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Fiscalità della crisi di impresa

La dichiarazione di fallimento e gli organi del fallimento
Procedura di carattere giudiziale, il fallimento è dichiarato dal tribunale e tutta la procedura si svolge
sotto il controllo stretto del tribunale e del giudice delegato. La procedura fallimentare mira a giungere
alla soddisfazione dei creditori all’interno di una serie di limiti, primo fra tutti il rispetto della
parcondicio creditorum. Significa che all’interno del fallimento i creditori sono collocati tutti sullo
stesso piano, fatti saldi i casi di prelazione previsti dalla legge e i casi di prededuzione. Il fallimento
ha come obiettivo il trattare e soddisfare i creditori di pari rango allo stesso modo.
Si esce quindi dallo schema normale di soddisfacimento del creditore tratteggiato dal Codice civile e
di procedura civile, nelle quali il creditore che vuole essere pagato deve intentare un azione nei
confronti del debitore e può essere quindi pagato prima di un altro.
Qui la regola primaria è soddisfare i creditori dello stesso rango allo stesso modo, ovviamente in
proporzione alle somme.
Procedura coattiva, poiché il fallimento può essere dichiarato anche contro la volontà del debitore, a
prescindere dalla sua volontà quindi.
Ai sensi dell’art. 6 L. fallimentare, la dichiarazione di fallimento può essere pronunciata e va
pronunciata con sentenza del tribunale:
a) su ricorso di uno o più creditori
b) su ricorso dello stesso debitore
c) su richiesta del pubblico ministero
La procedura giudiziale si attiva attraverso un ricorso, quindi, che può essere attivato da uno o più
creditori, dallo stesso debitore o su richiesta del p.m.
a) Istanza del creditore
Il creditore può chiedere il fallimento anche se non è munito di un titolo esecutivo (titolo con cui egli
può aggredire i beni del debitore, è la procedura normale, solitamente, ma non nell’ambito del
fallimento), purché fornisca la prova dell’esistenza del proprio credito, anche se il credito è un credito
non scaduto o un credito sottoposto a condizione (e la condizione non si è ancora verificata).
Non è necessario che il creditore per presentare l’istanza di fallimento si sia rivolto prima al giudice
per fare accertare l’esistenza del credito e farsi dare un titolo esecutivo (decreto ingiuntivo), poiché
questi adempimenti si svolgono all’interno della procedura fallimentare e nel rispetto delle regole
della procedura fallimentare. Non serve neanche che il creditore sia dotato di un credito liquido ed
esigibile: può essere, infatti, non ancora scaduto, o sottoposto ad una condizione che non si è
verificata. In questa fase è necessario e sufficiente che il creditore dimostri di avere un credito nei
confronti del debitore. Il creditore potrebbe ritirare l’istanza – perché il debitore potrebbe aver pagato
per timore di fallire, ad esempio, o qualcun altro paga il debito - ma nel momento in cui lo fa non è
sicuro che non si arrivi comunque al fallimento.
b) Istanza del debitore
Lo stesso debitore potrebbe rivolgersi al tribunale per chiedere che esso dichiari il suo fallimento.
Anche se non esiste un vero e proprio obbligo per l’imprenditore in stato di insolvenza di presentare
istanza di fallimenti, egli incorre nel reato di bancarotta semplice (punito con la reclusione da un
minimo di 6 mesi a 2 anni) se “ha aggravato il proprio dissesto astenendosi dal richiedere la propria
dichiarazione di fallimento”.
Quindi per evitare di incorrere in questo reato il debitore è tenuto a chiedere il proprio fallimento.
La legge stabilisce che il debitore debba accompagnare all’istanza alcuni documenti indicati nell’art.
14 della Legge fallimentare. L’imprenditore che chiede il proprio fallimento deve depositare presso
la cancelleria del tribunale le scritture contabili e fiscali obbligatore, concernenti i tre esercizi che
precedono la richiesta di fallimento, uno stato particolareggiato ed estimativo delle sue attività, un
elenco nominativo dei creditori con l’indicazione degli importi, i ricavi lordi realizzati negli ultimi
tre anni ed un elenco di coloro che vantano diritti reali sui suoi beni (art. 14 primo comma L.
fallimentare).
c) Istanza del pubblico ministero
Il p.m. è il magistrato incaricato di svolgere l’azione penale, che quindi coordina le indagini penali
(le cd. indagini preliminari) quando si sospetta vi siano reati, e sostiene l’accusa nell’ambito del
processo penale.
Ha una funzione legata alla rilevanza pubblica del fallimento e dell’esercizio dell’impresa. L’impresa,
seppur privata, è collocata all’interno di un mercato e le sue azioni e la sua attività hanno degli effetti
nei confronti di altri. Per tale motivo, il legislatore ha attribuito un compito di sorveglianza in senso
lato e di valutazione sull’esistenza degli estremi dell’insolvenza al p.m. Non si deve pensare che il
potere del pm di chiedere il fallimento sia collegato alla funzione classica del pm di svolgere indagini
penali e sostenere l’accusa nel processo penale: questo è un compito dato in più ad egli per le ragioni
dette in precedenza.
Ai sensi dell’art. 7 il p.m. è legittimato a presentare l’istanza di fallimento quando l’insolvenza
risulta:
a) nel corso del procedimento penale, o dalla fuga, dalla irreperibilità o dalla latitanza
dell’imprenditore, dalla chiusura dei locali dell’impresa, dal trafugamento ecc.
b) dalla segnalazione proveniente dal giudice che l’abbia rilevata nel corso di un
procedimento civile.
L’istanza di fallimento va presentata al tribunale nel luogo in cui si trova la sede principale
dell’impresa (art. 9), che va individuata come il centro della direzione amministrativa dell’impresa,
e quindi il luogo in cui vengono assunte le decisioni più importanti per la vita di un’impresa.
Nell’ambito delle società, la sede dell’impresa si presume coincida con la sede legale a meno che non
si dimostri che la sede dell’amministrazione sia collocata in un luogo diverso.
La norma precisa che, per individuare quando il tribunale è competente territorialmente, non si fa
riferimento alla sede nel momento in cui viene richiesto il fallimento, ma alla sede dell’impresa
nell’anno anteriore rispetto a cui viene attivata l’istanza di fallimento. Serve per evitare elusioni,
aggiramenti. Es. soggetto che percepisce il fallimento, decide di spostare la propria sede nella
circoscrizione di un tribunale che sa che è meglio disposto rispetto ad altri verso certi comportamenti.
Quando un tribunale presso cui è depositato un ricorso di fallimento si ritiene incompetente, lo
dichiara con decreto e trasmette gli atti al tribunale considerato territorialmente competente, il quale,
a sua volta, può declinare la propria competenza sollevando il regolamento di competenza davanti
alla Corte di Cassazione (sono dettagli che ci interessano relativamente).
Se la sede dell’impresa fosse trasferita all’estero (ad esempio in qualche paese dell’Europa dell’est)
l’art. 9 quinto comma dice che il trasferimento della sede all’estero non esclude che sussista anche la
giurisdizione italiana se il trasferimento è avvenuto dopo il deposito del ricorso di cui all’art. 6 o la
presentazione della richiesta di cui all’art. 7. Quindi il trasferimento della sede, che deve essere
effettivo e non fittizio, fatto dopo la presentazione del ricorso non esclude la competenza del tribunale
italiano, ma se fatto prima potrebbe escludere la competenza del tribunale italiano.
Salta il procedimento per la dichiarazione di fallimento.
Sentenza di fallimento
Quando viene presentata l’istanza di fallimento si attiva una fase istruttoria da parte del tribunale per
accertare diversi aspetti (che vi sia l’insolvenza, che il creditore abbia effettivamente un credito ecc.).
Ci sarà un udienza perché il fallimento viene dichiarato ma il debitore ha il diritto di difendersi.
Al termine della fase istruttoria, il tribunale dichiara il fallimento (art. 16) o rigetta la richiesta (art.
22) con sentenza.
La sentenza che dichiara il fallimento:
1) nomina il giudice delegato per la procedura;
2) nomina il curatore;
3) ordina al fallito il deposito dei bilanci e delle scritture contabili e fiscali obbligatorie, nonché
dell’elenco dei creditori, entro tre giorni (non se il fallimento fosse dichiarato su istanza del debitore,
poiché tali documenti devono già essere depositati in cancelleria in quel caso da parte del debitore);
4) stabilisce il giorno, luogo e ora dell’adunanza – cioè un udienza al quale potranno partecipare più
soggetti, cioè i creditori - (che si deve tenere non oltre 120 giorni dal deposito della sentenza) in cui
si procederà all’esame dello stato passivo (stato passivo: elenco dei creditori redatto dal curatore);
5) assegna ai creditori e ai terzi, che vantano diritti reali o personali su cose in possesso del fallito, il
termine perentorio di trenta giorni prima dell’adunanza per la presentazione delle domande di
insinuazione al passivo.
Quindi viene fissata l’adunanza, e nei 30 giorni prima dell’adunanza scade il termine per i creditori
di presentazione della domanda di insinuazione al passivo (termine perentorio).
Nell’ambito del fallimento, il creditore non agisce individualmente contro il debitore. Quando si apre
la procedura fallimentare, la procedura gestisce tutto il rapporto debitorio del debitore, cioè l’insieme
dei crediti di coloro che chiedono di essere ammessi alla procedura. Quindi il creditore, nel momento
in cui si apre il fallimento, non può più intentare una azione individuale contro il debitore: non ha
interesse a farlo né può farlo, può chiedere invece di essere ammesso alla procedura collettiva, che è
il fallimento (all’adunanza), presentando una richiesta di insinuazione al passivo fallimentare (passivo
fallimentare: l’insieme dei debiti del debitore).
Quindi se un creditore non volesse essere soddisfatto, basta che non si insinui e la procedura sarà
gestita da altri creditori che faranno l’insinuazione.
La sentenza di fallimento produce i suoi effetti dalla data della sua pubblicazione in cancelleria, e nei
confronti dei terzi (coloro che non hanno fatto parte del procedimento giurisdizionale che ha portato
alla sentenza), dalla data della sua iscrizione nel registro delle imprese.
Rigetto della richiesta di fallimento
Può instaurarsi un procedimento giurisdizionale alla corte di appello, alla cassazione. Il fallimento
potrebbe essere revocato se una delle due ritenesse che non sussistono i presupposti del fallimento.
Gli organi del fallimento
Lo svolgimento del fallimento è affidato ad una pluralità di organi, a ciascuno dei quali è affidata òa
gestione di uno specifico profilo del procedimento:
-
il tribunale fallimentare;
il giudice delegato;
il curatore fallimentare;
il comitato dei creditori.
Ruolo fondamentale è attribuito dalla legge al tribunale e al giudice delegato.
Il tribunale fallimentare
Il tribunale è l’organo competente ad aprire il fallimento con la sentenza dichiarativa di fallimento,
ed è anche l’organo competente a chiudere il fallimento. Ad esso è attribuita una competenza
generale di programmazione, direzione e controllo della procedura fallimentare: non si limita,
quindi, a dichiarare il fallimento, ma lo governa con tutta una serie di atti.
Ai sensi dell’art. 23 e 24 al tribunale fallimentare è attribuito:




il potere di nominare, revocare e sostituire il giudice delegato e il curatore (lo fa, si è visto,
con la sentenza dichiarativa di fallimento);
il potere di sentire in ogni momento il curatore, il fallito e il comitato dei creditori;
il potere di risolvere le controversie relative alla procedura stessa che non sono di competenza
del giudice delegato (es. il tribunale potrebbe decidere dei reclami contro i provvedimenti del
giudice delegato);
il potere si risolvere le controversie che derivano dal fallimento, in deroga alle regole generali
sulla competenza dettate dal c.p.c. (es. ci sono azioni che trovano origine nel fallimento e che
possono dare luogo a procedimenti giurisdizionali, ad esempio le azioni revocatorie, per cui
è competente il tribunale fallimentare).
Il giudice delegato
Ai sensi dell’art. 25 L. fallimentare, al giudice delegato (nominato dal tribunale) sono attribuiti poteri
di vigilanza e di controllo sulla regolarità della procedura, ossia sul rispetto delle norme di legge e
sui comportamenti dei soggetti operatori. È l’organo con cui si interfaccia normalmente il curatore.
L’esercizio del generale potere di controllo si esprime attraverso:
- poteri autorizzativi (es. autorizzazione al curatore a stare in giudizio);
- poteri informativi (es. convocazione del curatore e del comitato dei creditori nei casi prescritti dalla
legge e ogni volta lo ritenga opportuno);
- poteri di organizzazione della procedura (es. potere di nomina del comitato dei creditori);
- potere di decidere sui reclami proposti dal fallito o da ogni altro interessato contro gli atti di
amministrazione del curatore o del comitato dei creditori.
Il curatore
Il curatore è sicuramente l’organo più importante del fallimento, poiché è chiamato a gestire la
procedura. È nominato dal tribunale con la sentenza che dichiara il fallimento. Possono essere
nominati curatori le persone che rientrano in determinate categorie professionali elencate nell’art. 28
L. fallimentare (avvocati, commercialisti ecc.). Anche soggetti che abbiano rivestito funzioni di
amministrazione, direzione e controllo in società per azioni, dando prova di adeguate capacità
imprenditoriali, purché non sia intervenuta nei loro confronti una dichiarazione di fallimento. Es. un
manager che abbia dato prova di adeguate capacità imprenditoriali.
La legge pone solo due preclusioni: una derivante da rapporti di coniugio, parentela ed affinità con il
fallito e i suoi creditori, l’altra da un eventuale conflitto di interessi con il fallimento.
Durante la procedura il curatore può essere revocato o sostituito (è un rapporto fiduciario che si
instaura tra il tribunale e il curatore, e quindi nel momento in cui il curatore viene meno ai propri
doveri o pone in essere comportamenti che fanno venire meno quel rapporto fiduciario, egli può
essere revocato). Così come può essere sostituito quando ad esempio quello precedente muore o
rinuncia all’incarico o sostituito su richiesta dell’adunanza dei creditori. I creditori possono richiedere
infatti la sostituzione del curatore, poiché magari pensano che non abbia svolto bene il suo incarico
(siamo nella fase iniziale).
Il curatore è l’organo che gestisce la procedura, con il compito di amministrare, gestire e liquidare il
patrimonio fallimentare al fine di ripartire il ricavato (cioè il patrimonio del debitore) tra i creditori.
Il procedimento fallimentare, infatti, è una procedura di carattere liquidatorio/satisfattivo: l’obiettivo
è liquidare al meglio il patrimonio del debitore con il quale pagare i creditori secondo la regola della
par condicio.
Per arrivare a liquidare al meglio il patrimonio del debitore, egli potrà essere chiamato a compiere
anche atti di gestione. Per arrivare alla migliore liquidazione può ritenere, ad esempio, di gestire
temporaneamente l’azienda, per esempio attivare l’esercizio provvisorio, o decidere di dare in affitto
l’azienda. Compiere quindi atti di amministrazione, non solo di liquidazione, ma sempre con
l’obiettivo di massimizzare l’importo liquidabile per soddisfare i creditori.
Il curatore esercita personalmente le sue funzioni (salva la facoltà di nomina di delegati o coadiutori)
e svolge la sua attività sotto la vigilanza del giudice delegato e del comitato dei creditori.
Per quanto attiene all’esercizio delle sue funzioni, il curatore è pubblico ufficiale.
A fronte dell’autonomia gestionale di cui gode, il curatore deve garantire un adeguato flusso
informativo al giudice delegato e al comitato dei creditori (relazione particolareggiata ai sensi
dell’art. 33 primo comma, entro 60 giorni dalla dichiarazione di fallimento). In tale relazione il
curatore deve indicare quali sono state secondo lui le cause che hanno condotto al fallimento, qual è
stato il comportamento tenuto dal soggetto fallito o dagli amministratori della società fallita (e quindi
il livello di diligenza/negligenza dell’imprenditore), ed individuare eventuali profili di responsabilità,
quindi, del soggetto fallito. Tale relazione viene presentata dal curatore al tribunale e viene mantenuta
riservata (non è conoscibile da parte del fallito).
Ogni 6 mesi, inoltre, sempre ai sensi dell’art. 33, il curatore deve fare un rapporto riepilogativo delle
attività svolte.
Il curatore può stare in giudizio nella veste di terzo (ossia come organo della procedura) oppure nella
posizione sostanziale e processuale del fallito.
Se prima del fallimento il fallito aveva iniziato una causa nei confronti di un soggetto, ad esempio, o
era stato chiamato in causa da un altro, con la dichiarazione di fallimento il fallito non può più essere
parte di quella causa, salvo situazioni particolari, e quindi in quella causa al posto del fallito può
decidere di stare il curatore, previa autorizzazione del giudice delegato. Oppure il curatore potrebbe
decidere, come organo della procedura, dopo essere stato nominato, di intentare una causa nei
confronti di qualcuno, e in questo caso assume veste di terzo perché non va a sostituirsi al fallito.
N.B. Anche se il curatore subentra ad un giudizio al posto del fallito, egli non rappresenta il fallito!
Egli è uno organo della procedura. Aspetto importante poiché ha delle ricadute anche con riferimento
a questioni di carattere fiscale. Il curatore non rappresenta il fallito.
Il curatore, per compiere determinati atti, deve avere delle autorizzazioni: a) del giudice delegato per
delle azioni giudiziali; b) per compiere atti di straordinaria amministrazione è richiesta
l’autorizzazione del comitato dei creditori; c) per depositare e prevelare delle somme riscosse dal
conto della procedura deve esserci autorizzazione del giudice delegato.
Art. 38: il curatore deve adempiere ai doveri del proprio ufficio, imposti dalla legge o derivanti dal
piano di liquidazione approvato, con la diligenza richiesta dalla natura dell’incarico.
Ciò che viene richiesta è la diligenza professionale, quindi. Può essere chiamato a rispondere, quindi,
sia in caso di colpa (lieve) sia in caso di dolo. In caso di inosservanza, quindi, il curatore è tenuto al
risarcimento del danno. Tanto più il potere che gli viene assegnato è discrezionale, tanto più è difficile
delineare profili di responsabilità.
Il comitato dei creditori
Composto da 3 o 5 membri nominati dal giudice delegato tra i creditori, in modo da rappresentare in
modo equilibrato la quantità e qualità dei crediti ed avuto riguardo alla possibilità di soddisfacimento
dei crediti stessi) è l’organo rappresentativo dei creditori.
Il comitato dei creditori:
-
vigila sull’operato del curatore;
autorizza gli atti di straordinaria amministrazione del curatore;
esprime i pareri nei casi previsti dalla legge (es. nei casi di esercizio provvisorio
dell’impresa del fallito e di affitto d’azienda);
ha il potere di ispezionare in qualunque tempo le scritture contabili e i documenti della
procedura e di chiedere notizie e chiarimenti al curatore e al fallito.