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Filosofia della scienza

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Filosofia della scienza
di Carlo Cilia
Appunti che affrontano l'annoso problema della conoscenza umana. Partendo
dal concetto di causalità si passa ad analizzare il procedimento per risalire alla
verità dai dati sperimentali o viceversa, secondo il metodo della clessidra. Si
citano il calcolo delle probabilità, la verità nella scienza per Heidegger e
Husserl, fino al significato di verità nella legge scientifica.
Università: Università degli Studi di Catania
Facoltà: Lettere e Filosofia
Esame: Filosofia della scienza
Carlo Cilia
Sezione Appunti
1. Concetto di causalità e condizioni
Partiamo da un’idea vaga di causa (anche se chiaramente non possiamo sapere a priori cosa si intende per
causa): Newton ha parlato di “vera” causa e non semplicemente di “causa”. Il concetto di vera causa è un
concetto sul quale si è discusso molto: esiste una causa quando si verificano queste condizioni:
C’è una condizione necessaria: una parte di un tizio va al cinema
C’è una condizione sufficiente: il fatto che un tizio sia andato al cinema
C’è una condizione necessaria e sufficiente: 1 + 2
Se non c’è la terza non esiste effetto in un nesso causale; è esattamente quella che viene chiamata condicio
sine qua non. La condizione necessaria e sufficiente (in una parola la causa) è ciò che basta senza che serva
nient’altro per ottenere un effetto. Questa condizione quasi mai sono in grado di coglierla; infatti la vera
causa non coincide esattamente con la condizione necessaria perché altrimenti ogni condizione necessaria
(che non esaurisce il tutto) si trasforma in vera causa!
Ecco che allora diventa difficile determinare la vera causa e di conseguenza capire bene cosa si intende per
causalità.
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Sezione Appunti
2. Ontologia e epistemologia della causa. Hume e Kant
A questo punto è bene distinguere il concetto di vera causa ponendoci su due piani:
Ontologico (ossia sapere cosa è la vera causa)
Epistemologico (ossia sapere come facciamo a stabilire la vera causa)
La cosa che facilmente viene da fare in prima istanza è quella di dare maggior importanza al piano
ontologico (seguendo la strada seguita dai “realisti”). Ma questa via ci riporta al problema alquanto
complesso e di non facile soluzione di stabilire cosa e quale sia esattamente sia la causa necessaria e
sufficiente; è per questo motivo che rapidamente si sfocia nell’ ontologismo.
Il problema quindi se pretende di essere affrontato con l’auspicio di trovare qualche risultato utile deve
necessariamente essere affrontato da un punto di vista epistemologico. Ma senza inoltrarci troppo nella
ricerca si nota come facilmente, seguendo un approccio esclusivamente epistemologico il rischio è quello di
cadere nel relativismo. Infatti una delle affermazioni che naturalmente viene da fare è quella che ha fatto
Hume e cioè affermare che “causale è ciò che si verifica nel rapporto di due oggetti contigui a livello
spaziale, temporale e di uniformità”. Kant però ha pensato bene di mettere in crisi questa idea facendo
notare che spesso causa ed effetto sono contemporanei. È per questo motivo che egli preferisce parlare di
“simmetria” tra causa ed effetto (secondo il suo famoso esempio della pallina e il cuscino si vede che
poggiando la pallina sul cuscino questo si fa concavo e l’effetto è contemporaneo ossia non vi è contiguità
come voleva Hume; questo crea un rapporto di simmetria tra la solidità della pallina e la sofficità del
cuscino nel momento in cui questi entrano in contatto soprattutto perché questo evento non può mai
verificarsi all’inverso e cioè che la stessa pallina si faccia concava a contatto col cuscino). Sulla contiguità
spaziale invece Kant è d’accordo con Hume; infatti essa è condizione necessaria affinché si verifichi un
rapporto causale: i due oggetti devono necessariamente essere contigui spazialmente.
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3. Concetto di causalità. Einstein e entanglement
Kant però, insieme con Hume, sarebbe stato di lì a poco smentito dalle nuove scoperte in ordine alla
meccanica quantistica: Einstein stesso scoprì a proposito della relazione tra fenomeni che non sempre due
fenomeni in relazione causale tra loro dipendono l’uno dall’altro in senso spaziale; o meglio non
necessariamente essi sono contigui. Questo fenomeno è stato poi definito entanglement: esso mostra come è
possibile che si stabilisca una connessione causale tra fenomeni anche a milioni di km di distanza. E per di
più questo fenomeni non è neanche per un attimo dimostrabile a livello locale; esso si verifica solamente a
grandi distanze. La cosa interessante è: come spiegarlo? Newton avrebbe risposto con la frase: “ipotesis non
fingo” (non faccio ipotesi) noi potremmo invece azzardare l’idea che anche se non riusciamo a scorgerla in
realtà la connessione causale esiste. Questa situazione è esattamente quella dell’elettrone nella scatola che
finché non è osservato non se ne può determinare la posizione esatta perché risulta essere come una nuvola.
E dividendo la scatola in due e separando le due parti non saprò mai da che parte sta l’elettrone; questa
incertezza gnoseologica è il risultato di un interazione (che è stata chiamata “passione”) che si stabilisce tra
le due parti; è come se l’una dipendesse dall’altra fintanto che io non mi accerto da che parte sta l’elettrone.
Questo ci fa intuire che esiste un legame causale tra le due metà di scatola, ma risulta impossibile ad oggi,
con la rappresentazione dell’elettrone che abbiamo, stabilire quale sia la “vera causa” che li lega.
La teoria super assodata della relatività ristretta afferma che non esiste velocità superiore a quella della luce
(300.000 km/s). questo fenomeno entra un po’ in conflitto con le nuove teorie sviluppate in meccanica
quantistica; non che esse si contraddicano escludendosi a vicenda, quanto piuttosto risultano inconciliabili. Il
tentativo di conciliazione tra le due teorie a dato vita a quello che è stato chiamato modello standard.
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4. Reichenbach e la causa comune
Reichenbach ha introdotto il concetto di “causa comune”; ogni volta che statisticamente c’è una correlazione
vi sono due possibilità:
un fenomeno è causa dell’altro (A e B sono collegati e A è causa di B)
esiste una causa comune tra i due fenomeni (esempio: un uomo e una donna si incontrano sempre in piscina.
Il “sempre” indica la correlazione statistica e la causa comune potrebbe essere quella che “se la intendono”).
Nel caso della scatola contenente l’elettrone il concetto di causa comune viene meno: i due fenomeni
sembrano si essere correlati ma non si riesce a trovare la loro causa comune. La teoria della relatività
ristretta non è in grado di cogliere la correlazione e spiegare il fenomeno perché non ammette al suo interno
il concetto di causa comune.
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5. Principio di determinazione di Heisenberg
E’ bene inoltre considerare all’interno di questo discorso il principio di determinazione di Heisenberg:
secondo tale principio se io calcolo la posizione esatta di un determinato corpo (elettrone) non sarò in grado
di stabilire con lo stesso grado di esattezza la sua velocità e viceversa. Se io quindi “fisicamente” preparo
un esperimento stabilendo da prima la posizione ossia lo “stato” di un dato oggetto (elettrone) sarò in grado
di conoscere con assoluta certezza la posizione dell’oggetto (oppure la sua velocità nel caso in cui avrò
preparato l’esperimento a partire da essa) ma non saprò nulla riguardo alla sua velocità.
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6. Meccanica quantistica e unità per analogia
La meccanica quantistica invece si preoccupa di stabilire cosa succede in uno stato di “Entanglement” per
cui non conosco a priori né la posizione né la velocità di un dato oggetto se non quando farò
un’osservazione sperimentale sullo stato dell’oggetto. La preparazione dell’esperimento quindi in meccanica
quantistica non segue il principio di determinazione.
Quando parlo di causalità posso dire che essa non è univoca ma è un’ unità per analogia. Si deve infatti
distinguere la univocità (che stabilisce una base comune tra due elementi) dall’ unità per analogia (esiste
un’unità ma non si riesce a trovare ciò che accomuna le due cose analoghe; non si trova cioè il genere
comune).
Per entrare addentro al problema della causalità si deve inoltre avere chiara la distinzione tra fatto (token
ossia un singolo evento che è ben caratterizzato che quindi prende il nome di “fatto”) ed evento (type che
indica un evento generico che non ha una precisa individuazione).
Se noi affrontiamo il problema della causalità da un punto di vista ontologico dobbiamo affermare che essa
abbraccia sia il fatto che l’evento. In realtà però nel mondo, ontologicamente parlando essa riguarda
propriamente fatti non eventi. Riguardo a questo Hume si era espresso in maniera diversa: egli infatti
partendo da un approccio epistemico affermava che è possibile parlare di causalità nella correlazione tra due
eventi solo quando questi eventi si ripetono sempre uguali e si ha la certezza che essi si ripeteranno in
futuro.
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7. Michotte. Percezione e causalità
Michotte a proposito di questo complica un po’ le cose: egli afferma che è a partire dalla percezione che in
prima istanza si può parlare di causalità: se do un calcio ad un pallone quello si muove e io percepisco il suo
movimento. È chiaro però che esistono percezioni che non risultano valide e vanno ulteriormente indagate,
così come spesso vi sono nessi causali che non siamo in grado di percepire. Ad ogni modo però la
percezione può essere un buon modo per cogliere in prima analisi i nessi causali.
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8. Calcolo della probabilità, Kolmogorov
Come si vede il quadro che riguarda il concetto di causalità risulta molto frastagliato ed è importante ad esso
aggiungere un altro tassello e cioè il calcolo della probabilità.
p(A) = la probabilità che un certo enunciato A sia vero.
P(a) = la probabilità che un certo enunciato a si verifichi (e quindi in questo caso trattasi di evento).
Kolmogorov (matematico) ha dimostrato che matematicamente p(A) è uguale a p(a). Infatti in entrambi i
casi vale la regola secondo cui si passa da 0 che rappresenta l’insieme vuoto e 1 che è invece la totalità. La
probabilità è quindi la funzione di un insieme vuoto partendo dal quale è possibile raggiungere, passando per
i numeri reali, la pienezza totale dell’insieme rappresentata dal numero 1.
Ma chi ci dice che questo concetto matematico coglie veramente la nozione di probabilità? Bene il calcolo
della probabilità di Kolmogorov funziona con enunciati semplici ma se noi vogliamo calcolare la probabilità
che la teoria della relatività sia vera o si verifichi, incorriamo in problemi insormontabili perché essa al suo
interno implica un’altra serie di teorie già di per sé complicate. Quindi lo strumento di controllo che a noi
serve non è “quantitativo” (che percentuale ha la teoria di essere vera o di verificarsi) quanto “qualitativo”
ossia “comparativo” nel senso di “capacità descrittiva e normativa del mondo” e non solo di correttezza
formale.
Quando parliamo di probabilità sarebbe bene non parlare mai di “probabilità assoluta” cioè p(A) ma
piuttosto di p(A/K) ossia a partire dalle conoscenze di sfondo che noi abbiamo (k = background knowledge).
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9. Calcolo delle probabilità in Reichenbach, Salmon e Suppes
Reichenbach, Salmon, Suppes hanno addirittura teorizzato che attraverso il calcolo delle probabilità si
definisce il concetto stesso di causalità e in particolare attraverso la formula dell’aumento della probabilità:
Dati due eventi A e B, se affermiamo che p(A) < p (A/B) allora dovremo necessariamente affermare che in
qualche modo B favorisce A, perché dato B, A cresce. In effetti tale formula non ha un valore strettamente
ontologico ma ha un forte valore epistemico. Facciamo un esempio: se io desidero stare con una donna (A)
ma mi rendo conto che tutte quelle con cui ci provo mi dicono di no. Allora decido di vestire firmato
comprare una Ferrari (B) e il risultato è che qualche donna mi dice di si. Anche se attraverso questo risultato
non riesco a determinare quale sia la vera causa (quindi questo risultato non ha valore da un punto di vista
ontologico) è vero però che B favorisce A da un punto di vista epistemologico perché è evidente che
comprando la Ferrari e vestendo bene riesco ad “acchiappare” quindi questo assume un valore dal punto di
vista epistemologico; attraverso l’aumento della probabilità non sarò in grado di dire con certezza che essa
rappresenta la vera causa (ontologico) ma quanto meno esso mi determina una via, una strategia, un metodo
per raggiungere la vera causa. Salmon addirittura parte dalla teorizzazione di Reichenbach e si limita ad
affermare che la causalità non è nient’altro che l’aumento della probabilità.
Dobbiamo però tenere sempre in considerazione che spesso quella che sembra essere la vera causa in realtà
non lo è: a proposito dell’emancipazione femminile per lungo tempo si è creduto che essa fosse
proporzionale alla ricchezza di un paese. In realtà studi recenti hanno dimostrato come non sia la ricchezza
quanto l’istruzione a far aumentare l’emancipazione femminile. Il fatto poi che l’istruzione fosse sviluppata
maggiormente nei paesi più ricchi non deve far cadere nell’errore di considerare i due fattori coincidenti.
Nel caso specifico quello della ricchezza prende il nome di “fattore ombra”. La conclusione è quindi che la
formula sopra riportata non rappresenta uno strumento di verità assoluta e quindi non ha alcun valore
ontologico ma è in grado quanto meno di mettere in luce quali sono i meccanismi attraverso i quali ci si può
avvicinare alla vera causa.
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10. Cos'è la legge scientifica
Le leggi scientifiche (capitolo 2 del libro)
Che cosa è una legge scientifica? (diciamo già da subito che il destino è quello di non essere in grado di
trovare una definizione precisa di legge scientifica!)
Le leggi sono enunciati generali (e questa è una caratteristica che in linea di principio delinea una legge).
Chiaramente non tutti gli enunciati generali sono leggi. Il problema del filosofo è stabilire quale tra tutti gli
enunciati generali (quindi le migliaia di teoria formulate) si possa fregiare del titolo di “legge” (oltre
chiaramente ad essere una teoria vera). Facciamo un esempio; l’enunciato:
“non esiste in natura una palla d’oro di 10 tonnellate” è un enunciato vero ma non una legge scientifica
perché potrebbe anche succedere che un ultra miliardario decida di crearla.
Invece l’enunciato:
“non esiste una palla d’uranio arricchito di 10 tonnellate” è un enunciato vero e anche una legge scientifica
perché non è fisicamente e chimicamente possibile creare una palla tanto grande poiché essa esplode molto
prima di raggiungere le 10 tonnellate e questo descrive un pezzo di mondo.
Ecco allora che il legame che si instaura tra un enunciato e una legge non è semplicemente di ordine
“sintattico” ma piuttosto di tipo “semantico” e “ontologico”.
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11. Van Fraassen, Pargetter e la legge scientifica
Ecco allora che il legame che si instaura tra un enunciato e una legge non è semplicemente di ordine
“sintattico” ma piuttosto di tipo “semantico” e “ontologico”.
Hume aveva sostenuto che le leggi non sono nient’atro che enunciati generali e un enunciato non si
differenzia dall’altro se non per una maggiore o minore generalizzazione.
Van Frassen ha fatto un passo avanti sostenendo all’interno di questi enunciati generali (caratterizzati da una
regolarità persistente) esistono delle distinzioni:
enunciati occasionali che nonostante siano caratterizzati da una regolarità persistente non ci permettono di
poter parlare di legge
enunciati nomologici che oltre a presentare regolarità possiedono caratteristiche che distinguono nettamente
un enunciato dall’altro
Il prof. supera questa impostazione….
Vediamo dunque quali sono che cercano di spiegare il concetto di legge distaccandosi da Hume. È bene
innanzitutto esplicitare il significato del concetto di necessità.
Una prima risposta è stata fornita da Pargetter: “necessario inteso scientificamente significa riferirlo ad un
insieme di mondi possibili”. Qualcosa quindi è necessario se risulta vero in tutti i mondi possibili. Una legge
allora sarebbe un enunciato vero in tutti i mondi possibili.
Questa definizione però ci aiuta poco perché chiaramente i mondi possibili di cui parla non sono
sperimentabili. Infatti anche dal punto di vista semantico è chiaro che se introduciamo la locuzione modale
“possibili” ci discostiamo dal concetto di “necessità” ed entriamo in un circolo vizioso.
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12. Armstrong e valore ontologico degli enunciati
Armstrong non ha come obiettivo quello di fondare la differenza delle leggi dagli enunciati partendo dagli
enunciati stessi. Egli si rifà ad Aristotele che si riferiva nello specifico al valore ontologico degli enunciati:
quando io enuncio una legge non mi sto riferendo all’insieme degli enunciati che più individui prima di me
hanno verificato. Sto parlando di qualcosa di più: negli enunciati nomologici in realtà io sto cogliendo
qualcosa di essenziale che mi rappresenta “sempre” quell’evento concreto del mondo. Per cui il riassunto
dell’esperienza passata si verifica solo quando gli enunciati si riferiscono ad eventi che non si basano su
caratteristiche essenziali. Il problema che nasce allora è: quali sono queste caratteristiche essenziali?
Aristotele affermava: vedo il cavallo ma non la cavallinità e il problema di capire cosa fosse la cavallinità in
ultima analisi rimaneva un problema aperto. Armstrong seguendo Aristotele ha detto: le essenze sono
presenti quando sono “istanziate” ossia hanno la presenza concreta dell’oggetto. Il discorso quindi come è
evidente slitta così sul piano metafisico.
Un tentativo di risposta è stato fatto da chi ha fatto notare che una legge ha alla base una relazione. Ci deve
ad esempio essere una relazione tra una palla di uranio e 10 tonnellate. Ma il problema che si pone è: chi
garantisce questa relazione? Cosa ci garantisce che questa relazione sia sempre la stessa? Cadiamo così nel
paradosso messo in luce da Platone del “terzo uomo”; ci deve sempre essere un elemento esterno alla teoria,
invariante, che garantisca la relazione tra oggetti o tra concetti; se due eserciti sono lontani l’uno dall’altro 3
km, questo significa che ogni componente dell’esercito A dista tre km da ogni elemento dell’esercito B?
chiaramente no! Quindi non possiamo concludere che dalla relazione tra A e B si possa dedurre la stessa
relazione tra ogni singolo soldato di A e ogni singolo soldato di B! Le essenze quindi non ci aiutano a livello
“individuale”. L’essenza, in questa impostazione che mette al centro la relazione, vale per l’esercito non per
ogni suo singolo componente. Si nota quindi che questo tentativo di risposta crea più problemi di quanti ne
risolve.
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13. Legge scientifica per Mill e Ramsey
C’è un terzo tentativo di risposta proposto da John Stuart Mill e poi sviluppato Lewis, Ramsey Erman: una
legge è un enunciato vero inserito in una teoria. Affrontiamo l’impostazione partendo dai problemi che
pone. Innanzitutto secondo tale impostazione io potrei un qualsiasi enunciato generale “vero” all’interno di
una teoria. Ma questo senza troppi commenti risulta inaccettabile. Ma Mill dice: vanno accettate solo le
migliori teorie. Una teoria è migliore tra tante possibilità quando è un buon compromesso tra semplicità e
informatività. Il fatto è che la semplicità è inversamente proporzionale alla informatività. Una teoria risulta
allora essere buona quando viene infranta questa antitesi. Queste considerazioni maturano con la riflessione
di Ramsey con il quale si arriva a questa definizione di legge: si tratta della teoria migliore che riesce a
trovare un buon compromesso tra semplicità e informatività.
L’idea che salta fuori allora è questa: le leggi sono enunciati inseriti in una teoria. Ma questa idea è
assolutamente inconcludente.
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14. Kuhn e la legge scientifica
Kuhn è antipopperiano: lui fa chiaramente notare che non ha senso l’idea di Popper di buttar via una teoria
quando essa viene falsificata: molti scienziati infatti non pensano neanche lontanamente di buttar via
un’intera teoria, anche se falsificata, finché non se ne trova una migliore che la sostituisca. È per questo che
secondo il filosofo, il falsificazionismo da solo non basta. Una buona legge sarà allora F=MmG/r2. Questa è
una buona legge perché riesce ad essere semplice e al tempo stesso ci informa effettivamente su un pezzo di
mondo e in generale su molte cose. Questo è quindi un buon strumento epistemico (ossia di conoscenza e
interpretazione della realtà) e non ontologico (come ad esempio avrebbe voluto Lewis che di fronte ad una
legge semplice e generale come quella di gravitazione universale ha parlato di necessità) anche se bisogna
ammettere che al suo interni essa porta con se anche un valore ontologico dal momento che rappresenta una
descrizione di come “effettivamente” funziona quel pezzo di mondo.
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15. Cartwright e la legge scientifica
È bene però fare attenzione a non cadere nell’errore di considerare tutte le leggi dello stesso valore e quindi
tutte uguali tra loro per il fatto che possiedono necessariamente qualcosa di comune. A sfatare ogni dubbio è
stata la Cartwright in un suo scritto “Come le leggi della fisica mentono”. La studiosa prende in esame il
pendolo e la legge che descrive l’isocronia delle oscillazioni. Dato che tale legge è più fondata su calcoli
matematici che su prove fisiche e sperimentali si chiede: chi mi assicura che la legge che ho trovato
attraverso una serie di astrazioni matematiche rispecchia e descrive esattamente il meccanismo del pendolo?
Questa obiezione, giusta, serve a farci riflettere sul fatto che nonostante ci troviamo di fronte ad una legge a
tutti gli effetti, questa differisce di molto da quella precedente per il suo scarso legame diretto con la realtà.
Resta il fatto però che questi tipi di leggi con le loro astrazioni vengono accolte e utilizzate come tali perché
nonostante la loro origine sia più squisitamente matematica, spiegano molto bene un numero enorme di
fenomeni che tra l’altro spesso hanno magari poco a che fare con l’ambito all’interno del quale sono nate.
Concludendo questo argomento facciamo ancora riferimento a Van Frassen che è stato colui che ha
confutato tutte le impostazioni fin qui viste a proposito del concetto di legge scientifica. Nella sua pars
costruens egli sviluppa un’idea secondo la quale la scienza non va alla ricerca di leggi ma di simmetrie.
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16. Definizione di simmetria per Weyl
La prima definizione di “simmetria” è stata proposta da Herman Weyl che negli anni 50 scrive un libricino
proprio dal titolo Simmetrie. Secondo l’autore dello scritto una simmetria è un’invarianza rispetto a una
trasformazione (definizione che riguarda l’aspetto qualitativo). Il cerchio è ad esempio che da l’idea di una
simmetria: se ad esempio la trasformazione coincide con la rotazione del cerchio si vede che esso rimane
esattamente identico prima e dopo. Weyl ha notato anche un’altra cosa: l’insieme delle trasformazioni
rispetto all’invarianza ha certe proprietà algebriche precise cioè è un gruppo1.
Questa definizione può funzionare: ma quale problema pone? Nonostante siamo passati da un concetto vago
ad una sua esplicazione (il che è sempre un grosso passo avanti) questa risulta essere incompleta. Esistono
delle simmetrie che non sono riconducibili al concetto di gruppo; un esempio è immaginare un cerchio con
tre interruzioni nella circonferenza: questa figura può risultare simmetrica per certi versi ma non rispetta la
definizione di Weyl.
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17. Definizione di gruppoide nel concetto di simmetria
Per ovviare a questo problema è stato introdotto un nuovo concetto ossia quello di “gruppoide”. In questo
modo la definizione di simmetria diventerebbe: invarianza rispetto ad una trasformazione che ha la struttura
algebrica di un gruppoide. Tutti i gruppi sono gruppoidi ma non viceversa. Al di là della specifica differenza
tra i due concetti quello che ci preme giustificare è l’affermazione di Van Frassen secondo cui la scienza non
cerca leggi ma simmetrie. Tale affermazione è giustificata dal fatto che effettivamente si è notato come,
partendo da un livello molto semplice quale può essere lo spazio unidimensionale (rappresentabile su una
retta) attraverso il quale ipoteticamente scegliamo di descrivere il mondo e affermando quindi che basta un
solo numero a descrivere la posizione di un oggetto (non le sue caratteristiche, perché per queste dobbiamo
necessariamente aggiungere altri valori) tra un numero e l’altro esistono delle simmetrie ossia non sono gli
uni completamente slegati dagli altri. Tale discorso può essere utilizzato anche a livello atomico e
molecolare. Nel momento in cui quindi io scorso simmetrie a livello molecolare, conosco pezzi di mondo ed
inoltre sono anche in grado di prevederne il comportamento.
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18. Teoria scientifica coerente e empiricamente significativa
Ci poniamo un altro problema: che cosa è una teoria scientifica. La prima cosa che dobbiamo tenere
presente è che scientifico non coincide con vero. Scientifico potrebbe essere sinonimo di ponderato,
prudente, valutazione prudente. Una teoria scientifica è una teoria che può essere indagata razionalmente.
Una teoria può dirsi scientifica quando innanzitutto è enunciata con un certa esattezza. Inoltre essa deve
essere coerente ed empiricamente significativa. Coerente vuol dire che essa non deve al suo interno
contenere contraddizioni. Se così fosse, in una teoria dove l’enunciato A è non A è vero, tutte le
affermazioni finirebbero per essere vere e non avremmo nessun motivo per ammettere che una teoria così
sia scientifica. La contraddizione può essere accettata all’interno di una “situazione cognitiva” non di una
singola teoria. Una situazione cognitiva è l’insieme di credenze che si sviluppano in un dato momento
storico a partire dalle teorie accettate che sono state sviluppate fino a quel momento. La situazione cognitiva
che oggi viviamo è ad esempio piena di teorie contraddittorie che però sono in grado di spiegare pezzi di
mondo differenti o i medesimi con procedimenti diversi. Ma quello che è più interessante è che la teoria
deve essere empiricamente significativa ossia controllabile.
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19. Essenza della realtà e visione a clessidra
E a proposito di ciò saltano fuori due problemi:
che cos’è la realtà? In prima istanza diciamo semplicemente che è ciò che ci circonda. Ma lo scienziato non
si occupa della realtà solo ed esclusivamente nel suo aspetto nudo e crudo, ma sulla base di “dati
sperimentali” che si portano dietro tutta una loro problematica e non possono essere in alcun modo fatti
coincidere con la realtà in sé e per sé. I dati sperimentali infatti sono anch’essi carichi di teorie perché
presumono un approccio ben definito al mondo piuttosto che un altro.
Ma la cosa ancora più interessante è che la scienza non si basa solo su dati sperimentali, ma anche su entità
non tangibili (elettroni, campi magnetici) quindi la scienza ha a che fare con un apparato teorico che non
sempre è direttamente determinabile a partire dalla realtà.
Una domanda allora nasce spontanea: qual è la differenza tra la MQ e l’astrologia? Perché la MQ è, con i
dovuti rappezzamenti, considerata una teoria più o meno scientifica mentre l’astrologia affatto pur basandosi
entrambe su termini fortemente teorici? La risposta ci viene data utilizzando i due criteri sopra citati.
Per comprendere a pieno come sia possibile discernere tra una teoria scientifica e non, un buon metodo è
quello della visione a clessidra. La scienza sarebbe una clessidra che ha alle estremità da una parte la pura
esperienza sensoriale e dalla parte opposta le teorie; al centro nella parte che si restringe e dove le due
piramidi si incontrano, stanno i dati sperimentali.
teorie
dati sperimentali
esperienza
Nella rete teorica alcuni concetti sono legati ai dati sperimentali, altri invece possono non esserlo (i
cosiddetti “termini teorici”); ad esempio il termine teorico “lunghezza” è abbastanza ancorabile ai dati (non
direttamente all’esperienza perché cmq lunghezza presuppone un calcolo misurativo anche se molto
semplice) mentre il concetto di forza o velocità non lo sono in maniera diretta.
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20. Bridgman. Dall'esperienza ai dati sperimentali
Noi per il momento ci occupiamo della metà bassa della clessidra. Bridgman ha scritto un libretto dal titolo
“La logica della fisica moderna” nel quale sostiene che nella scienza i suoi concetti devono tutti essere
ricondotti a delle operazioni (e quindi rientrerebbero tutti nel gruppo dei termini teorici). Ma le operazioni
cosa sono? Prendiamo la lunghezza: anch’essa è una serie di operazioni (se pur semplici si deve stabilire una
unità di misura dopodiché prendere tale unità e misurare ciò che ci interessa). La velocità invece implica un
calcolo un po’ più astratto perché ha a che fare molto di più con la matematica. A questo proposito
Bridgman ci fa notare che passare dall’esperienza ai dati sperimentali non è né solamente un fare pratico, né
solamente un passaggio teorico, ma entrambe le cose. Se ci riferiamo invece alla parte alta della clessidra
secondo B. tale passaggio è irrilevante, non da considerare.
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21. Carnap. Logica e similarità parziale
Carnap nello stesso periodo propone un tentativo puramente intellettuale; a proposito del passaggio
dall’esperienza alla teoria (o meglio ai concetti da utilizzare per costruire una teoria) egli sostiene che essa
avvenga attraverso strumenti puramente logici(riferendosi alla logica di Frege). Alla base del pensiero di
Carnap c’è quindi la logica. L’idea è questa: abbiamo dei dati sensoriali A e B legati tra loro da una
relazione (Er = relazione) intesa come ricordo di una similarità parziale (ad esempio il mio maglione rosso
con il rossetto di una donna). Carnap con questa relazione vuole arrivare a spiegare tutti i concetti della
scienza, fino a quelli più generici.
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22. Critica di Goodman alle similarità parziali di Carnap
La relazione che c’è tra i tre suoni è sempre una relazione parziale. Quindi noi dovremmo concludere che a
partire da tali relazioni parziali noi siamo in grado di riconoscere il suono. Ma questo non è vero. E l’errore
sta nel confondere il suono, che è ciò che noi percepiamo con i sensi, e le sue proprietà fisiche attraverso le
quali si può instaurare una relazione. Se il suono è l’insieme di timbro altezza e intensità (che noi
percepiamo con i sensi) ogni di queste caratteristiche ha qualcosa di fisico (il timbro è ciò che caratterizza
uno strumento ma fisicamente esso è la forma dell’onda, così come l’altezza è ciò che i nostri sensi
percepiscono ma è fisicamente la frequenza del suono). Confondere le due cose significa cadere in un grosso
tranello: tra un “maglione” e un “maglione rosso” c’è un salto gigantesco perché “rosso” non è una proprietà
fisica ma sensoriale. Nonostante Carnap provi a dare una soluzione (riportare a fattor comune due elementi
con caratteristiche comuni) non risolve il problema della distinzione tra caratteristiche fisiche di un elemento
e sensoriali. Quindi la procedura del ridurre a insiemi pezzi di mondo che hanno similarità parziali è
scorretta. Egli insomma non riesce a definire il “concetto” senza cadere in un circolo vizioso (dato che il
concetto è ciò che mette insieme, racchiude oggetti e gruppi di oggetti in un insieme comune). Quindi
nonostante noi le proprietà le conosciamo non riusciamo a definirle. Dunque l’unico modo per uscire da
questo problema sarebbe quello di tornare alla metafisica; Aristotele spiega il rapporto tra il maglione e il
rossetto attraverso il concetto di essenza del rosso. Ma Carnap è un nominalista e non accetta questo ritorno
alla metafisica rimanendo intrappolato nel concetto di concetto. Goodman allora arriva alla conclusione che
le proprietà sono convenzionali: io prima definisco il rosso in un certo modo, e poi vado a cercare quel
concetto, così come l’ho espresso, negli oggetti chiamando rossi quelli che si conformano alla mia
definizione. Anche questo è un atteggiamento nominalista e nonostante venga in parte abbracciato anche da
Goodman egli ne intuisce i limiti. Per uscirne egli infatti dice che le proprietà è il ricercatore che deve
crearle: se esse vanno bene, vengono mantenute altrimenti scartate. E questo lo fa perché non vuole in alcun
modo cadere nel platonismo che risolverebbe il problema ma considera le proprietà come delle essenze,
insite negli oggetti (ad esempio nell’in sé del rossetto ci sta che sia presente la proprietà-essenza del rosso).
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23. Kant e le categorie a priori
Kant nei confronti di questo problema si poneva così: qualsiasi essere senziente nel momento in cui
percepisce il mondo, lo percepisce secondo delle categorie che sono insite nell’intelletto umano, ossia a
priori e che quindi sono uguali per tutti. Anche in questo caso c’è una vena di platonismo in virtù del fatto
che si teorizza una categorizzazione dell’intelletto che segue principi a priori uguali per tutti, quindi ideali. I
post-kantiani, per rispondere a questa condanna di platonismo, hanno poi parlato di “individuo empirico”
affermando con tale espressione che la capacità di categorizzare uguale per tutti gli uomini non ha dei
fondamenti metafisici ma parte dalla struttura empirica del soggetto che categorizza.
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24. Hempel e la visione accettata. Termini osservati e termini teorici
Fallito allora il tentativo di partire dal basso (tecnica del bottom up) cioè dall’esperienza per arrivare alle
teorie passando per i dati sperimentali (che sono una liofilizzazione dell’esperienza) si è arrivati alla
conclusione che il procedimento da seguire è quello top – down cioè costruiamo una teoria e poi andiamo a
vedere se essa descrive uno o più pezzi di mondo attraverso il riscontro empirico e la raccolta di dati
sperimentali. È certo che ci sono molte scienze fortemente induttive come la geologia. Ma le teorie più
straordinarie sono teorie top-down e cioè sono ipotesi che poi si rivelano funzionare in maniera
straordinaria. Le teorie dunque non vengono prodotte a partire dai dati sperimentali; questi invece vengono
prodotti dall’esperienza attraverso processi materiali, induttivi. La vera scienza è quindi che partendo
dall’esperienza raccoglie dati teorizzando. Questo vuol dire che i calcoli che facciamo a partire
dall’esperienza e con i quali raccogliamo i dati sperimentali sono sempre fatti contemporaneamente alla
costruzione di un’ipotesi e all’interno di essa. I calcoli infatti sono sempre fatti a partire dall’ipotesi che
formuliamo ma al tempo stesso sono strettamente legati all’esperienza. È per questo che l’ipotesi e
l’esperienza diretta di incontrano nel “dato sperimentale” che è appunto il frutto del calcolo veicolato dalla
teoria di ciò che si raccoglie nell’esperienza. È in questo caso che si giunge con Hempel alla “Received
view” o visione accettata.
La visione accettata introduce a proposito della teoria una distinzione importante che è quella tra termini
osservati e termini teorici. Nel primo caso si tratta di termini che la teoria introduce e che hanno un
collegamento diretto con i dati sperimentali; nel caso dei termini teorici siamo invece di fronte a termini che
la teoria introduce per dare coerenza ad essa stessa e che quindi non hanno un legame diretto con i dati
sperimentali (quindi i calcoli che provengono dall’esperienza) ma solo mediato dai termini più vicini ai dati:
Nella rete teoria i termini che stanno qui sono teorici cioè non legati ai dati diretti.
TEORIA DATI SPERIMENTALI
I termini osservativi sono quelli che stanno molto vicino ai dati
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25. Conoscenza umana. Stato mentale e stato fisico
Fondamentale per affrontare questo problema è l’articolo di Donald Davidson “Mental events” (1970) e
anche l’articolo di Kim “Psychological laws” che è quasi una traduzione in termini più semplici dell’articolo
di Davidson. Entrambi sostengono che le credenze dell’uomo dipendono necessariamente dalla struttura
chimica del cervello. Ma il prof. Fano si allontana da questa impostazione e a suo avviso si devono
introdurre quattro concetti che sono in grado di chiarificare la questione: emergenza, sopravvenienza, stato
fisico e stato mentale. Quest’ultimo è un temine teorico che vuole semplicemente esprimere ad esempio il
desiderare l’acqua di un uomo nel deserto, senza cercare legami con la struttura psichica di quell’uomo; è
chiaro che lo stato mentale dell’esempio è conseguenza di uno stato fisico che riguarda invece la struttura
biologica del nostro organismo: il caldo e la sudorazione creano lo stato mentale del desiderio dell’acqua. A
questo punto dobbiamo fare una attenzione a distinguere tra l’emergenza di un evento A da un altro evento
B e la sopravvenienza tra A e B. Che “A emerge da B” vuole dire che “A non si da mai senza B”, cioè esiste
una correlazione statistica tra i due eventi. Se c’è A allora ci deve essere anche B. questo però (attenzione!)
non vuol dire che B sia la causa di A; l’emergenza dice solo che se accade A sicuramente accadrà anche B.
dunque l’emergenza non crea la legge che lega A e B ma fa solo una constatazione di fatto. Dire invece che
“A sopravviene a B” significa dire senza B non esiste A. Qui allora non si tratta più di una correlazione
statistica ma siamo di fronte a una legge. B sarà condizione necessaria e sufficiente perché A non solo si
verifichi ma sia. In relazione al nostro discorso e cioè il problema del rapporto mente-corpo dunque
potremmo concludere che noi siamo autorizzati a sostenere che uno qualsiasi stato mentale M emerge da
uno certo stato fisico F (non posso elaborare il desiderio di bere senza un cervello fisico) ma non che
sopravviene allo stato fisico, perché non conosciamo nessuna legge scientifica che ci spieghi che si tratta di
una correlazione causale (ossia che il trovarsi nel deserto mi faccia venire il desiderio di bere).
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26. Frege e il linguaggio. Senso e riferimento
Quando noi asseriamo qualcosa utilizziamo quella che viene chiamata funzione apofantica detta anche
dichiarativa o assertiva. Un’asserzione è ad esempio “a è A”. questa è un’asserzione a prescindere che sia
vera o falsa. L’asserzione quindi prescinde dalla verità o falsità. Se però vogliamo fare un passo verso il
mondo ci chiediamo: come facciamo a stabilire la sua verità? Come possiamo controllare questo enunciato?
Cosa lega il linguaggio al mondo? Frege ha chiamato questo legame con il mondo senso (sinn in tedesco)
ossia la maniera in cui noi ci leghiamo al mondo attraverso il linguaggio. Il senso non va confuso con il
riferimento o significato (in tedesco Bedeutung che si legge bedoitung) che invece sarebbe l’oggetto.
Passando da un semplice nome proprio (come ad esempio tavolo) ad un enunciato che descrive il nome
proprio come si instaura il legame con il mondo? Mentre il nome “tavolo” ha una corrispondenza diretta con
l’oggetto reale nel mondo, l’obiettivo dell’enunciato è quello di stabilire la verità o falsità di qualcosa che
riguarda l’oggetto “tavolo”. Il riferimento quindi coinciderà con la verità o falsità di un enunciato, mentre il
senso sarà la maniera di controllare l’enunciato.
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27. Frege. Verità e falsità di un enunciato
Da questi presupposti scaturiscono due vie: chi è realista e dice che la verità o falsità degli oggetti dipende
solo dal mondo; mentre chi è verificazionista afferma che vero e falso sono due proprietà modali
linguistiche che possono essere attribuite solo ad enunciato che descrive la realtà e quindi controllabile.
Frege si pone il problema del linguaggio a partire dalle considerazione che abbiamo fatto poco sopra a
proposito della rete teorica e della presenza in essa di termini teorici che non sono direttamente ancorati ai
dati sperimentali. A suo avviso noi sia autorizzati ad utilizzare solo enunciati che hanno “senso” ossia sono
controllabili se vogliamo considerarli enunciati scientifici.
Presto però ci si rese conto che utilizzando questo principio si doveva buttare via buona parte della scienza,
perché in tal modo Frege brucia completamente tutta la metafisica che è invece indispensabile alla
teorizzazione e di cui la scienza si era servita fino a quel momento per progredire. È importante però
sottolineare che tutta la “metafisica” che introduco all’interno di una teoria deve anche essere fortemente
ancorata alla teoria, cioè deve essere rigorosamente coerente con tutto l’apparato teorico. In fondo il
tentativo di Frege è apprezzabile perché egli voleva evitare che all’interno di una rete teorica si potesse
introdurre di tutto. La soluzione che da butta via con l’acqua sporca anche il bambino.
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28. Olismo semantico di Quine e Putnam
Oggi infatti, seguendo la visione accettata, i siamo ben coscienti del fatto che la domanda che dobbiamo
porci non è “che senso ha un singolo enunciato” (quindi in termini freghiani che legame ha con il mondo)
ma “che senso ha un enunciato all’interno di una rete teorica coerente”. Questo è il passo in avanti che è
stato fatto da Quine e che ha dato vita a quello che prende il nome di olismo semantico.
Negli anni ’60 succede un fatto importante: Puttnam scrive un articolo: “Cosa le teorie non sono”. La tesi è
questa: la received view descrive le teorie scientifiche non per come sono fatte. La scienza non è fatta così
come la visione accettata la descrive (cioè la clessidra descritta sopra). Egli però non dice mai cosa la
scienza è ma solo cosa a suo modo di vedere non è.
Di li a poco anche Quine in qualche modo seguirà questa linea sostenendo una sorta di “naturalizzazione
della scienza” che porta avanti l’idea secondo cui il filosofo della scienza non deve dire come la scienza
dovrebbe essere, ma deve limitarsi a riflettere su come essa è. Cioè dall’articolo di Puttnam in poi si
sviluppa l’idea che il filosofo che si occupa di scienza non deve dare dei modelli riguardo al modo di essere
della scienza, cioè la sua riflessione non deve in alcun modo essere normativa.
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29. Teoria scientifica in Van Frassen, Suppes e Giere
In realtà questo è proprio quello che un filosofo della scienza deve fare: l’obiettivo è quello di
problematizzare per giungere a formulare concetti normativi. Ed è a partire da questa consapevolezza che
Van Frassen, Suppes hanno cercato di dirci cosa una teoria è, seguendo il criterio opposto a quello che aveva
seguito Puttnam. A cosa ha portato questa impostazione “positiva”? La scienza non è un fatto linguistico ma
è un utilizzo di modelli (il che a detta del prof. è assolutamente vero). Non per niente la parte più ostica per
il filosofo della scienza è quella della fisica contemporanea perchè non si basa su dei modelli definiti ma è in
progress, in fieri, li sta cercando.
Giere afferma allora che una teoria scientifica è un insieme di modelli che possono essere presi come
strumenti esplicativi del mondo; ogni modello è capace di spiegarmi pezzi di mondo.
La conclusione a questo discorso può quindi essere questa: con Carnap diciamo che se vogliamo capire cosa
la scienza sia, la received view rimane la risposta migliore ad oggi. Se ci chiediamo invece come la scienza
funziona, allora la teoria dei modelli risulta l’impostazione più realistica per spiegare come la scienza agisce,
ossia creando modelli e provando a vedere se coincidono con pezzi di mondo, ossia li descrivono bene.
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30. Heidegger e la verità nella scienza
Cos’è la verità. Il problema che ci poniamo è carattere normativo. Partiamo dalle situazioni comuni: “Il
pennarello è sul tavolo”. Questa asserzione può essere vera o falsa. Se dico che questo enunciato è vero
significa che facendo determinate operazioni ottengo certi risultati che mi confermano che il pennarello è sul
tavolo. C’è dunque un legame strettamente pragmatico tra l’enunciato e la sua verità o falsità, perché questa
dipende da un’osservazione pratica. In questo caso la verità non ha nulla di intuitivo o metafisico. Non
dimentichiamoci che gli enunciati che possono essere veri o falsi sono solo quelli apofantici o dichiarativi (o
assertivi). In effetti però il problema è ancora più alla radice: cosa è vero? Enunciati, enuncianti, pezzi di
mondo? Cioè cosa è che si fa portatore di verità? È bene fare una precisazione e cioè che noi stiamo
affrontando il problema a partire da un impostazione semantica, cioè concentrandoci sugli enunciati. Ma
questa non è l’unica pista che si può seguire. Heidegger ad esempio smonterebbe questa impostazione
perché sostiene che i pezzi di mondo hanno una loro esistenza e quindi una loro falsità o verità a prescindere
dal loro rapporto che instaura con il soggetto conoscente. Quindi il portatore di verità è il pezzo di mondo in
sé e per sé e non l’enunciato che io costruisco. Alla luce dell’impostazione di H. ci chiediamo: questo modo
di procedere che mette in primo piano gli enunciati esaurisce il concetto di verità? La sensazione è che non
sia così. Infatti delle volte succede che la scienza non proceda per enunciati, ma ad esempio intuitivamente.
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31. Teoria scientifica e teoria della corrispondenza
A questa impostazione che mette in primo piano gli enunciati si accosta la teoria della corrispondenza
secondo la quale affinché un enunciato come “il pennarello è sul tavolo” sia un enunciato vero deve esiste
una corrispondenza tra l’enunciato e il pezzo di mondo. Questa teoria pone subito diversi problemi alla
nostra attenzione: intanto dovremmo chiederci a cosa corrisponde nella realtà la copula”è”; cioè la copula è
dovrebbe descrivere una condizione di esistenza? E a cosa corrisponde questa condizione di esistenza a
livello fattuale? Dovrebbe esistere un fatto che corrisponde “all’essere del pennarello” In secondo luogo
come ci comportiamo nel caso in cui all’interno della nostra teoria inseriamo un termine teorico? A cosa
corrisponde partendo dal presupposto che esso è teorico?
Nonostante questi problemi la teoria della corrispondenza non è una teoria da buttar via. Introduciamo
seguendo Davidson il concetto di condizione di verità diversa dall’accesso alla verità. Se noi facciamo una
distinzione tra il fatto che un pezzo di mondo “sia” e il nostro modo di accedere a questo pezzo di mondo e
quindi dire “come” dovremmo in teoria fare un passo avanti verso un approccio più pragmatico alla realtà.
Rimaniamo cmq perplessi anche dopo questa distinzione; è per questo che molti filosofi hanno abbandonato
questa ipotesi corrisp
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32. Definizione di coerentismo
Kant, Berkley, Bradley sono tra quegli autori che si sono accostati al coerentismo. Kant nella Critica della
ragion pratica esprime un’idea che è apparentemente corrispondenti sta, ma in realtà sfocia nel coerentismo.
Egli afferma che la realtà intesa come oggetto in sé rimane fuori dal mio esame nella ricerca della verità; la
verità io la colgo attraverso i miei processi intellettivi. Parto certamente dalla realtà ma la mia conoscenza si
stru$ttura attraverso le mie categorie intellettive. L’idea parte dal presupposto dell’inacessibilità dell’in sé
del mondo e quindi della verità intrinseca delle cose. Ecco allora il coerentismo di Kant: l’enunciato deve
esprimermi una coerenza con il modo attraverso il quale io strutturo il mondo intellettivamente. E qual è
questo “modo”? La comparazione tra più enunciati. Essere vero sarà allora uguale “all’essere coerente di un
enunciato con gli altri enunciati formulati dall’intelletto umano” (che ha strutture comuni1). Un enunciato
allora non sarà vero se contrasta con tanti altri enunciati che noi consideriamo veri.
Ma qual è la base del coerentismo? I dati sperimentali. Questa è l’impostazione soprattutto di Henpel e
Carnap. Sono veri tutti quegli enunciati che sono coerenti con i dati sperimentali certo è vero cmq che i dati
sperimentali possono anche essere rivedibili, anche se mantengono una base abbastanza solida). Il problema
del coerentismo è che spesso i dati avvalorano più di una teoria e quindi non si riesce a stabilire quale sia
quella vera o quale la migliore. Ma il problema più grande per la scienza rimane sempre quello della
presenza di termini teorici all’interno di una teoria che nulla hanno a che fare con i dati. Il problema in
questo modo si sposta dalla “verità del mondo” alla “verità dell’accesso al mondo”: il fatto che io non sia in
grado di cogliere non vuol dire che ciò che non colgo non sia vero.
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33. Definizione di deflazionismo
Oggi la teoria che va più di moda è quella del deflazioniamo. Dire “P è vero” o dire “P” per il dflazionismo
è dire la stessa identica cosa. Il predicato “è vero” è assolutamente ridondante, cioè non ci dice nulla no
aggiunge niente di nuovo. Asserire è già affermare che è vero: Dire “P è a” è già affermare che “è vero che P
è a”. Il deflazioniamo afferma che la validità di un’asserzione dipende da chi la pronuncia cioè dalla sua
attendibilità. Ma qual è il limite di questa teoria anche se ultimamente è la più diffuda?
Dummett fa un’obiezione (che in fondo è anche banale): quando enunciamo qualcosa noi enunciamo il suo
senso (egli è un verificazionista) ossia l’enunciato lo leghiamo alla sua verificazione-controllo. La verità
scaturirà da questa nostra operazione di controllo. Se facciamo coincidere l’asserzione di un enunciato (ossia
il semplice fatto che noi costruiamo un enunciato) alla sua verità noi svuotiamo completamente di senso il
concetto stesso di verità. Piuttosto il concetto di verità può coincidere o meglio scaturire dalla verifica
dell’enunciato da noi formulato.
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34. Verità come intuizione. Sellars e la negazione dei dati sensoriali
La fisica accettata oggi oscilla tra platonismo e strumentalismo. Ma entrambe prese da sole sono
assolutamente inconcludenti. La scienza da una parte non può prescindere dai alcuni tratti metafisici,
dall’altra non può far riferimento e fondarsi solamente su una serie di operazioni matematiche senza che
esse si basino su una rete teorica e dentro di essa s muovano. Dobbiamo certamente partire dall’esperienza e
fidarci almeno un po’ dei nostri sensi, unire questi a delle teorie e ottenere così dei buoni dati sperimentali
che sono la base per uno sviluppo produttivo della scienza. È per questo motivo che dobbiamo anche
considerare il problema della percezione. Un articolo importantissimo è stato scritto da Wilfrid Sellars,
“Empirismo e filosofia della mente”. La prima parte del testo parla del mito del dato: quelli che sono i dati
sensoriali (su cui si è basato l’empirismo) non esistono. Per due motivi afferma l’autore:
Io vedo il dato sensoriale e ciò che vedo è solo un immagine proiettata nel mio cervello che recepisce
l’oggetto, senza però cogliere l’oggetto per quello che realmente esso è.
Inoltre il contenuto della percezione non esiste. Infatti nel momento in cui dico: “i capelli di Daniela sono
castani” io ho fatto un salto enorme perché sono certo di vedere i capelli di Daniela castani, ma non sono
altrettanto certo del fatto che i capelli di Daniela siano castani.
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35. Verità e intuizione. Teoria della decoerenza
Ora il problema è capire se questo passaggio dalla percezione all’ontologia delle cose è possibile o no.
Chiaramente Sellars afferma che questo passaggio è impossibile. Il prof. invece ci invita a fare una
distinzione che può aiutarci: dobbiamo distinguere tra la percezione iniziale (quindi in parte approssimativa)
e i calcoli e le prove che faccio per capire se la percezione che ho avuto è corretta oppure no. È quindi
importante distinguere tra una rappresentazione e un giudizio. Una cosa è dire “quest’albero mi sembra
verde” e poi controllare attraverso operazioni la mia rappresentazione; altra cosa è dire, sulla base della
percezione “questo albero è verde”. Il giudizio è possibile darlo non certo sulla base della sola percezione
ma dopo aver compiuto i dovuti calcoli. Quindi la percezione qualcosa da cui non si può prescindere, ma
che certo da sola non può essere un criterio di verità.
La scienza da un certo punto in poi ha cominciato a inserire all’interno delle teorie entità non controllabili
(da Galileo in poi è questo il platonismo nella scienza di cui si parla). Questo allora ci autorizza sempre ad
inserire entità non controllabili attraverso i termini teorici? Il nel libro propone questo: si, è possibile inserire
termini teorici all’interno di una teoria, che descrivano entità non rappresentabili e quindi pretendano di
rappresentare pezzi di mondo, a condizione che i pezzi di mondo di cui si parla siano intuitivamente
rappresentabili. Intuitivamente rappresentabile, per evitare che essa sia un’espressione troppo vaga, va intesa
come la possibilità che esista o sia ipotizzabile un essere senziente che sia in grado di cogliere quel pezzo di
mondo che l’entità teorica pretende di rappresentare. Riguardo ad esempio l’elettrone, è possibile pensare
che la realtà sia strutturata secondo il modello degli orbitali? In effetti questo risulta difficile.
Per questo motivo era stata sviluppata la cosiddetta teoria della decoerenza che voleva cercare di spiegare il
motivo per il quale, nonostante la realtà si strutturi per nuclei ed elettroni orbitanti, noi non siamo in grado di
percepirla per come essa effettivamente è. Tale teoria ha però fallito nel suo intento. Oggi infatti con le
conoscenze che abbiamo non ci è possibile ipotizzare un essere senziente in grado di cogliere la realtà in
questo modo.
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36. Falsificazionismo. Popper e neopositivisti
La filosofia della scienza nasce con il circolo di Vienna (Carnap). Popper ha scombussolato in più parti il
positivismo. Ha sostituito il principio di verificazione con il principio di falsificazione. Popper fa rientrare
dentro la filosofia la storia che i positivisti avevano voluto accantonare. Se un enunciato non è verificabile
non ha senso, dicevano i positivisti. Ma già questa affermazione è a tratti tremenda! Perché se ci pensiamo
bene nessun enunciato è completamente verificabile, se non i più elementari. Il concetto di verificazione è
piuttosto ideale. I neopositivisti facevano già un passo avanti non parlando più di verificazione ma di
controllo. Popper nota una cosa molto semplice: se io dico che “tutti i cigni sono bianchi” anche
presupponendo di avere un ottimo strumento di controllo, non avrò mai la certezza che non ci sia almeno un
cigno nero e io non l’abbia mai visto. Quindi qualsiasi enunciato universale (di cui la scienza si nutre) non è
mai verificabile al 100%; lo stesso non si può dire della falsificazione perché qualsiasi enunciato io esprima
è falsificabile, cioè niente mi impedisce un giorno di trovare un cigno nero. Per cui il falsificazionismo è
metodologicamente molto più forte ed efficace. Il compito dello scienziato sarà allora quello di fare di tutto
per falsificare una teoria. Se questo non dovesse avvenire allora sarà possibile affermare di essere di fronte
ad una legge. Lui parte da un presupposto molto corretto: tutte le teorie sono potenzialmente false: se
vogliamo essere rispettosi nei confronti dell’essere non dobbiamo spendere energie per confermare un
bagaglio già acquisito (perché tra l’altro correremmo il rischio di veicolare le nostre verifiche verso la strada
che ci è più comoda) ma cercare sempre di superarlo. Questo quindi è un buon modo per non rimanere
incastrati nella rete teorica. Ciò che per la scienza diventa interessante allora, sono le teorie facilmente
falsificabili, cioè quelle che possono essere superate verso una teoria migliore. È questo anche il motivo per
il quale secondo Popper la psicoanalisi non è affatto una teoria scientifica: gli enunciati particolari non sono
quasi per niente falsificabili. Se un paziente dice di avere un disturbo e lo psicanalista da una motivazione a
quel disturbo che magari il paziente non riconosce, perché secondo lo psicanalista il paziente sta applicando
una certa resistenza; ciò che non è falsificabile è la resistenza che lo psicanalista appioppa al paziente. Come
faccio a falsificare un enunciato del tipo: “il paziente ha un disturbo dovuto alla sua infanzia”.
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37. Dal concetto di verosimiglianza a Quine e Kuhn
Falsificare una teoria è arrivare a dire con sempre maggior consapevolezza cosa un pezzo di mondo non è.
Ma questo metodo non ci dirà mai cosa il mondo è, semplicemente perché è impossibile se si vuole
rispettare l’essere del mondo. È la stessa idea che aveva portato avanti Heiddeger: l’essere non può essere
toccato senza tradirlo in parte. La scienza è allora non tanto ricerca della verità ma piuttosto di ciò che è
falso. Ma che garanzie ho che la teoria successiva sia migliore della precedente? P. sviluppa il concetto di
verosimiglianza (da buon corrispondentista): più tentiamo di falsificare una teoria più la teoria che ne viene
fuori risulta corroborata. Più le teorie sono corroborate, più sono vicine alla realtà. Ossia verosimili.
L’induzione non ha alcun valore logico (assolutamente d’accordo con Hume)
Ma questo schema viene decostruito per le sue falle logiche dai filosofi posteriori. I problemi di P. sono
sostanzialmente quelli dei corrispondentisti. Vediamo quali. La scoperta scientifica è la falsificazione
(seguendo lo schema popperiano). Scopriamo qualcosa quando falsifichiamo. Quine ha distrutto questa
impostazione, ma prima di lui Duhem ha posto la critica (1903). Quando andiamo a falsificare una teoria
non è così semplice affermare che una teoria è tutta sbagliata perché non falsificabile. Se un dato della teoria
risulta falso io non butto via tutta la teoria; mi trovo magari di fronte ad un problema a cui forse posso dare
una soluzione e non necessariamente di fronte ad una teoria tutta sballata. Kuhn dirà esattamente questo: non
esiste che butto via un’intera teoria solo perché un dato non funziona perché falsificato. Solitamente si
sviluppa una ipotesi ad hoc. In certi casi addirittura non si riesce nemmeno a trovare una ipotesi ad hoc per
risolvere una parte della teoria e certo non si butta via l’intera teoria, si lavora perché si trovi. Meglio avere
una teoria barcollante che non averne.
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38. Lakatos e il falsificazionismo sofisticato
Lakatos, allievo di Popper, diventa storico della scienza e costruisce quello che è stato chiamato
falsificazionismo sofisticato (1960) alla luce delle critiche di Kuhn. Una teoria è fatta da un nucleo centrale
che possiede un programma di ricerca che deve avere la caratteristica di procedere in avanti. Se questo
programma di ricerca è progressivo, ossia si sviluppa in avanti senza problemi va accettato; se man mano
che progredisce incontra sempre più problemi allora è un programma sbagliato e va buttato via. Anche in
questo caso sia di fronte ad una soluzione poco soddisfacente. Tra l’altro, Kuhn nella sua critica aveva
riflettuto sul fatto che se una teoria iniziale viene di volta in volta aggiustata per evitare che essa abbia delle
lacune, in realtà si finisce per ottenere una teoria che nulla ha a che fare con quella precedente, ma si giunge
a un’altra teoria, e non una teoria più vera, o meno falsa della precedente. Il programma di ricerca, dice L. è
una forma di cintura protettiva all’interno della quale devi necessariamente assumere istanze metafisiche.
Lakatos finisce per salvare il falsificazionismo accogliendo l’impostazione di K.
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39. Feyerabend e la critica a Lakatos
A distruggere tutto ci pensa Feyerabend con la sua opera “Contro il metodo”. Essa è una critica a Lakatos
suo maestro. A suo avviso, tutti i termini teorici inseriti nelle teorie vanno bene purché siano “giustificati”.
Ogni scienziato inoltre può seguire il metodo che ritiene più opportuno.
C’è un ultima falla che va messa in luce del falsificazionismo: come ci dobbiamo comportare di fronte ad
enunciati probabilistici? Se diciamo: “il 70% degli A è B”. Poi proviamo a falsificare e ci accorgiamo che su
1000 A, 699 sono B e 1 non è B. Questo enunciato è vero? Per Popper no! Per la maggior parte degli
scienziati è vero!
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40. Modo probabilistico, principio di indifferenza o ragion
insufficiente
Ciò che rappresenta spesso una buona ragione per giustificare alcune teorie e con esse anche i suoi termini
teorici, è la varietà dei dati osservativi che avvalora quella data teoria. Per esempio la teoria della deriva dei
continenti non è una teoria spiegata fino in fondo, ma l’ipotesi della deriva sembra abbastanza buona perché
è stata confermata non solo da diversi dati osservativi, ma soprattutto dal fatto che questi dati sono vari,
ossia competono a più ambiti diversi o cmq si diversificano di molto per caratteristiche. Inoltre la conferma
inaspettata di una teoria è una delle conferme più forti che una teoria può ricevere. Se la mia ricerca va in un
senso e poi mi porta a scoprire inaspettatamente che l’ipotesi che ho considerato descrive un pezzo di mondo
che non stavo esaminando, sono in presenza di una scoperta straordinaria perché applicabile anche ad un
campo per il quale non era stata pensata.
Oggi, dopo il percorso che i filosofi ci hanno proposto, sembra che il modo di procedere che la scienza
considera più plausibile è quello probabilistico. Carnap (che appartiene al positivismo logico) negli anni 50
afferma: se io conosco l’ipotesi o teoria H e conosco il dato sperimentale e (evidenze), il valore della
probabilità riesco a ricavarmelo logicamente. Questa era la sua idea iniziale; ma cammin facendo si accorse
che la valutazione della probabilità (p) dipende da un parametro che devi scegliere soggettivamente e che
non puoi ricavare logicamente, attraverso un procedimento puramente logico. Il tentativo logico di ottenere
p si trasforma in un processo soggettivistico. Ma il problema che salta fuori da questa impostazione è legato
al cosiddetto principio di indifferenza o ragion insufficiente: dal momento che il criterio di scelta tra una
teoria e l’altra presuppone un criterio soggettivistico, non ho motivo di scegliere tra un’alternativa e l’altra
perché tutte le alternative sono “equiprobabili” cioè hanno lo stesso peso.
La probabilità oscilla tra un calcolo quantitativo (ad esempio 30% contro 70%) o qualitativo (che si bassa
sulla comparazione tra i vari dati ossia “una cosa è più probabile di un’altra).
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41. Calcolo delle probabilità in Bayes
Oggi riguardo al modo di procedere della scienza nell’utilizzo del calcolo delle probabilità, predomina
l’impostazione di Bayes. Egli è convinto del fatto che il soggettivismo non è da considerarsi in maniera
estrema. Bayes afferma che se io scopro una evidenza (e) la probabilità aggiornata che la nostra teoria (H)
sia vera dato e è uguale alla probabilità di H per la prob. di e dato H diviso la prob. di e.
p(H/e) = p(H) p(e/H) questo è il teorema di Bayes banalizzato.
p(e)
Probabilità condizionata: io voglio calcolarmi la probabilità di un evento condizionato da un altro. Facciamo
un esempio. Io lancio un sasso in mezzo alla stanza e sono sicuro che cadrà in una zona che chiamo B. come
faccio a calcolarmi la probabilità che il sasso cada in una striscia di pavimento che chiamo A dato che
sicuramente cadrà in B?
Io voglio calcolare A dato B
B è la condizione
p (a/b) = p(a&b)
questa è la formula che descrive l’intersezione cioè casi favorevoli
p(b)
casi possibili (dove sicuramente cadrà)
[Faccio una piccola parentesi sulla probabilità: se a e b sono due eventi slegati, cioè indipendenti per
calcolare la probabilità che si verifichino entrambi matematicamente si la moltiplicazione p(a&b) = p(a)
p(b). Se invece i due eventi sono legati, in base a quale dei due è condizione dell’altro si usa la formula
p(a&b) = p(a) p(b/a) o viceversa (cioè p(a/b), in base a quale dei due eventi è condizione dell’altro)].
Bene. L’esempio serviva per mettere in luce come va calcolata la probabilità condizionata; questo adesso ci
servirà per dimostrare come la macchina Bayesiana funziona discretamente non solo con gli eventi ma anche
con le teorie in relazione agli eventi.
Poniamo di avere un’urna con 10 palline di cui non conosciamo esattamente il colore; per questo motivo
facciamo 2 ipotesi:
H1= 6 palline rosse e 4 bianche
H2= 6 palline bianche e 4 rosse
Facciamo anche l’ipotesi che la probabilità che si verifichi H1 sia ½ e così anche H2. Bayes a proposito di
questa ipotesi di probabilità dice che noi possiamo mettere qualunque valore che va da 0 a 1. A suo avviso il
parametro soggettivo di probabilità può essere qualsiasi numero reale da 0 a 1. Volendo potremmo anche
ipotizzare che la probabilità che l’ipotesi 1 sia vera è 0 ossia non si verifica mai perché ad esempio non
esistono palline rosse. Quel valore verrebbe poi smentito o confermato dal calcolo. Quindi per B. quello
dell’ipotesi della probabilità è irrilevante. Noi invece diciamo con il prof. che la probabilità è in parte
razionalizzabile, perché comunque partiamo dal presupposto che ci sono dieci palline e quindi possiamo
provare a fare una stima di come all’interno dell’urna siano suddivise. L’ipotesi sulla probabilità non ha
alcun valore fino a quando non verrà calcolata la probabilità aggiornata alla luce di un’estrazione che
chiameremo evento e.
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42. Efficacia del teorema di Bayes
Faccio un’estrazione e mi accorgo che la pallina che ho estratto è rossa: e = rossa. Adesso voglio aggiornare
la probabilità e per farlo devo applicare la regole esposta poco sopra e cioè: dato una ipotesi H1 e dato un
evento e, se vogliamo calcolare il valore della probabilità che si verifichi H1/e dovremo scrivere:
p(H1/e) = p(H1) p(e/H1) regola di Bayes
p(e)
ma p(e) a cosa è uguale? Devo calcolarmi la probabilità totale di e. La probabilità totale di e, è in relazione
con le nostre due ipotesi. Quindi dobbiamo calcolare la probabilità delle nostre due ipotesi e poi le
dobbiamo sommare.
Se vale H1 avremo che p(H1) = p(e/ H1) p(H1)
se vale H2 avremo che p (H2) = p(e/ H2) p(H2)
p(e) = p(e/ H1) p(H1) + p(e/ H2) p(H2)
andiamo a sostituire questo valore alla formula
iniziale
p(H1/e) =
p(H1) p(e/H1) sostituendo i valori numerici si ottiene
p(e/ H1) p(H1) + p(e/ H2) p(H2)
p(H1/e) =
0.5*0.6
= 6 / 10
H1 era 6 rosse e 4 bianche, uscendo rossa (e) si è ottenuto il
0.6*0.5 + 0.4*0.5 giusto risultato, ossia 6 su 10.
Attraverso l’aggiornamento quindi non sappiamo che la probabilità della nostra ipotesi dato un evento non è
più del 50% per uno ma che p(H1/e) > p(H2/e).
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43. Probabilità epistemica e probabilità ontologica
Il teorema di Snir e Gafman dimostra che il criterio Bayesiano ci porta effettivamente ad una progressiva
scoperta della verità. Il modo di aggiornare le probabilità è un buon modo di avvicinarsi alla verità. È vero
però che quando abbiamo a che fare con teorie molto complicate, il sistema bayesiano rischia di non
funzionare più, perché spesso ci si trova di fronte ad un problema di comparazione tra più teorie.
Noi fin qui abbiamo lavorato con le probabilità “epistemiche” che riguardano le nostre credenze, e quindi il
nostro “modo” di rapportarci al mondo e di intendere il concetto di probabilità. Ma esiste un altro concetto
di probabilità ed è la probabilità ontologica che si basa sulla frequenza relativa. Essa si basa su un dato
fisico, oggettivo. Se ci provo con 10 ragazze e con 2 va a buon fine, constato un dato di fatto e cioè che 2
ragazze hanno abboccato. Questo è un “pezzo di mondo”. Perché questa constatazione di fatto si trasformi in
“credenza” io devo poter dire che ciò che ho constatato si verificherà con buona probabilità in futuro. E per
far ciò ho bisogno di un numero enorme di casi, e di casi differenti, altrimenti non avrò mai il diritto di
affermare che ogni qual volta ci provo con 10 ragazze 2 ci stanno. La frequenza relativa non ha di per se
alcun valore epistemico, e quindi non è un buon metodo in ultima analisi per la scienza se non in casi
eccezionali in cui appunto riesco a raccogliere un numero enorme di casi che può giustificare quel valore.
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44. Realismo rappresentativo e realismo ontologico
La teoria della conoscenza degli stoici voleva che il nostro modo di conoscere il mondo passa attraverso i
sensi, i quali subiscono degli stimoli dall’esterno che poi il nostro intelletto rielabora. Questo vuol dire che
noi siamo in contatto indiretto con la realtà. Questa idea si raggiunge senza troppi sforzi perché è quella che
meglio spiega il problema dell’incoerenza delle sensazioni. Cartesio accoglie questa impostazione. Ma
l’impostazione stoica ha un altro pregio che è quello che anche la scienza moderna ha accolto: le cose che
percepiamo non sono realmente come le percepiamo ma si strutturano in maniera diversa. Il mondo
sensibile, oltre che contraddittorio è quindi anche falso (pensiamo alla sensazione che abbiamo riguardo alla
terra che è ferma e il sole che gira intorno). Quale meccanismo utilizzare allora per unire le rappresentazione
del mondo che ho e il mondo stesso per ciò che è? Potrebbe essere un legame di tipo causale? Fichte si
chiede come sia possibile che vi sia un legame causale se si tratta di due cose che nulla hanno a che fare?
In realtà io non muovo un oggetto pensandolo, ma devo interagire causalmente con esso per far si che si
muova. Per questo motivo la mia rappresentazione dell’oggetto non basta, e non posso solo attraverso di
essa interagire con il mondo concreto (quindi non causalmente). A questo realismo rappresentativo si
accosta e si contrappone il realismo diretto o ontologico.
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45. Husserl. Intenzionalità come possibilità di esistenza
Qui entra in gioco il concetto di intenzionalità. L’intenzione non è da intendere nel senso comune (ossia “ho
intenzione di”); in latino il concetto è legato al “tendere l’arco”. Husserl ha sviluppato questo concetto: una
delle caratteristiche fondamentali della nostra mente è quella di entrare in relazione con il mondo. Ma qual è
la differenza tra un “sasso” e un “sasso percepito”? il “sasso” è e basta; il “sasso percepito” poteva essere
qualcos’altro in base alla percezione. In questa relazione quindi l’intenzionalità crea delle possibilità di
esistenza: io posso vedere la cosa in modi completamente diversi. L’oggetto rimane quello che è, ma
l’entrare in relazione con un essere senziente in grado di percepirlo può significare (anzi quasi certamente
significa) modificarlo. Quindi la nozione di intenzionalità, nonostante sembra metterci in contatto con il
mondo reale, non ci dice nulla su di esso (non ha alcun valore cognitivo). Esso non ci da un giudizio sul
mondo ma solo una rappresentazione; e il primo non può basarsi sulla seconda. Qualsiasi conclusione a cui
si arriva attraverso la rappresentazione è perciò doxa non episteme. Nel passaggio dalla rappresentazione al
giudizio rimaniamo cmq per forza di cose sulla linea dei termini teorici. Il giudizio che si basa su una
rappresentazione è di per sé sempre un azzardo.
Il sensibile per definizione è “bile” ossia pensato, non è sentito, quindi è un termine teorico, un modo
dell’essere. Il mondo esterno è per noi un ente possibile. Il realismo ingenuo è quello diretto, quello cioè che
pretende di asserire che ci che si percepisce è esattamente ciò che è. Il realismo come impostazione, se non
vuole essere failone, deve essere rappresentativo cioè partire dalla consapevolezza che le nostre
rappresentazioni non ci danno il mondo per quello che è.
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46. Carnap. Questione interna e questione esterna
Fatta questa premessa partiamo da un articolo molto importante di Carnap dove egli affronta appunto
proprio il problema della realtà. In esso troviamo due questioni:
Questione interna: data la teoria della MQ si può affermare che in un dato luogo c’è un elettrone? Si fanno
una serie di calcoli e si vede, seguendo la teoria e quindi movendoci all’interno di essa, se l’elettrone c’è o
no. Questa impostazione della ricerca è strettamente freghiana.
Questione esterna: esiste un elettrone? (al di la di qualsiasi impostazione concettuale e formulazione di
qualsiasi teoria!). per Carnap questa domanda non ha senso. Secondo lui “chiedere se esiste qualcosa”
coincide a “chiedere quali siano le proprietà di quella cosa”. È questa domanda che ha senso: porsi il
problema delle proprietà di un pezzo di mondo ipotetico e da li giungere a capire e scoprire se esso esiste o
meno. Secondo Carnap dunque alla domanda che pone la questione esterna non si può dare risposta e quindi
non ha senso porcela. (Quella di Carnap in questo caso è un’impostazione freghiana che va oltre però).
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47. Carnap, Frege e la questione interna
Quando diciamo che l’impostazione riguardo alla questione interna è strettamente freghiana e Carnap in
realtà la supera vogliamo dire che anche Frege aveva sostenuto che al di fuori del linguaggio non ha alcun
valore porci delle domande sul riferimento, ossia sull’oggetto reale, poiché dobbiamo necessariamente
utilizzare un linguaggio. Ecco che il frame work per Frege è il linguaggio e solo all’interno di esso si
pongono i problemi di senso e riferimento. Carnap accoglie l’idea del frame work estrapolandola dal suo
contesto (che per Frege è il linguaggio) e affermando che solo una teoria è in grado di dare delle proprietà ad
un oggetto e di conseguenza riuscire a capire se esso esiste o meno, così come per Frege solo il linguaggio
era in grado di dare predicati agli oggetti che il linguaggio stesso descrive1. Quindi per Frege il linguaggio è
già una visione del mondo: è attraverso il linguaggio che esprimi il mondo e lo descrivi, cioè ti relazioni con
esso. Insomma la relazione con la realtà e lo strumento per conoscerla è il linguaggio con i suoi predicati.
Per il prof questa cosa è tanto vera quanto banale. Anche perché l’impostazione di Frege riduce il mondo a
logica e semantica (la sua impostazione viene infatti chiamata logicismo). Ciò che possiamo accettare di
Frege e Carnap è certamente la divisione delle due questioni. Ma a differenza loro diciamo che la questione
esterna è importante, anzi forse fondamentale per la ricerca della verità dell’essere. Certo rimane la
consapevolezza che nello studio della realtà io mi muovo all’interno di una “situazione cognitiva” (per usare
un termine caro al prof. e che si allarga non alla singola teoria ma alle conoscenze di base acquisite) che
certamente veicola la mia ricerca; ma questo non vuol dire smettere o affermare che sia impossibile capire
come il mondo effettivamente è e si comporta.
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48. Concetto di reale e sue proprietà
Ma allora che risposta dobbiamo dare riguardo alle entità non osservabili che la scienza introduce e di cui si
serve per conoscere il mondo? Dobbiamo sospendere il giudizio (come fa Van Frassen che è un empirista
radicale)? Oppure al contrario devo ammettere ogni entità che mi appare ragiona velo se spiega un pezzo di
mondo anche se non riesco a osservarla e percepirla?
Torniamo al concetto di reale. Esso è ciò che è correlato alla mia intenzionalità. Dobbiamo distinguere
all’interno del concetto di reale tra soggettivo e oggettivo. Per reale in senso oggettivo intendiamo un
oggetto che mostra caratteristiche di “invarianza”; per soggettivo dobbiamo invece intendere ciò che
percepiamo del mondo esterno attraverso i nostri sensi e che mutare, anche relazionandoci sempre allo
stesso oggetto reale. Un protone è un pezzo di mondo oggettivo perché mostra un altissimo grado di
invarianza (anche il sogno per certi versi è reale, perché risulta essere una elaborazione del nostro cervello,
ma esso non è affatto invariante. Quando lo è, diventa reale oggettivamente, cioè riconducibile sempre ad
una serie di mie turbe o traumi passati. La distinzione tra soggettivo e oggettivo non è certo una dicotomia
(l’una esclude l’altra) ma piuttosto una bipolarità poiché possiede al suo interno gradi progressivi tra l’uno e
l’altro. Oggettivo e soggettivo sono gradi diversi dei realia.
Si crea allora un altro problema: qual è la differenza tra una cosa reale e le sue proprietà? Se io tolgo le
proprietà all’oggetto, quello smette o no di essere oggetto? E quando? Aristotele aveva, per risolvere questo
problema, diviso le proprietà in “essenziali” e “secondarie”. Se ad un gatto tolgo la coda non smette di
essere un gatto pur avendo perso una sua proprietà. Si deve allora concludere che un “oggetto” può essere
definito tale solo quando mostra caratteristiche di invarianza, ossia è appunto “oggettivo”. Si tratta di un
circolo vizioso, ma paradossalmente non esiste un oggetto se prima non si verifica “un’oggettualità” e cioè
un’invarianza. Solo in questo modo un oggetto conserverà le sue proprietà nello spazio e nel tempo e potrà
essere così riconosciuto come “oggetto”.
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49. Valore della scienza. Esistenza reale delle cose
Arrivati a questo punto dobbiamo cercare di tirare le somme su che valore ha la scienza, cioè cosa riesce a
darci la scienza in termini conoscitivi riguardo al mondo. La scienza si limita a descrivere il mondo
utilizzando degli strumenti più o meno validi o è in grado di coglierlo ontologicamente?
Il problema è allora quello dell’esistenza reale delle cose. Certo dobbiamo partire dal presupposto che come
dice Frege i predicati di esistenza sono predicati di secondo grado; questo vuol dire che un oggetto esiste in
relazione alle sue proprietà. Ossia “esiste un x tale che”; esiste Carlo? Questa domanda coincide con “esiste
un Carlo tale che ha gli occhi azzurri, i capelli castani, ha due braccia, due gambe ecc…
Non cmq non seguiamo l’impostazione squisitamente linguistica di Frege, perché il nostro problema non è
linguistico ma ontologico. È chiaro che, inutile a dirlo, tutte le volte che ci riferiamo alla realtà delle cose e
alla loro esistenza utilizziamo un linguaggio e che quindi il problema della realtà è anche un problema
linguistico. Ma noi non vogliamo ridurlo solo a questo. E dobbiamo anche avere chiara l’idea di
Wittgneistein secondo il quale “il linguaggio va in vacanza” ossia non è in grado di cogliere nella sua
essenza la realtà, ma si sforza semplicemente di descriverla. Tutto però si gioca all’interno del linguaggio.
La domanda che noi ci facciamo è una domanda eterna ed eternamente insolubile perché abbraccia una serie
enorme di implicazioni che ci fanno allontanare dal piano ontologico. Ma è pur sempre la domanda “prima”
nel senso che è la più importante. In ultima analisi infatti l’obiettivo di ogni scienziato e soprattutto di un
filosofo della scienza deve essere quello di giungere a cogliere la realtà ontologicamente e non considerarla
solo per il modo in cui si esplica. Carnap abbiamo visto che rinuncia a questa domanda e noi vogliamo
invece nuovamente provare a porcela. Lui è un agnostico. Lui non nega l’esistenza delle realtà non
percepibili (ad esempio gli elettroni) ma sospende il giudizio epoche). E come lui fa Van Frassen.
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50. Realismo delle teorie. Putnam e "no miracle argument"
Ci sono alcuni argomenti che sono a favore di quello che viene chiamato “realismo delle teorie” che è
diverso da “realismo delle entità”. In effetti questa non è una dicotomia ma una bipolarità. Le due forme di
realismo sono per forza di cose legate tra loro.
Realismo delle teorie: afferma che sostanzialmente che tutte le entità teoriche descritte da una teoria ( e
sappiamo che le entità teoriche introdotte da una teoria sono definite dalla intera rete teorica così come vuole
la “recived view”, perché solo a partire dalla sua totalità assumono senso empirico) assumono forza
empirica, cioè si può affermare che esistono veramente, a partire dalla teoria vera. Ossia se la teoria è vera,
le entità che essa introduce e descrive sono entità reali, ossia esistono empiricamente anche se non riusciamo
a percepirle. Questa impostazione cerca di sviluppare argomenti a favore del realismo in generale in
relazione alle teorie. Un argomento a favore di tale realismo è questo. Se la massa enorme di entità teoriche
che noi introduciamo per cercare di descrivere il mondo fenomenico, non avesse una corrispondenza di fatto
in esso, cioè la capacità di rappresentare il mondo, non si capirebbe come funziona tutta la baracca. Questa
idea introdotta da Puttnam è stata chiamata no miracle argument. L’idea è allora: una teoria falsa che
introduce entità teoriche che non esistono dovrebbe produrre risultati sbagliati. Ma allora come può essere
che la teoria ci azzecca? Il fatto che noi ci accorgiamo che tali teorie con le loro entità ci azzeccano cioè
sono vere e quindi descrivono effettivamente pezzi di mondo toglierebbe il senso di miracolo che la teoria
produce! Su questa cosa la letteratura è stata parecchio vasta e molti pensatori si sono scannati tra loro.
Alcuni infatti hanno fatto notare come una miriade di teorie che sembravano essere vere perché ci
azzeccavano in relazione ai fenomeni, poi sono risultate assolutamente false. Si pensi ad esempio alla teoria
geocentrica che per 1500 anni è stata considerata vera solo perché salvava solo i fenomeni, introducendo
entità come gli epicicli che a loro modo spiegavano i fenomeni che si percepivano attraverso i sensi.
Dunque il fatto che una teoria salvi i fenomeni non vuol dire che sia necessariamente vera. Per cui non si
può affermare che una teoria è vera perché toglie il senso di miracolo che altrimenti ci sarebbe se fosse falsa.
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51. Scienza e procedimento abduttivo
Ma c’è un altro argomento che confuta questa impostazione: la scienza spesso utilizza un procedimento
abduttivo che può facilmente trasformarsi in un ragionamento fallace. Io noto e (che è un fenomeno ad
esempio i puntini rossi sul petto di Luca),che esprimo con un enunciato A (Luca ha dei puntini rossi sul
petto); faccio una ipotesi i (cioè sviluppo una teoria) e in relazione alla mia ipotesi affermo un enunciato B
(Luca ha la varicella); tale enunciato però non è una conseguenza della mia prima affermazione ma
viceversa, cioè ha come conseguenza A, nel senso che il fenomeno che ho osservato (i puntini sul petto di
Luca) deriva dalla mia teoria (Luca ha la varicella) è quindi una sua conseguenza quindi arrivo alla
conclusione che la mia teoria è vera. Questa abduzione è una fallacia perché se io vedo dei puntini rossi su
tutto il corpo di una persona e ipotizzo che abbia la varicella ma non ne ho la certezza perché quei puntini se
li è potuti procurare con un allergia. (Questo procedimento era chiamato da Aristotele ragionamento
apagogico). E la cosa si aggrava perché se l’abduzione è il modo diciamo quasi naturale della nostra mente
(e della scienza) di procedere, e come abbiamo visto risulta di per sé ingannevole, chi difende l’argomento
del miracolo introduce il termine teorico C come una ulteriore ipotesi che avvalora la mia teoria affermando:
se C fosse vero allora B è vero; siccome B è vero dato che A è vero allora anche C è vero. In questo modo io
aggiungo fallacia a fallacia, un’abduzione ad un’altra solo perché voglio andare a confermare la mia teoria
utilizzando per di più un termine teorico che non spiego attraverso il suo ancoraggio alla realtà ma solo
attraverso un procedimento logico, per di più ingannevole. Questo procedere è fin troppo artificiale.
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52. Realismo delle entità
Afferma che nonostante sia chiaro che le entità teoriche di una teorie sono spiegabili e assumono senso
empirico all’interno della stessa teorie che le produce, non si può affermare che la loro esistenza dipenda
dalla teoria stessa. Ci sono entità che esistono in sé e per sé, a prescindere dal fatto che la teoria le introduca
o meno. Ogni entità va discussa di per sé con degli argomenti adeguati. Questa impostazione cerca di
sviluppare dei criteri che possano permettere di stabilire l’esistenza o meno di entità anche al di fuori della
teoria che li ha prodotti e non partendo da essa.
Chiaramente tutta la faccenda è annacquata perché chi è che definisce cosa sono le entità? Quindi non si può
distinguere così facilmente tra le due impostazioni. Cos’è un’entità? Ci vuole una teoria per scoprirlo. Ma la
teoria però non fonda la realtà di una determinata entità perché se quella esiste, lo fa a prescindere che la
teoria sia in grado di definirla o meno!
Una cosa che però risulta chiara e certa è che l’entità che si vuole cogliere nella sua esistenza può essere
presa in considerazione solo e solo se la teoria che l’ha prodotta è vera almeno in parte!
Per questa definizione abbiamo introdotto un concetto che è assolutamente sdrucciolevole che è il concetto
di “verità parziale”. Noi sappiamo solo delle cose che sono vere o false, o che siano probabili in una certa
percentuale, ma la verità parziale è un concetto che il linguaggio produce e che crea una miriade di
problemi.
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53. Realismo delle entità. Verità parziale di un enunciato
La verità parziale per un singolo enunciato non ha molto senso perché un singolo enunciato è o vero o falso,
oppure che ha una certa probabilità di essere vera (cioè dire che la probabilità che un enunciato sia vero è ½
non vuol dire che l’enunciato è vero solo a metà, ma che ha il 50% di probabilità che sia vero; quindi il
concetto di verità parziale assume senso per un insieme di enunciati. Poniamo una teoria fatta di cinque
enunciati: i primi tre veri, gli ultimi due falsi. La teoria allora avrà una certa percentuale di verità, che non è
uguale a dire che sia al 60% vera, ma che per il 60% è vera per il 40 falsa. È quella che Popper chiamò la
“verosimiglianza”. Ma a Popper fecero subito una contestazione: se tu riesci, cambiando il linguaggio, a
riassumere i primi tre enunciati veri (a1, a2, a3) in un nuovo enunciato che chiami b1 e poi dici che gli altri
due enunciati falsi a4 e a5 sono rispettivamente uguali a b2 e b3 la stessa identica teoria darà una
percentuale diversa di verità che non sarà più 3/5 (circa il 60%) ma 1/3 (il 33%). Basta poco per cogliere nel
concetto di verità parziale un serie incredibile di paradossi. Noi allora dobbiamo cercare di trovare una
definizione a questo concetto di verità parziale.
Dal momento che una teoria non è vera o falsa, e non è vera ad una determinata percentuale, ma vera in
parte (come tutte le teorie che si formulano) nasce l’esigenza di definire nel miglior modo possibile il
concetto di verità parziale. Ed inoltre dal momento che (come abbiamo già detto) se vogliamo definire anche
le entità teoriche e stabilirne la loro ontologia, quindi la loro effettiva esistenza, dobbiamo necessariamente
assicurarci che la teoria che li produce sia una teoria parzialmente vera. Quindi il problema della verità
parziale diventa anche il problema della definizione delle entità teoriche.
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54. Kuhn e le situazioni cognitive
Kuhn ha constatato però che le teorie quasi mai sono comparabili. Allora qual è la soluzione. In realtà non
compariamo teorie tra di loro ma “situazioni cognitive”. Noi oggi abbiamo a disposizione una serie di teorie
che per quanto incomparabili e incompatibili tra di loro, con i loro modelli riescono a spiegare una gran
quantità di pezzi di mondo. Per cui noi possiamo dire che la nostra situazione cognitiva oggi è più vera di
quella di uno studioso di 500 anni fa. Proprio l’impossibilità della definizione del concetto di verità parziale
aveva portato molti studiosi come Feyerabend e Kuhn ad abbandonare l’idea che si era affermata proprio
con Kuhn secondo il quale la scienza si muove in senso progressivo come una scoperta che porta a
conoscenze sempre maggiori, ma non in senso vero-funzionale e quindi una progressione verso la verità, ma
un progresso che ci permette di risolvere sempre meglio i nostri problemi. Non abbiamo teorie sempre più
vere ma teorie sempre più “adeguate”. Quindi era stata abbandonata l’idea che si potesse giungere alla
verità, rassegnandosi sull’unica possibilità che rimaneva che era quella di una scienza pratica capace
semplicemente di risolvere sempre meglio i problemi che l’uomo man mano si va ponendo. È chiaro che
questa è un’idea drammatica perché rinuncia al concetto di verità e si lega al concetto di problema facendo
si che chi eredita questo pensiero non ci arrivi dopo un percorso di riflessione ma lo ponga come un
postulato.
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55. Scienza come impresa conoscitiva o come strumento attivo
Dobbiamo ritornare sulla riflessione che abbiamo fatto sopra se vogliamo salvare l’idea che l’impresa
scientifica non ha come unico obiettivo la soluzione di problemi (come dice Kuhn), ma anche quello di
ricercare la verità. Cerchiamo allora di distinguere la scienza come impresa conoscitiva che utilizza delle
tecniche, progetti pratici con finalità cognitive, dalla scienza come strumento per sfruttare il mondo,
manipolarlo per risolvere i problemi che man mano l’uomo va ponendosi. La manipolazione del mondo non
è necessariamente negativa, ma può avere degli scopi conoscitivi. È vero anche, ad esempio in farmacologia,
che spesso l’attività scientifica è finalizzata alla soluzione di un problema (curare) e anche se a livello
cognitivo si hanno delle certezze sui farmaci che utilizziamo, ciò che interessa è che essi guariscano. Noi
abbiamo lo scopo di analizzare quella parte della scienza preoccupata dell’aspetto cognitivo, cioè della
ricerca della verità. È solo a partire da quest’aspetto che possiamo fare un percorso progressivo di
conoscenza. E per far questo dobbiamo riferirci e analizzare le entità teoriche di una teoria cioè quelle entità
che pretendono di avere un corrispettivo nella realtà. Ma per analizzare tali entità dobbiamo fare riferimento
al concetto di verità parziale dal momento che un’entità teorica è necessariamente riferita a tale concetto: se
io dico Lucia, con tale termine mi riferisco direttamente a lei. Se io invece dico elettrone, mi riferisco ad
un’entità che ha senso solo all’interno della teoria in cui la introduco e di conseguenza la teoria di cui parlo,
se voglio che questa entità sia accettabile e descriva realmente un pezzo di mondo, deve essere almeno
parzialmente vera. E non solo: abbiamo detto che il concetto di verità parziale inteso positivamente è
indispensabile per avere un’idea di cammino progressivo della scienza verso teorie sempre “più” vere anche
se inevitabilmente sempre parziali.
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56. Oltre il concetto di verità parziale
Il concetto di verità parziale non possiamo introdurlo come concetto squisitamente logico perché questo
porta ad un insieme di paradossi. Certamente una teoria è una struttura logica ma dicendo che essa è
parzialmente vera in senso logico ci fa cadere nell’esempio poco sopra citato (la contestazione fatta a
Popper). Per uscire dal concetto di verità parziale che rischia di diventare un paradosso si deve utilizzare
questa procedura: sviluppo una teoria che è una struttura logica più o meno definita; poi vado a leggere
pezzi mondo, modelli differenti e vedo se tale teoria abbraccia più enunciati che descrivono questi pezzi di
mondo. Se questo avviene la teoria è accettabile, cioè vera (avrà entità teoriche con una corrispondenza
fattuale) anche se quasi certamente non lo sarà nella sua totalità. Una teoria sarà più vera di un’altra quando
sarà in grado di abbracciare e quindi spiegare gli stessi modelli della sua concorrente più qualcun altro (e
non come si potrebbe semplicisticamente pensare quando una abbraccia quantitativamente più modelli di
un’altra, perché si potrebbe trattare di pezzi di mondo differenti e quindi la comparazione non può essere
fatta; si concluderebbe solo che entrambe sono vere perché abbracciano un certo numero di modelli
differenti). La nostra situazione cognitiva del 2009 è più vera di quella di Einstein perché abbraccia i
modelli precedenti ai quali se ne aggiungono di nuovi. L’obiezione a questo modo di intendere la scienza
(che piace al prof.) è che tutte le situazioni cognitive, sia la nostra che le precedenti sono contraddittorie
(perché hanno al loro interno teorie fra loro contraddittorie) ma questa situazione quanto meno (afferma il
prof) descrive la scienza reale.
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57. Realismo moderato e logiche paraconsistenti
Tanti oggi parlano di verità parziale e di realismo moderato e tutti lo fanno a partire da una’impostazione
linguistica-logica. La proposta del prof è assolutamente originale e non è detto che non abbia delle lacune
bestiali di cui al momento non ci rendiamo conto. C’è il problema delle teorie contraddittorie: per ragionare
in questi termini dobbiamo accettare il fatto che i quadri cognitivi che noi compariamo spesso sono al loro
interno contraddittori perché sono il risultato dell’insieme di teorie che si contraddicono tra loro (mentre nel
caso di una singola teoria, per quanto questa presenti delle magagne, non è mai contraddittoria, altrimenti
non può nemmeno essere chiamata con questo nome!); comparando situazioni cognitive diverse noi
compariamo modi di leggere pezzi di mondo che spesso sono contraddittori al loro interno; nel compararli
quindi si creano dei problemi incredibili.
Oggi vanno di moda le logiche paraconsistenti: noi possiamo immaginare delle logiche dove la
contraddizione è contemplata. Ma perché la tendenza della mente umana è quella di rifiutare la
contraddizione all’interno di una ragionamento logico? Certamente innanzitutto per un problema psicologico
di sanità mentale. Inoltre per un problema molto serio e cioè che accettando dentro un sistema la
contraddizione all’interno di una teoria, e accettando regole minimali di inferenza induttiva si arriva alla
conclusione che già abbiamo citato: se c’è una contraddizione in questo sistema logico tutti gli enunciati
sono veri!
Sono stati sviluppati però dei sistemi capaci di contemplare al loro interno la contraddizione senza che tale
accettazione diventi metodologica, ma facendo si che una precisa contraddizione rimanga all’interno di una
parte del sistema e non venga applicata all’intero. Questo è possibile farlo non accettando alcune inferenze
logico induttive che di per sé sono ovvie (e quindi non dovrebbero influire in nulla, cioè la loro accettazione
o meno all’interno della teoria non dovrebbe avere alcuna rilevanza) ma che attraverso la loro non
accettazione “ghettizzano” la contraddizione, cioè fanno si che essa non si espanda all’intera teoria
facendola cadere.
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Carlo Cilia
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58. Criteri per entità teorica. Realtà e oggettività
Quindi dovremo per ogni singola entità porci il problema della effettiva corrispondenza tra il termine teorico
che dovrebbe descriverlo. Il tentativo è questo secondo il prof: i criteri sono almeno due:
Un criterio necessario per accettare come esistente un’entità teorica è che tale entità deve essere reale
(utilizzando questo termine intendendolo come i “realia” ossia oggetti percepiti in maniera nuda e cruda;
esistenza invece indica le proprietà dell’entità come ci ha suggerito Frege; oggettività è infine invarianza). Io
cioè riesco a concepire all’interno della mia scienza (delle conoscenze che possiedo) un essere senziente in
grado di percepirla. Gli atomi e la curvatura dello spazio sappiamo che potremmo percepirlo se avessi una
struttura biologica diversa. Quindi siamo in grado di concepire un essere senziente in grado di percepire gli
atomi, i campi magnetici. Viene un dubbio in questo caso un dubbio: riflettendo sul tavolo viene difficile
pensare ad un essere senziente in questo mondo capace di cogliere un tavolo nella sua essenza, cioè nella sua
totalità oggettuale.
Inoltre un’entità teorica per avere un corrispettivo fattuale nel mondo deve anche essere oggettiva cioè
invariante. L’invarianza non è difficile cogliere che è un concetto “graduabile”; un’entità totalmente
invariante è un’entità assolutamente oggettiva (esempio la velocità della luce).
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Carlo Cilia
Sezione Appunti
59. Contro realismo scientifico. Meta induzione definita
Ci sono due argomenti (secondo il prof. troppo generali da cui diffidare) che sono stati portati avanti da
molti filosofi (realisti agnostici che si schierano con il realismo delle teorie) contro ogni forma di realismo
scientifico (difensori del realismo delle entità): la metainduzione definita e la sottodeterminazione delle
teorie rispetto ai dati osservativi in opposizione ai due argomenti portati avanti dai realisti in favore del
realismo, cioè l’argomento della inferenza alla miglior spiegazione e l’argomento del miracolo. Ma questi
due tipi di argomenti cadono negli stessi errori in cui cadono gli argomenti realisti.
La prima (metainduzione pessimista => meta induzione perché non è una induzione semplice ma
l’induzione è fatta su ipotesi) afferma che tutte le teorie che finora l’uomo ha formulato sulla realtà si sono
rivelate false, per cui anche le teorie che oggi prendiamo per vere si riveleranno false in futuro. Se tutte le
teorie sono false vuol dire che nessuna di esse rispecchia la realtà e quindi non saremo mai in grado di
cogliere la realtà veramente. La conclusione è chiaramente pessimista che conduce ad un vicolo cieco. È
chiaro che tutte le teorie sono false; ma è vero anche che tutte le teorie sono anche vere in alcune loro parti.
Escludere questo lato positivo delle teorie, anche quelle che sono state superate conduce all’idea aprioristica
di una impossibilità della conoscenza del mondo.
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Carlo Cilia
Sezione Appunti
60. Sottodeterminazione delle teorie rispetto ai dati osservativi
La seconda argomentazione afferma che i dati osservativi non determinano in maniera decisiva la teoria che
corrisponde ad essi; c’è più di una teoria che può essere compatibile con gli stessi dati osservativi. Le teorie
quindi sono “sottodeterminate”. Se abbiamo teorie diverse che salvano gli stessi dati sperimentali e che
introducono termini teorici diversi, quale di queste teorie è quella vera e quali di questi termini teorici ha un
corrispettivo effettivo con la realtà? Chi sostiene (Van Frassen, Quine) la sottodeterminazione delle teorie
rispetto ai dati crea un problema enorme spiegabile in questo modo: se io ho una teoria T1 che salva i dati
osservativi e all’interno della quale introduco un termine teorico “a” che non influisce in nessun modo con e
ma anzi mi aiuta a spiegare alcuni fenomeni; poi formulo un’altra teoria, quindi anche T2 all’interno della
quale introduco in termine teorico “non a” che mi spiega altri fenomeni ancora, anch’esso ininfluente su e,
quindi anche in questo caso e è salvo. Mi troverò di fronte a due teorie che salvano entrambe i dati
osservativi ma che addirittura sono una in contraddizione con l’altra. Quale delle sarà quella più vera? In
fondo sono identiche! Quindi io potrei inserire tutti i termini teorici che voglio anche in contraddizione tra
loro senza che questo intacchi la teoria. Ma un criterio del genere non mi torna molto utile nello scegliere tra
una teoria e l’altra. In effetti però il vero problema non è proprio questo; questo tipo di problema potrebbe
assumere una scarsa rilevanza. Le cose sono più complesse perché in effetti nella scienza contemporanea il
principio di sottodeterminazione è applicabile dato che molte teorie salvano i fenomeni ma sono una in
contrasto con l’altra e i dati non ci consentono di sceglierne una piuttosto che l’altra. Come facciamo allora a
stabilire se i termini teorici che le teorie diverse introducono corrispondono a pezzi di mondo?
Come si fa a scegliere tra la meccanica quantistica e la meccanica bohmiana dal momento che esse hanno
uno zoccolo duro comune ma introducono termini teorici differenti? Entrambe le impostazioni nonostante
siano in grado di spiegare pezzi di mondo, risultano al loro interno fin troppo confusionarie e non in grado di
ancorare neanche minimamente i loro termini teorici al mondo. Einstein a proposito della MQ affermava che
essa fosse “incompleta” ma non nel senso di incompletezza caratteristico di tutte le teorie, quanto da un
punto di vista strutturale; gli manca quella struttura solida che dovrebbe permettergli di stare in piedi e
radicarsi anche solo in minima parte alla realtà. Ciò che si può fare è allora cercare di formulare una teoria
T3 (è ciò che si auspica) in grado di superare i problemi di T1 e T2 non pretendendo di spiegare tutto, ma
che sia in grado di stare in piedi superando quei limiti strutturali di T1 e T2 senza per questo essere una
teoria definitiva.
La conclusione è allora(tranne che non si voglia giungere a forme di scetticismo che sfociano in un
pessimismo radicale) quella di dover accettare di convivere con situazioni cognitive contraddittorie vedendo
anzi in esse un motore che spinge verso una risoluzione che certo non sarà definitiva. Tendenzialmente
quindi le sottodeterminazioni per il processo naturale della ricerca scientifica tendono a dissolversi.
Ci ritroviamo così con il compito arduo di stabilire di volta in volta la attualità dei singoli termini teorici a
partire dalle teorie che li producono seguendo i due criteri fondamentali di realtà e invarianza.
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Indice
1. Concetto di causalità e condizioni
1
2. Ontologia e epistemologia della causa. Hume e Kant
2
3. Concetto di causalità. Einstein e entanglement
3
4. Reichenbach e la causa comune
4
5. Principio di determinazione di Heisenberg
5
6. Meccanica quantistica e unità per analogia
6
7. Michotte. Percezione e causalità
7
8. Calcolo della probabilità, Kolmogorov
8
9. Calcolo delle probabilità in Reichenbach, Salmon e Suppes
9
10. Cos'è la legge scientifica
10
11. Van Fraassen, Pargetter e la legge scientifica
11
12. Armstrong e valore ontologico degli enunciati
12
13. Legge scientifica per Mill e Ramsey
13
14. Kuhn e la legge scientifica
14
15. Cartwright e la legge scientifica
15
16. Definizione di simmetria per Weyl
16
17. Definizione di gruppoide nel concetto di simmetria
17
18. Teoria scientifica coerente e empiricamente significativa
18
19. Essenza della realtà e visione a clessidra
19
20. Bridgman. Dall'esperienza ai dati sperimentali
20
21. Carnap. Logica e similarità parziale
21
22. Critica di Goodman alle similarità parziali di Carnap
22
23. Kant e le categorie a priori
23
24. Hempel e la visione accettata. Termini osservati e termini teorici
24
25. Conoscenza umana. Stato mentale e stato fisico
25
26. Frege e il linguaggio. Senso e riferimento
26
27. Frege. Verità e falsità di un enunciato
27
28. Olismo semantico di Quine e Putnam
28
29. Teoria scientifica in Van Frassen, Suppes e Giere
29
30. Heidegger e la verità nella scienza
30
31. Teoria scientifica e teoria della corrispondenza
31
32. Definizione di coerentismo
32
33. Definizione di deflazionismo
33
34. Verità come intuizione. Sellars e la negazione dei dati sensoriali
34
35. Verità e intuizione. Teoria della decoerenza
35
36. Falsificazionismo. Popper e neopositivisti
36
37. Dal concetto di verosimiglianza a Quine e Kuhn
37
38. Lakatos e il falsificazionismo sofisticato
38
39. Feyerabend e la critica a Lakatos
39
40. Modo probabilistico, principio di indifferenza o ragion insufficiente
40
41. Calcolo delle probabilità in Bayes
41
42. Efficacia del teorema di Bayes
42
43. Probabilità epistemica e probabilità ontologica
43
44. Realismo rappresentativo e realismo ontologico
44
45. Husserl. Intenzionalità come possibilità di esistenza
45
46. Carnap. Questione interna e questione esterna
46
47. Carnap, Frege e la questione interna
47
48. Concetto di reale e sue proprietà
48
49. Valore della scienza. Esistenza reale delle cose
49
50. Realismo delle teorie. Putnam e "no miracle argument"
50
51. Scienza e procedimento abduttivo
51
52. Realismo delle entità
52
53. Realismo delle entità. Verità parziale di un enunciato
53
54. Kuhn e le situazioni cognitive
54
55. Scienza come impresa conoscitiva o come strumento attivo
55
56. Oltre il concetto di verità parziale
56
57. Realismo moderato e logiche paraconsistenti
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58. Criteri per entità teorica. Realtà e oggettività
58
59. Contro realismo scientifico. Meta induzione definita
59
60. Sottodeterminazione delle teorie rispetto ai dati osservativi
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