Dal latino al volgare L’italiano è una delle lingue romanze, nate dalla dissoluzione del sistema latina e dalla successiva riaggregazione dei tratti linguistici in territori meno ampi, in un lungo processo durato dal V sec d.C. ai secoli VII-VIII circa. Tutti gli odierni dialetti derivano dal latino. Cosa significa che le lingue romanze sono nate dal latino? E come una lingua nascere da un’altra? Nessuna lingua è un organismo monolitico, ogni lingua si realizza con differenze fisiologiche a seconda del luogo da cui proviene il parlante, dal suo grado di istruzione, dalla sua età e dal contesto più o meno formale in cui si esprime. Era così anche per il latino, quello codificato dalle grammatiche e insegnato a scuola è il latino scritto dalle persone colte nell’età della Roma imperiale tra la fine del I sec a. C. e il I sec d. C. sensibilmente diverso dal latino parlato dalle stesse persone nella stessa epoca e ancor + differente dal latino parlato dalle persone incolte del V sec d. C. . L’unità politica garantiva la presenza capillare dell’amministrazione e dell’esercito. Chiunque volesse partecipare alla vita dell’impero aveva bisogno di imparare il latino. Tra il IV e il V sec. d. C. l’unità statuale entrò in crisi, tanto che nel 395 l’impero fu diviso in due parti, l’orientale e l’occidentale (80 anni c.a. dopo). Con la dissoluzione dell’impero romani d’occidente vennero meno tutte le forze che fino al allora aveva unificato un territorio così vasto e popolazioni tanto diverse. L’apprendimento del latino perse valore. Il venir meno del centro politico fece emergere tutte le differenze locali prima tenute a freno. Nel giro di poche generazioni le condizioni di vita ridussero le necessità comunicative entro gli ambiti informali tipici di tutte le comunità ristrette. Le innovazioni linguistiche prodotte nell’oralità e censurate come errori dalla norma diventarono la regola non appena i parlanti non ebbero più coscienza della norma. Il processo di disgregazione è conoscibile soltanto parzialmente, indiretta, grazie alle testimonianze dei grammatici e dei maestri di scuola. La più importante tra queste è l’Appendix Probi, un elenco di 27 coppie di parole, la prima delle quali latina, corregge l’errore presente nella seconda: la forma “scorretta” ci informa dei mutamenti che si erano prodotti e che si stavano evidentemente consolidando. Non potendo fornire una descrizione anche solo elementare del complesso dei rapporti evolutivi tra latino e italiano, ci limitiamo ad esemplificare il sistema del vocalismo tonico. Insomma dopo la fine dell’impero si crearono tante piccole comunità linguistiche che svilupparono e riaggregarono in modo diverso i tratti tipici delle varietà colloquiali. Si è soliti raccogliere tali tratti sotto l’etichetta di “latino volgare”, che rischia di generare fraintendimenti se non si presta attenzione al fatto che essa non indica una lingua reale e omogenea, ma l’insieme potenziale dei tratti colloquiale e plebei diffusi nei territori latinizzati dall’impero romano. La domanda da porsi non è tanto quando è nata la lingua, quanto e perché una lingua comincia a essere scritta. Il passaggio alla scrittura infatti rappresenta il vero salto di qualità per ogni espressione linguistica. Il primo testo scritto in una varietà italiana è una breve formula di giuramento inserita in un placito, senza arbitrale emessa di un giudice. In toscana le prime documentazioni del volgare nascono in un ambiente del commercio e della finanza. Tennero i conti in prima persona impiegando il volgare. In toscana il volgare cominciò a comparire nei testi pratici, funzionali cioè alla gestione economica e amministrativa in una società che, per il fiorire dei commerci le memorie pubbliche e private. I protagonisti della vita pubblica erano i mercanti. La dimestichezza con la scrittura in volgare dei mercanti e dei notai ebbe importanti conseguenze nella vita culturale. Nel corso del ‘200 anche la poesia passò sotto il segno del volgare, le vicende di trasmissione a condizionare la nostra conoscenza della lirica della cosiddetta scuola siciliana, la prima a essere raccolta nei manoscritti. La lingua dantesca non è da sottovalutare, perché Dante costruisce un vero e proprio tratto di linguistica. Di Dante non sono stati conservati scritti autografi. Boccaccio è un formidabile arricchitore delle scritture sintattiche, che modella ad imitazione del latino e complica rispetto alla prosa precedente. Boccaccio è l’ordine artificiale delle parole. Lo spostamento del verbo alla fine della frase, sia reggente, sia subordinata. Boccaccio non faceva che adottare alcuni tratti tipici del latino e alcune figure della tradizione retorica ereditata dal mondo classico. La lingua letteraria del ‘300 ha avuto un ruolo fondamentale nella storia della lingua italiana: le opere dei suoi tre massimi autori, Dante, Petrarca e Boccaccio, furono riconosciute come eccellenti, sia per quello che dicevano sia per come lo dicevano; la loro lingua e il loro stile furono adottati come modello per la scrittura. Però non avvenne subito, ma a partire dagli ultimi decenni del XV secolo. La lingua letteraria prese strade diverse, tutte segnate dall’appartenenza locale e tutte subalterne al latino. Proprio sul toscano, il fiorentino che fu stabilita la norma fonetica e morfologica dell’italiano. Di fatto, una sola tra le diverse linguistiche della Penisola si impose sulle altre fino a divenire la lingua comune. DALLA CRISI DEL VOLGARE ALLA RICERCA DELLA NORMA L’influenza delle opere volgari di Dante, Petrarca e Boccaccio sarà decisiva per la lingua italiana, ma non fu immediata. Il latino tornò ad occupare la scena della cultura alta. Il movimento umanistico si rifaceva direttamente alla classicità ne imitava i temi e le forme. Del latino classico erano lodate la regolarità, la stabilità (per l’appunto una lingua morta, affidata solo alle grammatiche e non influenzata dalla competenza dei parlanti) e qualsiasi cosa era scritta in latino era destinata a durare nel tempo. I volgari peninsulari non avevano infatti raggiunto un assetto stabile, cioè le loro regole non erano state studiate né codificate esplicitamente nella grammatica, e non venivano quindi insegnate a scuola. In assenza di una norma i volgari erano affidati all’uso. Se la cultura impegnata si dedicò appassionatamente a scrivere in latino, al volgare restò la produzione di consumo. Fu l’attività di cancellerie a mantenere vitale l’uso del volgare. La Raccolta aragonese, preceduta da una epistola, lodava l’eccellenza della lingua toscana. L’epistola sosteneva che il toscano è adatto a scrivere di qualsiasi argomento. È una lingua completa pari al latino. LA DIFFUSIONE DEL TOSCANO Il toscano si stava diffondendo indipendentemente dalla politica di L. de’ Medici e dalla sua cerchia di intellettuali. Il toscano aveva anche un vantaggio intrinseco: appartenendo al romanzo orientale si mantiene + prossimo al latino. LA CODIFICAZIONE Il ‘400 lasciò in eredità una solida cultura umanistica, esercitata sia sul latino sia sul greco, e una situazione linguistica complicata. Assumevano fin dove possibile il latino e, in misura minore il toscano, mentre la poesia mostrava una decisa toscanizzazione. I localismi erano da evitare. Ma perché era così importante trovare una lingua comune? Una lingua comune, stabile e regolata non serviva alla comunicazione quotidiana, ma all’amministrazione, politica, ecc la vita intellettuale in genere. Una lingua comune era dunque consustanziale alla nuova dimensione nazionale della vita civile e dell’economia, era fattore di progresso e di miglioramento delle condizioni di vita. La premessa aiuta a capire che il dibattito ‘500 sulla cosiddetta questione della lingua non fu una disputa tra intellettuali astratti, poeti, ma fu un grande momento di riflessione su ciò che univa l’élite italiane, che ebbe profonde motivazioni nella realtà del tempo e comportò soluzioni tali da condizionare la futura storia della linguistica italiana. Bembo, aveva trattato i testi di Dante e Petrarca esattamente come gli umanisti trattavano i greci e i latini: ne aveva esaminato evidenziando le differenze e annotandone le somiglianze. Bembo ricavò le regole della lingua e dello stile dei tre grandi autori del XIV secolo. La scelta araizzante di Bembo e di Sannazaro è un chiaro esempio di classicismo, per produrre buona letteratura era necessario imitare lo stile e la lingua di quei tre grandi poeti. Petrarca per la poesia e Boccaccio per la prosa divennero riferimenti sia per lo stile e i temi da trattare sia per la lingua in cui trattarli. La commedia era un’opera troppo composita, troppo varia per rappresentare un modello imitabile. È anche grazie a Bembo se oggi gli italiani possono leggere con relativa facilità i testi medievali: possiamo leggere Dante e Petrarca senza mediazioni. In realtà l’italiano ha il suo centro nel fiorentino del ‘300, ma da esso scende per vie indiretta, grazie alla codificazione ‘500 di una varietà già uscita dall’uso, codificazionecondotta in nome dell’eccellenza culturale e letteraria che ci restituisce l’illusione prospettica di una continuità linguistica ottenuta grazie alla discontinuità dell’evoluzione spontanea. Varchi elaborò una sorta di mediazione tra le posizioni di Bembo e quelle dei fiorentini: proprio perché le norme esposte nelle prose della volgar lingua erano pensate solo per la scrittura. Per Salviati bastava essere vissuti nel ‘300 ed essere toscani per diventare modelli di lingua. La letteratura in dialetto conoscerà un grande sviluppo nel ‘600, ma già nel ‘500 la produzione di commedie raggiunge risultati notevoli. Se la letteratura dialettale riflessa presuppone un uso consapevole delle parlate locali, si collocano le scritture dei semicolti, delle persone che sanno leggere e scrivere ma hanno una cultura e una pratica limitate e utilizzano inconsapevolmente elementi dialettali. I semicolti sanno che esiste una norma e cercano di riprodurla, ma non sempre ci riescono. Anche oggi è molto frequente ascoltare discorsi o leggere testi prodotti da semicolti, oppure che hanno occasione di scrivere, magai perché il mestiere che fanno non lo richiede. Per il passato le scritture dei semicolti ci dicono molto sul grado di diffusione dell’italiano tra la sua normazione ‘500 e lo stabilirsi dello stato nazionale, quando l’unificazione politica e amministrativa accelerò l’unificazione linguistica anche del parlato: il toscano letterario non si diffuse immediatamente, ma si affermò prima tra i letterati e le classi benestanti poi tra gli artigiani e i lavoratori manuali. La scuola era ovviamente ben diversa da oggi, imparare a leggere e a scrivere rappresentava un investimento economico che certo non tutti potevano permettersi. Nel 1583 un gruppo di appassionati dilettanti transfughi dall’accademia fiorentina, fondò a Firenze l’Accademia della Crusca, con lo scopo di incontrarsi per dibattere di questi di lingua: il nome stesso indica la volontà di separare la farina (la buona lingua) dalla crusca (lo scarto), le attività sociali prevedevano incontri di tipo conviviale: i partecipanti mangiavano, bevevano e si intrattenevano discutendo. La questione della lingua era ancora centrale nella riflessione degli intellettuali. Al tempo i dizionari non esistevano e circolavano i GLOSSARI. Le idee elaborate dagli accademici erano moderne e molto originali. Gli autori del vocabolario avevano uno scopo normativo, ovvero intendevano indicare quale fosse il modello della lingua da seguire. Infatti il vocabolario degli accademici della crusca rappresentò il modello di tutti i dizionari delle lingue europee che di lì a poco si sarebbero redatti: alcuni ritenendolo depositario di verità, altri criticandolo, ebbe un successo immediato. GLI SVILUPPI NELLA MODERNITÀ L’epoca barocca rinnovò i temi oggetto di poesia e ampliò il lessico poetico, fino ad allora selettivo e stilizzato. Interessanti le descrizioni che comportano l’uso di parole tatte dalla scienza del tempo. È la metafora la regina delle figure retoriche. Non era meno sperimentale ed eccessiva la prosa. Sul finire del secolo la polemica nei confronti degli eccessi verbali portò alla costituzione dell’arcadia. L’affermazione del modello toscano comportò lo scadimento delle altre varietà parlate al rango di dialetti, ma indusse un impiego + consapevole: chi sceglieva il dialetto lo faceva non per ignoranza del modello prestigioso, ma perché il dialetto garantiva possibilità espressiva che la lingua non aveva. Prima tra tutta la comicità, per suscitarne le risate. Le scritture dialettali, nel ‘600 sono diffuse in tutta Italia. Per Maggi il dialetto è l’anima della vita e dello spirito milanese lo celebra come strumento per conoscere la verità. La scienza in rapida trasformazione, inizio ‘700 parlava ancora latino. Tutte le discipline universitarie avevano impiegato secoli per affinare il loro vocabolario tecnico. Galileo Galilei scelse di scrivere in italiano e non in latino le sue opere maggiori, non si preoccupò troppo dell’eleganza e della correttezza grammaticale, ma puntò alla chiarezza delle argomentazioni: scelse accuratamente i termini tecnici, conferendo nuovo significato alle parole esistenti. La tendenza alla descrizione il gusto per la spiegazione furono e sono patrimonio di chi si occupa di diffondere la conoscenza tra i non specialisti. Scrisse lo stesso G.G. “PARLARE OSCURATAMENTE LO SA FARE OGNUNO, MA CHIARO POCHISSIMI!”. Il ‘700 fu un secolo di grande rinnovamento. La crescita economica aumentò la richiesta di istruzione e la diffusione dell’istruzione fu fattore fondamentale per modernizzare il sistema produttivo e migliorare le condizioni di vita. Gli italiani avviarono politiche volte a garantire l’alfabetizzazione. Elaborarono riforme scolastiche che per la prima volta prevedevano la centralità del leggere e dello scrivere in italiano e non più in latino, lingua che restò fondamentale per i livelli superiori dell’istruzione. Si moltiplicano le grammatiche, i dizionari, i libri e la scuola si fece carico delle diffusioni della lingua comune. Anche in ambito scientifico l’italiano acquistò spazio ai danni del latino, cominciarono a formarsi le cosiddette lingue speciali, insiemi di parole e usi sintattici necessari alle attività specialistiche, che per essere esercitate correttamente richiedono sempre precisione e chiarezza terminologica, occorrevano nuove parole ed era abbastanza facile crearle a partire dal latino o dal greco (micro= piccolo e -scopio= osservo si creò microscopio) Il lessico dell’economia era in via di formazione, molti termini trasformarono il loro significato. Per indicare i nuovi strumenti finanziari si crearono nuove parole. La lingua del diritto rimase legata da una parte al latino. Il rinnovamento ‘700 coinvolse l’intera Europa. Le nuove idee, le innovazioni, si creò una terminologia europea comune. Molti termini astratti, si ritrovano in tutte le lingue europee in forma molto simile, si parla di europeismi. L’ampliamento, il progresso accrebbero la richiesta di opere destinate ad un pubblico medio, composto di persone attente ai cambiamenti e desiderose di migliorare il proprio livello culturale. Aumentarono le traduzioni. Le nuove idee trovarono anche un nuovo mezzo di diffusione: la stampa periodica. “Giornale de’ letterati d’Italia”. La vera svolta con “il caffè” (usciva ogni 10gg), da qui il nome, che indica il luogo di ritrovo nel quale si può parlare liberamente. Data la crescente richiesta di istruzione, nel ‘700, fu enorme il successo del VOCABOLARIO DEGLI ACCADEMICI DELLA CRUSCA, uscito nella sua 4 edizione tra il 1729 e il 1738, tanto che se ne pubblicarono addirittura delle stampe non autorizzate. Il modello continuava ad essere troppo arcaizzante. La crusca era poco disposta ad accettare le nuove parole, perché non erano mai state usato dagli autori del passato ai quali l’accademia continuava a rifarsi. I più insofferenti erano gli illuministi. Cesarotti sostenne che tutte le lingue per natura cambiano nel corso del tempo, si arricchiscono di nuove parole create al loro interno o prese da altre lingue, vivono insomma della stessa vita intellettuale e civile che anima la società che la impiega. In un campo l’italiano primeggiò nell’Europa nel ‘700: quello del melodramma, genere teatrale che unisce a una rappresentazione scenica il canto e la musica, alterando momenti recitativi (con il minimo musicale e il massimo di attenzione alle parole), alle arie (massimo di musica e il minimo di parole). Il melodramma. È indissolubilmente legato agli autori e alla lingua italiana. Grazie al melodramma che l’italiano si è per sempre guadagnato la fama di lingua musicale e adatta al canto, così come il successo dell’illuminismo ha per sempre conquistato al francese la nomea di lingua della ragione. Il re del genere fu P. Metasrasio. L’italiano era la lingua internazionale della musica. Grazie al suo successo in ambito musicale, l’italiano era la lingua parlata nella corte sassone di Dresda e in quella asburgica di Vienna. Il culto 700 per l’antichità classica faceva sì che i giovani europei colti e ricchi ritenessero parte integrante della loro formazione un viaggio in Italia, alla scoperta delle rovine della civiltà latina. Già nel corso del ‘500 la Spagna e il Portogallo, erano diventati gli stati più ricchi e potenti d’Europa. a differenza del Portogallo, che concentrò i suoi sforzi militari e commerciali nei territori extraeuropei, la corona spagnola, era unita ai territori tedeschi del Sacro romano impero. Il potere economico di Spagna e Portogallo aumentò la diffusione delle lingue iberiche. In Italia lo spagnolo divenne indispensabile per la politica e l’amministrazione, lasciò le sue tracce, oggi resta solo una piccola parte. Molti prestiti riguardano i comportamenti sociali. Lo spagnolo fece anche da tramite per numerose parole che indicavano vegetali e animali esotici. Intorno alla meta del 600 alla preminenza dello spagnolo si sostituì il francese. La Francia assunse un ruolo egemone in Europa, il francese divenne la lingua internazionale per eccellenza. L’Italia, frammentata subì il fascino della moda francesizzante tanto da essere definita “gallomania”. Non si contano le parole che nel 700 l’italiano prese in prestito dal francese che usiamo ancora oggi: ma il segno si vede soprattutto dalla quantità di ambiti coinvolti. L’influenza del francese fu quindi profonda e duratura. Il periodo rivoluzionario e il successivo quindicennio napoleonico inaugurarono la fase + recente della nostra linguistica, contrassegnata dalla progressiva diffusione dell’uso anche parlato dell’italiano. A partire dall’età napoleonica i mezzi di comunicazione di massa acquistarono un’importanza poi sempre crescente per l’unificazione linguistica. Ma da allora in poi non furono + gli unici attori in grado di determinare le sorti della lingua. L’azione del francese si manifestò anche attraverso la propaganda giacobina e repubblicana, che impiegò i nuovi mezzi di comunicazione per coinvolgere nella vita politica i ceti popolari. Il lessico amministrativo francesizzante si rivelò tanto pervasivo da suscitare le prime riserve puriste. Le nuove parole della politica importate dalla Francia sono oggetto dell’ironia di G. Casti. Il ‘700 era stato un secolo cosmopolita, nel ‘700 le “cose” e le idee erano ritenute + importanti delle parole con cui si esprimevano, e la lingua era intesa come uno strumento essenzialmente comunicativo, non retorico. Con Cesari si afferma il mito della lingua naturale. Era durissimo nel condannare la “degenerazione” della lingua moderna, che riteneva imbarbarita dalla massiccia presenza di neologismi e di francesismi. Cesar di dedicò alla riedizione del VOCABOLARIO DELLA CRUSCA. Il maggior interprete del purismo fu Puoti, che come Cesari, era fortemente contrario ai neologismi e ai prestiti dal francese, e riteneva che la presunta “semplicità” della lingua 300 fosse un valore da praticare e insegnare. Credeva che la purezza della lingua primitiva andasse perfezionata con l’imitazione dello stile degli autori del 500. I classici moderni hanno assimilato la nozione 700 della lingua come fatto culturale ed espressione dell’intera società. I classicisti non potevano provare simpatia per i dialetti, che a loro avviso ostacolavano la formazione della lingua comune. Giordani distingue tra i dialetti, adatti alla comunicazione quotidiana tra abitanti di uno stesso luogo e la “nobile lingua comune d’Italia” necessaria alla comunicazione tra parlanti di regioni diverse. Nella prima metà dell’800 la realtà linguistica italiana era ancora frammentata nei diversi dialetti locali, e, in assenza di una capitale politica, era molto difficile ipotizzare l’unificazione della lingua parlata. I classicisti, proponevano modelli per la lingua scritta. Manzoni si pose invece il problema di una lingua scritta che fosse adatta al romanzo. Era alla ricerca di una lingua reale, ovvero realmente parlato e che si prestasse a essere scritta. L’ambizione si spingeva fino a immaginare di fornire ai parlanti un modello linguistico concreto e concretamente funzionale. La soluzione era chiara fino dal 1823: solo il toscano era nella condizione di soddisfare le sue esigenze. Dal punto di vista pratico però al milanese non era chiaro cosa fosse il toscano contemporaneo. Tra il 1824 è27 riscrisse il romanzo (sopprimendo o modificando interi episodi). La prima edizione 1827 (VENTISETTANA) GRAN SUCCESSO. Ma non era completamente soddisfatto e tra luglio e settembre (1827) soggiornò a Firenze, per calarsi nella linguistica viva; si chiarì le idee. Nel 1838 cominciò una ulteriore revisione del romanzo, il risultato fu l’edizione del 1840 (QUARANTANA), quella che si legge oggi. Il successo dei PROMESSI SPOSI fu largo e immediato già a partire dalla prima edizione, e diede origine a una lunga serie di romanzi storici che ne imitavano non solo le strutture ma anche la lingua. Manzoni nella Lettera sostiene con forza che “una lingua è un tutto o non è” intendendo dire che un sistema linguistico per essere tale- per essere cioè realmente vitale e funzionale ad una società complessa, fatta di persone di estrazione sociali e livelli di cultura diversi- deve fornire tutti gli elementi necessari a tutte le circostanze comunicative: quindi non basta avere una lingua letteraria, ma la stessa lingua deve essere utilizzata nel parlato quotidiano. UNA LINGUA PER LO STATO NAZIONALE Al momento dell’unità d’Italia (1861) la percentuale degli analfabeti sul totale della popolazione era altissima, intorno al 75% c.a.: solo 1 persona su 4 era in grado di leggere e di scrivere, e spesso solo a livello elementare. La situazione era molto diversa nelle varie zone e per il sesso. Lo stato unitario si impegnò molto per aumentare i livelli di scolarizzazione, riuscendo a ridurre del 40% nel 1911 la percentuale degli analfabeti. Ma le difficoltà erano enormi, era difficile anche solo imparare l’italiano, una lingua che si era formata e diffusa per via scritta, mentre nel parlato quotidiano continuavano ad usare il dialetto, loro vera lingua madre. Per potersi dire italofoni al momento dell’unità d’Italia occorreva aver frequentato la scuola almeno per qualche anno dopo la formazione elementare (al momento erano solo il 10%). Ben il 90% della popolazione non aveva accesso all’italiano se non in modo del tutto parziale, e in larga parte parlava solo il dialetto. Oggi è difficile immaginare la situazione di un secolo e mezzo fa, ma l’enorme cambiamento linguistico che ha segnato il 900 è proprio questo: in poche generazioni siamo passati da una netta maggioranza di dialettofoni (90%) ad una ridottissima minoranza di analfabeti (1,06%). La scarsa diffusione di una lingua comune, fu avvertita subito come problema dei governanti del regno d’Italia. nel 1868 Broglio (ministro pubblica istruzione) affidò ad una commissione di esperti, tra cui Manzoni, l’incarico di proporre i modi per diffondere la “buona lingua” e la “buona pronunzia”. Occorreva adottare e diffondere un solo modello, quello dell’uso del fiorentino, l’unico che per il suo prestigio fosse in grado di imporsi sugli altri idiomi. Il suggerimento di usare un dizionario dell’uso vivo di Firenze, in modo che ogni italiano alfabetizzato possa sapere con facilità quali parole usare e quali no. Per Ascoli, a suo avviso, diceva che il problema della lingua è sempre anche un problema storico e culturale. E a suo avviso sarebbe nata la lingua con l’aumento dell’istruzione e la libera circolazione delle idee, quindi come “frutto di un processo di consenso creativo”. È necessario agire sui fattori storico-culturali: una società che pensa e che lavora creerà da sé una lingua. La storia ha dato ragione sì a Manzoni che ad Asoli, perché il modello fiorentino ha condizionato l’insegnamento elementare e la coscienza linguistica degli italiani, ma alla fine la lingua comune, si è diffusa con il consolidarsi della nazione, con la diffusione dei mezzi di massa. Lo stato nazionale diede avvio al processo che porterà alla formazione di una lingua comune realmente parlata e trasmessa dai genitori ai figli, adeguatamente padroneggiata dalla maggioranza della popolazione e non più solo da una minoranza che la apprendeva sui libri e la riservava alla scrittura e alle situazioni formali. La scuola contribuì enormemente alla conoscenza dell’italiano. I giornali cominciarono ad essere venduti nelle edicole (lingua mista). Introducono i primi prestiti dall’inglese. Ma la moda francesizzante non venne meno. L’opera lirica ebbe nell’800 un enorme successo, anche popolare; soprattutto in Italia sett le arie + celebri erano mandate a memoria e cantate da tutti (Rossini, Verdi e Puccini) suscitarono l’entusiasmo del pubblico, anche di media e bassa cultura. Manzoni venne molto imitato dal punto di vista letterario, ma dal punto di vista linguistico la sua omogeneità colloquiale era difficile da ottenere. Fino al XIX la lingua narrativa rimase vicino a quella ventisettana. Negli ultimi decenni gli scrittori ascrivibili al verismo si posero il problema del rapporto tra lingua romanzo e dialetto: una letteratura che intendeva rappresentare oggettivamente le condizioni sociali non poteva ignorare la realtà dialettale. La soluzione di Capuana è un non soluzione. Con Verga cambiano le cose, la lingua è omogeneamente caratterizzata dai fenomeni dell’oralità tipica di ogni parlata italiana. Fino all’800 la poesia si mantenne fedele al linguaggio classicheggiante di derivazione petrarchesca. Con il romanticismo la tradizione cominciò ad incrinarsi: emersero le prime esigenze di realismo, e molti termini della vita quotidiana. Ma per tutto il secolo continuarono a coesistere elementi vecchi e nuovi. Una tappa importante è rappresentata da Carducci, riprodusse nei versi italiani il ritmo di quelli greci e latini. Ma le rotture del linguaggio della tradizione si deve a Pascoli e a D’Annunzio. Effetti fonosimbolici, accostamenti di suoni per evocare le cose. Nei primi decenni del 900 i legami con la lingua della tradizione saranno definitivamente recisi dai crepuscolari (Gozzano, Corazzini) e dai futuristi (Marinetti). Inoltre il regime fascista mise in atto un programma di italianità linguistica dalle tinte puristiche delle minoranze, e il rifiuto delle parole straniere. La lotta dei dialetti era un punto centrale della riforma del sistema scolastico che prese il nome dal ministro che la ideò: il filosofo Gentile e fu uno dei primi provvedimenti del governo Mussolini. Il dialetto fu emarginato a tutto favore dell’insegnamento della grammatica italiana. L’esaltazione dell’italianità comportò la forte repressione delle lingue minoritarie. Nella seconda metà degli anni ’30 il “purismo di regime” inasprì la censura contro le parole straniere di uso comune, in primo luogo contro i francesismi. Il regime si impegnò anche in campagna a favore del VOI come forme di cortesia al posto del LEI (che resistette) divenendo anche un tratto linguistico distintivo degli antifascisti. DALLA “FRATTURA” LINGUISTICA ALL’OGGI A partire dalla metà del ‘900 il panorama linguistico italiano muta radicalmente risetto al passato, dato che fasce sempre più consistenti di popolazione abbandonano il dialetto e assumono l’italiano nella comunicazione parlata quotidiana. Per le generazioni nate intorno alla metà del secolo l’italiano diviene lingua materna, imparata spontaneamente ancor prima che a scuola; il dialetto restringe sempre di più il suo raggio. Il mutato rapporto dei parlanti con la lingua d’uso determina una vera “frattura” nella storia dell’italiano. Il cambiamento è dovuto a molti fattori: migrazione interne, dalle zone del sud verso le zone industrializzate del nord, il servizio militare obbligatorio, i mezzi di comunicazione di massa (il cinema sonoro, la radio, la tv.) I progressi ci sono stati e sono stati molto rapidi. Ma quale italiano parlano realmente gli italiani? Gli italiani parlano con “accenti” diversi a seconda della loro provenienza regionale, anche se la lingua sia la stessa per tutti. La varietà regionale nasce dall’interazione tra il sistema dialettale originario e la lingua comune. I giornali quotidiani, il cinema, la radio e soprattutto la tv hanno enormemente contribuito alla diffusione dell’italiano oggi. La tv in particolare. Ma quale italiano si parla in tv? La tv ha diffuso un modello di lingua sorvegliato, attenta ad evitare colloquialità, ma le cose cambiarono con la nascita delle reti commerciali. E produce tre effetti: espressività (manifesta con l’enfasi), riconoscibilità (la ripetizione ossessiva di frasi fatte) e rispecchiamento (lo spettatore deve pensare “la tv parla come parlo io” e io parlo come la tv”.) anche gli italiani più colti ostentano un italiano informale in tv. Alcuni fenomeni linguistici poi sono divenuti un segno distintivo della scrittura digitale. Lo sviluppo scientifico del ‘900 ha consolidato- i linguaggi specialistici, le pubblicazioni specializzate sono in inglese. A partire dalla seconda guerra mondiale, il mondo anglosassone è divenuto egemone in tutti i campi e l’inglese ha sostituito il francese. Nel momento in cui l’italiano diviene la lingua spontanea per la maggioranza, ecco che la lingua letteraria cessa di rappresentare il modello regolativo. Se tutti parlano e scrivono italiano, smette di essere monopolio di una ristretta di cerchie. È negli anni ’60 è 70 che la poesia si piega alla prosa, accogliendo i costrutti del parlato. Ecco allora coesistere parole della tradizione letteraria e parole inventate. La lingua ufficiale della repubblica è l’italiano che riconosce e valorizza le lingue minoritarie. L’albanese (Campobasso, Calabria e Sicilia), il catalano (Alghero), la varietà germanica (Alto Adige), il greco (Reggio Calabria). Tra le lingue di minoranza il ladino e il sardo. Da quando l’italiano è diventato una lingua davvero viva si sono attivati i normali meccanismi che producono il cambiamento linguistico e che in precedenza erano tenuti a freno dall’apprendimento sui libri e sulle grammatiche: come sarà l’italiano parlato in futuro nessuno è ora in grado di prevederlo, ma lo stabiliranno la consapevolezza, la cultura e la sensibilità dei parlanti.