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Dal latino al volgare[694]

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Dal latino al volgare
L’italiano è una delle lingue romanze, nate dalla dissoluzione del sistema latina e dalla
successiva riaggregazione dei tratti linguistici in territori meno ampi, in un lungo
processo durato dal V sec d.C. ai secoli VII-VIII circa. Tutti gli odierni dialetti derivano
dal latino. Cosa significa che le lingue romanze sono nate dal latino? E come una lingua
nascere da un’altra? Nessuna lingua è un organismo monolitico, ogni lingua si realizza
con differenze fisiologiche a seconda del luogo da cui proviene il parlante, dal suo grado
di istruzione, dalla sua età e dal contesto più o meno formale in cui si esprime. Era così
anche per il latino, quello codificato dalle grammatiche e insegnato a scuola è il latino
scritto dalle persone colte nell’età della Roma imperiale tra la fine del I sec a. C. e il I sec
d. C. sensibilmente diverso dal latino parlato dalle stesse persone nella stessa epoca e
ancor + differente dal latino parlato dalle persone incolte del V sec d. C. . L’unità politica
garantiva la presenza capillare dell’amministrazione e dell’esercito. Chiunque volesse
partecipare alla vita dell’impero aveva bisogno di imparare il latino. Tra il IV e il V sec.
d. C. l’unità statuale entrò in crisi, tanto che nel 395 l’impero fu diviso in due parti,
l’orientale e l’occidentale (80 anni c.a. dopo). Con la dissoluzione dell’impero romani
d’occidente vennero meno tutte le forze che fino al allora aveva unificato un territorio
così vasto e popolazioni tanto diverse. L’apprendimento del latino perse valore. Il venir
meno del centro politico fece emergere tutte le differenze locali prima tenute a freno.
Nel giro di poche generazioni le condizioni di vita ridussero le necessità comunicative
entro gli ambiti informali tipici di tutte le comunità ristrette. Le innovazioni linguistiche
prodotte nell’oralità e censurate come errori dalla norma diventarono la regola non
appena i parlanti non ebbero più coscienza della norma. Il processo di disgregazione è
conoscibile soltanto parzialmente, indiretta, grazie alle testimonianze dei grammatici e
dei maestri di scuola. La più importante tra queste è l’Appendix Probi, un elenco di 27
coppie di parole, la prima delle quali latina, corregge l’errore presente nella seconda: la
forma “scorretta” ci informa dei mutamenti che si erano prodotti e che si stavano
evidentemente consolidando. Non potendo fornire una descrizione anche solo
elementare del complesso dei rapporti evolutivi tra latino e italiano, ci limitiamo ad
esemplificare il sistema del vocalismo tonico. Insomma dopo la fine dell’impero si
crearono tante piccole comunità linguistiche che svilupparono e riaggregarono in modo
diverso i tratti tipici delle varietà colloquiali. Si è soliti raccogliere tali tratti sotto
l’etichetta di “latino volgare”, che rischia di generare fraintendimenti se non si presta
attenzione al fatto che essa non indica una lingua reale e omogenea, ma l’insieme
potenziale dei tratti colloquiale e plebei diffusi nei territori latinizzati dall’impero
romano.
La domanda da porsi non è tanto quando è nata la lingua, quanto e perché una lingua
comincia a essere scritta. Il passaggio alla scrittura infatti rappresenta il vero salto di
qualità per ogni espressione linguistica. Il primo testo scritto in una varietà italiana è
una breve formula di giuramento inserita in un placito, senza arbitrale emessa di un
giudice.
In toscana le prime documentazioni del volgare nascono in un ambiente del commercio
e della finanza. Tennero i conti in prima persona impiegando il volgare.
In toscana il volgare cominciò a comparire nei testi pratici, funzionali cioè alla gestione
economica e amministrativa in una società che, per il fiorire dei commerci le memorie
pubbliche e private. I protagonisti della vita pubblica erano i mercanti. La dimestichezza
con la scrittura in volgare dei mercanti e dei notai ebbe importanti conseguenze nella
vita culturale. Nel corso del ‘200 anche la poesia passò sotto il segno del volgare, le
vicende di trasmissione a condizionare la nostra conoscenza della lirica della cosiddetta
scuola siciliana, la prima a essere raccolta nei manoscritti.
La lingua dantesca non è da sottovalutare, perché Dante costruisce un vero e proprio
tratto di linguistica. Di Dante non sono stati conservati scritti autografi.
Boccaccio è un formidabile arricchitore delle scritture sintattiche, che modella ad
imitazione del latino e complica rispetto alla prosa precedente. Boccaccio è l’ordine
artificiale delle parole. Lo spostamento del verbo alla fine della frase, sia reggente, sia
subordinata. Boccaccio non faceva che adottare alcuni tratti tipici del latino e alcune
figure della tradizione retorica ereditata dal mondo classico. La lingua letteraria del ‘300
ha avuto un ruolo fondamentale nella storia della lingua italiana: le opere dei suoi tre
massimi autori, Dante, Petrarca e Boccaccio, furono riconosciute come eccellenti, sia per
quello che dicevano sia per come lo dicevano; la loro lingua e il loro stile furono adottati
come modello per la scrittura. Però non avvenne subito, ma a partire dagli ultimi
decenni del XV secolo. La lingua letteraria prese strade diverse, tutte segnate
dall’appartenenza locale e tutte subalterne al latino. Proprio sul toscano, il fiorentino
che fu stabilita la norma fonetica e morfologica dell’italiano. Di fatto, una sola tra le
diverse linguistiche della Penisola si impose sulle altre fino a divenire la lingua comune.
DALLA CRISI DEL VOLGARE ALLA RICERCA DELLA NORMA
L’influenza delle opere volgari di Dante, Petrarca e Boccaccio sarà decisiva per la lingua
italiana, ma non fu immediata. Il latino tornò ad occupare la scena della cultura alta. Il
movimento umanistico si rifaceva direttamente alla classicità ne imitava i temi e le
forme. Del latino classico erano lodate la regolarità, la stabilità (per l’appunto una lingua
morta, affidata solo alle grammatiche e non influenzata dalla competenza dei parlanti)
e qualsiasi cosa era scritta in latino era destinata a durare nel tempo.
I volgari peninsulari non avevano infatti raggiunto un assetto stabile, cioè le loro regole
non erano state studiate né codificate esplicitamente nella grammatica, e non venivano
quindi insegnate a scuola. In assenza di una norma i volgari erano affidati all’uso. Se la
cultura impegnata si dedicò appassionatamente a scrivere in latino, al volgare restò la
produzione di consumo. Fu l’attività di cancellerie a mantenere vitale l’uso del volgare.
La Raccolta aragonese, preceduta da una epistola, lodava l’eccellenza della lingua
toscana. L’epistola sosteneva che il toscano è adatto a scrivere di qualsiasi argomento. È
una lingua completa pari al latino.
LA DIFFUSIONE DEL TOSCANO
Il toscano si stava diffondendo indipendentemente dalla politica di L. de’ Medici e dalla
sua cerchia di intellettuali. Il toscano aveva anche un vantaggio intrinseco:
appartenendo al romanzo orientale si mantiene + prossimo al latino.
LA CODIFICAZIONE
Il ‘400 lasciò in eredità una solida cultura umanistica, esercitata sia sul latino sia sul
greco, e una situazione linguistica complicata. Assumevano fin dove possibile il latino e,
in misura minore il toscano, mentre la poesia mostrava una decisa toscanizzazione. I
localismi erano da evitare. Ma perché era così importante trovare una lingua comune?
Una lingua comune, stabile e regolata non serviva alla comunicazione quotidiana, ma
all’amministrazione, politica, ecc la vita intellettuale in genere. Una lingua comune era
dunque consustanziale alla nuova dimensione nazionale della vita civile e
dell’economia, era fattore di progresso e di miglioramento delle condizioni di vita. La
premessa aiuta a capire che il dibattito ‘500 sulla cosiddetta questione della lingua non
fu una disputa tra intellettuali astratti, poeti, ma fu un grande momento di riflessione su
ciò che univa l’élite italiane, che ebbe profonde motivazioni nella realtà del tempo e
comportò soluzioni tali da condizionare la futura storia della linguistica italiana.
Bembo, aveva trattato i testi di Dante e Petrarca esattamente come gli umanisti
trattavano i greci e i latini: ne aveva esaminato evidenziando le differenze e
annotandone le somiglianze. Bembo ricavò le regole della lingua e dello stile dei tre
grandi autori del XIV secolo. La scelta araizzante di Bembo e di Sannazaro è un chiaro
esempio di classicismo, per produrre buona letteratura era necessario imitare lo stile e
la lingua di quei tre grandi poeti. Petrarca per la poesia e Boccaccio per la prosa
divennero riferimenti sia per lo stile e i temi da trattare sia per la lingua in cui trattarli.
La commedia era un’opera troppo composita, troppo varia per rappresentare un
modello imitabile. È anche grazie a Bembo se oggi gli italiani possono leggere con
relativa facilità i testi medievali: possiamo leggere Dante e Petrarca senza mediazioni.
In realtà l’italiano ha il suo centro nel fiorentino del ‘300, ma da esso scende per vie
indiretta, grazie alla codificazione ‘500 di una varietà già uscita dall’uso, codificazionecondotta in nome dell’eccellenza culturale e letteraria che ci restituisce l’illusione
prospettica di una continuità linguistica ottenuta grazie alla discontinuità
dell’evoluzione spontanea. Varchi elaborò una sorta di mediazione tra le posizioni di
Bembo e quelle dei fiorentini: proprio perché le norme esposte nelle prose della volgar
lingua erano pensate solo per la scrittura. Per Salviati bastava essere vissuti nel ‘300 ed
essere toscani per diventare modelli di lingua.
La letteratura in dialetto conoscerà un grande sviluppo nel ‘600, ma già nel ‘500 la
produzione di commedie raggiunge risultati notevoli.
Se la letteratura dialettale riflessa presuppone un uso consapevole delle parlate locali,
si collocano le scritture dei semicolti, delle persone che sanno leggere e scrivere ma
hanno una cultura e una pratica limitate e utilizzano inconsapevolmente elementi
dialettali. I semicolti sanno che esiste una norma e cercano di riprodurla, ma non sempre
ci riescono. Anche oggi è molto frequente ascoltare discorsi o leggere testi prodotti da
semicolti, oppure che hanno occasione di scrivere, magai perché il mestiere che fanno
non lo richiede. Per il passato le scritture dei semicolti ci dicono molto sul grado di
diffusione dell’italiano tra la sua normazione ‘500 e lo stabilirsi dello stato nazionale,
quando l’unificazione politica e amministrativa accelerò l’unificazione linguistica anche
del parlato: il toscano letterario non si diffuse immediatamente, ma si affermò prima tra
i letterati e le classi benestanti poi tra gli artigiani e i lavoratori manuali. La scuola era
ovviamente ben diversa da oggi, imparare a leggere e a scrivere rappresentava un
investimento economico che certo non tutti potevano permettersi.
Nel 1583 un gruppo di appassionati dilettanti transfughi dall’accademia fiorentina,
fondò a Firenze l’Accademia della Crusca, con lo scopo di incontrarsi per dibattere di
questi di lingua: il nome stesso indica la volontà di separare la farina (la buona lingua)
dalla crusca (lo scarto), le attività sociali prevedevano incontri di tipo conviviale: i
partecipanti mangiavano, bevevano e si intrattenevano discutendo. La questione della
lingua era ancora centrale nella riflessione degli intellettuali. Al tempo i dizionari non
esistevano e circolavano i GLOSSARI. Le idee elaborate dagli accademici erano moderne
e molto originali. Gli autori del vocabolario avevano uno scopo normativo, ovvero
intendevano indicare quale fosse il modello della lingua da seguire. Infatti il vocabolario
degli accademici della crusca rappresentò il modello di tutti i dizionari delle lingue
europee che di lì a poco si sarebbero redatti: alcuni ritenendolo depositario di verità,
altri criticandolo, ebbe un successo immediato.
GLI SVILUPPI NELLA MODERNITÀ
L’epoca barocca rinnovò i temi oggetto di poesia e ampliò il lessico poetico, fino ad allora
selettivo e stilizzato. Interessanti le descrizioni che comportano l’uso di parole tatte
dalla scienza del tempo. È la metafora la regina delle figure retoriche. Non era meno
sperimentale ed eccessiva la prosa.
Sul finire del secolo la polemica nei confronti degli eccessi verbali portò alla costituzione
dell’arcadia. L’affermazione del modello toscano comportò lo scadimento delle altre
varietà parlate al rango di dialetti, ma indusse un impiego + consapevole: chi sceglieva
il dialetto lo faceva non per ignoranza del modello prestigioso, ma perché il dialetto
garantiva possibilità espressiva che la lingua non aveva. Prima tra tutta la comicità, per
suscitarne le risate.
Le scritture dialettali, nel ‘600 sono diffuse in tutta Italia. Per Maggi il dialetto è l’anima
della vita e dello spirito milanese lo celebra come strumento per conoscere la verità.
La scienza in rapida trasformazione, inizio ‘700 parlava ancora latino. Tutte le discipline
universitarie avevano impiegato secoli per affinare il loro vocabolario tecnico. Galileo
Galilei scelse di scrivere in italiano e non in latino le sue opere maggiori, non si
preoccupò troppo dell’eleganza e della correttezza grammaticale, ma puntò alla
chiarezza delle argomentazioni: scelse accuratamente i termini tecnici, conferendo
nuovo significato alle parole esistenti. La tendenza alla descrizione il gusto per la
spiegazione furono e sono patrimonio di chi si occupa di diffondere la conoscenza tra i
non specialisti. Scrisse lo stesso G.G. “PARLARE OSCURATAMENTE LO SA FARE
OGNUNO, MA CHIARO POCHISSIMI!”. Il ‘700 fu un secolo di grande rinnovamento. La
crescita economica aumentò la richiesta di istruzione e la diffusione dell’istruzione fu
fattore fondamentale per modernizzare il sistema produttivo e migliorare le condizioni
di vita. Gli italiani avviarono politiche volte a garantire l’alfabetizzazione. Elaborarono
riforme scolastiche che per la prima volta prevedevano la centralità del leggere e dello
scrivere in italiano e non più in latino, lingua che restò fondamentale per i livelli
superiori dell’istruzione. Si moltiplicano le grammatiche, i dizionari, i libri e la scuola si
fece carico delle diffusioni della lingua comune. Anche in ambito scientifico l’italiano
acquistò spazio ai danni del latino, cominciarono a formarsi le cosiddette lingue speciali,
insiemi di parole e usi sintattici necessari alle attività specialistiche, che per essere
esercitate correttamente richiedono sempre precisione e chiarezza terminologica,
occorrevano nuove parole ed era abbastanza facile crearle a partire dal latino o dal greco
(micro= piccolo e -scopio= osservo si creò microscopio)
Il lessico dell’economia era in via di formazione, molti termini trasformarono il loro
significato. Per indicare i nuovi strumenti finanziari si crearono nuove parole. La lingua
del diritto rimase legata da una parte al latino. Il rinnovamento ‘700 coinvolse l’intera
Europa. Le nuove idee, le innovazioni, si creò una terminologia europea comune. Molti
termini astratti, si ritrovano in tutte le lingue europee in forma molto simile, si parla di
europeismi. L’ampliamento, il progresso accrebbero la richiesta di opere destinate ad
un pubblico medio, composto di persone attente ai cambiamenti e desiderose di
migliorare il proprio livello culturale. Aumentarono le traduzioni. Le nuove idee
trovarono anche un nuovo mezzo di diffusione: la stampa periodica. “Giornale de’
letterati d’Italia”. La vera svolta con “il caffè” (usciva ogni 10gg), da qui il nome, che
indica il luogo di ritrovo nel quale si può parlare liberamente.
Data la crescente richiesta di istruzione, nel ‘700, fu enorme il successo del
VOCABOLARIO DEGLI ACCADEMICI DELLA CRUSCA, uscito nella sua 4 edizione tra il
1729 e il 1738, tanto che se ne pubblicarono addirittura delle stampe non autorizzate.
Il modello continuava ad essere troppo arcaizzante. La crusca era poco disposta ad
accettare le nuove parole, perché non erano mai state usato dagli autori del passato ai
quali l’accademia continuava a rifarsi. I più insofferenti erano gli illuministi.
Cesarotti sostenne che tutte le lingue per natura cambiano nel corso del tempo, si
arricchiscono di nuove parole create al loro interno o prese da altre lingue, vivono
insomma della stessa vita intellettuale e civile che anima la società che la impiega. In un
campo l’italiano primeggiò nell’Europa nel ‘700: quello del melodramma, genere
teatrale che unisce a una rappresentazione scenica il canto e la musica, alterando
momenti recitativi (con il minimo musicale e il massimo di attenzione alle parole), alle
arie (massimo di musica e il minimo di parole). Il melodramma. È indissolubilmente
legato agli autori e alla lingua italiana. Grazie al melodramma che l’italiano si è per
sempre guadagnato la fama di lingua musicale e adatta al canto, così come il successo
dell’illuminismo ha per sempre conquistato al francese la nomea di lingua della ragione.
Il re del genere fu P. Metasrasio.
L’italiano era la lingua internazionale della musica. Grazie al suo successo in ambito
musicale, l’italiano era la lingua parlata nella corte sassone di Dresda e in quella
asburgica di Vienna. Il culto 700 per l’antichità classica faceva sì che i giovani europei
colti e ricchi ritenessero parte integrante della loro formazione un viaggio in Italia, alla
scoperta delle rovine della civiltà latina. Già nel corso del ‘500 la Spagna e il Portogallo,
erano diventati gli stati più ricchi e potenti d’Europa. a differenza del Portogallo, che
concentrò i suoi sforzi militari e commerciali nei territori extraeuropei, la corona
spagnola, era unita ai territori tedeschi del Sacro romano impero. Il potere economico
di Spagna e Portogallo aumentò la diffusione delle lingue iberiche. In Italia lo spagnolo
divenne indispensabile per la politica e l’amministrazione, lasciò le sue tracce, oggi resta
solo una piccola parte. Molti prestiti riguardano i comportamenti sociali. Lo spagnolo
fece anche da tramite per numerose parole che indicavano vegetali e animali esotici.
Intorno alla meta del 600 alla preminenza dello spagnolo si sostituì il francese. La
Francia assunse un ruolo egemone in Europa, il francese divenne la lingua
internazionale per eccellenza. L’Italia, frammentata subì il fascino della moda
francesizzante tanto da essere definita “gallomania”. Non si contano le parole che nel
700 l’italiano prese in prestito dal francese che usiamo ancora oggi: ma il segno si vede
soprattutto dalla quantità di ambiti coinvolti. L’influenza del francese fu quindi
profonda e duratura. Il periodo rivoluzionario e il successivo quindicennio napoleonico
inaugurarono la fase + recente della nostra linguistica, contrassegnata dalla progressiva
diffusione dell’uso anche parlato dell’italiano. A partire dall’età napoleonica i mezzi di
comunicazione di massa acquistarono un’importanza poi sempre crescente per
l’unificazione linguistica. Ma da allora in poi non furono + gli unici attori in grado di
determinare le sorti della lingua. L’azione del francese si manifestò anche attraverso la
propaganda giacobina e repubblicana, che impiegò i nuovi mezzi di comunicazione per
coinvolgere nella vita politica i ceti popolari. Il lessico amministrativo francesizzante si
rivelò tanto pervasivo da suscitare le prime riserve puriste. Le nuove parole della
politica importate dalla Francia sono oggetto dell’ironia di G. Casti.
Il ‘700 era stato un secolo cosmopolita, nel ‘700 le “cose” e le idee erano ritenute +
importanti delle parole con cui si esprimevano, e la lingua era intesa come uno
strumento essenzialmente comunicativo, non retorico. Con Cesari si afferma il mito
della lingua naturale. Era durissimo nel condannare la “degenerazione” della lingua
moderna, che riteneva imbarbarita dalla massiccia presenza di neologismi e di
francesismi. Cesar di dedicò alla riedizione del VOCABOLARIO DELLA CRUSCA. Il
maggior interprete del purismo fu Puoti, che come Cesari, era fortemente contrario ai
neologismi e ai prestiti dal francese, e riteneva che la presunta “semplicità” della lingua
300 fosse un valore da praticare e insegnare. Credeva che la purezza della lingua
primitiva andasse perfezionata con l’imitazione dello stile degli autori del 500. I classici
moderni hanno assimilato la nozione 700 della lingua come fatto culturale ed
espressione dell’intera società. I classicisti non potevano provare simpatia per i dialetti,
che a loro avviso ostacolavano la formazione della lingua comune. Giordani distingue
tra i dialetti, adatti alla comunicazione quotidiana tra abitanti di uno stesso luogo e la
“nobile lingua comune d’Italia” necessaria alla comunicazione tra parlanti di regioni
diverse.
Nella prima metà dell’800 la realtà linguistica italiana era ancora frammentata nei
diversi dialetti locali, e, in assenza di una capitale politica, era molto difficile ipotizzare
l’unificazione della lingua parlata. I classicisti, proponevano modelli per la lingua scritta.
Manzoni si pose invece il problema di una lingua scritta che fosse adatta al romanzo. Era
alla ricerca di una lingua reale, ovvero realmente parlato e che si prestasse a essere
scritta. L’ambizione si spingeva fino a immaginare di fornire ai parlanti un modello
linguistico concreto e concretamente funzionale. La soluzione era chiara fino dal 1823:
solo il toscano era nella condizione di soddisfare le sue esigenze. Dal punto di vista
pratico però al milanese non era chiaro cosa fosse il toscano contemporaneo. Tra il 1824
è27 riscrisse il romanzo (sopprimendo o modificando interi episodi). La prima edizione
1827 (VENTISETTANA) GRAN SUCCESSO. Ma non era completamente soddisfatto e tra
luglio e settembre (1827) soggiornò a Firenze, per calarsi nella linguistica viva; si chiarì
le idee. Nel 1838 cominciò una ulteriore revisione del romanzo, il risultato fu l’edizione
del 1840 (QUARANTANA), quella che si legge oggi. Il successo dei PROMESSI SPOSI fu
largo e immediato già a partire dalla prima edizione, e diede origine a una lunga serie di
romanzi storici che ne imitavano non solo le strutture ma anche la lingua. Manzoni nella
Lettera sostiene con forza che “una lingua è un tutto o non è” intendendo dire che un
sistema linguistico per essere tale- per essere cioè realmente vitale e funzionale ad una
società complessa, fatta di persone di estrazione sociali e livelli di cultura diversi- deve
fornire tutti gli elementi necessari a tutte le circostanze comunicative: quindi non basta
avere una lingua letteraria, ma la stessa lingua deve essere utilizzata nel parlato
quotidiano.
UNA LINGUA PER LO STATO NAZIONALE
Al momento dell’unità d’Italia (1861) la percentuale degli analfabeti sul totale della
popolazione era altissima, intorno al 75% c.a.: solo 1 persona su 4 era in grado di leggere
e di scrivere, e spesso solo a livello elementare. La situazione era molto diversa nelle
varie zone e per il sesso. Lo stato unitario si impegnò molto per aumentare i livelli di
scolarizzazione, riuscendo a ridurre del 40% nel 1911 la percentuale degli analfabeti.
Ma le difficoltà erano enormi, era difficile anche solo imparare l’italiano, una lingua che
si era formata e diffusa per via scritta, mentre nel parlato quotidiano continuavano ad
usare il dialetto, loro vera lingua madre. Per potersi dire italofoni al momento dell’unità
d’Italia occorreva aver frequentato la scuola almeno per qualche anno dopo la
formazione elementare (al momento erano solo il 10%). Ben il 90% della popolazione
non aveva accesso all’italiano se non in modo del tutto parziale, e in larga parte parlava
solo il dialetto. Oggi è difficile immaginare la situazione di un secolo e mezzo fa, ma
l’enorme cambiamento linguistico che ha segnato il 900 è proprio questo: in poche
generazioni siamo passati da una netta maggioranza di dialettofoni (90%) ad una
ridottissima minoranza di analfabeti (1,06%). La scarsa diffusione di una lingua
comune, fu avvertita subito come problema dei governanti del regno d’Italia. nel 1868
Broglio (ministro pubblica istruzione) affidò ad una commissione di esperti, tra cui
Manzoni, l’incarico di proporre i modi per diffondere la “buona lingua” e la “buona
pronunzia”. Occorreva adottare e diffondere un solo modello, quello dell’uso del
fiorentino, l’unico che per il suo prestigio fosse in grado di imporsi sugli altri idiomi. Il
suggerimento di usare un dizionario dell’uso vivo di Firenze, in modo che ogni italiano
alfabetizzato possa sapere con facilità quali parole usare e quali no. Per Ascoli, a suo
avviso, diceva che il problema della lingua è sempre anche un problema storico e
culturale. E a suo avviso sarebbe nata la lingua con l’aumento dell’istruzione e la libera
circolazione delle idee, quindi come “frutto di un processo di consenso creativo”. È
necessario agire sui fattori storico-culturali: una società che pensa e che lavora creerà
da sé una lingua. La storia ha dato ragione sì a Manzoni che ad Asoli, perché il modello
fiorentino ha condizionato l’insegnamento elementare e la coscienza linguistica degli
italiani, ma alla fine la lingua comune, si è diffusa con il consolidarsi della nazione, con
la diffusione dei mezzi di massa.
Lo stato nazionale diede avvio al processo che porterà alla formazione di una lingua
comune realmente parlata e trasmessa dai genitori ai figli, adeguatamente
padroneggiata dalla maggioranza della popolazione e non più solo da una minoranza
che la apprendeva sui libri e la riservava alla scrittura e alle situazioni formali.
La scuola contribuì enormemente alla conoscenza dell’italiano. I giornali cominciarono
ad essere venduti nelle edicole (lingua mista). Introducono i primi prestiti dall’inglese.
Ma la moda francesizzante non venne meno.
L’opera lirica ebbe nell’800 un enorme successo, anche popolare; soprattutto in Italia
sett le arie + celebri erano mandate a memoria e cantate da tutti (Rossini, Verdi e
Puccini) suscitarono l’entusiasmo del pubblico, anche di media e bassa cultura.
Manzoni venne molto imitato dal punto di vista letterario, ma dal punto di vista
linguistico la sua omogeneità colloquiale era difficile da ottenere. Fino al XIX la lingua
narrativa rimase vicino a quella ventisettana.
Negli ultimi decenni gli scrittori ascrivibili al verismo si posero il problema del rapporto
tra lingua romanzo e dialetto: una letteratura che intendeva rappresentare
oggettivamente le condizioni sociali non poteva ignorare la realtà dialettale. La
soluzione di Capuana è un non soluzione. Con Verga cambiano le cose, la lingua è
omogeneamente caratterizzata dai fenomeni dell’oralità tipica di ogni parlata italiana.
Fino all’800 la poesia si mantenne fedele al linguaggio classicheggiante di derivazione
petrarchesca. Con il romanticismo la tradizione cominciò ad incrinarsi: emersero le
prime esigenze di realismo, e molti termini della vita quotidiana. Ma per tutto il secolo
continuarono a coesistere elementi vecchi e nuovi. Una tappa importante è
rappresentata da Carducci, riprodusse nei versi italiani il ritmo di quelli greci e latini.
Ma le rotture del linguaggio della tradizione si deve a Pascoli e a D’Annunzio. Effetti
fonosimbolici, accostamenti di suoni per evocare le cose. Nei primi decenni del 900 i
legami con la lingua della tradizione saranno definitivamente recisi dai crepuscolari
(Gozzano, Corazzini) e dai futuristi (Marinetti). Inoltre il regime fascista mise in atto un
programma di italianità linguistica dalle tinte puristiche delle minoranze, e il rifiuto
delle parole straniere. La lotta dei dialetti era un punto centrale della riforma del sistema
scolastico che prese il nome dal ministro che la ideò: il filosofo Gentile e fu uno dei primi
provvedimenti del governo Mussolini. Il dialetto fu emarginato a tutto favore
dell’insegnamento della grammatica italiana. L’esaltazione dell’italianità comportò la
forte repressione delle lingue minoritarie. Nella seconda metà degli anni ’30 il “purismo
di regime” inasprì la censura contro le parole straniere di uso comune, in primo luogo
contro i francesismi. Il regime si impegnò anche in campagna a favore del VOI come
forme di cortesia al posto del LEI (che resistette) divenendo anche un tratto linguistico
distintivo degli antifascisti.
DALLA “FRATTURA” LINGUISTICA ALL’OGGI
A partire dalla metà del ‘900 il panorama linguistico italiano muta radicalmente risetto
al passato, dato che fasce sempre più consistenti di popolazione abbandonano il dialetto
e assumono l’italiano nella comunicazione parlata quotidiana. Per le generazioni nate
intorno alla metà del secolo l’italiano diviene lingua materna, imparata spontaneamente
ancor prima che a scuola; il dialetto restringe sempre di più il suo raggio. Il mutato
rapporto dei parlanti con la lingua d’uso determina una vera “frattura” nella storia
dell’italiano. Il cambiamento è dovuto a molti fattori: migrazione interne, dalle zone del
sud verso le zone industrializzate del nord, il servizio militare obbligatorio, i mezzi di
comunicazione di massa (il cinema sonoro, la radio, la tv.)
I progressi ci sono stati e sono stati molto rapidi.
Ma quale italiano parlano realmente gli italiani? Gli italiani parlano con “accenti” diversi
a seconda della loro provenienza regionale, anche se la lingua sia la stessa per tutti. La
varietà regionale nasce dall’interazione tra il sistema dialettale originario e la lingua
comune.
I giornali quotidiani, il cinema, la radio e soprattutto la tv hanno enormemente
contribuito alla diffusione dell’italiano oggi. La tv in particolare. Ma quale italiano si
parla in tv? La tv ha diffuso un modello di lingua sorvegliato, attenta ad evitare
colloquialità, ma le cose cambiarono con la nascita delle reti commerciali. E produce tre
effetti: espressività (manifesta con l’enfasi), riconoscibilità (la ripetizione ossessiva di
frasi fatte) e rispecchiamento (lo spettatore deve pensare “la tv parla come parlo io” e
io parlo come la tv”.) anche gli italiani più colti ostentano un italiano informale in tv.
Alcuni fenomeni linguistici poi sono divenuti un segno distintivo della scrittura digitale.
Lo sviluppo scientifico del ‘900 ha consolidato- i linguaggi specialistici, le pubblicazioni
specializzate sono in inglese. A partire dalla seconda guerra mondiale, il mondo
anglosassone è divenuto egemone in tutti i campi e l’inglese ha sostituito il francese.
Nel momento in cui l’italiano diviene la lingua spontanea per la maggioranza, ecco che
la lingua letteraria cessa di rappresentare il modello regolativo. Se tutti parlano e
scrivono italiano, smette di essere monopolio di una ristretta di cerchie. È negli anni ’60
è 70 che la poesia si piega alla prosa, accogliendo i costrutti del parlato. Ecco allora
coesistere parole della tradizione letteraria e parole inventate.
La lingua ufficiale della repubblica è l’italiano che riconosce e valorizza le lingue
minoritarie. L’albanese (Campobasso, Calabria e Sicilia), il catalano (Alghero), la varietà
germanica (Alto Adige), il greco (Reggio Calabria). Tra le lingue di minoranza il ladino e
il sardo.
Da quando l’italiano è diventato una lingua davvero viva si sono attivati i normali
meccanismi che producono il cambiamento linguistico e che in precedenza erano tenuti
a freno dall’apprendimento sui libri e sulle grammatiche: come sarà l’italiano parlato in
futuro nessuno è ora in grado di prevederlo, ma lo stabiliranno la consapevolezza, la
cultura e la sensibilità dei parlanti.
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