo di Kant: l’enunciato deve esprimermi una coerenza con il modo attraverso il quale io strutturo il mondo intellettivamente. E qual è questo “modo”? La comparazione tra più enunciati. Essere vero sarà allora uguale “all’essere coerente di un enunciato con gli altri enunciati formulati dall’intelletto umano” (che ha strutture comuni1). Un enunciato allora non sarà vero se contrasta con tanti altri enunciati che noi consideriamo veri. Ma qual è la base del coerentismo? I dati sperimentali. Questa è l’impostazione soprattutto di Henpel e Carnap. Sono veri tutti quegli enunciati che sono coerenti con i dati sperimentali certo è vero cmq che i dati sperimentali possono anche essere rivedibili, anche se mantengono una base abbastanza solida). Il problema del coerentismo è che spesso i dati avvalorano più di una teoria e quindi non si riesce a stabilire quale sia quella vera o quale la migliore. Ma il problema più grande per la scienza rimane sempre quello della presenza di termini teorici all’interno di una teoria che nulla hanno a che fare con i dati. Il problema in questo modo si sposta dalla “verità del mondo” alla “verità dell’accesso al mondo”: il fatto che io non sia in grado di cogliere non vuol dire che ciò che non colgo non sia vero. Filosofia della scienza Pagina 32 di 60 Carlo Cilia Sezione Appunti 33. Definizione di deflazionismo Oggi la teoria che va più di moda è quella del deflazioniamo. Dire “P è vero” o dire “P” per il dflazionismo è dire la stessa identica cosa. Il predicato “è vero” è assolutamente ridondante, cioè non ci dice nulla no aggiunge niente di nuovo. Asserire è già affermare che è vero: Dire “P è a” è già affermare che “è vero che P è a”. Il deflazioniamo afferma che la validità di un’asserzione dipende da chi la pronuncia cioè dalla sua attendibilità. Ma qual è il limite di questa teoria anche se ultimamente è la più diffuda? Dummett fa un’obiezione (che in fondo è anche banale): quando enunciamo qualcosa noi enunciamo il suo senso (egli è un verificazionista) ossia l’enunciato lo leghiamo alla sua verificazione-controllo. La verità scaturirà da questa nostra operazione di controllo. Se facciamo coincidere l’asserzione di un enunciato (ossia il semplice fatto che noi costruiamo un enunciato) alla sua verità noi svuotiamo completamente di senso il concetto stesso di verità. Piuttosto il concetto di verità può coincidere o meglio scaturire dalla verifica dell’enunciato da noi formulato. Filosofia della scienza Pagina 33 di 60 Carlo Cilia Sezione Appunti 34. Verità come intuizione. Sellars e la negazione dei dati sensoriali La fisica accettata oggi oscilla tra platonismo e strumentalismo. Ma entrambe prese da sole sono assolutamente inconcludenti. La scienza da una parte non può prescindere dai alcuni tratti metafisici, dall’altra non può far riferimento e fondarsi solamente su una serie di operazioni matematiche senza che esse si basino su una rete teorica e dentro di essa s muovano. Dobbiamo certamente partire dall’esperienza e fidarci almeno un po’ dei nostri sensi, unire questi a delle teorie e ottenere così dei buoni dati sperimentali che sono la base per uno sviluppo produttivo della scienza. È per questo motivo che dobbiamo anche considerare il problema della percezione. Un articolo importantissimo è stato scritto da Wilfrid Sellars, “Empirismo e filosofia della mente”. La prima parte del testo parla del mito del dato: quelli che sono i dati sensoriali (su cui si è basato l’empirismo) non esistono. Per due motivi afferma l’autore: Io vedo il dato sensoriale e ciò che vedo è solo un immagine proiettata nel mio cervello che recepisce l’oggetto, senza però cogliere l’oggetto per quello che realmente esso è. Inoltre il contenuto della percezione non esiste. Infatti nel momento in cui dico: “i capelli di Daniela sono castani” io ho fatto un salto enorme perché sono certo di vedere i capelli di Daniela castani, ma non sono altrettanto certo del fatto che i capelli di Daniela siano castani. Filosofia della scienza Pagina 34 di 60 Carlo Cilia Sezione Appunti 35. Verità e intuizione. Teoria della decoerenza Ora il problema è capire se questo passaggio dalla percezione all’ontologia delle cose è possibile o no. Chiaramente Sellars afferma che questo passaggio è impossibile. Il prof. invece ci invita a fare una distinzione che può aiutarci: dobbiamo distinguere tra la percezione iniziale (quindi in parte approssimativa) e i calcoli e le prove che faccio per capire se la percezione che ho avuto è corretta oppure no. È quindi importante distinguere tra una rappresentazione e un giudizio. Una cosa è dire “quest’albero mi sembra verde” e poi controllare attraverso operazioni la mia rappresentazione; altra cosa è dire, sulla base della percezione “questo albero è verde”. Il giudizio è possibile darlo non certo sulla base della sola percezione ma dopo aver compiuto i dovuti calcoli. Quindi la percezione qualcosa da cui non si può prescindere, ma che certo da sola non può essere un criterio di verità. La scienza da un certo punto in poi ha cominciato a inserire all’interno delle teorie entità non controllabili (da Galileo in poi è questo il platonismo nella scienza di cui si parla). Questo allora ci autorizza sempre ad inserire entità non controllabili attraverso i termini teorici? Il nel libro propone questo: si, è possibile inserire termini teorici all’interno di una teoria, che descrivano entità non rappresentabili e quindi pretendano di rappresentare pezzi di mondo, a condizione che i pezzi di mondo di cui si parla siano intuitivamente rappresentabili. Intuitivamente rappresentabile, per evitare che essa sia un’espressione troppo vaga, va intesa come la possibilità che esista o sia ipotizzabile un essere senziente che sia in grado di cogliere quel pezzo di mondo che l’entità teorica pretende di rappresentare. Riguardo ad esempio l’elettrone, è possibile pensare che la realtà sia strutturata secondo il modello degli orbitali? In effetti questo risulta difficile. Per questo motivo era stata sviluppata la cosiddetta teoria della decoerenza che voleva cercare di spiegare il motivo per il quale, nonostante la realtà si strutturi per nuclei ed elettroni orbitanti, noi non siamo in grado di percepirla per come essa effettivamente è. Tale teoria ha però fallito nel suo intento. Oggi infatti con le conoscenze che abbiamo non ci è possibile ipotizzare un essere senziente in grado di cogliere la realtà in questo modo. Filosofia della scienza Pagina 35 di 60 Carlo Cilia Sezione Appunti 36. Falsificazionismo. Popper e neopositivisti La filosofia della scienza nasce con il circolo di Vienna (Carnap). Popper ha scombussolato in più parti il positivismo. Ha sostituito il principio di verificazione con il principio di falsificazione. Popper fa rientrare dentro la filosofia la storia che i positivisti avevano voluto accantonare. Se un enunciato non è verificabile non ha senso, dicevano i positivisti. Ma già questa affermazione è a tratti tremenda! Perché se ci pensiamo bene nessun enunciato è completamente verificabile, se non i più elementari. Il concetto di verificazione è piuttosto ideale. I neopositivisti facevano già un passo avanti non parlando più di verificazione ma di controllo. Popper nota una cosa molto semplice: se io dico che “tutti i cigni sono bianchi” anche presupponendo di avere un ottimo strumento di controllo, non avrò mai la certezza che non ci sia almeno un cigno nero e io non l’abbia mai visto. Quindi qualsiasi enunciato universale (di cui la scienza si nutre) non è mai verificabile al 100%; lo stesso non si può dire della falsificazione perché qualsiasi enunciato io esprima è falsificabile, cioè niente mi impedisce un giorno di trovare un cigno nero. Per cui il falsificazionismo è metodologicamente molto più forte ed efficace. Il compito dello scienziato sarà allora quello di fare di tutto per falsificare una teoria. Se questo non dovesse avvenire allora sarà possibile affermare di essere di fronte ad una legge. Lui parte da un presupposto molto corretto: tutte le teorie sono potenzialmente false: se vogliamo essere rispettosi nei confronti dell’essere non dobbiamo spendere energie per confermare un bagaglio già acquisito (perché tra l’altro correremmo il rischio di veicolare le nostre verifiche verso la strada che ci è più comoda) ma cercare sempre di superarlo. Questo quindi è un buon modo per non rimanere incastrati nella rete teorica. Ciò che per la scienza diventa interessante allora, sono le teorie facilmente falsificabili, cioè quelle che possono essere superate verso una teoria migliore. È questo anche il motivo per il quale secondo Popper la psicoanalisi non è affatto una teoria scientifica: gli enunciati particolari non sono quasi per niente falsificabili. Se un paziente dice di avere un disturbo e lo psicanalista da una motivazione a quel disturbo che magari il paziente non riconosce, perché secondo lo psicanalista il paziente sta applicando una certa resistenza; ciò che non è falsificabile è la resistenza che lo psicanalista appioppa al paziente. Come faccio a falsificare un enunciato del tipo: “il paziente ha un disturbo dovuto alla sua infanzia”. Filosofia della scienza Pagina 36 di 60 Carlo Cilia Sezione Appunti 37. Dal concetto di verosimiglianza a Quine e Kuhn Falsificare una teoria è arrivare a dire con sempre maggior consapevolezza cosa un pezzo di mondo non è. Ma questo metodo non ci dirà mai cosa il mondo è, semplicemente perché è impossibile se si vuole rispettare l’essere del mondo. È la stessa idea che aveva portato avanti Heiddeger: l’essere non può essere toccato senza tradirlo in parte. La scienza è allora non tanto ricerca della verità ma piuttosto di ciò che è falso. Ma che garanzie ho che la teoria successiva sia migliore della precedente? P. sviluppa il concetto di verosimiglianza (da buon corrispondentista): più tentiamo di falsificare una teoria più la teoria che ne viene fuori risulta corroborata. Più le teorie sono corroborate, più sono vicine alla realtà. Ossia verosimili. L’induzione non ha alcun valore logico (assolutamente d’accordo con Hume) Ma questo schema viene decostruito per le sue falle logiche dai filosofi posteriori. I problemi di P. sono sostanzialmente quelli dei corrispondentisti. Vediamo quali. La scoperta scientifica è la falsificazione (seguendo lo schema popperiano). Scopriamo qualcosa quando falsifichiamo. Quine ha distrutto questa impostazione, ma prima di lui Duhem ha posto la critica (1903). Quando andiamo a falsificare una teoria non è così semplice affermare che una teoria è tutta sbagliata perché non falsificabile. Se un dato della teoria risulta falso io non butto via tutta la teoria; mi trovo magari di fronte ad un problema a cui forse posso dare una soluzione e non necessariamente di fronte ad una teoria tutta sballata. Kuhn dirà esattamente questo: non esiste che butto via un’intera teoria solo perché un dato non funziona perché falsificato. Solitamente si sviluppa una ipotesi ad hoc. In certi casi addirittura non si riesce nemmeno a trovare una ipotesi ad hoc per risolvere una parte della teoria e certo non si butta via l’intera teoria, si lavora perché si trovi. Meglio avere una teoria barcollante che non averne. Filosofia della scienza Pagina 37 di 60 Carlo Cilia Sezione Appunti 38. Lakatos e il falsificazionismo sofisticato Lakatos, allievo di Popper, diventa storico della scienza e costruisce quello che è stato chiamato falsificazionismo sofisticato (1960) alla luce delle critiche di Kuhn. Una teoria è fatta da un nucleo centrale che possiede un programma di ricerca che deve avere la caratteristica di procedere in avanti. Se questo programma di ricerca è progressivo, ossia si sviluppa in avanti senza problemi va accettato; se man mano che progredisce incontra sempre più problemi allora è un programma sbagliato e va buttato via. Anche in questo caso sia di fronte ad una soluzione poco soddisfacente. Tra l’altro, Kuhn nella sua critica aveva riflettuto sul fatto che se una teoria iniziale viene di volta in volta aggiustata per evitare che essa abbia delle lacune, in realtà si finisce per ottenere una teoria che nulla ha a che fare con quella precedente, ma si giunge a un’altra teoria, e non una teoria più vera, o meno falsa della precedente. Il programma di ricerca, dice L. è una forma di cintura protettiva all’interno della quale devi necessariamente assumere istanze metafisiche. Lakatos finisce per salvare il falsificazionismo accogliendo l’impostazione di K. Filosofia della scienza Pagina 38 di 60 Carlo Cilia Sezione Appunti 39. Feyerabend e la critica a Lakatos A distruggere tutto ci pensa Feyerabend con la sua opera “Contro il metodo”. Essa è una critica a Lakatos suo maestro. A suo avviso, tutti i termini teorici inseriti nelle teorie vanno bene purché siano “giustificati”. Ogni scienziato inoltre può seguire il metodo che ritiene più opportuno. C’è un ultima falla che va messa in luce del falsificazionismo: come ci dobbiamo comportare di fronte ad enunciati probabilistici? Se diciamo: “il 70% degli A è B”. Poi proviamo a falsificare e ci accorgiamo che su 1000 A, 699 sono B e 1 non è B. Questo enunciato è vero? Per Popper no! Per la maggior parte degli scienziati è vero! Filosofia della scienza Pagina 39 di 60 Carlo Cilia Sezione Appunti 40. Modo probabilistico, principio di indifferenza o ragion insufficiente Ciò che rappresenta spesso una buona ragione per giustificare alcune teorie e con esse anche i suoi termini teorici, è la varietà dei dati osservativi che avvalora quella data teoria. Per esempio la teoria della deriva dei continenti non è una teoria spiegata fino in fondo, ma l’ipotesi della deriva sembra abbastanza buona perché è stata confermata non solo da diversi dati osservativi, ma soprattutto dal fatto che questi dati sono vari, ossia competono a più ambiti diversi o cmq si diversificano di molto per caratteristiche. Inoltre la conferma inaspettata di una teoria è una delle conferme più forti che una teoria può ricevere. Se la mia ricerca va in un senso e poi mi porta a scoprire inaspettatamente che l’ipotesi che ho considerato descrive un pezzo di mondo che non stavo esaminando, sono in presenza di una scoperta straordinaria perché applicabile anche ad un campo per il quale non era stata pensata. Oggi, dopo il percorso che i filosofi ci hanno proposto, sembra che il modo di procedere che la scienza considera più plausibile è quello probabilistico. Carnap (che appartiene al positivismo logico) negli anni 50 afferma: se io conosco l’ipotesi o teoria H e conosco il dato sperimentale e (evidenze), il valore della probabilità riesco a ricavarmelo logicamente. Questa era la sua idea iniziale; ma cammin facendo si accorse che la valutazione della probabilità (p) dipende da un parametro che devi scegliere soggettivamente e che non puoi ricavare logicamente, attraverso un procedimento puramente logico. Il tentativo logico di ottenere p si trasforma in un processo soggettivistico. Ma il problema che salta fuori da questa impostazione è legato al cosiddetto principio di indifferenza o ragion insufficiente: dal momento che il criterio di scelta tra una teoria e l’altra presuppone un criterio soggettivistico, non ho motivo di scegliere tra un’alternativa e l’altra perché tutte le alternative sono “equiprobabili” cioè hanno lo stesso peso. La probabilità oscilla tra un calcolo quantitativo (ad esempio 30% contro 70%) o qualitativo (che si bassa sulla comparazione tra i vari dati ossia “una cosa è più probabile di un’altra). Filosofia della scienza Pagina 40 di 60 Carlo Cilia Sezione Appunti 41. Calcolo delle probabilità in Bayes Oggi riguardo al modo di procedere della scienza nell’utilizzo del calcolo delle probabilità, predomina l’impostazione di Bayes. Egli è convinto del fatto che il soggettivismo non è da considerarsi in maniera estrema. Bayes afferma che se io scopro una evidenza (e) la probabilità aggiornata che la nostra teoria (H) sia vera dato e è uguale alla probabilità di H per la prob. di e dato H diviso la prob. di e. p(H/e) = p(H) p(e/H) questo è il teorema di Bayes banalizzato. p(e) Probabilità condizionata: io voglio calcolarmi la probabilità di un evento condizionato da un altro. Facciamo un esempio. Io lancio un sasso in mezzo alla stanza e sono sicuro che cadrà in una zona che chiamo B. come faccio a calcolarmi la probabilità che il sasso cada in una striscia di pavimento che chiamo A dato che sicuramente cadrà in B? Io voglio calcolare A dato B B è la condizione p (a/b) = p(a&b) questa è la formula che descrive l’intersezione cioè casi favorevoli p(b) casi possibili (dove sicuramente cadrà) [Faccio una piccola parentesi sulla probabilità: se a e b sono due eventi slegati, cioè indipendenti per calcolare la probabilità che si verifichino entrambi matematicamente si la moltiplicazione p(a&b) = p(a) p(b). Se invece i due eventi sono legati, in base a quale dei due è condizione dell’altro si usa la formula p(a&b) = p(a) p(b/a) o viceversa (cioè p(a/b), in base a quale dei due eventi è condizione dell’altro)]. Bene. L’esempio serviva per mettere in luce come va calcolata la probabilità condizionata; questo adesso ci servirà per dimostrare come la macchina Bayesiana funziona discretamente non solo con gli eventi ma anche con le teorie in relazione agli eventi. Poniamo di avere un’urna con 10 palline di cui non conosciamo esattamente il colore; per questo motivo facciamo 2 ipotesi: H1= 6 palline rosse e 4 bianche H2= 6 palline bianche e 4 rosse Facciamo anche l’ipotesi che la probabilità che si verifichi H1 sia ½ e così anche H2. Bayes a proposito di questa ipotesi di probabilità dice che noi possiamo mettere qualunque valore che va da 0 a 1. A suo avviso il parametro soggettivo di probabilità può essere qualsiasi numero reale da 0 a 1. Volendo potremmo anche ipotizzare che la probabilità che l’ipotesi 1 sia vera è 0 ossia non si verifica mai perché ad esempio non esistono palline rosse. Quel valore verrebbe poi smentito o confermato dal calcolo. Quindi per B. quello dell’ipotesi della probabilità è irrilevante. Noi invece diciamo con il prof. che la probabilità è in parte razionalizzabile, perché comunque partiamo dal presupposto che ci sono dieci palline e quindi possiamo provare a fare una stima di come all’interno dell’urna siano suddivise. L’ipotesi sulla probabilità non ha alcun valore fino a quando non verrà calcolata la probabilità aggiornata alla luce di un’estrazione che chiameremo evento e. Filosofia della scienza Pagina 41 di 60 Carlo Cilia Sezione Appunti 42. Efficacia del teorema di Bayes Faccio un’estrazione e mi accorgo che la pallina che ho estratto è rossa: e = rossa. Adesso voglio aggiornare la probabilità e per farlo devo applicare la regole esposta poco sopra e cioè: dato una ipotesi H1 e dato un evento e, se vogliamo calcolare il valore della probabilità che si verifichi H1/e dovremo scrivere: p(H1/e) = p(H1) p(e/H1) regola di Bayes p(e) ma p(e) a cosa è uguale? Devo calcolarmi la probabilità totale di e. La probabilità totale di e, è in relazione con le nostre due ipotesi. Quindi dobbiamo calcolare la probabilità delle nostre due ipotesi e poi le dobbiamo sommare. Se vale H1 avremo che p(H1) = p(e/ H1) p(H1) se vale H2 avremo che p (H2) = p(e/ H2) p(H2) p(e) = p(e/ H1) p(H1) + p(e/ H2) p(H2) andiamo a sostituire questo valore alla formula iniziale p(H1/e) = p(H1) p(e/H1) sostituendo i valori numerici si ottiene p(e/ H1) p(H1) + p(e/ H2) p(H2) p(H1/e) = 0.5*0.6 = 6 / 10 H1 era 6 rosse e 4 bianche, uscendo rossa (e) si è ottenuto il 0.6*0.5 + 0.4*0.5 giusto risultato, ossia 6 su 10. Attraverso l’aggiornamento quindi non sappiamo che la probabilità della nostra ipotesi dato un evento non è più del 50% per uno ma che p(H1/e) > p(H2/e). Filosofia della scienza Pagina 42 di 60 Carlo Cilia Sezione Appunti 43. Probabilità epistemica e probabilità ontologica Il teorema di Snir e Gafman dimostra che il criterio Bayesiano ci porta effettivamente ad una progressiva scoperta della verità. Il modo di aggiornare le probabilità è un buon modo di avvicinarsi alla verità. È vero però che quando abbiamo a che fare con teorie molto complicate, il sistema bayesiano rischia di non funzionare più, perché spesso ci si trova di fronte ad un problema di comparazione tra più teorie. Noi fin qui abbiamo lavorato con le probabilità “epistemiche” che riguardano le nostre credenze, e quindi il nostro “modo” di rapportarci al mondo e di intendere il concetto di probabilità. Ma esiste un altro concetto di probabilità ed è la probabilità ontologica che si basa sulla frequenza relativa. Essa si basa su un dato fisico, oggettivo. Se ci provo con 10 ragazze e con 2 va a buon fine, constato un dato di fatto e cioè che 2 ragazze hanno abboccato. Questo è un “pezzo di mondo”. Perché questa constatazione di fatto si trasformi in “credenza” io devo poter dire che ciò che ho constatato si verificherà con buona probabilità in futuro. E per far ciò ho bisogno di un numero enorme di casi, e di casi differenti, altrimenti non avrò mai il diritto di affermare che ogni qual volta ci provo con 10 ragazze 2 ci stanno. La frequenza relativa non ha di per se alcun valore epistemico, e quindi non è un buon metodo in ultima analisi per la scienza se non in casi eccezionali in cui appunto riesco a raccogliere un numero enorme di casi che può giustificare quel valore. Filosofia della scienza Pagina 43 di 60 Carlo Cilia Sezione Appunti 44. Realismo rappresentativo e realismo ontologico La teoria della conoscenza degli stoici voleva che il nostro modo di conoscere il mondo passa attraverso i sensi, i quali subiscono degli stimoli dall’esterno che poi il nostro intelletto rielabora. Questo vuol dire che noi siamo in contatto indiretto con la realtà. Questa idea si raggiunge senza troppi sforzi perché è quella che meglio spiega il problema dell’incoerenza delle sensazioni. Cartesio accoglie questa impostazione. Ma l’impostazione stoica ha un altro pregio che è quello che anche la scienza moderna ha accolto: le cose che percepiamo non sono realmente come le percepiamo ma si strutturano in maniera diversa. Il mondo sensibile, oltre che contraddittorio è quindi anche falso (pensiamo alla sensazione che abbiamo riguardo alla terra che è ferma e il sole che gira intorno). Quale meccanismo utilizzare allora per unire le rappresentazione del mondo che ho e il mondo stesso per ciò che è? Potrebbe essere un legame di tipo causale? Fichte si chiede come sia possibile che vi sia un legame causale se si tratta di due cose che nulla hanno a che fare? In realtà io non muovo un oggetto pensandolo, ma devo interagire causalmente con esso per far si che si muova. Per questo motivo la mia rappresentazione dell’oggetto non basta, e non posso solo attraverso di essa interagire con il mondo concreto (quindi non causalmente). A questo realismo rappresentativo si accosta e si contrappone il realismo diretto o ontologico. Filosofia della scienza Pagina 44 di 60 Carlo Cilia Sezione Appunti 45. Husserl. Intenzionalità come possibilità di esistenza Qui entra in gioco il concetto di intenzionalità. L’intenzione non è da intendere nel senso comune (ossia “ho intenzione di”); in latino il concetto è legato al “tendere l’arco”. Husserl ha sviluppato questo concetto: una delle caratteristiche fondamentali della nostra mente è quella di entrare in relazione con il mondo. Ma qual è la differenza tra un “sasso” e un “sasso percepito”? il “sasso” è e basta; il “sasso percepito” poteva essere qualcos’altro in base alla percezione. In questa relazione quindi l’intenzionalità crea delle possibilità di esistenza: io posso vedere la cosa in modi completamente diversi. L’oggetto rimane quello che è, ma l’entrare in relazione con un essere senziente in grado di percepirlo può significare (anzi quasi certamente significa) modificarlo. Quindi la nozione di intenzionalità, nonostante sembra metterci in contatto con il mondo reale, non ci dice nulla su di esso (non ha alcun valore cognitivo). Esso non ci da un giudizio sul mondo ma solo una rappresentazione; e il primo non può basarsi sulla seconda. Qualsiasi conclusione a cui si arriva attraverso la rappresentazione è perciò doxa non episteme. Nel passaggio dalla rappresentazione al giudizio rimaniamo cmq per forza di cose sulla linea dei termini teorici. Il giudizio che si basa su una rappresentazione è di per sé sempre un azzardo. Il sensibile per definizione è “bile” ossia pensato, non è sentito, quindi è un termine teorico, un modo dell’essere. Il mondo esterno è per noi un ente possibile. Il realismo ingenuo è quello diretto, quello cioè che pretende di asserire che ci che si percepisce è esattamente ciò che è. Il realismo come impostazione, se non vuole essere failone, deve essere rappresentativo cioè partire dalla consapevolezza che le nostre rappresentazioni non ci danno il mondo per quello che è. Filosofia della scienza Pagina 45 di 60 Carlo Cilia Sezione Appunti 46. Carnap. Questione interna e questione esterna Fatta questa premessa partiamo da un articolo molto importante di Carnap dove egli affronta appunto proprio il problema della realtà. In esso troviamo due questioni: Questione interna: data la teoria della MQ si può affermare che in un dato luogo c’è un elettrone? Si fanno una serie di calcoli e si vede, seguendo la teoria e quindi movendoci all’interno di essa, se l’elettrone c’è o no. Questa impostazione della ricerca è strettamente freghiana. Questione esterna: esiste un elettrone? (al di la di qualsiasi impostazione concettuale e formulazione di qualsiasi teoria!). per Carnap questa domanda non ha senso. Secondo lui “chiedere se esiste qualcosa” coincide a “chiedere quali siano le proprietà di quella cosa”. È questa domanda che ha senso: porsi il problema delle proprietà di un pezzo di mondo ipotetico e da li giungere a capire e scoprire se esso esiste o meno. Secondo Carnap dunque alla domanda che pone la questione esterna non si può dare risposta e quindi non ha senso porcela. (Quella di Carnap in questo caso è un’impostazione freghiana che va oltre però). Filosofia della scienza Pagina 46 di 60 Carlo Cilia Sezione Appunti 47. Carnap, Frege e la questione interna Quando diciamo che l’impostazione riguardo alla questione interna è strettamente freghiana e Carnap in realtà la supera vogliamo dire che anche Frege aveva sostenuto che al di fuori del linguaggio non ha alcun valore porci delle domande sul riferimento, ossia sull’oggetto reale, poiché dobbiamo necessariamente utilizzare un linguaggio. Ecco che il frame work per Frege è il linguaggio e solo all’interno di esso si pongono i problemi di senso e riferimento. Carnap accoglie l’idea del frame work estrapolandola dal suo contesto (che per Frege è il linguaggio) e affermando che solo una teoria è in grado di dare delle proprietà ad un oggetto e di conseguenza riuscire a capire se esso esiste o meno, così come per Frege solo il linguaggio era in grado di dare predicati agli oggetti che il linguaggio stesso descrive1. Quindi per Frege il linguaggio è già una visione del mondo: è attraverso il linguaggio che esprimi il mondo e lo descrivi, cioè ti relazioni con esso. Insomma la relazione con la realtà e lo strumento per conoscerla è il linguaggio con i suoi predicati. Per il prof questa cosa è tanto vera quanto banale. Anche perché l’impostazione di Frege riduce il mondo a logica e semantica (la sua impostazione viene infatti chiamata logicismo). Ciò che possiamo accettare di Frege e Carnap è certamente la divisione delle due questioni. Ma a differenza loro diciamo che la questione esterna è importante, anzi forse fondamentale per la ricerca della verità dell’essere. Certo rimane la consapevolezza che nello studio della realtà io mi muovo all’interno di una “situazione cognitiva” (per usare un termine caro al prof. e che si allarga non alla singola teoria ma alle conoscenze di base acquisite) che certamente veicola la mia ricerca; ma questo non vuol dire smettere o affermare che sia impossibile capire come il mondo effettivamente è e si comporta. Filosofia della scienza Pagina 47 di 60 Carlo Cilia Sezione Appunti 48. Concetto di reale e sue proprietà Ma allora che risposta dobbiamo dare riguardo alle entità non osservabili che la scienza introduce e di cui si serve per conoscere il mondo? Dobbiamo sospendere il giudizio (come fa Van Frassen che è un empirista radicale)? Oppure al contrario devo ammettere ogni entità che mi appare ragiona velo se spiega un pezzo di mondo anche se non riesco a osservarla e percepirla? Torniamo al concetto di reale. Esso è ciò che è correlato alla mia intenzionalità. Dobbiamo distinguere all’interno del concetto di reale tra soggettivo e oggettivo. Per reale in senso oggettivo intendiamo un oggetto che mostra caratteristiche di “invarianza”; per soggettivo dobbiamo invece intendere ciò che percepiamo del mondo esterno attraverso i nostri sensi e che mutare, anche relazionandoci sempre allo stesso oggetto reale. Un protone è un pezzo di mondo oggettivo perché mostra un altissimo grado di invarianza (anche il sogno per certi versi è reale, perché risulta essere una elaborazione del nostro cervello, ma esso non è affatto invariante. Quando lo è, diventa reale oggettivamente, cioè riconducibile sempre ad una serie di mie turbe o traumi passati. La distinzione tra soggettivo e oggettivo non è certo una dicotomia (l’una esclude l’altra) ma piuttosto una bipolarità poiché possiede al suo interno gradi progressivi tra l’uno e l’altro. Oggettivo e soggettivo sono gradi diversi dei realia. Si crea allora un altro problema: qual è la differenza tra una cosa reale e le sue proprietà? Se io tolgo le proprietà all’oggetto, quello smette o no di essere oggetto? E quando? Aristotele aveva, per risolvere questo problema, diviso le proprietà in “essenziali” e “secondarie”. Se ad un gatto tolgo la coda non smette di essere un gatto pur avendo perso una sua proprietà. Si deve allora concludere che un “oggetto” può essere definito tale solo quando mostra caratteristiche di invarianza, ossia è appunto “oggettivo”. Si tratta di un circolo vizioso, ma paradossalmente non esiste un oggetto se prima non si verifica “un’oggettualità” e cioè un’invarianza. Solo in questo modo un oggetto conserverà le sue proprietà nello spazio e nel tempo e potrà essere così riconosciuto come “oggetto”. Filosofia della scienza Pagina 48 di 60 Carlo Cilia Sezione Appunti 49. Valore della scienza. Esistenza reale delle cose Arrivati a questo punto dobbiamo cercare di tirare le somme su che valore ha la scienza, cioè cosa riesce a darci la scienza in termini conoscitivi riguardo al mondo. La scienza si limita a descrivere il mondo utilizzando degli strumenti più o meno validi o è in grado di coglierlo ontologicamente? Il problema è allora quello dell’esistenza reale delle cose. Certo dobbiamo partire dal presupposto che come dice Frege i predicati di esistenza sono predicati di secondo grado; questo vuol dire che un oggetto esiste in relazione alle sue proprietà. Ossia “esiste un x tale che”; esiste Carlo? Questa domanda coincide con “esiste un Carlo tale che ha gli occhi azzurri, i capelli castani, ha due braccia, due gambe ecc… Non cmq non seguiamo l’impostazione squisitamente linguistica di Frege, perché il nostro problema non è linguistico ma ontologico. È chiaro che, inutile a dirlo, tutte le volte che ci riferiamo alla realtà delle cose e alla loro esistenza utilizziamo un linguaggio e che quindi il problema della realtà è anche un problema linguistico. Ma noi non vogliamo ridurlo solo a questo. E dobbiamo anche avere chiara l’idea di Wittgneistein secondo il quale “il linguaggio va in vacanza” ossia non è in grado di cogliere nella sua essenza la realtà, ma si sforza semplicemente di descriverla. Tutto però si gioca all’interno del linguaggio. La domanda che noi ci facciamo è una domanda eterna ed eternamente insolubile perché abbraccia una serie enorme di implicazioni che ci fanno allontanare dal piano ontologico. Ma è pur sempre la domanda “prima” nel senso che è la più importante. In ultima analisi infatti l’obiettivo di ogni scienziato e soprattutto di un filosofo della scienza deve essere quello di giungere a cogliere la realtà ontologicamente e non considerarla solo per il modo in cui si esplica. Carnap abbiamo visto che rinuncia a questa domanda e noi vogliamo invece nuovamente provare a porcela. Lui è un agnostico. Lui non nega l’esistenza delle realtà non percepibili (ad esempio gli elettroni) ma sospende il giudizio epoche). E come lui fa Van Frassen. Filosofia della scienza Pagina 49 di 60 Carlo Cilia Sezione Appunti 50. Realismo delle teorie. Putnam e "no miracle argument" Ci sono alcuni argomenti che sono a favore di quello che viene chiamato “realismo delle teorie” che è diverso da “realismo delle entità”. In effetti questa non è una dicotomia ma una bipolarità. Le due forme di realismo sono per forza di cose legate tra loro. Realismo delle teorie: afferma che sostanzialmente che tutte le entità teoriche descritte da una teoria ( e sappiamo che le entità teoriche introdotte da una teoria sono definite dalla intera rete teorica così come vuole la “recived view”, perché solo a partire dalla sua totalità assumono senso empirico) assumono forza empirica, cioè si può affermare che esistono veramente, a partire dalla teoria vera. Ossia se la teoria è vera, le entità che essa introduce e descrive sono entità reali, ossia esistono empiricamente anche se non riusciamo a percepirle. Questa impostazione cerca di sviluppare argomenti a favore del realismo in generale in relazione alle teorie. Un argomento a favore di tale realismo è questo. Se la massa enorme di entità teoriche che noi introduciamo per cercare di descrivere il mondo fenomenico, non avesse una corrispondenza di fatto in esso, cioè la capacità di rappresentare il mondo, non si capirebbe come funziona tutta la baracca. Questa idea introdotta da Puttnam è stata chiamata no miracle argument. L’idea è allora: una teoria falsa che introduce entità teoriche che non esistono dovrebbe produrre risultati sbagliati. Ma allora come può essere che la teoria ci azzecca? Il fatto che noi ci accorgiamo che tali teorie con le loro entità ci azzeccano cioè sono vere e quindi descrivono effettivamente pezzi di mondo toglierebbe il senso di miracolo che la teoria produce! Su questa cosa la letteratura è stata parecchio vasta e molti pensatori si sono scannati tra loro. Alcuni infatti hanno fatto notare come una miriade di teorie che sembravano essere vere perché ci azzeccavano in relazione ai fenomeni, poi sono risultate assolutamente false. Si pensi ad esempio alla teoria geocentrica che per 1500 anni è stata considerata vera solo perché salvava solo i fenomeni, introducendo entità come gli epicicli che a loro modo spiegavano i fenomeni che si percepivano attraverso i sensi. Dunque il fatto che una teoria salvi i fenomeni non vuol dire che sia necessariamente vera. Per cui non si può affermare che una teoria è vera perché toglie il senso di miracolo che altrimenti ci sarebbe se fosse falsa. Filosofia della scienza Pagina 50 di 60 Carlo Cilia Sezione Appunti 51. Scienza e procedimento abduttivo Ma c’è un altro argomento che confuta questa impostazione: la scienza spesso utilizza un procedimento abduttivo che può facilmente trasformarsi in un ragionamento fallace. Io noto e (che è un fenomeno ad esempio i puntini rossi sul petto di Luca),che esprimo con un enunciato A (Luca ha dei puntini rossi sul petto); faccio una ipotesi i (cioè sviluppo una teoria) e in relazione alla mia ipotesi affermo un enunciato B (Luca ha la varicella); tale enunciato però non è una conseguenza della mia prima affermazione ma viceversa, cioè ha come conseguenza A, nel senso che il fenomeno che ho osservato (i puntini sul petto di Luca) deriva dalla mia teoria (Luca ha la varicella) è quindi una sua conseguenza quindi arrivo alla conclusione che la mia teoria è vera. Questa abduzione è una fallacia perché se io vedo dei puntini rossi su tutto il corpo di una persona e ipotizzo che abbia la varicella ma non ne ho la certezza perché quei puntini se li è potuti procurare con un allergia. (Questo procedimento era chiamato da Aristotele ragionamento apagogico). E la cosa si aggrava perché se l’abduzione è il modo diciamo quasi naturale della nostra mente (e della scienza) di procedere, e come abbiamo visto risulta di per sé ingannevole, chi difende l’argomento del miracolo introduce il termine teorico C come una ulteriore ipotesi che avvalora la mia teoria affermando: se C fosse vero allora B è vero; siccome B è vero dato che A è vero allora anche C è vero. In questo modo io aggiungo fallacia a fallacia, un’abduzione ad un’altra solo perché voglio andare a confermare la mia teoria utilizzando per di più un termine teorico che non spiego attraverso il suo ancoraggio alla realtà ma solo attraverso un procedimento logico, per di più ingannevole. Questo procedere è fin troppo artificiale. Filosofia della scienza Pagina 51 di 60 Carlo Cilia Sezione Appunti 52. Realismo delle entità Afferma che nonostante sia chiaro che le entità teoriche di una teorie sono spiegabili e assumono senso empirico all’interno della stessa teorie che le produce, non si può affermare che la loro esistenza dipenda dalla teoria stessa. Ci sono entità che esistono in sé e per sé, a prescindere dal fatto che la teoria le introduca o meno. Ogni entità va discussa di per sé con degli argomenti adeguati. Questa impostazione cerca di sviluppare dei criteri che possano permettere di stabilire l’esistenza o meno di entità anche al di fuori della teoria che li ha prodotti e non partendo da essa. Chiaramente tutta la faccenda è annacquata perché chi è che definisce cosa sono le entità? Quindi non si può distinguere così facilmente tra le due impostazioni. Cos’è un’entità? Ci vuole una teoria per scoprirlo. Ma la teoria però non fonda la realtà di una determinata entità perché se quella esiste, lo fa a prescindere che la teoria sia in grado di definirla o meno! Una cosa che però risulta chiara e certa è che l’entità che si vuole cogliere nella sua esistenza può essere presa in considerazione solo e solo se la teoria che l’ha prodotta è vera almeno in parte! Per questa definizione abbiamo introdotto un concetto che è assolutamente sdrucciolevole che è il concetto di “verità parziale”. Noi sappiamo solo delle cose che sono vere o false, o che siano probabili in una certa percentuale, ma la verità parziale è un concetto che il linguaggio produce e che crea una miriade di problemi. Filosofia della scienza Pagina 52 di 60 Carlo Cilia Sezione Appunti 53. Realismo delle entità. Verità parziale di un enunciato La verità parziale per un singolo enunciato non ha molto senso perché un singolo enunciato è o vero o falso, oppure che ha una certa probabilità di essere vera (cioè dire che la probabilità che un enunciato sia vero è ½ non vuol dire che l’enunciato è vero solo a metà, ma che ha il 50% di probabilità che sia vero; quindi il concetto di verità parziale assume senso per un insieme di enunciati. Poniamo una teoria fatta di cinque enunciati: i primi tre veri, gli ultimi due falsi. La teoria allora avrà una certa percentuale di verità, che non è uguale a dire che sia al 60% vera, ma che per il 60% è vera per il 40 falsa. È quella che Popper chiamò la “verosimiglianza”. Ma a Popper fecero subito una contestazione: se tu riesci, cambiando il linguaggio, a riassumere i primi tre enunciati veri (a1, a2, a3) in un nuovo enunciato che chiami b1 e poi dici che gli altri due enunciati falsi a4 e a5 sono rispettivamente uguali a b2 e b3 la stessa identica teoria darà una percentuale diversa di verità che non sarà più 3/5 (circa il 60%) ma 1/3 (il 33%). Basta poco per cogliere nel concetto di verità parziale un serie incredibile di paradossi. Noi allora dobbiamo cercare di trovare una definizione a questo concetto di verità parziale. Dal momento che una teoria non è vera o falsa, e non è vera ad una determinata percentuale, ma vera in parte (come tutte le teorie che si formulano) nasce l’esigenza di definire nel miglior modo possibile il concetto di verità parziale. Ed inoltre dal momento che (come abbiamo già detto) se vogliamo definire anche le entità teoriche e stabilirne la loro ontologia, quindi la loro effettiva esistenza, dobbiamo necessariamente assicurarci che la teoria che li produce sia una teoria parzialmente vera. Quindi il problema della verità parziale diventa anche il problema della definizione delle entità teoriche. Filosofia della scienza Pagina 53 di 60 Carlo Cilia Sezione Appunti 54. Kuhn e le situazioni cognitive Kuhn ha constatato però che le teorie quasi mai sono comparabili. Allora qual è la soluzione. In realtà non compariamo teorie tra di loro ma “situazioni cognitive”. Noi oggi abbiamo a disposizione una serie di teorie che per quanto incomparabili e incompatibili tra di loro, con i loro modelli riescono a spiegare una gran quantità di pezzi di mondo. Per cui noi possiamo dire che la nostra situazione cognitiva oggi è più vera di quella di uno studioso di 500 anni fa. Proprio l’impossibilità della definizione del concetto di verità parziale aveva portato molti studiosi come Feyerabend e Kuhn ad abbandonare l’idea che si era affermata proprio con Kuhn secondo il quale la scienza si muove in senso progressivo come una scoperta che porta a conoscenze sempre maggiori, ma non in senso vero-funzionale e quindi una progressione verso la verità, ma un progresso che ci permette di risolvere sempre meglio i nostri problemi. Non abbiamo teorie sempre più vere ma teorie sempre più “adeguate”. Quindi era stata abbandonata l’idea che si potesse giungere alla verità, rassegnandosi sull’unica possibilità che rimaneva che era quella di una scienza pratica capace semplicemente di risolvere sempre meglio i problemi che l’uomo man mano si va ponendo. È chiaro che questa è un’idea drammatica perché rinuncia al concetto di verità e si lega al concetto di problema facendo si che chi eredita questo pensiero non ci arrivi dopo un percorso di riflessione ma lo ponga come un postulato. Filosofia della scienza Pagina 54 di 60 Carlo Cilia Sezione Appunti 55. Scienza come impresa conoscitiva o come strumento attivo Dobbiamo ritornare sulla riflessione che abbiamo fatto sopra se vogliamo salvare l’idea che l’impresa scientifica non ha come unico obiettivo la soluzione di problemi (come dice Kuhn), ma anche quello di ricercare la verità. Cerchiamo allora di distinguere la scienza come impresa conoscitiva che utilizza delle tecniche, progetti pratici con finalità cognitive, dalla scienza come strumento per sfruttare il mondo, manipolarlo per risolvere i problemi che man mano l’uomo va ponendosi. La manipolazione del mondo non è necessariamente negativa, ma può avere degli scopi conoscitivi. È vero anche, ad esempio in farmacologia, che spesso l’attività scientifica è finalizzata alla soluzione di un problema (curare) e anche se a livello cognitivo si hanno delle certezze sui farmaci che utilizziamo, ciò che interessa è che essi guariscano. Noi abbiamo lo scopo di analizzare quella parte della scienza preoccupata dell’aspetto cognitivo, cioè della ricerca della verità. È solo a partire da quest’aspetto che possiamo fare un percorso progressivo di conoscenza. E per far questo dobbiamo riferirci e analizzare le entità teoriche di una teoria cioè quelle entità che pretendono di avere un corrispettivo nella realtà. Ma per analizzare tali entità dobbiamo fare riferimento al concetto di verità parziale dal momento che un’entità teorica è necessariamente riferita a tale concetto: se io dico Lucia, con tale termine mi riferisco direttamente a lei. Se io invece dico elettrone, mi riferisco ad un’entità che ha senso solo all’interno della teoria in cui la introduco e di conseguenza la teoria di cui parlo, se voglio che questa entità sia accettabile e descriva realmente un pezzo di mondo, deve essere almeno parzialmente vera. E non solo: abbiamo detto che il concetto di verità parziale inteso positivamente è indispensabile per avere un’idea di cammino progressivo della scienza verso teorie sempre “più” vere anche se inevitabilmente sempre parziali. Filosofia della scienza Pagina 55 di 60 Carlo Cilia Sezione Appunti 56. Oltre il concetto di verità parziale Il concetto di verità parziale non possiamo introdurlo come concetto squisitamente logico perché questo porta ad un insieme di paradossi. Certamente una teoria è una struttura logica ma dicendo che essa è parzialmente vera in senso logico ci fa cadere nell’esempio poco sopra citato (la contestazione fatta a Popper). Per uscire dal concetto di verità parziale che rischia di diventare un paradosso si deve utilizzare questa procedura: sviluppo una teoria che è una struttura logica più o meno definita; poi vado a leggere pezzi mondo, modelli differenti e vedo se tale teoria abbraccia più enunciati che descrivono questi pezzi di mondo. Se questo avviene la teoria è accettabile, cioè vera (avrà entità teoriche con una corrispondenza fattuale) anche se quasi certamente non lo sarà nella sua totalità. Una teoria sarà più vera di un’altra quando sarà in grado di abbracciare e quindi spiegare gli stessi modelli della sua concorrente più qualcun altro (e non come si potrebbe semplicisticamente pensare quando una abbraccia quantitativamente più modelli di un’altra, perché si potrebbe trattare di pezzi di mondo differenti e quindi la comparazione non può essere fatta; si concluderebbe solo che entrambe sono vere perché abbracciano un certo numero di modelli differenti). La nostra situazione cognitiva del 2009 è più vera di quella di Einstein perché abbraccia i modelli precedenti ai quali se ne aggiungono di nuovi. L’obiezione a questo modo di intendere la scienza (che piace al prof.) è che tutte le situazioni cognitive, sia la nostra che le precedenti sono contraddittorie (perché hanno al loro interno teorie fra loro contraddittorie) ma questa situazione quanto meno (afferma il prof) descrive la scienza reale. Filosofia della scienza Pagina 56 di 60 Carlo Cilia Sezione Appunti 57. Realismo moderato e logiche paraconsistenti Tanti oggi parlano di verità parziale e di realismo moderato e tutti lo fanno a partire da una’impostazione linguistica-logica. La proposta del prof è assolutamente originale e non è detto che non abbia delle lacune bestiali di cui al momento non ci rendiamo conto. C’è il problema delle teorie contraddittorie: per ragionare in questi termini dobbiamo accettare il fatto che i quadri cognitivi che noi compariamo spesso sono al loro interno contraddittori perché sono il risultato dell’insieme di teorie che si contraddicono tra loro (mentre nel caso di una singola teoria, per quanto questa presenti delle magagne, non è mai contraddittoria, altrimenti non può nemmeno essere chiamata con questo nome!); comparando situazioni cognitive diverse noi compariamo modi di leggere pezzi di mondo che spesso sono contraddittori al loro interno; nel compararli quindi si creano dei problemi incredibili. Oggi vanno di moda le logiche paraconsistenti: noi possiamo immaginare delle logiche dove la contraddizione è contemplata. Ma perché la tendenza della mente umana è quella di rifiutare la contraddizione all’interno di una ragionamento logico? Certamente innanzitutto per un problema psicologico di sanità mentale. Inoltre per un problema molto serio e cioè che accettando dentro un sistema la contraddizione all’interno di una teoria, e accettando regole minimali di inferenza induttiva si arriva alla conclusione che già abbiamo citato: se c’è una contraddizione in questo sistema logico tutti gli enunciati sono veri! Sono stati sviluppati però dei sistemi capaci di contemplare al loro interno la contraddizione senza che tale accettazione diventi metodologica, ma facendo si che una precisa contraddizione rimanga all’interno di una parte del sistema e non venga applicata all’intero. Questo è possibile farlo non accettando alcune inferenze logico induttive che di per sé sono ovvie (e quindi non dovrebbero influire in nulla, cioè la loro accettazione o meno all’interno della teoria non dovrebbe avere alcuna rilevanza) ma che attraverso la loro non accettazione “ghettizzano” la contraddizione, cioè fanno si che essa non si espanda all’intera teoria facendola cadere. Filosofia della scienza Pagina 57 di 60 Carlo Cilia Sezione Appunti 58. Criteri per entità teorica. Realtà e oggettività Quindi dovremo per ogni singola entità porci il problema della effettiva corrispondenza tra il termine teorico che dovrebbe descriverlo. Il tentativo è questo secondo il prof: i criteri sono almeno due: Un criterio necessario per accettare come esistente un’entità teorica è che tale entità deve essere reale (utilizzando questo termine intendendolo come i “realia” ossia oggetti percepiti in maniera nuda e cruda; esistenza invece indica le proprietà dell’entità come ci ha suggerito Frege; oggettività è infine invarianza). Io cioè riesco a concepire all’interno della mia scienza (delle conoscenze che possiedo) un essere senziente in grado di percepirla. Gli atomi e la curvatura dello spazio sappiamo che potremmo percepirlo se avessi una struttura biologica diversa. Quindi siamo in grado di concepire un essere senziente in grado di percepire gli atomi, i campi magnetici. Viene un dubbio in questo caso un dubbio: riflettendo sul tavolo viene difficile pensare ad un essere senziente in questo mondo capace di cogliere un tavolo nella sua essenza, cioè nella sua totalità oggettuale. Inoltre un’entità teorica per avere un corrispettivo fattuale nel mondo deve anche essere oggettiva cioè invariante. L’invarianza non è difficile cogliere che è un concetto “graduabile”; un’entità totalmente invariante è un’entità assolutamente oggettiva (esempio la velocità della luce). Filosofia della scienza Pagina 58 di 60 Carlo Cilia Sezione Appunti 59. Contro realismo scientifico. Meta induzione definita Ci sono due argomenti (secondo il prof. troppo generali da cui diffidare) che sono stati portati avanti da molti filosofi (realisti agnostici che si schierano con il realismo delle teorie) contro ogni forma di realismo scientifico (difensori del realismo delle entità): la metainduzione definita e la sottodeterminazione delle teorie rispetto ai dati osservativi in opposizione ai due argomenti portati avanti dai realisti in favore del realismo, cioè l’argomento della inferenza alla miglior spiegazione e l’argomento del miracolo. Ma questi due tipi di argomenti cadono negli stessi errori in cui cadono gli argomenti realisti. La prima (metainduzione pessimista => meta induzione perché non è una induzione semplice ma l’induzione è fatta su ipotesi) afferma che tutte le teorie che finora l’uomo ha formulato sulla realtà si sono rivelate false, per cui anche le teorie che oggi prendiamo per vere si riveleranno false in futuro. Se tutte le teorie sono false vuol dire che nessuna di esse rispecchia la realtà e quindi non saremo mai in grado di cogliere la realtà veramente. La conclusione è chiaramente pessimista che conduce ad un vicolo cieco. È chiaro che tutte le teorie sono false; ma è vero anche che tutte le teorie sono anche vere in alcune loro parti. Escludere questo lato positivo delle teorie, anche quelle che sono state superate conduce all’idea aprioristica di una impossibilità della conoscenza del mondo. Filosofia della scienza Pagina 59 di 60 Carlo Cilia Sezione Appunti 60. Sottodeterminazione delle teorie rispetto ai dati osservativi La seconda argomentazione afferma che i dati osservativi non determinano in maniera decisiva la teoria che corrisponde ad essi; c’è più di una teoria che può essere compatibile con gli stessi dati osservativi. Le teorie quindi sono “sottodeterminate”. Se abbiamo teorie diverse che salvano gli stessi dati sperimentali e che introducono termini teorici diversi, quale di queste teorie è quella vera e quali di questi termini teorici ha un corrispettivo effettivo con la realtà? Chi sostiene (Van Frassen, Quine) la sottodeterminazione delle teorie rispetto ai dati crea un problema enorme spiegabile in questo modo: se io ho una teoria T1 che salva i dati osservativi e all’interno della quale introduco un termine teorico “a” che non influisce in nessun modo con e ma anzi mi aiuta a spiegare alcuni fenomeni; poi formulo un’altra teoria, quindi anche T2 all’interno della quale introduco in termine teorico “non a” che mi spiega altri fenomeni ancora, anch’esso ininfluente su e, quindi anche in questo caso e è salvo. Mi troverò di fronte a due teorie che salvano entrambe i dati osservativi ma che addirittura sono una in contraddizione con l’altra. Quale delle sarà quella più vera? In fondo sono identiche! Quindi io potrei inserire tutti i termini teorici che voglio anche in contraddizione tra loro senza che questo intacchi la teoria. Ma un criterio del genere non mi torna molto utile nello scegliere tra una teoria e l’altra. In effetti però il vero problema non è proprio questo; questo tipo di problema potrebbe assumere una scarsa rilevanza. Le cose sono più complesse perché in effetti nella scienza contemporanea il principio di sottodeterminazione è applicabile dato che molte teorie salvano i fenomeni ma sono una in contrasto con l’altra e i dati non ci consentono di sceglierne una piuttosto che l’altra. Come facciamo allora a stabilire se i termini teorici che le teorie diverse introducono corrispondono a pezzi di mondo? Come si fa a scegliere tra la meccanica quantistica e la meccanica bohmiana dal momento che esse hanno uno zoccolo duro comune ma introducono termini teorici differenti? Entrambe le impostazioni nonostante siano in grado di spiegare pezzi di mondo, risultano al loro interno fin troppo confusionarie e non in grado di ancorare neanche minimamente i loro termini teorici al mondo. Einstein a proposito della MQ affermava che essa fosse “incompleta” ma non nel senso di incompletezza caratteristico di tutte le teorie, quanto da un punto di vista strutturale; gli manca quella struttura solida che dovrebbe permettergli di stare in piedi e radicarsi anche solo in minima parte alla realtà. Ciò che si può fare è allora cercare di formulare una teoria T3 (è ciò che si auspica) in grado di superare i problemi di T1 e T2 non pretendendo di spiegare tutto, ma che sia in grado di stare in piedi superando quei limiti strutturali di T1 e T2 senza per questo essere una teoria definitiva. La conclusione è allora(tranne che non si voglia giungere a forme di scetticismo che sfociano in un pessimismo radicale) quella di dover accettare di convivere con situazioni cognitive contraddittorie vedendo anzi in esse un motore che spinge verso una risoluzione che certo non sarà definitiva. Tendenzialmente quindi le sottodeterminazioni per il processo naturale della ricerca scientifica tendono a dissolversi. Ci ritroviamo così con il compito arduo di stabilire di volta in volta la attualità dei singoli termini teorici a partire dalle teorie che li producono seguendo i due criteri fondamentali di realtà e invarianza. Filosofia della scienza Pagina 60 di 60 Indice 1. Concetto di causalità e condizioni 1 2. Ontologia e epistemologia della causa. Hume e Kant 2 3. Concetto di causalità. Einstein e entanglement 3 4. Reichenbach e la causa comune 4 5. Principio di determinazione di Heisenberg 5 6. Meccanica quantistica e unità per analogia 6 7. Michotte. Percezione e causalità 7 8. Calcolo della probabilità, Kolmogorov 8 9. Calcolo delle probabilità in Reichenbach, Salmon e Suppes 9 10. Cos'è la legge scientifica 10 11. Van Fraassen, Pargetter e la legge scientifica 11 12. Armstrong e valore ontologico degli enunciati 12 13. Legge scientifica per Mill e Ramsey 13 14. Kuhn e la legge scientifica 14 15. Cartwright e la legge scientifica 15 16. Definizione di simmetria per Weyl 16 17. Definizione di gruppoide nel concetto di simmetria 17 18. Teoria scientifica coerente e empiricamente significativa 18 19. Essenza della realtà e visione a clessidra 19 20. Bridgman. Dall'esperienza ai dati sperimentali 20 21. Carnap. Logica e similarità parziale 21 22. Critica di Goodman alle similarità parziali di Carnap 22 23. Kant e le categorie a priori 23 24. Hempel e la visione accettata. Termini osservati e termini teorici 24 25. Conoscenza umana. Stato mentale e stato fisico 25 26. Frege e il linguaggio. Senso e riferimento 26 27. Frege. Verità e falsità di un enunciato 27 28. Olismo semantico di Quine e Putnam 28 29. Teoria scientifica in Van Frassen, Suppes e Giere 29 30. Heidegger e la verità nella scienza 30 31. Teoria scientifica e teoria della corrispondenza 31 32. Definizione di coerentismo 32 33. Definizione di deflazionismo 33 34. Verità come intuizione. Sellars e la negazione dei dati sensoriali 34 35. Verità e intuizione. Teoria della decoerenza 35 36. Falsificazionismo. Popper e neopositivisti 36 37. Dal concetto di verosimiglianza a Quine e Kuhn 37 38. Lakatos e il falsificazionismo sofisticato 38 39. Feyerabend e la critica a Lakatos 39 40. Modo probabilistico, principio di indifferenza o ragion insufficiente 40 41. Calcolo delle probabilità in Bayes 41 42. Efficacia del teorema di Bayes 42 43. Probabilità epistemica e probabilità ontologica 43 44. Realismo rappresentativo e realismo ontologico 44 45. Husserl. Intenzionalità come possibilità di esistenza 45 46. Carnap. Questione interna e questione esterna 46 47. Carnap, Frege e la questione interna 47 48. Concetto di reale e sue proprietà 48 49. Valore della scienza. Esistenza reale delle cose 49 50. Realismo delle teorie. Putnam e "no miracle argument" 50 51. Scienza e procedimento abduttivo 51 52. Realismo delle entità 52 53. Realismo delle entità. Verità parziale di un enunciato 53 54. Kuhn e le situazioni cognitive 54 55. Scienza come impresa conoscitiva o come strumento attivo 55 56. Oltre il concetto di verità parziale 56 57. Realismo moderato e logiche paraconsistenti 57 58. Criteri per entità teorica. Realtà e oggettività 58 59. Contro realismo scientifico. Meta induzione definita 59 60. Sottodeterminazione delle teorie rispetto ai dati osservativi 60