Rivista di cultura delle RISORSE UMANE 541 ANNO XLVIII - N. 11 DICEMBRE 2012 - TORINO l Speciale Fondazione ISPER «Interpretazioni e Prospettive della Riforma del Mercato del Lavoro» IX Convention Annuale sul Lavoro l ARTURO MARESCA, MAURIZIO SACCONI, TIZIANO TREU ISPER CORSO DANTE 124/A - 10126 TORINO 541 Rivista riservata alle aziende abbonate ai Servizi ISPER. ANNO XLVIII - N. 11 DICEMBRE 2012 COMITATO DI DIREZIONE: Dr. Filippo ABRAMO Presidente Nazionale AIDP Presidente EAPM Ing. Giancarlo BIANCHI Presidente AIAS Associazione professionale Italiana Ambiente e Sicurezza Dr. Fabio CERCHIAI Presidente ANIA Associazione Nazionale fra le Imprese Assicuratrici Prof. Michele LA ROSA Sociologo del Lavoro Direttore della Rivista “Sociologia del Lavoro” Co-responsabile CIDoSPeL Centro internazionale di documentazione e studi sociologici sui problemi del lavoro Prof. Avv. Sergio MAGRINI Professore Diritto del Lavoro Università di Roma Dr. Elio MINICONE Direttore del Settore Sociale Associazione Industriale Lombardia Dr. Giuseppe DE RITA Presidente CENSIS Fondazione Centro Studi Investimenti Sociali Dr. Franco PORRARI Membro del Consiglio di Indirizzo e Vigilanza INPDAP Dr. Giancarlo DURANTE Direttore Centrale ABI - Responsabile della Direzione Sindacale e del Lavoro Dr. Giuseppe ROMA Direttore CENSIS Fondazione Centro Studi Investimenti Sociali Direttore responsabile: Carlo ACTIS GROSSO Redazione: Marco Actis Grosso, Giovanni Maria Barone, Elisabetta Crolla Gianolio, Alberto Della Torre, Franco Ferrero, Anna Manavella. Direzione e Redazione: ISPER Corso Dante 124/A - 10126 Torino - % Tel. 011.66.47.803 Internet: www.isper.org - E-mail: [email protected] Fax 011.66.70.829. Gli articoli sono originali ed inediti; riproduzione consentita ad aziende abbonate ai Servizi ISPER, citando: “da rivista PERSONALE E LAVORO dell’ISPER - Istituto per la Direzione del Personale” ed inviando due copie a ISPER - Torino. Protezione dei dati personali Egregio lettore di “Personale e Lavoro”, ai sensi della normativa vigente in materia di protezione dei dati personali La informiamo che: i suoi dati personali, se non da Lei direttamente forniti, ci sono stati comunicati dall’azienda in cui opera al solo fine di informarLa sui servizi a cui ha diritto come cliente ISPER e riguardano esclusivamente l’ambito aziendale. I dati sono conservati su supporto elettronico al fine di inviarLe le comunicazioni di suo interesse in base alle indicazioni forniteci. Il conferimento dei dati ha natura facoltativa e il rifiuto a fornirli non ha altra conseguenza se non la mancata informazione sui servizi ISPER a cui può accedere o a cui ha diritto. 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Autorizzazione Tribunale di Torino n. 1757 - 15 dicembre 1965 Iscrizione Registro Operatori di Comunicazione n° 4374 IN QUESTO NUMERO Un numero davvero speciale 2 Arturo Maresca Quanta flessibilità? 3 L’articolo ripercorre i tratti caratterizzanti della legge sulla riforma del mercato del lavoro, soprattutto in riferimento all’obiettivo che il legislatore si è posto, vale a dire quello di ridistribuire la flessibilità del lavoro. In tale ottica, la riforma ha realizzato tre tipi di interventi: riduzione della flessibilità in entrata cosiddetta “cattiva” (quella che riguarda le forme di lavoro non subordinato, in particolare collaborazioni a progetto e partite IVA), agevolazione della flessibilità in entrata cosiddetta “buona” (quella che deve evolvere rapidamente verso forme di rapporto di lavoro più stabile), intervento sulla flessibilità in uscita, ossia sul regime di licenziamento. Riguardo a quest’ultimo punto, in particolare, si rileva che le nuove norme sono di difficile interpretazione e di dubbia efficacia. PAROLA CHIAVE: COSTITUZIONE RAPPORTO LAVORO Maurizio Sacconi Sostanzialità e autoregolazione 12 L’autore propone alcune riflessioni sulla recente riforma del lavoro. Con gli aspetti attuali dell’economia reale, le esigenze sostanziali devono prevalere su quelle caratteristiche formali che hanno largamente dominato il diritto del lavoro e l’esperienza stessa delle relazioni industriali. Per questo, l’iper-regolazione delle tipologie contrattuali flessibili, introdotta dalla riforma, non può essere considerata positiva, poiché ha un effetto inibitorio. Come non positiva è da ritenersi l’idea del repertorio delle professioni nel contratto di apprendistato: una volta definito, infatti, il repertorio potrebbe avere come conseguenza quella di irrigidire le mansioni. Occorre evitare che le logiche formali conducano a punire l’accesso alle competenze della persona nel nome di un criterio astratto e si deve andare oltre la regolazione di legge per lasciare più spazio alla capacità di autoregolazione delle parti. PAROLA CHIAVE: COSTITUZIONE RAPPORTO LAVORO Tiziano Treu Gradualità e realismo 18 Per quanto riguarda la flessibilità in uscita, l’autore sostiene che tra le novità positive della riforma del lavoro, vi è quella di aver corretto alcune anomalie del sistema italiano: l’articolo 18 e un sistema di ammortizzatori sclerotico ed antieconomico. Sulla flessibilità in entrata, invece, si poteva fare di meglio, in particolare a proposito di collaborazioni a progetto, partite Iva e associazioni di partecipazione. I costi, poi sono un problema: aver alzato i contributi in modo esagerato costituirà un limite, soprattutto per i giovani, all’utilizzo dei contratti di lavoro atipici. In ogni caso, in Italia è tutta la struttura del costo del lavoro che andrebbe rivista. L’importante è fare le cose con gradualità e realismo, conservando ciò che è buono e apportando di volta in volta i miglioramenti che si rendono necessari, senza ricominciare da capo a ogni cambio di governo. PAROLA CHIAVE: COSTITUZIONE RAPPORTO LAVORO 23 Riepilogando, di Arturo Maresca PERSONALE E LAVORO N. 541 - DICEMBRE 2012 1 Un numero davvero speciale Un numero speciale che propone la trascrizione pressoché letterale (tranne i vari titoli che sono nostri) della relazione introduttiva e degli interventi base nell’ambito della IX Convention Annuale sul Lavoro “Giuseppe Capo” della Fondazione ISPER dedicata alla Riforma del Mercato del Lavoro. Un numero “alto” per il livello dei relatori e “di prima mano” per il loro ruolo nella Riforma. “Di prospettiva” per il taglio delle esposizioni e, insieme, attualissimo per il loro contenuto. Attualissimo provvisoriamente, considerati i commenti di vario genere suscitati dalla legge e gli emendamenti da tante parti prospettati. Un numero che, confermando il rapporto stretto fra Fondazione ed Istituto, ribadisce l’attenzione di entrambi ed anche - con qualche immodestia - una sorta di primogenitura verso il mondo del lavoro per le persone. 2 PERSONALE E LAVORO N. 541 - DICEMBRE 2012 Prof. ARTURO MARESCA Ordinario Diritto del Lavoro Università La Sapienza - Roma Quanta flessibilità? Il mio sarà un breve intervento perché penso che l’attesa di tutti noi sia quella di sentire i protagonisti delle vicende delle politiche del lavoro di questi anni. Vorrei soltanto ripercorrere qui con voi i tratti caratterizzanti della legge, soprattutto in riferimento all’obiettivo che il legislatore si è posto, che è - lo abbiamo sentito tante volte, lo abbiamo letto tante volte - quello di redistribuire la flessibilità del lavoro. Negli anni precedenti Dal 1980, varie tipologie contrattuali per le assunzioni e loro aspetti negativi: flessibilità a carico dei giovani e e direi costantemente, dall’’80 in poi, la flessibilità del lavoro si è realizzata, nel nostro ordinamento, per mezzo di interventi sulle tipologie contrattuali attraverso le quali le imprese acquisiscono lavoro: dunque tipologie temporanee, subordinate, contratto a termine, somministrazioni di lavoro autonomo, collaborazioni, lavoro autonomo in senso stretto e così via... Con due rilevanti, secondo me - aspetti negativi: - il primo, che questa flessibilità pesava e si scaricava sui giovani che dovevano entrare nel mercato del lavoro. Sono loro che hanno sopportato il peso della flessibilità necessaria al sistema produttivo: in una crisi terribile, tutto sommato le imprese non hanno fatto licenziamenti massicci. Salvo la gestione degli esodi più o meno consensuale, la vera riduzione dell’occupazione si è realizzata nel rallentamento forte delle opportunità di lavoro temporaneo che prima potevano essere messe al servizio dei giovani che entravano nel mercato del lavoro; PERSONALE E LAVORO N. 541 - DICEMBRE 2012 3 - definita genericamente. il secondo - più complesso - che questa flessibilità in entrata si è affidata troppo spesso a formule e norme generali, come quelle in materia di contratto a termine o di somministrazione, oppure con il famoso causalone del 2001, quello delle ragioni tecniche, organizzative, produttive e sostitutive, delle quali ancora ricerchiamo l’interpretazione. Solo ora (2012) finalmente abbiamo le prime sentenze della Cassazione su questo punto. Del resto questa fu un’osservazione di non pochi nel 2001: quando si scrive una norma generale come quella, abbandonando - secondo me opportunamente - la tipizzazione precedente, ci si mette nelle mani della giurisprudenza del lavoro, perché è questa che ci dice che cos’è la ragione tecnica, organizzativa, produttiva, con tutte le incertezze che questo ha comportato. Ora Intervento sulla flessibilità in entrata (buona e cattiva) ed anche il ridisegno che il legislatore vuole realizzare parte proprio dal riassetto della flessibilità: - riduzione della flessibilità in entrata cosiddetta “cattiva” (l’espressione è suggestiva, ma non è facilissimo cogliere il punto della negatività di questa flessibilità) e agevolazione della flessibilità in entrata cosiddetta buona che penso sia quella che debba evolvere rapidamente verso forme di rapporto di lavoro più stabile; - intervento sulla flessibilità in uscita. Flessibilità in entrata in uscita. Contratto a Termine a-causale, ma 4 Flessibilità “buona”: il legislatore interviene su due istituti importanti: - 1) contratto a termine: le imprese hanno finalmente - dico io - il contratto a termine a-causale, che consente loro di assumere a tempo determinato senza dover indicare una causale, un motivo che giustifica il termine. Questo vuol dire in parole più banali che si ritorna al diritto privato che consente alle parti di apporre un termine finale al contratto di lavoro senza necessità di particolari motivazioni. È sicuramente una semplificazione o meglio lo sarebbe stata se su questa strada si fosse avanzati con più coraggio, perché, di fatto, l’unico contratto a termine a-causale utilizzabile è quello che ha una durata massima di 12 mesi e non è prorogabile nemmeno se utilizzo la durata per un periodo inferiore (cioè se faccio un contratto a termine di 8-9 mesi non posso poi prorogarlo fino a 12) e poi riguarda la prima occupazione. E qui incominciano i problemi interpretativi: - posso utilizzare questo contratto se avevo prima assunto quel lavoratore per 15 giorni con un altro contratto a termine? La risposta è negativa; PERSONALE E LAVORO N. 541 - DICEMBRE 2012 con problemi interpretativi. Somministrazione a Tempo Determinato e Apprendistato, strumento molto importante, ma incerto: qualifica o qualificazione? In ogni caso, - se lo ho avuto con una somministrazione la risposta è negativa; - se avevo ospitato quel lavoratore come stagista la risposta è positiva; - se con quel lavoratore avevo intrattenuto rapporti di lavoro autonomo, collaborazioni, etc. la risposta è incerta. E quindi vi rendete conto che nel primo impatto, questa norma, trova delle difficoltà. E imporrà alle aziende di stare molto attente ad assumere Tizio con un contratto a termine; se ad esempio fosse finalizzato a sostituire per 10 giorni Caio assente per malattia, avrebbero bruciato la possibilità di assumere quel lavoratore con un contratto a termine a-causale di 12 mesi. - 2) somministrazione a tempo determinato che è un’opportunità non da poco perché le imprese potrebbero ricorrere alla somministrazione a termine senza limiti, basta però che ogni 12 mesi cambino il lavoratore che viene somministrato. Un’opportunità che però ha il limite di non agevolare l’inserimento di quel lavoratore somministrato. E poi c’è un punto sul quale abbiamo discusso a lungo, senza purtroppo riuscire a trovare una risposta soddisfacente e con quei margini di certezza ai quali aspirano le aziende. Quello dell’Apprendistato. Qui - mi permetto di dire - è stata sprecata l’ennesima occasione per un contratto di straordinaria importanza, che dovrebbe essere definito il contratto di investimento sui giovani lavoratori. È un contratto formidabile perché è a tempo indeterminato, comporta un abbattimento dei costi contributivi rilevantissimo, un abbattimento del costo del lavoro, un investimento vero in formazione e quindi ha tutti gli ingredienti per poter essere veramente il contratto portante attraverso il quale le imprese acquisiscono lavoro. Qual è il problema? Il problema è che noi abbiamo una norma che non ci consente di capire se questo contratto di apprendistato è finalizzato all’acquisizione di una qualifica o di una qualificazione. Voi direte che è una banalità ma una banalità non da poco. Se ad esempio ho assunto un lavoratore a termine per una settimana, con una qualifica che io gli ho dato, lo posso poi assumere come apprendista? Se il contratto di apprendistato è finalizzato all’acquisizione di una qualifica io direi di no; se invece è finalizzato alla qualificazione allora direi di sì perché non c’è dubbio che io posso costruire un patrimonio di competenze professionali molto più ricco rispetto a una qualifica che c’è. Questo è un dubbio che non può non emergere, dal momento che abbiamo una norma che ci dice, comma 1 articolo 4, che è finalizzato a una qualifica mentre, il comma 2 dice che è finalizzato a una qualificazione. PERSONALE E LAVORO N. 541 - DICEMBRE 2012 5 un notevole passo avanti. Collaborazioni a progetto: dal 2003 ad oggi, la novità è che non possono essere applicate per attività esecutive o ripetitive, ma cosa si intende per ripetitive? Inoltre il committente non può recedere anticipatamente, 6 In ogni caso, non c’è dubbio che l’apprendistato ha fatto un notevole passo avanti rispetto a prima, quando c’era quella scelta della regionalizzazione da cui adesso ci si è sganciati. In definitiva, l’apprendistato è stato uno strumento sul quale si è registrato un consenso totale: sindacati, imprese, tutti erano d’accordo; però ancora non riesce ad avere quell’impulso secondo me assolutamente necessario che lo fa diventare veramente lo strumento più forte delle politiche del lavoro. Flessibilità cattiva, quella che riguarda le forme di lavoro non subordinato, specialmente due: - 1) Collaborazioni a progetto. Io mi sono convinto che l’intervento del legislatore è stato molto meno incisivo di quello che a prima vista possiamo intendere. Nel 2003 il legislatore prese atto di un loro utilizzo che va al di fuori dello schema contrattuale, in quanto sostitutive di lavoro subordinato. È un bene, è un male? Dal punto di vista giuridico è sicuramente un male perché c’è una violazione delle regole, dal punto di vista dell’occupazione può essere un male sopportabile, ma questo i giuristi non lo possono sentire perché la violazione delle regole è per loro un male assoluto. Allora, con l’intervento nel 2003, passammo dalle collaborazioni coordinate e continuative a tempo indeterminato e senza progetto a collaborazioni continuate e continuative riconducibili a un progetto, a un programma di lavoro che dovevano avere una durata limitata. Quindi durata e progetto. Ci accorgemmo poi che queste difficoltà applicative erano superabili perché il progetto, la fase di lavoro, il programma di lavoro e anche la durata, erano gestibili. Oggi che cosa c’è di più? C’è che il legislatore elimina il programma di lavoro e la fase di programma di lavoro e lascia il progetto. Ma il progetto è assorbente rispetto alle altre due ipotesi, quindi nella sostanza nulla cambia. Il grosso limite è un altro, è che questi collaboratori a progetto non possono essere utilizzati per compiti e attività meramente esecutive o ripetitive (non “e” ripetitive ma “o” ripetitive) e qui si apre un problema interpretativo non da poco: che cosa vuol dire ripetitive? Insomma, l’attività ripetitiva è un’attività che facciamo tutti i giorni, io tutti i giorni faccio le cause, vado a lezione; la ripetitività che cos’è? Questo è un nodo non da poco e questo è uno dei due punti rilevanti nella riforma. Quello del corrispettivo non lo considererei un punto rilevante: se il collaboratore ha il minimo tabellare del lavoratore dipendente equivalente anche col riferimento al tempo direi che andiamo in una situazione accettabile. Secondo elemento invece di rigidità non da poco, è aver modificato l’art. 67 del decreto 276, che consentiva alle parti PERSONALE E LAVORO N. 541 - DICEMBRE 2012 dunque il contratto diventa più stabile di quello di lavoro subordinato a termine. Quello della parità di retribuzione non mi sembra invece un problema. Partite Iva: la eventuale presunzione di lavoro subordinato rischia di non operare quasi mai. di regolare il recesso anticipato. Adesso abbiamo una situazione che è veramente particolare perché il recesso anticipato nella collaborazione a progetto non può avvenire da parte del committente, salva l’ipotesi della giusta causa e di un’altra formula che non sto a ricordare perché è una formula impossibile. Dunque il contratto a progetto diventa più stabile di un contratto di lavoro subordinato a termine; e questo è indubbiamente il secondo punto rilevante. Non considererei, invece, punto rilevante, quella presunzione che ci dice che se ho un collaboratore a progetto e ho un lavoratore dipendente che svolgono la stessa attività con modalità per di più analoghe scatta una presunzione (diciamo relativa perché può essere superata dalla prova contraria) della natura subordinata del rapporto. Ma se noi andiamo davanti al giudice e agli ispettori del lavoro, quando vedono che in un’azienda c’è un collaboratore e un dipendente che svolgono non solo la stessa attività ma con modalità analoghe, la loro convinzione è che il collaboratore sia un dipendente. E allora un legislatore che dice, pur a fronte di questa situazione, “tu datore di lavoro puoi dare la prova dell’assenza di subordinazione” consente alla fine la possibilità di giostrare questa cosa meglio di prima e quindi questo non è un problema. - 2) Partite IVA: il legislatore ha messo le mani su un meccanismo molto delicato. Ha detto, da una parte, che se si verificano due dei tre presupposti che voi conoscete, il reddito, la posizione fissa e così via, c’è una presunzione di lavoro coordinato, ma non essendoci il progetto, dice lo stesso legislatore implicitamente, la presunzione scatta e diventa di lavoro subordinato. Dunque un doppio salto presuntivo ci fa fare il legislatore, e questa è un’anomalia. Ma poi andiamo a vedere, che questa presunzione non scatta se il lavoratore autonomo ha un reddito suo di 18.000,00 euro, se svolge un’attività per la quale ha fatto un percorso formativo, se l’attività è un’attività pratica, se ha maturato un’esperienza, se è iscritto in albi professionali, in elenchi, registri e così via… Alla fine questa presunzione rischia di non operare quasi mai. Flessibilità interna Il decreto 66 del 2003 non ha avuto gli effetti che ci si attendeva. Al riguardo è stata fatta una legge di straordinaria importanza, il decreto legislativo 66 del 2003 che riguarda i tempi di lavoro e di non lavoro. Ma cosa è accaduto? Quel decreto non ha avuto nella parte applicativa quella determinazione che avrebbe dovuto avere e che è stata bloccata dalla contrattazione collettiva. Anche lì mi sembra ci sia stato un problema di art. 18 in base al quale la contrattazione collettiva costituiva la valvola per flessibilizPERSONALE E LAVORO N. 541 - DICEMBRE 2012 7 zare gli orari di lavoro, cosa che la contrattazione collettiva ha fatto in misura a mio avviso non soddisfacente. E quindi abbiamo questa flessibilità nella gestione del rapporto di lavoro che non ha dato la risposta che si meritava. Flessibilità in uscita Ovviamente riguarda il regime di licenziamento. Licenziamento: Qua siamo di fronte a una norma scritta in modo così complesso che secondo me (ma penso sicuramente anche secondo alcuni di voi) mette in difficoltà notevole l’interprete e che finisce per depotenziarne gli effetti. La norma voleva intervenire, secondo me, sulla discrezionalità dei giudici per quanto attiene l’individuazione della giusta causa e del giustificato motivo. la norma è scritta in modo così complesso che finisce per generare incertezza. Il ragionamento è simile a quello precedente: quando noi ci affidiamo a norme generali, queste non possono che essere riempite di contenuti da parte della giurisprudenza. Se noi dovessimo informare qualcuno che viene da un altro pianeta circa il nostro sistema, questo potrebbe dire che si può licenziare spessissimo in Italia, invece sappiamo che non è così perché quelle formule generali vengono riempite di contenuti rigorosissimi da parte della giurisprudenza. Ma non sono solo i contenuti rigorosissimi, sono i contenuti incerti. Si fa sempre l’esempio di “furto di modico valore” come motivo o no di licenziamento. Ma qual è il modico valore? Quindi abbiamo una giurisprudenza di Cassazione che dice “fino a un certo valore è un furto di modico valore e il licenziamento è illegittimo, per il resto è legittimo”... Anche per il giustificato motivo oggettivo, quale la soppressione del posto e la impossibilità di adibire il lavoratore ad altre mansioni, tutto sembra semplice. Ma qual è la prova che devo dare di non poter adibire il lavoratore ad altre mansioni? Mansioni “equivalenti” sapevamo fino a qualche tempo fa, poi la Cassazione ci dice anche “inferiori”, poi adesso ci dice che anche se ho una possibilità di occupazione a “tempo parziale”, poi ci dice per l’“intera azienda” per cui se licenzio a Roma e ho un’assunzione nella sede di Bruxelles, il licenziamento è illegittimo. Ora il legislatore non interviene più sulle causali, ma sulla sanzione e qui il passaggio è indubbiamente interessante: 8 Una incertezza di questo genere non vuol dire né che in Italia il licenziamento è libero come qualcuno sostiene, e nemmeno che è impossibile. È, appunto, incerto. Allora il legislatore fa un’operazione che secondo me è l’unica che si poteva fare. Non interviene sulle causali, non interviene nemmeno sulla prova della giusta causa e del giustificato motivo ma interviene sulla sanzione e qui il passaggio è indubbiamente interessante, perché noi prima avevamo una sanzione, l’art.18, la reintegrazione che vuol dire il ripristino del rap- PERSONALE E LAVORO N. 541 - DICEMBRE 2012 le sanzioni diventano quattro, ma, nella sostanza, prevale il risarcimento, mentre la reintegrazione diventa residuale, dal momento che è possibile solo in tre ipotesi. porto, pagamento di tutte le retribuzioni, pagamento di tutte le contribuzioni fino al ripristino e se il lavoratore non vuole tornare a lavorare deve avere ulteriori 15 mensilità. Era una sanzione che si applicava nel caso del licenziamento odioso per discriminazione politica, razziale, sessuale, etc. ma anche in quello nel quale c’era stato un errore procedurale del datore di lavoro che non aveva rispettato i cinque giorni del procedimento disciplinare. La sanzione era la stessa, una cosa molto semplice, a tal punto che il giudice non doveva nemmeno distinguere tra illegittimità del licenziamento e applicazione della sanzione perché i due momenti coincidevano. Adesso le cose sono molto più complicate perché non abbiamo più una sanzione ma ne abbiamo quattro. Se noi ci concentriamo sul punto che riguarda l’assenza di giusta causa e di giustificato motivo, abbiamo due sanzioni: quella della reintegrazione con un risarcimento a 12 mensilità e quella dell’indennizzo che va da 12 a 24 mensilità. Cosa importantissima, vuol dire che il licenziamento illegittimo estingue pur sempre il rapporto di lavoro facendo nascere in capo al lavoratore illegittimamente privato del suo lavoro un credito risarcitorio che va da 12 a 24 mensilità che non sono gravate da contributi previdenziali. Ma quando si applica la sanzione della reintegrazione attenuata e quando si applica la indennità? Perché questo è il punto, centrale di tutta la riforma. Detto molto francamente, la reintegrazione attenuata opera in 3 soli casi: sono scritti male, sono confusi, ma sono 3. Questo sul piano sistematico nonostante opinioni autorevoli diverse, vuol dire che la sanzione della reintegrazione è residuale nel nostro sistema mentre quella prevalente è quella dell’indennità. Perché secondo me se il giudice vuole reintegrare deve indicare una delle tre ipotesi di accesso alla reintegrazione. Se non mi trova una chiave per arrivare alla reintegrazione, deve indennizzare. E allora vediamo quali sono queste tre ipotesi. Due riguardano il licenziamento disciplinare: l’insussistenza del fatto Due riguardano il licenziamento disciplinare e una riguarda il licenziamento per giustificato motivo oggettivo. Qui c’è un punto da chiarire inizialmente, che il giudice sdoppia il proprio accertamento: accerta la legittimità o illegittimità del licenziamento con la stessa discrezionalità di prima e applicando le nozioni legali di giusta causa e giustificato motivo con quelle problematiche che voi ben conoscete. Ma dopo aver detto che il licenziamento è illegittimo, mi deve dire quale delle due sanzioni, nel caso che ho ristretto, deve applicare. Qual è il presupposto per l’applicazione della reintegrazione? Nel licenziamento disciplinare è l’insussistenza del fatto matePERSONALE E LAVORO N. 541 - DICEMBRE 2012 9 e se il fatto è già previsto e punito dal contratto collettivo (e la questione si sposta dalla legge alla contrattazione). La terza ipotesi riguarda il licenziamento per giustificato motivo “oggettivo” e il giudice “può”, non “deve”, reintegrare e la reintegrazione può intervenire solo se il fatto è “manifestamente” insussistente, 10 riale, cioè il giudice deve dire se il fatto oggetto della contestazione disciplinare sussiste o non sussiste. Qui non c’è discrezionalità del giudice, qui è l’accertamento del fatto. È complicato, sicuramente il giudice si può sbagliare e non sempre le imprese sono riuscite a provare in giudizio il fatto. Però è un accertamento del fatto. La seconda questione è più complicata perché qua il legislatore ci dice che se il fatto oggetto della contestazione disciplinare è previsto dal contratto collettivo e punito dal contratto collettivo con una sanzione conservativa, allora il licenziamento non solo è illegittimo ma il lavoratore va reintegrato. E qui allora la questione si sposta dalla legge alla contrattazione collettiva. Questo è un aspetto che secondo me andrebbe valutato. Cioè io direi, con tutte le cautele del caso, che l’autonomia collettiva ha ormai sul tema dell’apparato sanzionatorio del licenziamento un ruolo determinante perché è lei che sposta la sanzione da una parte all’altra. E poi ci sarebbe anche da aggiungere che l’autonomia collettiva può intervenire a sostegno del lavoratore licenziato attraverso quei fondi, ma il discorso si allungherebbe. Perché se noi avessimo dei codici disciplinari che indicano molto più chiaramente di quanto avvenga adesso la strada, noi sapremmo che queste infrazioni vanno con sanzioni conservative e se io licenzio vado alla reintegrazione, tutto il resto rimane alla discrezionalità del giudice. Il giudice dirà che è illegittimo il licenziamento ma alla fine non può reintegrare ma deve condannare a pagare da 12 a 24 mensilità. Quindi l’autonomia collettiva mi auguro che prenda coraggio (è un’operazione difficilissima) e intervenga sui codici. Secondo passaggio con il quale concludo, è quello che riguarda il licenziamento per giustificato motivo oggettivo. Qui il legislatore utilizza una formula probabilmente sovrabbondante in due punti, perché in primo luogo dice: il giudice può reintegrare, quindi nemmeno “deve”, “può” reintegrare. Quando le norme si vogliono chiudere e si vogliono stringere le discrezionalità, la formula può che sembra favorire le imprese alla fine si ritorce sulla flessibilità della norma. Ma il secondo punto è da analizzare: qui la reintegrazione può intervenire solo se il fatto materiale addotto nella lettera di licenziamento è manifestamente insussistente. Qui le critiche sono piovute da ogni parte perché quale bisogno c’era di dire “manifestamente insussistente” se l’insussistenza è oggettiva punto e basta. Ma andiamo bene al punto della questione. La qualificazione in termini di manifesta è qualcosa che aggiunge, cioè se il fatto è insussistente punto, il licenziamento sarà illegittimo ma non c’è la reintegrazione. La reintegrazione per intervenire, deve derivare da un fatto, non solo insussi- PERSONALE E LAVORO N. 541 - DICEMBRE 2012 cioè non basta l’insussistenza “semplice”. Le complessità sono tante. stente, ma manifestamente insussistente. La manifesta insussistenza è un quid pluris rispetto all’insussistenza. È un quid pluris che il giudice deve accertare. Io ho partecipato ad un convegno recente di Magistratura Democratica su questo punto, e l’interesse derivava proprio dall’attenzione dei giudici su questo aspetto. Perché il giudice si pone un problema, che è quello della motivazione. Se io leggo manifestamente insussistente, io devo motivare. Cioè devo dire che se c’è insussistenza punto, io non posso reintegrare. Dirò che è illegittimo il licenziamento, condannerò da 12 a 24 ma non posso reintegrare. Per reintegrare devo accedere alla manifesta insussistenza quindi questo concetto tanto criticato - e io non dico che non sia criticabile - ha un suo valore pregnante. E poi esiste il problema che però è complesso e non vorrei affrontare, di come scriveremo le lettere di licenziamento per giustificato motivo oggettivo. Le continueremo a scrivere dicendo “soppressione del posto”, “non ho altre mansioni alle quali assegnarti” oppure invece le scriveremo in modo diverso? Vedete, le complessità sono tante e l’effetto che rischia di non realizzarsi è quello indubbiamente della difficoltà applicativa. Io mi fermerei qui perché siamo tutti venuti per ascoltare i protagonisti di queste vicende. E quindi lascerei loro la parola. PERSONALE E LAVORO N. 541 - DICEMBRE 2012 11 Sen. MAURIZIO SACCONI Già Ministro del Lavoro Sostanzialità e autoregolazione Ritengo che incontri come questo siano certamente utili, affinché si possa realizzare una sintesi quanto più condivisa delle esperienze regolatorie e fattuali prodotte dalle relazioni industriali nel corso di questi anni. Sostanza e forma Nell’attuale situazione di crisi deve ancor più prevalere la sostanza su un formalismo 12 Per quanto mi riguarda, la prima considerazione che vorrei fare è che, nel momento in cui, molto più di ieri, la regolazione del lavoro si deve porre in relazione con una faticosissima crescita tutt’altro che scontata, resa ancor più complessa dal declino demografico del nostro paese, le esigenze sostanziali devono prevalere su quelle caratteristiche formali che hanno largamente dominato il diritto del lavoro e l’esperienza stessa delle relazioni industriali. È in gioco la possibilità di mantenere nel nostro paese attività produttive rivolte al mercato globale, di rimanere cioè una piattaforma produttiva capace di trattenere, mantenere, far evolvere attività che pure vantano un insediamento tradizionale. La vicenda Fiat per molti aspetti è paradigmatica, come in generale quella dei beni durevoli in presenza di consumatori declinanti. Ma è in gioco anche l’evoluzione terziaria, mi riferisco ai servizi alle imprese, ai servizi alla persona, a quella grande potenzialità rappresentata dal terziario turistico o alla specializzazione delle attività agricole. PERSONALE E LAVORO N. 541 - DICEMBRE 2012 che troppo spesso ha complicato le cose. L’esempio di Marco Biagi che era certamente un sostanzialista. Una giurisprudenza ancorata ad una lettura formalistica di disposizioni che pure erano concepite per favorire quanto più comportamenti duttili. Sono tutti aspetti dell’economia reale che invocano, come dicevo, una regolazione quanto più sostanzialistica in funzione della persona, per consentirle di esprimersi attraverso forme di lavoro regolare nelle quali il potenziale che è in ciascuno si possa sviluppare, possa trovare i modi con i quali incrementare le proprie competenze, autentica ragione di occupabilità delle persone. Noi veniamo invece da una tradizione regolatoria a mio avviso molto autoreferenziale e fondata sul criterio del contraente debole, sulla necessità di difenderlo attraverso soprattutto rigide forme. Nel corso di questi anni ci si è posti il problema di superare in qualche modo questo rigido formalismo e questo rigido approccio; sia io che Tiziano (credo che lui possa convenire) siamo stati consigliati da Marco Biagi in questo senso, come lui consigliava anche se stesso. Insomma, Marco Biagi è stato l’ispiratore dei provvedimenti che dal 1997 sono stati prodotti non solo finché è rimasto in vita, ma in certa misura anche negli anni successivi per il grande deposito di idee che aveva lasciato. Ed egli era certamente un sostanzialista, uno che credeva nella necessità di misurare continuamente la regolazione con il risultato effettivo. Non si accontentava, aveva l’ansia del risultato, della effettività dei valori che si vogliono tradurre nella realtà. Ma anche quando abbiamo cercato regolazioni più duttili, ci siamo scontrati con una giurisprudenza che nella migliore delle ipotesi, possiamo definire schizofrenica, non lineare e comunque per lo più ancorata (anche se per fortuna in essa si individuano evoluzioni positive) ad una lettura formalistica di disposizioni che pure erano concepite per favorire quanto più comportamenti duttili. Penso al causalone, che era una non causale. Il superamento della tipizzazione era un modo con il quale far veder meno la causale. Invece, rischia di accadere come per l’art. 8 (che pure descrive quasi tutto quello che può motivare un comportamento positivo in un’impresa) soggetto a possibili risposte formalistiche quando intento del legislatore era invece quello di sostenere la contrattazione aziendale, individuando in essa finalità di per sé positive per l’impresa. Ci si mette insieme per fare qualcosa di positivo. È difficile pensare che lo si faccia per ridurre l’occupazione o ridurre la capacità di crescita o di sopravvivenza dell’impresa. Nel momento in cui i limiti della recente legislazione sono già evidenti, io credo che debba essere compiuta questa operazione. E che il problema non sia soltanto quello di riprendere in mano la definizione delle tipologie contrattuali, ma ci debba essere un’ambizione maggiore, quella di superare quanto più possibile questo approccio formalistico. PERSONALE E LAVORO N. 541 - DICEMBRE 2012 13 La regolazione… La regolazione recente non è stata positiva Io sono convinto che la regolazione recente non sia stata positiva. L’ho detto esplicitamente non partecipando in Parlamento ai voti, per quanto fossero dei voti di fiducia; ne ho espresso uno solo, quello relativo agli ammortizzatori sociali, anche se ho ricordato la ragione (che deve farci riflettere ancora oggi) per cui fino a ieri non avevamo proceduto a riformarli e che era quella per cui la riforma avrebbe prodotto un ampliamento della platea dei titolari dei diritti soggettivi e in questo modo avrebbe determinato un andamento imponderabile della spesa. E che premerà sull’alto livello della contribuzione e dunque non consentirà di ripensare il costo indiretto del lavoro. Questa è l’obiezione che è stata fatta nel corso di questi anni e che, in certa misura, con i tempi che ci stanno di fronte continuerà ad avere un suo peso. … e le nuove rigidità formali ed ha introdotto nuove rigidità formali, restringendo l’utilizzo ai soli rapporti a scadenza in senso lato e non consigliando il ricorso a altre, nuove tipologie flessibili. Al netto del riordino degli ammortizzatori sociali, si sono introdotte rigidità formali, si sono evocate attività ispettive di carattere formale, anzi le attività ispettive sono in qualche modo l’origine di quella iper-regolazione delle tipologie contrattuali flessibili, nel nome delle quali si sono individuati i comportamenti patologici e, in relazione a loro, si sono tarate nuove disposizioni. Mi pare che in un convegno si disse che per intercettare una patologia si sono irrigiditi mille comportamenti che non sarebbero stati patologici. Invece di rivolgerci alla funzione ispettiva, si è pensato di agire con la chiave inglese sulla regolazione, stringendola in termini tali che l’effetto è ragionevolmente quello inibitorio, restringendo l’utilizzo ai soli rapporti a termine o comunque a rapporti a scadenza in senso lato e non consigliando il ricorso a altre, nuove tipologie flessibili, dato l’evidente sfavore del legislatore e conseguentemente delle funzioni ispettive nei confronti di queste. Così come, per lo stesso Contratto di Apprendistato. Il Contratto di Apprendistato e il Repertorio delle Professioni Avremmo l’unanimità del Parlamento, delle Regioni, delle forze sociali su un testo di tipo più sostanzialista che individuasse una componente formativa effettiva. 14 Voi sapete quanto io lo abbia inteso essere il contratto ideale, il contratto che vorremmo tutti prevalente per entrare nel mercato del lavoro, riuscendo a realizzare un testo unico condiviso unanimemente in un tempo di esasperata conflittualità politica, e in certa misura anche sociale: avremmo l’unanimità del Parlamento, delle Regioni, delle forze sociali su un testo di tipo più sostanzialista rispetto al formalismo precedente, che individuasse una componente formativa effettiva idonea alle diverse condizioni di circostanza. Perché quella componente PERSONALE E LAVORO N. 541 - DICEMBRE 2012 Penso ad un repertorio di profili più sostanziali e non riferiti ad aspetti formali, a valori “legali” di titoli. formativa fosse quanto più effettiva, e non soltanto il formale omaggio ad un contratto a causa mista. Una cosa che mi angoscia non poco - e che ha circa 13 anni di storia fallimentare - è l’idea di quel repertorio delle professioni che irrigidirebbe la questione “qualifica o qualificazioni” di cui credo parlasse prima il professor Maresca. O che più in generale può dare luogo a irrigidire le mansioni una volta definito questo repertorio. E non a caso governi e parti sociali succedutesi nel corso di questi anni non vi sono riusciti. Io sono contrario a irrigidire una logica di accesso alle competenze che deve essere quanto più sostanziale. Sono invece favorevole ad individuare dei modi con i quali un’azienda o un’associazione di categoria stimate nel mercato possano certificare - però in termini sostanziali - che c’è stata da parte dell’apprendista una certa acquisizione di competenze. Ma, appunto, penso più a profili sostanziali che non ad aspetti formali, a valori “legali” di titoli acquisiti attraverso percorsi formativi. Questo mi porta certo ad auspicare correzioni alla legge e se si è presentato un disegno di legge di secco ritorno alla legge di Biagi, è perché la legge Biagi aveva funzionato. Leggi e Occupazione Tra il 1997 e il 2007, le due leggi consigliate da Marco Biagi e curate da Tiziano e da me hanno incrementato l’intensità occupazionale e si sono prodotti tre milioni di posti di lavoro. Ci si può poi interrogare se le leggi determinino maggiore occupazione. Io so che tra il 1997 e il 2007, le due leggi consigliate da Marco Biagi e curate da Tiziano e da me hanno incrementato l’intensità occupazionale della crescita economica e hanno incrementato i posti di lavoro. Cioè, non soltanto si sono prodotti quasi tre milioni di posti di lavoro nell’arco di 10 anni, ma si sono prodotti soprattutto in condizioni di bassa crescita, e cioè è migliorato il rapporto tra l’incremento dell’occupazione e l’incremento della ricchezza. Hanno fatto schizzare su l’occupazione, in proporzione all’andamento della crescita, perché hanno soprattutto consentito di dare regolarità ai rapporti di lavoro, a molti lavori totalmente o in parte sommersi, hanno fluidificato il mercato del lavoro. Contributo certo relativo, parziale, in attesa anche di una regolazione più compiuta (il sogno dello Statuto dei Lavori), ma utile a determinare maggiore propensione ad assumere in forma regolare. L’Autoregolazione… La regolazione dovrebbe essere quanto più cedevole rispetto alla capacità di autoregolazione delle parti in prossimità: La mia conclusione è che però oggi dobbiamo guardare soprattutto a modi con i quali andare oltre la regolazione di legge. Io ho fortemente voluto l’art. 8, non soltanto come esigenza contingente determinata dalla vicenda Fiat, ma quale esigenza di dare certezza ad accordi maggioritari. E sono ripartito da una cultura sindacale che nel 1970 fece dire alla Cisl (che non era molto favorevole allo Statuto dei Lavoratori) con grande lungimiranza: “il contratto è il mio statuto e il mio statuto è il contratto”. PERSONALE E LAVORO N. 541 - DICEMBRE 2012 15 il territorio e l’azienda. Nel momento in cui le relazioni industriali si trasferiscono in prossimità, si evolvono, secondo un elementare principio di sussidiarietà, in modo che quello più prossimo sia l’unico contratto. Possiamo adattare e gestire un contratto di apprendistato nel concreto delle situazioni? Evitando un criterio astratto secondo il quale ovunque e comunque occorre una formazione distinta e distante dall’impresa? Io che credo al primato della persona, della società sullo stato, penso che la regolazione, pur all’interno dei principi dell’ordinamento (nazionale, comunitario, internazionale) debba essere quanto più cedevole rispetto alla capacità di autoregolazione delle parti in prossimità. Parti e condizioni che significano il territorio quando c’è una diffusione delle piccole imprese, quando si tratta di abbracciare una realtà diffusa di piccole imprese, e l’azienda quando vi sono minime condizioni anche dimensionali perché in essa questo incontro si possa produrre. E quando quell’incontro si produce, e si produce in base ad alcune essenziali regole di consenso, quell’incontro - ripeto nell’ambito dei principi dell’ordinamento - deve essere ritenuto il più virtuoso, ed il più possibile incoraggiato. La nostra storia delle relazioni industriali, che è stata ampiamente viziata dal formalismo, ha avuto caratteristiche di centralismo con la prevalenza del contratto nazionale. Ma nel momento in cui queste relazioni industriali si trasferiscono in prossimità, si evolvono. E non sommando livelli contrattuali, ma secondo un elementare principio di sussidiarietà, facendo in modo che prevalga quello più prossimo e che quello più prossimo sia l’unico contratto. L’art. 8 prevede sostanzialmente che il contratto più prossimo prevale su ogni altro. Poi sta alle relazioni industriali evitare che sorgano conflitti. Possiamo muoverci in quella direzione e via via cercare adattamento alle concrete circostanze? Adattare e gestire un contratto di apprendistato nel concreto di quella situazione? Evitando che le logiche formali conducano a punire l’accesso alle competenze della persona nel nome di un criterio astratto secondo il quale ovunque e comunque occorre una formazione distinta e distante dall’impresa? Quando semmai il pregiudizio dovrebbe essere favorevole all’impresa, di ritenere fino a prova contraria che è l’impresa l’ambito in cui evidentemente questa formazione si può utilmente realizzare? Nelle concrete circostanze quindi si gestisca un contratto di apprendistato, si gestisca, si adatti un rapporto di lavoro, si realizzino accordi. Ma come non vedere quanti contratti a termine, nel momento in cui se ne esauriscono i termini, potrebbero essere trasformati in contratti a tempo indeterminato? L’impresa potrebbe essere disponibile a farlo se un accordo aziendale dicesse per esempio: per 5 anni non si applica la reintegrazione nel caso di contenzioso. E magari il contenzioso decidiamo di risolverlo attraverso il contratto. Decidiamo dall’inizio di dirci che se litigheremo non ci rivolgeremo agli arbitri, non andremo davanti al giudice, ma ce lo risolveremo noi. … e l’esperienza “comunitaria” Possiamo pensare quindi ad una fuoriuscita dal formalismo? Ciò non si produce dalla mattina alla sera, ma si può farlo gior- 16 PERSONALE E LAVORO N. 541 - DICEMBRE 2012 Io credo che il concetto di comunità ci appartenga molto, appartenga alla nostra cultura, alla nostra tradizione. Credo che l’impresa, quando nasce familiare, è già comunitaria, e può restare tale anche se cresce, si managerializza, entra il capitale di terzi. Questo spirito comunitario può sostituire il rigido formalismo dell’antagonismo tra classi. Questa è la riflessione che pongo: con un forte accento sulla contrattazione aziendale e sull’art. 8 per quel che può significare. no dopo giorno dando valore a quella buona esperienza comunitaria che noi abbiamo. Io credo che il concetto di comunità ci appartenga molto, appartenga alla nostra cultura, alla nostra tradizione. Credo che l’impresa, quando nasce familiare, nella gran parte dei casi, nasce già comunitaria, e che possa restare comunitaria anche quando cresce, si managerializza, quando entra il capitale di terzi. Ed essere comunità in quell’impresa significa un impegno, oltre la “responsabilità sociale”, che - per carità - può dare qualche posto alle società di servizio che fanno le brochure, ma a parte quello resta poco. Parlo infatti di essere comunità in termini sostanziali. Nelle comunità ci si riconosce, ci si accetta a certe condizioni e a certe tutele e ci si separa per ragioni oggettive o per ragioni soggettive, ma per restare coesi, per ripartire quando si è attraversato il momento difficile. E nelle comunità ci si tutela e si condivide, si condivide la fatica e anche il risultato. E il salario si determina quanto più in relazione alle concrete condizioni date, si proteggono i lavoratori ma si proteggono anche le loro famiglie, perché anche le famiglie si identifichino e si possano identificare con quella comunità. E si integra il sistema di welfare pubblico, si pensa al carrello della spesa, si aiutano gli studi dei figli che un domani potrebbero essere collaboratori molto professionali di quell’impresa. Questo spirito comunitario può sostituire il rigido formalismo dell’antagonismo tra classi che inesorabilmente sono virtuose solo quando confliggono. O rendono virtuosa la storia solo quando confliggono. Questa è la fuoriuscita dal ‘900. Possiamo fuoriuscire o dobbiamo ancora restare dentro quello schema? Questa è la riflessione che pongo: con un forte accento sulla contrattazione aziendale e sull’art. 8, per quel che può significare. Il senatore Treu diceva: a giuste dosi, come sempre nella vita. Il problema è capire se questa può essere una direzione di marcia. Io penso che lo possa essere, che corrisponda alle nostre migliori radici, alle nostre migliori tradizioni. Io sono un conservatore e quindi credo davvero nelle tradizioni, e credo che nel momento in cui il ‘900 si sciolga come neve al sole - come tutti i guasti che ha prodotto - riemerga la forza della nostra tradizione, che ci può illuminare nel difficile percorso che ci attende. PERSONALE E LAVORO N. 541 - DICEMBRE 2012 17 Sen. Prof. TIZIANO TREU Già Ministro del Lavoro Gradualità e realismo Grazie dell’occasione. In questo periodo ci sono molti incontri di questo tipo. Mi sembra utile riflettere, soprattutto se lo facciamo in modo pacato e senza gli eccessi che sono comuni nella nostra storia quando si parla di lavoro. Questi eccessi hanno circondato anche la approvazione della legge. Tuoni e fulmini fuori dal Parlamento, nonostante in Parlamento ci sia stata più quiete del solito. È abbastanza eccezionale che si sia discusso e si sia anche cambiato il progetto governativo in modo bipartisan. L’introduzione di Maresca è stata molto completa e personalmente la condivido in larghissima parte. La legge e l’occupazione Non dobbiamo sovraccaricare questa legge di eccessive aspettative; l’idea che cambiando regole si dia un contributo decisivo all’occupazione è semplicistica. Il nostro sistema economico negli ultimi anni non è cresciuto, l’economia si è chiusa e la generazione dei giovani è rimasta fuori. 18 La prima notazione che faccio soprattutto di fronte ai protagonisti è che non dobbiamo sovraccaricare questa legge di eccessive aspettative. È stato fatto così dallo stesso Governo, a mio avviso sbagliando. Perché l’idea che cambiando regole anche importanti come l’art.18 si dia un contributo decisivo all’occupazione è come minimo semplicistica. Anche l’Ocse ha detto che cambiare le norme di protezione per renderle più flessibili è utile, ma come un pezzo di un mosaico più complesso, che comprende politiche economiche di sviluppo e politiche attive del lavoro. L’occupazione non cresce se non ci sono altre condizioni su questi versanti. La legge può aiutare a fluidificare e migliorare il funzionamento del mercato del lavoro ma se il motore dell’economia è fermo, se il mercato del lavoro regredisce (tasso di occupazione sempre più basso, aumento degli scoraggiati, ecc.) la legge non basta. Il nostro sistema economico negli ultimi anni non è cresciuto; e questo è un peccato grave. Non essendo cresciuto, c’è stato un altro peccato mortale: l’economia si è chiusa, si è tenuta dentro quelli che erano già occupati anche se erano in posti di lavoro “defunti”. E così la generazione dei giovani, una generazione PERSONALE E LAVORO N. 541 - DICEMBRE 2012 Se c’è ripresa, anche la legge può funzionare meglio, ed alcuni difetti possono essere corretti. intera è rimasta fuori. L’economia non cresce, chi è dentro è dentro e chi è fuori non trova occupazione. Purtroppo è così. Se adesso, oltre che a fare convegni anche utili, ci dedicassimo a far ripartire la macchina dello sviluppo, a cominciare dal Governo, dal Parlamento e dagli operatori e non continuassimo a concentrarci troppo su questa legge, sarebbe meglio. Se c’è ripresa, allora anche questa legge può funzionare meglio; e sarà più facile correggere alcuni difetti che ci sono. Le novità positive Si è corretta l’anomalia maggiore del sistema italiano, l’articolo 18, una norma unica in Europa con l’unico rimedio della reintegrazione. La scrittura poteva essere migliore, ma sottovalutare la modifica è miope. Nella flessibilità in entrata ci sono cose che si potevano fare meglio. In Europa questa legge è apprezzata perché si è tolta l’anomalia dell’articolo 18 e si è migliorato il sistema di ammortizzatori. Detto questo, il primo punto che voglio sottolineare è quello già richiamato da Maresca: questa legge ha una direzione di fondo diversa dal passato e conforme alle guidelines europee. Ha corretto diverse anomalie del sistema italiano: un modello non efficiente rispetto a quelli del nord Europa. L’anomalia maggiore era l’articolo 18, una norma unica in Europa per il fatto che prevedeva come unico rimedio del licenziamento ingiustificato la reintegrazione. Su questo ci si è concentrati, opportunamente, anche se non occorre enfatizzare. Voglio sottolineare un punto su cui non ho mai avuto un’interlocuzione vera. Noi avevamo fino a ieri, una flessibilità in uscita bloccata non solo per l’articolo 18, ma anche per un sistema di ammortizzatori sclerotico ed antieconomico. La modifica intervenuta all’art. 18 è radicale anche se, a mio avviso, costruita, in modo contorto. La scrittura poteva essere migliore, ma sottovalutare tale modifica è miope. Altre novità che correggono un’anomalia italiana grave (sia pure lentamente) riguardano la limitazione dell’uso eccessivo della Cassa Integrazione, il superamento delle indennità di mobilità che sono sostanzialmente licenziamenti mascherati e costosi e per altro verso un parallelo superamento dei prepensionamenti. Nella flessibilità in entrata ci sono novità di varia portata che scontano non poche anomalie del nostro diritto del lavoro. In nessun paese europeo, controllate, chiedete ai vostri colleghi, esistono tutti i nostri tipi di contratti di lavoro mezzo autonomi e mezzo subordinati. Il Contratto a Progetto non esiste in forme e quantità paragonabili. Né le Partite Iva usate per coprire lavori dipendenti; non parliamo dell’Associazione di Partecipazione che era un istituto da scaffale di libreria civilistica, praticamente inesistente e adesso è stato usato per inquadrare le commesse di grande magazzino. Qualcosa certamente è stato regolato in modo discutibile, però, in Europa questa legge è apprezzata perché si è tolta l’anomalia dell’articolo 18 e si è migliorato il sistema di ammortizzatori. Purtroppo non abbiamo politiche attive all’altezza delle necessità. Questo in generale. Aggiungo qualche osservazione su punti specifici. PERSONALE E LAVORO N. 541 - DICEMBRE 2012 19 I punti specifici Il Contratto a Termine italiano è più o meno in media europea e semmai rischia di intrappolare le persone più che in altri paesi, ma perché c’è poca crescita. Questo primo contratto di 12 mesi che poi sono 14 e rotti, è un notevole strumento, una specie di prova lunga. Se non bastano questi mesi, vuol dire che si vuole creare troppa precarietà. Le causali andavano totalmente abolite e andava messo un tetto alla quantità dei contratti a termine. 20 Noi abbiamo un tasso di lavoro autonomo che è quasi 10 punti più alto dell’Europa. È così non perché ci siano più attività veramente autonome. Invece spesso si tratta di un lavoro di risulta, pagato poco, con un po’ di evasione fiscale e con contributi sociali più bassi. È questa la vera anomalia italiana e per correggerla fino in fondo non basterà di certo la legge Fornero. Il Contratto a Termine italiano è più o meno in media europea; il problema vero è che chi ha un contratto a termine da noi rischia di essere intrappolato di più di quanto non sia in altri paesi; ma ciò perché il motore della crescita funziona male. Per lo stesso motivo funzionano male gli ammortizzatori sociali. In Danimarca funzionano bene facilmente perché ci sono buoni servizi all’impiego e formazione adatta, e perché c’è un’economia che va. Da noi purtroppo sono spesso misure…senza sbocco. Pur essendo da tanti anni che cerco di interpretare la legge un po’ come professore, un po’ come avvocato, resto sorpreso dell’interpretazione data del Primo Contratto a Termine. L’intenzione dei legislatori in questo caso era chiara. Si è voluto dare la possibilità di un primo contratto a termine, ove primo è riferito a contratto a termine. Non vedo perché dare un senso diverso a questa formula come ha fatto il ministero. In ogni caso la modifica della legge mi sembra importante. Questo primo contratto di 12 mesi che poi significa 14 e rotti, è un notevole strumento, una specie di prova lunga. Se non bastano questi mesi, allora vuol dire che si vuole creare troppa precarietà. Il ministro ha dato apertura su ulteriori modifiche del contratto a termine perché è considerato un tipo di flessibilità “buona”. Anomali il co.co.pro., la partita iva, l’associazione di partecipazione di solo lavoro. Noi avevamo proposto che gli intervalli fra contratti a termine venissero tutti flessibilizzati con la contrattazione, poi si è introdotta una formula inadeguata. Il 6% di franchigia sull’organico di contratto a-causale può darsi che sia una norma inadeguata ma non ce la siamo inventata noi. È sorta da un dibattito con le imprese; può darsi che non funzioni, però non rinuncerei subito a provarla. Quando c’è una norma, una regola di interpretazione dovrebbe essere di favorire le modalità in cui può funzionare; invece spesso facciamo di tutto - noi giuristi - per non farla funzionare. Non è il caso di quelli che sono qui, però ce ne sono molti in giro. Questa parte sul contratto a termine è stata ulteriormente considerata con il cd decreto sulle start-up e credo che sia positivo. Personalmente ero dell’idea che le causali andassero totalmente abolite e che fosse meglio invece mettere un tetto alla quantità dei contratti a termine; perché una modica quantità (come la droga…) fa bene; se invece l’azienda ne usa troppi vuol dire che non investe nelle risorse umane. PERSONALE E LAVORO N. 541 - DICEMBRE 2012 Il cuneo contributivo doveva essere reso più morbido e uguale per tutti i tipi di lavoro. Se la pensione contributiva risultasse troppo bassa, si potrebbe mettere una pensione di sostegno, come negli altri paesi. Sull’articolo 18 è chiaro che la reintegrazione è marginale. Speriamo che questo messaggio passi. La distinzione tra i due tipi di licenziamento esiste in tutti i paesi per il tipo dei motivi ma non per le sanzioni. Sul Contratto a Progetto sono d’accordo con Maresca; dal punto di vista della definizione della fattispecie non cambia granché rispetto alla precedente giurisprudenza. Sulle Partite Iva la norma va vista nella sua interezza. Molti esperti si indignano sul primo comma; ma il secondo e il terzo riducono molto la presunzione. La partita Iva è ancora utilizzabile per lavori di qualità che abbiano i caratteri del 2° e 3° comma; non invece per una commessa di grande magazzino o un operaio edile. Il vero limite di questa normativa è di aver alzato i contributi sociali in modo eccessivo, ma questo è un problema grave in generale. Andrebbe rivista tutta la struttura del costo del lavoro, è inutile che lo dica a voi. Il cuneo contributivo dovrebbe essere ridotto e previsto in misura uguale per tutti i tipi di lavoro. Di nuovo, come in Europa: tutti quelli che lavorano, sia autonomi, sia subordinati, dovrebbero avere un eguale livello di contributi; che comporta una pensione uguale. Questa sarebbe una grande riforma, se riusciamo a farla. Con un problema conseguente. Se, come qualcuno di noi propone, tutti avessero il 28% di contributi invece del 33%, col sistema contributivo le pensioni sarebbero più basse delle attuali. Per evitare pensioni insufficienti altri paesi hanno previsto di integrare la pensione contributiva con una pensione di sostegno, come la vecchia integrazione al minimo. Ma questa specie di zoccolo di base va finanziata dal fisco e allora il nostro sistema fiscale deve funzionare meglio. Sull’articolo 18 è stato già detto e sono d’accordo; sottolineo che l’indicazione chiara è nel senso che la reintegrazione è marginale mentre l’indennità è la regola. Speriamo che questo messaggio passi; mi aspetterei che gli operatori lo diffondano e non lo oscurino adducendo imperfezioni di scrittura. Il problema di aver previsto quattro tipi di sanzioni, è certo una complicazione, ma non si sono potute apportare modifiche al testo concordato con la Presidenza del Consiglio, dato il carico di tensione e di ideologia. C’è un difetto d’origine che non viene abbastanza rilevato: questa distinzione tra licenziamento disciplinare e licenziamento per giustificato motivo oggettivo esiste in tutti i paesi per quanto riguarda i motivi ma non per le sanzioni. In nessun paese le sanzioni sono diverse. E perché è sorta questa distinzione? Per un’impostazione, secondo me, comprensibile ma anche qui distorta da un eccesso ideologico. Nel caso di giustificato motivo oggettivo, che riguarda le esigenze dell’impresa, ci si è preoccupati che il giudice interferisca nelle scelte dell’imprenditore. Allora il legislatore ha stabilito che il giudice deve essere rigoroso nel decidere la sanzione in questi casi. Per questo si è previsto che la reintegra si può avere solo in caso di insussistenza del fatto, e, come se non bastasse, di manifesta insussistenza del fatto. E poi si è aggiunto che il giudice può - e non deve ordinare la reintegra. Quindi per ordinare la reintegra deve PERSONALE E LAVORO N. 541 - DICEMBRE 2012 21 Il legislatore ha stabilito che il giudice non può interferire nelle scelte di merito dell’azienda. provarsi la insussistenza del fatto, che per di più deve essere manifesta, e per di più, il giudice potrebbe ancora dire che, nonostante la manifesta insussistenza del fatto, la reintegra non è necessaria. Questa preoccupazione per il giustificato motivo oggettivo ha portato a una lunga diatriba su come identificarlo e poi ha motivato una trasposizione dal diverso tipo del motivo ad una diversa sanzione. Guardando avanti, realismo C’è da augurarsi che non si continuino a rivedere le scelte legislative ad ogni cambio di governo. Fra un anno vediamo cosa non funziona e cerchiamo di fare dei miglioramenti incrementali. Mi auguro che le parti sociali operino in modo costruttivo: anzitutto concludendo un patto per la produttività. La regolazione è utile ma poi servono le politiche attive del lavoro e la formazione. Quella professionale si può fare solamente in azienda. 22 Vorrei dare due indicazioni guardando in avanti se è possibile. Per l’applicazione della legge è importante il contesto economico. E anche quello politico ovviamente, vedremo cosa succede dopo Monti. C’è da augurarsi che non si continuino a rivedere da capo le scelte legislative ad ogni cambio di governo. Che è una delle iatture, di cui tutti abbiamo colpa nel passato. È invece opportuno procedere a monitorare la legge. Poi fra un anno o due vediamo cosa funziona, cosa non funziona. Cerchiamo di fare dei miglioramenti incrementali, cioè tenendo il buono e aggiungendoci qualcosa. Molto dipenderà da quanto fanno gli operatori che devono applicare la legge. Anzitutto la magistratura e molto le parti sociali che hanno un ruolo importante. Mi auguro che le parti sociali operino in modo costruttivo: anzitutto concludendo un patto per la produttività di cui si sta parlando in questi giorni, che pone un accento sul decentramento e sui contratti aziendali come hanno fatto anche gli altri paesi. L’accordo del 2011 interconfederale va in quella direzione, ma è ancora inattuato. Buone relazioni industriali sono decisive per migliorare la gestione di una legge, che si fa in azienda. Nella legge c’è una delega sulla democrazia economica e sulla partecipazione di cui nessuno parla ma è importante venga attuata al più presto. Nella delega non si impone per legge la partecipazione, ma c’è un’indicazione di sostegno a renderla operativa secondo la direttiva europea; mi auguro che le parti si adoperino per diffonderla e per fare politica del lavoro. Le politiche del lavoro sono una cosa diversa rispetto alla regolazione del lavoro. La regolazione è utile ma poi servono le politiche attive del lavoro e la formazione. Tra l’altro è vero quello che diceva Sacconi; nella legge non si ipotizza di continuare una valutazione formale delle competenze; al contrario si vuole promuovere una cultura attenta alle competenze effettive, quelle richieste dalle imprese, e si riconosce che la formazione professionale si può fare solamente in azienda. Occorre al più presto riordinare le competenze istituzionali, tenendo conto del superamento delle provincie. Passi avanti ne abbiamo fatti e su questa strada bisognerà continuare. PERSONALE E LAVORO N. 541 - DICEMBRE 2012 Riepilogando Prof. ARTURO MARESCA Io ringrazio molto il senatore Sacconi e il senatore Treu. Si è andati alle fonti del Diritto del Lavoro. Sembra che sono stati toccati una serie di temi che vanno anche alle fonti nel diritto del lavoro. Qui in effetti la prospettiva è interessantissima, perché se si riuscisse a incidere su queste fonti, si prenderebbe il problema della regolazione del lavoro proprio lì dove nasce. L’Art. 8: un accordo e una sentenza. Il tema è: il sistema delle regole legali può essere messo in discussione dalla contrattazione collettiva? Circa l’articolo 8, della legge 148 del 2011, ha avuto a favore due punti in questo momento: - il famoso accordo che abbiamo letto tutti, l’accordo Golden Lady, firmato anche dalla Cgil, quindi un accordo che - adesso uso un’espressione impropria - sdogana l’articolo 8, lo immette nell’ambito delle relazioni sindacali come una risorsa; - la sentenza della Corte Costituzionale, una sentenza parziale perché viene resa nel conflitto tra Stato e Regioni, le Regioni rivendicavano la competenza in materia di apprendistato e ponevano la questione di legittimità costituzionale sotto questo profilo. La Corte dice che la norma è legittima, si riserva di intervenire sui profili diciamo di diritto sindacale. Ho fatto una sintesi molto rapida, ma il cuore della sentenza mi sembra questo. È importante perché poi il tema dell’articolo 8 è banalmente questo: il sistema delle regole legali e inderogabili che costituisce un caposaldo del diritto del lavoro, e che però ha l’effetto di irrigidire e congelare le regole legali, può essere messo in discussione dalla contrattazione collettiva quando siano salvaguardati i diritti costituzionali, e quelli che derivano dai principi comunitari, o internazionali? Ora quella norma rimette in discussione il sistema di regole legali inderogabili perché è una norma in fondo che fa un’operazione semplice, cioè di rendere le norme inderogabili, derogabili da parte della contrattazione collettiva. Non è una delegificazione, ma è una regolazione legale divenuta derogabile da parte del contratto aziendale e del contratto territoriale. PERSONALE E LAVORO N. 541 - DICEMBRE 2012 23 Il punto critico è l’indicazione delle materie. Il punto critico è però quello della indicazione delle materie, perché il legislatore indica una serie di materie, ricadendo nel problema del formalismo giuridico. Io la critica al formalismo giuridico la comprendo e la condivido, ma un legislatore che senza smontare le fonti, interviene sul formalismo giuridico e ci mette del suo, allora rimette la palla in mano al formalismo giuridico. Quando si parla di disciplina del rapporto del lavoro, c’è tutto o non c’è tutto? Evidentemente se ci fosse tutto, l’elencazione precedente non servirebbe e quindi il problema dell’articolo 8 rimane. Ma è un modello però di grande interesse. Perché l’abilitazione alla modificabilità non viene attribuita anche al contratto collettivo nazionale, e solo a quelli territoriali e aziendali? L’idea di una flessibilità buona che viene remunerata e che genera altra flessibilità, andrebbe coltivata. Un 6% di contratti a termine a-causali è una idea eccezionale, perché ogni impresa ha bisogno di una flessibilità di lavoro temporanea quantitativamente misurata. 24 Poi qualcuno può criticare perché l’abilitazione alla modificabilità non venga attribuita anche al contratto collettivo nazionale, e solo a quelli territoriali e aziendali, a fronte della contrattazione collettiva, che nel nostro paese riserva alla contrattazione aziendale e territoriale uno spazio molto limitato. E però qui la risposta è quella che a discrezionalità del legislatore premia le fonti collettive più dinamiche. E devo dire (so che qui dentro ci sono molti critici e quindi lo dico sommessamente) che il contratto collettivo nazionale di categoria non è un esempio di grande modernizzazione del diritto del lavoro, salvo in alcuni comparti che fanno un po’ da apripista, ad esempio il contratto del credito che qui ho davanti a me. Noi vediamo contratti collettivi nazionali di categoria che ripetono le stesse formule dagli anni ’70… Insomma, è una cosa sulla quale i contratti collettivi nazionali di categoria si dovrebbero impegnare. Un altro tema, che riguarda più il nostro discorso è quello della flessibilità. L’idea per esempio di avere una flessibilità buona che viene remunerata, che genera altra flessibilità, un bonus di flessibilità, contratti a termine, ecc. è un’idea che secondo me bisognerebbe coltivare. Un 6% di contratti a termine a-causali è una idea, non buona, ma eccezionale, perché ogni impresa ha bisogno di una flessibilità di lavoro temporanea quantitativamente misurata. Ma non funzionerà mai finché il nostro legislatore non toglierà le 5 causali pressoché incomprensibili e alle quali lo ha ancorato: lo posso fare per un significativo progetto di ricerca di sviluppo, per il rinnovo di una proroga di una commessa che però deve essere consistente, ecc. In tutto questo i nostri giudici immagino che cosa faranno. Se noi riuscissimo a rimuovere questa norma che per altro fu scritta non per il 6% ma per le reiterazioni e per gli intervalli e che fu - se posso usare un’espressione che può sembrare irriguardosa - appiccicata dal le- PERSONALE E LAVORO N. 541 - DICEMBRE 2012 gislatore ad un 6%, allora avremmo veramente un passaggio notevole. Concludo con il tema dell’apprendistato, un tema sul quale bisognerebbe fare uno sforzo titanico. Prima cosa la regionalizzazione. Io ricordo un interessantissimo seminario fatto con Marco Biagi (e fu purtroppo uno degli ultimi) e lì c’era un’idea sua che andava molto di più verso la regionalizzazione. Era un momento in cui molti di noi pensavano, in base ad alcune riforme costituzionali, che il diritto del lavoro andasse verso la regionalizzazione. E lui era molto più spinto in questa direzione, c’erano in Veneto alcune idee che si stavano muovendo, sembrava una tendenza. Poi io dico per fortuna si riportò il diritto del lavoro nella sede nazionale. La Corte Costituzionale dice che la formazione è di competenza delle regioni per il repertorio delle qualifiche formative, ma è di competenza statale quando è obbligo del contratto. Ma secondo me rimase un po’ la suggestione della regionalizzazione. Un po’ per quella tendenza politica, un po’ per quella questione tecnico-giuridica secondo cui si è sempre pensato che la formazione fosse materia di competenza del legislatore regionale. Affermazione smentita dalla Corte Costituzionale che dice che la formazione è di competenza delle regioni per il repertorio delle qualifiche formative, ma è di competenza statale quando la formazione è obbligo del contratto. Questo l’ha detto così chiaramente che bisognava cogliere questa palla al balzo, riportare la formazione alla competenza dei contratti collettivi come è stato fatto col decreto del 2011, e questo avrebbe risolto molto. L’unico punto rimane quello della qualifica e della qualificazione, che sembra una banalità ma è un punto fondamentale. Nella certezza, dell’incertezza… alla fine le imprese scelgono un altro strumento. I temi sono moltissimi, abbiamo la fortuna di poter porre domande, questioni e osservazioni, cosa che vi inviterei a fare. PERSONALE E LAVORO N. 541 - DICEMBRE 2012 25 Si dice che il mondo, le cose che abbiamo, non sono un regalo dei nostri padri, ma un prestito dei nostri figli. Siano pure bamboccioni o choosy, le nostre insolvenze verso di loro sono gravi. Comprendere, sostenere, inserire questa “generazione rimossa” è una preoccupazione che non può non avere chi - come noi - si occupa di risorse umane nelle organizzazioni e, ancor più, chi - di noi - guarda lontano. I Premi della Fondazione sono un minimo indennizzo, ma un convinto segnale. La Fondazione ISPER pone a disposizione di Laureati e Laureandi TRE PREMI DI LAUREA “Giuseppe Capo” di 1.500,00 Euro ciascuno Per TESI di LAUREA in materia di GESTIONE DELLE RISORSE UMANE discusse nel corso del 2012 Con il contributo di Alenia Aermacchi SpA - Alitalia SpA - ANIA - Parmalat SpA ALE - Agenzia per la Promozione di Studi nella Materie del Lavoro e dell’Economia Informazioni: rivolgersi alla Segreteria Fondazione ISPER E-mail [email protected] e [email protected] Tel. 06.85.30.30.54 - www.fondazione-isper.eu Tesi di Laurea: operatori del futuro che si esercitano sul presente E nel presente opera un’altra fra le principali iniziative della Fondazione L’OSSERVATORIO SULLE RELAZIONI INDUSTRIALI Per fornire riferimenti aggiornati sulle novità (leggi, accordi, interpretazioni, ecc) utili per gli operatori aziendali. Attraverso incontri e riunioni degli Aderenti (per lo più responsabili di Vertice delle Relazioni Industriali delle principali aziende italiane) con autorevoli Attori a livello nazionale per informazioni, valutazioni, scambi di opinioni. Referente Scientifico: Prof. ARTURO MARESCA Fondazione ISPER Ente non profit nato nel 1993 per iniziativa di Carlo Actis Grosso allo scopo di favorire la crescita della Cultura della Gestione delle Risorse Umane in Italia Comitato Scientifico Avv. Gianni Barone, Dr. Luigi Caso, Dr. Giuseppe Depaoli, Avv. Giancarlo Durante, Avv. Guido Fantoni, Prof. Avv. Sergio Magrini, Prof. Avv. Arturo Maresca ® PERSONALE E LAVORO Uno dei 25 servizi ISPER a supporto di chi opera nella Funzione Personale Archivio Risorse Umane Autodiagnosi Amministrazione Personale aBenchmark Lampo® Benchmark Osservatorio® Bilancio Professionale e Autosviluppo Calcolo Pensioni INPS Clima Organizzativo Costo Vita Nazione e Città Estera Disagio all'Estero Documentazione Attività Formative DOCU/PER Europer Notizie ISPER Edizioni Incontri Esperti Amministrazione Personale Pareri Amministrazione Personale Personale e Lavoro Promemoria tascabili Risorse Umane nei Bilanci Osservatorio e Strumenti Risorse Umane Focus Scenario Risorse Umane Formazione Base Formazione di Approfondimento Formazione di Confronto Formazione Convegnistica Formazione su Misura